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Un hacker a capo dell’Inps (era ora)

Un hacker a capo dell'Inps (era ora)

Il 1 aprile scorso la piattaforma web dell’Inps crollò miseramente mentre migliaia di persone provavano ad accedervi per chiedere il bonus covid da 600 euro. I dati privati di moltissimi cittadini vennero pubblicati per errore.

Allora i vertici dell’Inps invece di assumersi la responsabilità del disastro accusarono “gli hacker”: ci hanno attaccato, dissero; non era totalmente infondato ma non ci credette nessuno. Sono passati poco più di otto mesi e a capo della trasformazione digitale del più importante ente pubblico che abbiamo arriva un giovane hacker, uno dei più bravi che abbiamo: si chiama Vincenzo Di Nicola, ha 41 anni, è abruzzese ma da molti anni fa la spola con la Silicon Valley dove ha incassato successi notevoli: il più rilevante, aver venduto la tecnologia della sua startup sui pagamenti tramite smartphone a Jeff Bezos, ad Amazon. Allora tornò brevemente in Italia, disse che voleva restituire qualcosa al suo paese; tornò giusto il tempo di cofondare una delle migliori startup in ambito criptovalute, Conio, una piattaforma che rende facilissimo comprare e vendere bitcoin. L’ho sentito l’ultima volta alla fine del 2020 proprio per parlare dei successi di Conio dopo sette anni di fatiche. A inizio gennaio la svolta: da bitcoin all’Inps il salto all’indietro è grosso. “Non ho resistito al richiamo della pubblica amministrazione”, ha scritto sul suo blog citando il papà, che lavorava all’Anagrafe del suo comune natale, Teramo, e la mamma, passata dall’ufficio del telegrafo allo sportello di Poste. 

Per via di questo legame sentimentale con la pubblica amministrazione, quando il 1 aprile l’Inps affondò scrisse un post durissimo in cui spiegava nel dettaglio gli errori e gli sprechi (mezzo miliardo di euro in vari anni per una piattaforma colabrodo). Ma invece che limitarsi ad attaccare Vincenzo invitò i vertici dell’Inps a fare come Obama che quando l’attesissima piattaforma per la sanità pubblica americana affondò al debutto, invece di dare la colpa agli hacker, chiamò alla Casa Bianca i migliori hacker del paese che in poco tempo la rimisero in piedi.  “Serve anche da noi una Operazione Impeto e Tempesta” scrisse romanticamente.

All’Inps devono aver letto quel post ma invece che offendersi hanno iniziato a cercare un nuovo capo dell’innovazione e alla fine hanno scelto lui, Vincenzo Di Nicola, che dopo il liceo aveva lasciato l’Abruzzo per la Silicon Valley, ma poi ha mollato tutto ed è tornato a darci una mano.

Ora ha tre anni di tempo e davanti un’impresa complicatissima e cruciale: se riesce a far diventare digitale persino l’Inps, nessuno avrà più scuse. Daje. 




Covid, “Le colpe di Conte e dei giallorossi”: il dossier con tutti gli errori

Covid, “Le colpe di Conte e dei giallorossi”: il dossier con tutti gli errori

Che la gestione dell’emergenza pandemica Italia non fosse stata da Nobel, in molti lo hanno affermato, inclusi politici di vari schieramenti. Ora lo conferma in via definitiva un poderoso volume di analisi, d’imminente pubblicazione, che vanta oltre 600 pagine di dettagliate analisi a firma di esperti e accademici. Intervistiamo il Prof. Luca Poma, esperto di crisis management, gestione delle crisi.

Professore, lo studio al quale ha collaborato per diversi capitoli, assieme a molti altri esperti di notevole caratura, ha richiesto ben 10 mesi di lavoro e ha generato 600 pagine di “rapporto”, con una fittissima bibliografia scientifica. Quali le conclusioni?

In sintesi, il Presidente del Consiglio Conte ha costruito una narrazione non genuina, artefatta, comoda per fini politici di consenso interno, non certamente per tutelare la vita, l’incolumità e anche l’economia del Paese.

Un’accusa pesante, secondo lei  il Presidente del Consiglio ha mentito scientemente?

Ha mentito scientemente, ma non “a mio avviso”, perché lo sostengono i fatti: in scienza, parlano solo i fatti, e in questo “white paper”, che sta per essere pubblicato per i tipi di Franco Angeli, tutti i fatti sono esposti con estremo rigore, con migliaia di note, con una poderosissima bibliografia. Non siamo nel campo delle “opinioni”, e non vi è alcuna valutazione di tipo “partitico”: Conte ha fatto bene su altri fronti, ad esempio in Europa, battendosi per dare dignità all’Italia nella distribuzione dei fondi per il recovery found, ma ha mancato in efficacia riguardo alla pandemia Covid, mancando tra l’altro di applicare le più elementari norme di corretto crisis-management, come confermato anche dal collega Piero Vecchiato, dell’Università di Padova, ignorando un piano di gestione pandemica predisposto da tempo, che andava solo preso in mano, aggiornato e applicato.

Può fare degli esempi?

Numerosi, ma ne citerò solo alcuni. La retorica dell’Italia come eccellenza nella gestione della pandemia è completamente falsa. Lo era fin dall’inizio, ricordo che proprio dalle colonne di Affari Italiani in epoca non sospetta (27 febbraio 2019) avevo denunciato i numeri verdi in tilt, i canali Social non presidiati e i cittadini che ponevano insistentemente domande senza ricevere risposte, la comunicazione contraddittoria, la “paura” come arma per condizionare la popolazione invece che costruire un’alleanza virtuosa con i cittadini, come fatto ad esempio dalle autorità in Germania, Austria e altri Paesi. Poi, ripetutamente nel corso dei mesi, sono uscite analisi, su basi scientifiche, anche in collaborazione con università notissime come ad esempio il King’s College, che hanno emesso pagelle impietose e denunciato l’incompetenza dl Governo Conte nella gestione della pandemia, sempre pressoché ignorate all’interno dei nostri confini nazionali.

Numeri alla mano, come hanno posizionato l’Italia queste ricerche?

Dalla “maglia nera” nel peggiore dei casi, ultimo tra tutti i Paesi occidentali come media ponderata diefficacia delle misure sociali, sanitarie ed economiche, a 59° Paese al mondo per gestione complessiva, dietro nazioni come il Ruanda o lo Sri Lanka. Altro che “modello italiano di eccellenza” nella gestione pandemica.

Cos’altro mette in evidenza il vostro rapporto?

Ad esempio – come ha scritto nel report Giulio Terzi di Sant’Agata, Ambasciatore ed ex Ministro degli Esteri italiano – che la Cina ha letteralmente truffato la comunità internazionale, avendo contezza dell’epidemia da ben prima rispetto a quando ne ha diramato la notizia, e soprattutto ha violato i protocolli previsti dai trattati internazionali, che pure aveva sottoscritto, non lanciando l’allarme entro le 48 ore com’era tenuta a fare, e quindi causando una valanga di morti a causa di un epidemia che avrebbe potuto essere ben contenuta, come già accadde con la SARS anni fa. È davvero un peccato che l‘attuale Ministro degli Esteri Di Maio sia stato così permissivo e lassista con la Cina, balbettando pressoché nulla all’indirizzo di Pechino e tradendo così il giuramento che ha fatto sulla Costituzione di tutelare i cittadini italiani. O anche che l’epidemia non era assolutamente “inaspettata”, come sostenuto fino allo sfinimento da Giuseppe Conte per giustificare la sua obiettiva imperizia nel gestirla, come ha scritto nel report il Prof. Mariano Bizzarri, Direttore del laboratorio di Biologia dei Sistemi dell’Università La Sapienza di Roma, che ha un numero di citazioni scientifiche doppie rispetto a molti medici “star della TV”, ma che essendo uno scienziato serio preferisce lavorare,rispetto a fare la soubrette in televisione. Anche la più importante rivista scientifica del mondo, The Lancet, ha stigmatizzato l’incompetenza da parte delle autorità politiche parlando apertamente di “trained incapacity”.

Quindi il Governo italiano sapeva dell’arrivo della pandemia?

Aveva tutti gli elementi per trarre conclusioni e sapere: addirittura nel settembre del 2019 il prestigioso Johns Hopkins Center for Health Security diffuse un articolato documento in cui veniva sottolineata l’imminenza di una prossima pandemia influenzale, resa sempre più probabile in ragione dei fenomeni correlati alla manipolazione degli animali, con conseguente rischio di trasmissione all’Uomo, ma forse all’epoca gli esperti del Ministro della Salute Roberto Speranza e il Governo erano troppo occupati in altroper poter trovare il tempo di leggere documenti così importanti. Stesso dicasi per le relazioni dei principali servizi di intelligence Europei, condivisi anche con i colleghi italiani: nel report, dimostriamo che sollecitavano attenzione sul rischio di deflagrazione della pandemia cinese già mesi prima della decisione di chiudere in lockdown l’Italia intera. Forse, se si fosse dato retta a questi inequivoci segnali, avremmo potuto attrezzarci in tempo e limitare i danni, in termini di vite umane ma anche economici. Ecco, nel report queste valutazioni vengono espresse con dovizia di fonti scientifiche, e tenendosi ben lontani da polemiche di tipo “politico”.

Altri Paesi, tuttavia, non hanno fatto meglio di noi.

Magra consolazione, ma anche questo comunque è falso. Nuova Zelanda, Thailandia, Australia, Singapore hanno dato ottima prova di sè, anche se il modello che più ha attirato la mia attenzione è stato quello di Taiwan, una democrazia matura da 25 milioni di abitanti, e una capitale, Taipei, molto popolosa: ebbene,solo 9 decessi da Covid. Nove. Come strategia, esattamente l’opposto della nostra: nessun tentennamento, avvio delle procedure di emergenza fin dai primi giorni, multe salatissime per chiunque non utilizzasse i dispositivi di protezione, e ancor più per chi violasse l’eventuale quarantena, sanzioni pesanti anche per chi metteva in giro fake-news anti-scientifiche sul Covid. Poche chiacchere, e iniziative concrete e responsabili.  Guarda caso la Presidente è Tsai Ing-wen, laureata e con master alla Cornell University e PHD alla London School of Economics: la competenza al potere, donna di poche parole e di fatti concreti, lontana dal “circo barnum” delle dirette su Facebook a mezzanotte del Presidente Conte per acchiappare più like e dallo stile di comunicazione a tratti più adatto a un programma di Barbara d’Urso che non alla massima autorità esecutiva del nostro Paese.

In questi giorni, mentre vari leader politici chiedono l’apertura dei ristoranti per cena, il Ministro Franceschini fa qualche timida apertura sulla necessità di rimettere in modo la macchina della cultura.

È forse lo stesso Ministro Franceschini che ha gettato la spugna in Consiglio dei Ministri, ponendosi in posizione supina per un anno intero rispetto ai desiderata di Conte e degli esperti del Comitato Tecnico-scientifico, contribuendo a devastare il settore della cultura? Mesi fa con gli altri consoci dell’Associazione “Cultura Italiae” abbiamo diffuso una petizione a favore della riapertura dei musei, dei teatri e dei cinema, abbiamo ottenuto 100.000 sottoscrizioni in sole 48 ore, con molte firme qualificate di registi, attori, intellettuali: richieste che il Governo Conte ha ignorato. Non esiste alcuna prova scientifica a supporto della necessità di chiudere i luoghi della cultura, anzi, è esattamente l’opposto, perché la cultura a modo suo “cura”, e – in un periodo di fortissima tensione sociale e psicologica – teatri e musei potevano, con tutte lerigide precauzioni del caso, essere un preziosissimo “balsamo” per la cittadinanza, e questa scelta devastante – che ha danneggiato sia gli operatori che i cittadini – è l’ulteriore riprova dell’inettitudine e impreparazione di chi ha gestito la pandemia nel 2020.

È comunque difficile farsi un’idea complessiva della situazione, anche per la parziale indisponibilità di dati affidabili.

Certo, ma sono nuovamente le istituzioni preposte e il Governo che hanno reso i dati indisponibili, a volte persino secretandoli, scelta degna di un governo di un Paese del terzo mondo. Come dimostriamo nel rapporto, ci sono voluti i ricorsi al TAR per poter visionare una parte dei dati di pubblico interesse, e questo è semplicemente vergognoso. I dati su tutti gli aspetti della pandemia devono essere resi pubblici, in modo trasparente, per permettere agli scienziati e agli specialisti di costruire modelli di predizione degli scenari futuri, diversamente stiamo rendendo un pessimo servizio al Paese, come giustamente denuncia da tempo il comitato di accademici “Lettera 150”, magistralmente coordinato dal Prof. Giuseppe Valditara. Anche di questi aspetti ci siamo occupati del report, redatto a più mani, che verrà pubblicato tra poche settimane.

Nella gestione di questo preoccupante scenario pandemico, lo scollamento tra Roma e gli Enti Locali però non ha aiutato.

Vero, ma è di tutta evidenzia che questa sia una responsabilità del Presidente del Consiglio: la Costituzione e la Legge parlano chiaro, in caso di pandemia il governo generale delle strategie spetta solo a Roma. La mancata attivazione del Comitato Politico-Strategico, previsto in caso di crisi di portata nazionale dalle norme già vigenti, che riunisce i decisori e gli esperti all’interno del Governo e delle Istituzioni, ha portato a doverne improvvisare sul momento uno, con la nomina di commissari ad acta e di ben 15 task force con esperti esterni, con ampi margini di separazione funzionale, carenza di coordinamento tra loro e incapacità di comunicazione inter-istituzionale, e sul cui lavoro – tra l’altro –  non è stato dato nessun tipo di riscontro ai cittadini, come confermano gli esperti di diritto che hanno collaborato alla stesura del report. Strano davvero che un avvocato come l’ex Presidente Conte abbia potuto non conoscere o decidere di ignorare queste norme, contribuendo quindi a gettare il Paese nel caos delle “mille voci disordinate”, e generando scompiglio a tutti i livelli. E non è solo una questione di “forma”: questa situazione è stata una delle cause dell’elevato numero di morti per Covid in Italia, non a caso tra i più alti in tutto il mondo occidentale. Chi si dovrebbe prendere, una volta per tutte, la responsabilità di questi morti, se non chi era in cima alla piramide istituzionale, e ha avocato a sé tutti i poteri?




Un mistero di Internet risolto dopo 14 anni

Un mistero di Internet risolto dopo 14 anni

La carta da gioco numero 256 del videogioco Perplex City mostra la fotografia in primo piano di un ragazzo vicino a un fiume, davanti ad alcune case. Un selfie, anche se ancora nessuno li chiamava così. Era il 2006, e il 31 luglio i programmatori di quel gioco di realtà alternativa su Internet (ARG, Alternate Reality Game) avevano pubblicato quella carta insieme alle altre del mazzo centellinando bene gli indizi a seconda del grado di difficoltà. Sovrapposta sulla foto c’era una scritta in giapponese, la cui traduzione era “trovami”. L’unico indizio per quella carta era: “Il mio nome è Satoshi”.

Perplex City – creato dal team di sviluppo londinese Mind Candy – terminò nel 2008, e il sito di riferimento oggi non esiste più, ma una community di vecchi giocatori sparsi nel mondo ha proseguito per anni le ricerche intorno al rompicapo irrisolto. Gli sforzi nel frattempo avevano probabilmente superato le aspettative dei creatori stessi, attirando peraltro attenzioni sui siti di grandi quotidiani come il New York Times e il Guardian. A dicembre scorso le persone della community, tenute insieme e coordinate nel corso degli anni da una appassionata che nel 2006 creò un sito a questo preciso scopo (Findsatoshi.com), hanno annunciato di avere infine trovato Satoshi. Quattordici anni dopo, Satoshi in persona ha confermato e spiegato tutta la storia.

Come funzionava Perplex Cit

Gli ARG sono giochi di enigmi sviluppati principalmente su Internet ma utilizzando il mondo reale come “piattaforma” e una serie di prodotti commerciali (carte da gioco, giochi da tavolo, capi di abbigliamento e altro) come mezzo di narrazione della storia. Negli anni Duemila, oltre ad avere una certa popolarità tra i giocatori, erano osservati con interesse anche da aziende che intendevano autopromuoversi, anche eventualmente sostenendo i costi dei premi dei giochi.

Perplex City fu sviluppato dalla società britannica Mind Candy e preceduto da una lunga serie di teaser. Metteva in palio un premio da 100mila sterline per la prima “stagione”, avviata il 31 luglio 2006 attraverso la pubblicazione di 256 carte da gioco collezionabili. La linea narrativa della storia chiedeva di ritrovare, attraverso gli indizi disseminati nelle carte, un oggetto chiamato Receda Cube, che un personaggio chiamato Violet Kiteway aveva rubato dall’Academy Museum della città immaginaria di Perplex City e poi seppellito da qualche parte dopo essersi “teletrasportato” nel mondo reale. Era una specie di caccia al tesoro: per risolvere il gioco serviva interpretare gli indizi sulle carte e ricavarne indirizzi email e numeri di telefono, o risalire a siti e blog creati appositamente.

Su tutte le carte una patina da grattare via nascondeva un codice univoco che serviva ai giocatori per tenere traccia delle soluzioni parziali e aggiornare una classifica sul sito del gioco. Non tutte le carte erano indispensabili alla soluzione della prima stagione del gioco. La soluzione arrivò a gennaio 2007 – il Receda Cube si trovava al Wakerley Great Wood, un antico bosco vicino a Corby, nel Northamptonshire – ma l’inizio della stagione successiva subì diversi ritardi. Dopo il premio consegnato al giocatore vincente, Mind Candy faticò a trovare nuovi finanziamenti e Perplex City, insieme al sito con la classifica aggiornata e i nomi dei vincitori, chiuse nel 2008.

Le 256 carte da gioco

Le carte da gioco di Perplex City, vendute in pacchi da sei carte ciascuno (distribuite casualmente, come le figurine), erano contrassegnate da un colore che indicava il coefficiente di difficoltà del rompicapo proposto. L’ordine, dalla carta più facile a quella più difficile, era: rosso, arancione, giallo, verde, blu, viola, nero e argento. Al momento dell’assegnazione del premio della prima stagione, nel 2007, quasi tutti gli enigmi erano stati risolti. Ne rimanevano soltanto tre, proposti in tre carte di colore argento.

Quello legato alla carta 238 è l’unico enigma che gli sviluppatori hanno inserito nel gioco senza avere idea della soluzione. Chiedeva ai giocatori la dimostrazione dell’Ipotesi di Riemann, una congettura sulla relazione tra gli zeri di una certa funzione e la distribuzione dei numeri primi formulata per la prima volta nel 1859 da Bernhard Riemann e ritenuta uno dei più noti problemi irrisolti della matematica. Risolverlo conferirebbe un prestigio superiore a quello riservato al vincitore di un gioco di realtà alternativa, insomma, e implicherebbe tra le altre cose la vincita di un premio da un milione di dollari da tempo messo in palio dal Clay Mathematics Institute di Cambridge, in Massachusetts.

Un altro enigma per niente facile – rimasto irrisolto fino al 2010 – era quello della carta 251. Conteneva una stringa composta da 352 caratteri cifrati attraverso il sistema di crittografia RC5-64: si stima che per decifrare il messaggio sarebbero serviti 30mila computer dell’epoca in esecuzione contemporaneamente per diversi mesi.

L’ultimo enigma rimasto senza soluzione – a parte quello inavvicinabile della carta sull’Ipotesi di Riemann – era quello legato alla carta 256, intitolata “Billion to one”. Riproduceva la fotografia di un ragazzo, con una scritta in caratteri giapponesi stampata sul lato sinistro: “trovami”, diceva, e in un certo senso già quella traduzione era il primo livello da superare (il traduttore di Google come lo conosciamo oggi non esisteva). L’unico altro indizio fornito con la carta era una frase: “My name is Satoshi”. Qualora fosse stato rintracciato, da qualche parte nel mondo, Satoshi aveva istruzioni di rivolgere al giocatore un indovinello la cui risposta rappresentava la password per risolvere l’enigma.satoshi perplex city

Come chiarito in seguito dagli sviluppatori di Perplex City, con la carta su Satoshi gli autori volevano mettere alla prova la teoria dei sei gradi di separazione, un’ipotesi formulata nel 1929 da uno scrittore ungherese, Frigyes Karinthy, e poi molto circolata nella cultura di massa soprattutto dopo la nascita di Facebook. Ogni persona, secondo la teoria, può essere collegata a qualunque altra persona attraverso una catena di relazioni composta da non più di cinque intermediari. Si trattava soltanto di mettere in moto la community e attivare un gran giro mondiale di email, pensarono. La ricerca – un po’ più lunga del previsto – si è conclusa dopo quattordici anni, a dicembre scorso.

Come hanno trovato Satoshi

Alcuni giocatori di Perplex City riuscirono a risalire abbastanza rapidamente al luogo della fotografia. Era stata scattata in un piccolo borgo francese di Kaysersberg, nell’Alsazia, a circa un’ora di macchina da Strasburgo.Kaysersberg

Kaysersberg, Francia (Google Street View)

Se non c’erano dubbi sul luogo, molti erano quelli sull’identità di Satoshi, tanto che l’enigma sembrò da subito arrivato a un punto morto. Dopo la chiusura del sito ufficiale del gioco, nel 2008, diversi siti creati da alcuni appassionati del gioco – Findsatoshi.com, Haveyouseenhim.info, Billion2one.org – continuarono a esistere, anche in versione multilingue, e a raccogliere tutte le nuove informazioni man mano disponibili. Nel 2007 l’autrice del sito Findsatoshi.com, Laura E. Hall, riuscì anche a visitare Kaysersberg durante un viaggio di lavoro e a scattare una fotografia dalla stessa prospettiva scelta da Satoshi al momento dello scatto.

Findsatoshi.com

(Findsatoshi.com)

Nel frattempo Mind Candy aveva diffuso alcune informazioni aggiuntive, benché non particolarmente utili per le ricerche. Chiarì che Satoshi aveva accettato volentieri di partecipare al gioco e che, secondo le istruzioni da lui ricevute, avrebbe dovuto attendere di essere contattato direttamente da qualcuno che lo mettesse in relazione al gioco.

Per anni su Internet se ne continuò a parlare molto, anche dopo innumerevoli falsi avvistamenti, ipotesi improbabili e tentativi falliti da parte dei membri della community. In tempi più recenti, nel tentativo di allargare il più possibile le ricerche, Hall è stata ospite di un podcast e anche di un canale YouTube molto popolare in un video che ha ricevuto oltre un milione di visualizzazioni. Proprio questo video ha innescato un nuovo ramo delle ricerche, portato avanti da un sottogruppo su Reddit (r/FindSatoshi).

L’utente th0may – un ragazzo tedesco di nome Tom-Lucas Säger – ha raccontato di aver visto quel video e averlo poi dimenticato, prima di imbattersi di nuovo in quell’argomento su Reddit, mesi dopo. Per un progetto di design e intelligenza artificiale stava utilizzando per lavoro un software di riconoscimento facciale (PimEyes) basato su una funzione di ricerca inversa delle immagini. Ha fatto un tentativo con la carta di Satoshi e ha trovato, in mezzo alle molte altre, una fotografia di gruppo in cui un uomo molto simile a Satoshi regge un boccale di birra.satoshi

(Tukada-riken.co.jp)

La fotografia, scattata durante una gita aziendale, era stata pubblicata nel 2018 sul sito di una società giapponese, la Tsukada Riken Industry. L’uomo con il boccale di birra, ha scoperto Säger, era uno dei dirigenti: il suo nome, come riportato sul sito, è Satoshi Shimojima. A quel punto Säger si è messo in contatto con Laura Hall, l’autrice del sito Findsatoshi.com, che dopo aver recuperato un indirizzo email diretto ha scritto a Shimojima, in giapponese e in inglese. E Shimojima ha risposto.

Ciao,

grazie di avermi contattato.
Hai detto che stavi cercando un ragazzo di nome Satoshi.
Sì! Sono io il Satoshi che stavi cercando! Wow! Mi ero completamente dimenticato di questo gioco di carte. Credo che avrei dovuto pronunciare un messaggio, a questo punto, ma… diamine! Sono passati più di dieci anni e l’ho dimenticato. Mi dispiace.

A dire la verità non sapevo granché di Perplex City. Quattordici o quindici anni fa uno dei miei migliori amici negli Stati Uniti mi chiese di poter utilizzare una mia foto per il gioco. Mi sembrava interessante, è il genere di cose che mi piacciono. Avevo giusto una foto recente di me in vacanza e dissi “perché no”. Da quel momento in poi non ho più sentito parlare molto del gioco, né sapevo esattamente cosa fosse. Non avevo nemmeno mai visto la carta. Non ci badai molto, e già un anno dopo persi completamente la memoria di questo fatto. E ovviamente nessuno mi ha mai trovato, da allora.

Quando mi hai contattato qualche giorno fa e ho saputo che esisteva ancora questo “Findsatoshi” ho riso moltissimo, ero molto felice. Comunque alla fine mi hai trovato, a partire da una fotografia soltanto, scattata da qualche parte in una piccola città al confine tra Francia e Germania, e poi pubblicata su una carta da gioco quando ero di nuovo a Nagano, in Giappone. Con il mio nome come unica informazione: “Satoshi”.

Il mio nome è molto comune, in Giappone. Tra centinaia di migliaia di Satoshi, sono serviti 14 anni ma alla fine mi avete trovato! È incredibile!

Congratulazioni per aver risolto l’enigma #256!
E che il vostro 2021 sia meraviglioso! Buon anno nuovo!

Questo era l’indovinello che Satoshi avrebbe dovuto proporre – in giapponese – al giocatore: “Chi è che diede vita al fuoco e poi morì?” (la divinità della mitologia giapponese Izanami, ha suggerito qualcuno).

Cosa c’entra Satoshi con Perplex City

Uno dei principali sviluppatori di Perplex City, Adrian Hon, ha confermato l’identità di Satoshi, complimentandosi con Hall e Säger, e anche con Satoshi, per aver mantenuto il segreto così a lungo. Satoshi, come hanno poi spiegato altri ex impiegati di Mind Candy intervenuti sui social per festeggiare la scoperta, era un amico di una persona che lavorava nell’agenzia di pubbliche relazioni di Los Angeles che aveva collaborato con Mind Candy per la promozione del gioco.

«Non c’erano molti passi da fare [per arrivare alla soluzione], ma un po’ di salti in giro per il mondo sì», ha detto Jey Biddulph, aggiungendo che un’alternativa presa in considerazione era quella di utilizzare una persona in Ecuador conosciuta da un’altra persona del team. Alla fine scelsero Satoshi, preferendo una foto di lui in vacanza a Kaysersberg – per complicare l’enigma – anziché la fotografia di lui nella città in cui abitava.




Lo storytelling è morto, viva le storie che fanno immedesimare chi le ascolta

Lo storytelling è morto, viva le storie che fanno immedesimare chi le ascolta

Le aziende che non comprendono che il modo per recuperare un’identità valida ed efficace è svestire i panni dell’eroe e indossare quelli del mentore.

Analizzando il sistema capitalistico contemporaneo, il sociologo Richard Sennett lamentava una mancanza di narrativa. È sempre più difficile recuperare la nostra origine storica. Se ci pensate, costruirsi una narrativa era una cosa semplice nelle generazioni passate: si aveva una tradizione, un sostrato di elementi culturali che afferivano, a loro volta, a generazioni precedenti, rituali condivisi, spesso comunitari, una socialità antica basata sulla condivisione di artefatti unici e indispensabili.

Oggi invece storytelling è una parola abusata e, come tutti i grandi concetti che passano di bocca in bocca tra veri esperti, presunti guru e genuini appassionati, si ritrova ad ogni passaggio assottigliata di valore, come un messaggio trasportato nel gioco del telefono senza fili. Se le regole della narrazione, la morfologia della fiaba di Vladimir Propp e il Viaggio dell’eroe di Christopher Vogler sono entrati nell’recchio del primo giocatore della catena come promotori di un sapere quasi scientifico, portavoce di un’analisi dai risultati comprovati, ciò che invece è uscito dalla bocca dell’ultimo partecipante della catena è un’accozzaglia di spunti senza senso, spesso meri trasporti emotivi, del tutto incapaci di una visione strategia e di lunga durata per uno scrittore, figurarsi per un’azienda.

Spesso, il primo errore nell’implementazione di uno storytelling aziendale coeso ed organico sta nella definizione del brand all’interno della narrazione. La faccio semplice: se il brand è l’eroe della storia, il protagonista principale, il centro di gravità della trama, la storia non piacerà. O meglio, potrà anche piacere, ma finirà con mancare di un ingrediente chiave: la potenza dell’immedesimazione. Questo è, per esempio, l’errore più grossolano nell’implementazione di una vera e propria struttura di Corporate Social Responsibility che si metta al centro della comunicazione interna e del marketing.

A nessuno piace vedere qualcuno che, come si suole dire, si “imbroda”, e volendo ci sono già moniti neotestamentari molto chiari («Non sappia la tua mano sinistra ciò che fa la destra», Matteo 6, 3). Eppure, questa semplice regola aurea sembra che non risuoni nelle orecchie di chi intonaca la facciata dell’azienda di bianco candido senza però prima stuccarne le crepe vistose. Come un attore che, non scendendo a patti con l’età che avanza, ricorre a trattamenti estetici talmente vistosi da rendere ancora più palese la sua condizione, così sono le aziende che non comprendono, al fondo, che l’unico modo per recuperare un’identità valida ed efficace è svestendo i panni dell’eroe per indossare quelli del mentore.

Questo termine deriva da un personaggio dell’Odissea, Mentore appunto, che accompagnava Telemaco, figlio d’Ulisse, alla ricerca del padre perduto. Sotto le spoglie dell’anziano precettore tuttavia c’era Atena, figlia prediletta di Zeus, dea della saggezza. La divinità si fa piccola, maschera la sua grandezza per accompagnare e sostenere colui che pare orfano di padre, di una guida, di un’identità storica pregressa. Avendo noi perso i padri – a detta almeno di tutta una grande corrente psicologica contemporanea (e voglio citare il testo di un giornalista illustre – ma non psicologo – Contro i Papà di Antonio Polito) – le aziende hanno avuto la grande opportunità di poter compensare una mancanza.

La fiducia verso le aziende tuttavia, e in special modo dopo il 2008, anno infausto della crisi economica, è venuta a calare, almeno a detta dell’Edelman Trust Barometer, il report annuale che analizza dove si muove la fiducia dei popoli nel mondo. Il tempo per recuperare la fiducia non può che essere questo, quando si annusa l’aria di una pressante e incombente crisi economica che, come nel 2008, avrà strascichi ad oggi ancora difficili da decifrare.

Se lo storytelling fosse morto, non ci sarebbe speranza di una nuova narrazione condivisa. Tuttavia, nel ritorno alla forma del mentore, anche le aziende possono cercare di recuperare una propria narrazione autorevole, meno eroica e più supportiva. A patto che prima di imbiancare la facciata, riparino le crepe all’intonaco, sempre che le stesse non siano conseguenza di fratture ben più profonde. In tal caso, prima ancora dello storytelling, può essere utile un esame di coscienza.




SALVINI PREMIER? CAMBIA LA COMUNICAZIONE POLITICA, DAL PAPEETE BEACH ALLA PALESTRA PER PALAZZO CHIGI

SALVINI PREMIER? CAMBIA LA COMUNICAZIONE POLITICA, DAL PAPETE BEACH ALLA PALESTRA PER PALAZZO CHIGI

Tempo fa, in un articolo a firma mia e di Giorgia Grandoni, avevo analizzato i vari motivi alla base della scarsa credibilità della classe politica italiana, riconducibili all’assoluta carenza di autenticità nei messaggi e alla narrazione istericamente contraddittoria, finalizzata esclusivamente alla raccolta di consensi a breve termine e attenta – in particolare – al sentiment del momento espresso dai cittadini sui Social, piuttosto che alla costruzione di un’idea di Nazione peculiare, da coltivare e realizzare con costanza e congruenza nel medio-lungo termine.

Al di la di ogni valutazione di tipo “partitico”, scrivevo che – tecnicamente, sotto il profilo della gestione della reputazione – tutto ciò non può che generare un’inevitabile crisi sistemica del mondo della politica: infatti, al di la delle legittime preferenze di ognuno di noi, l’appeal dei brand politici sull’elettore medio è oggi più basso che mai.

Comunicazione politica e shortermismo

Mentre le aziende corrono velocemente sul sentiero da tempo tracciato dell’enfatizzazione virtuosa dei propri valori, i leader politici, e le loro strategie, sembrano poggiare su messaggi e su declinazione di valori che cambiano a ritmo giornaliero, mutando continuamente in base a specifiche convenienze.

La politica, nel tentativo di accaparrarsi facili consensi, è vittima di una malattia che in un’intervista all’Harvard Business Review l’economista Stefano Zamagni definì, in modo assai centrato, come “shortermismo”: lo riscontriamo nel pericoloso calo di adesione e di protagonismo dei cittadini alla vita pubblica, con una percentuale di astensionismo che ha raggiunto nuovi record (oltre 21,5 milioni di persone in Italia in occasione delle ultime elezioni europee hanno scelto di non esercitare il proprio diritto al voto). Tra chi non si reca alle urne per protesta, e chi perché non si sente rappresentato adeguatamente dalle varie proposte politiche, il gap tra cittadini e gli uomini politici si fa più ampio che mai.

Anche nel resto dell’Europa, le eccezioni sono poche: brilla ad esempio l’inossidabile cancelliera tedesca Angela Merkel, vera case-history di eccellenza nella gestione della comunicazione durante l’emergenza pandemica e campione di chiarezza e di sobrietà; oppure, allargando lo sguardo fin dall’altra parte del globo, Jacinda Ardem, l’amato e rispettato Primo Ministro della Nuova Zelanda (nuovamente una donna, sarà un caso?) la cui storia ho brevemente raccontato in un’altra mia recente analisi.

L’importanza dei valori “immateriali”

Come sappiamo, la reputazione è un asset importante – il più prezioso tra quelli “immateriali” – che si costruisce assieme ai propri pubblici, per durare nel tempo, ed essere poi “scambiata” con una sempre più ampia licenza di operare: la scelta dei politici nostrani di ignorare sistematicamente questa realtà sta scavando un solco sempre più grande tra sistema politico italiano e la cittadinanza, danneggiando il primo – riducendone, tra l’altro, potenzialità ed efficacia – e disilludendo i secondi.

Autenticità, coerenza, comunicazione di valori conformi alla propria identità, creazione di strategie di brand reputation a medio-lungo termine (sia che si tratti di aziende che di istituzioni pubbliche o influencer politici), capacità di saper prevenire scenari futuri di crisi reputazionale e, infine, propensione ad assumersi le proprie responsabilità: queste sono sei tra le principali best practices da seguire per tutelare al meglio la propria reputazione, e questo è ciò che la politica italiana può – e dovrebbe – imparare dal Reputation management aziendale.

I politici nostrani, invece, non godono certo di una buona reputazione, una realtà non solo riscontrabile da un’analisi empirica, ma assodata, in quanto documentata e misurata: coinvolti in quella che appare come una campagna elettorale permanente, i politici disilludono il pubblico, tentando ridicoli equilibrismi tra alleanze improbabili e la scelta di abbracciare oggi ciò che solo ieri si criticava aspramente, o viceversa.

Successo e crisi (comunicazionale) di Matteo Salvini

Un caso che sta facendo discutere, e non poco, è quello dell’ex Vicepremier ed ex Ministro degli Interni Matteo Salvini, che fino a prima dell’estate 2019 non aveva rivali riguardo al consenso sulla Rete, forte anche della sua efficiente macchina digitale di propaganda, chiamata dagli addetti ai lavori “La Bestia”, in grado di intercettare in tempo reale il sentiment degli elettori su specifiche tematiche, e produrre quindi contenuti funzionali ad aggregare facilmente seguaci tra persone di ogni genere ed età.

Forte del suo ruolo di “più commentato online”, come scrivevo nell’articolo citato in apertura, Matteo Salvini aveva saputo costruire il proprio consenso sulle piattaforme dei Social network, raggiungendo una percentuale di commenti positivi da parte della propria fan-base dell’83%, il doppio rispetto alle testate giornalistiche, dove è apprezzato solo nel 43% dei commenti, con quasi 3 milioni di follower sulla sua pagina Facebook, e con la scorsa estate ben 439.397 post e commenti da parte dei suoi fan, un numero quattro volte superiore rispetto ai commenti pubblicati nello stesso periodo sulla fan page di Luigi Di Maio (97.998) e addirittura quaranta volte rispetto al profilo dell’ex Premier Giuseppe Conte (10.923), all’epoca in carica.

Un anno dopo l’insediamento, come ricorderete, la crisi di governo, e il re dei consensi sul web vide scricchiolare la propria leadership, vittima dell’instabilità che lui stesso generò: sui Social, e persino sulla sua stessa pagina Facebook, da sempre emblema della sua potente forza comunicativa, venne bombardato dai commenti critici di coloro che si sentirono “traditi” dalle sue scelte politiche. La crisi di agosto 2019, infatti, diede il via a un’altalena di cambi di opinione, incongruenze e colpi di scena tra i leader politici, a un ritmo così elevato da riuscire a stupire la maggior parte degli italiani, pur normalmente “assuefatti” ai cambi repentini di posizioni e alleanze dei protagonisti della politica, con il Movimento 5 Stelle in grado di passare in pochi giorni dagli insulti al PD – il “partito di Bibbiano” – a “governiamo con il PD”. In casa pentastellata, tuttavia, le obiettive carenze sul fronte del rispetto del fondamentale pilastro reputazionale della coerenza non sono certo una novità, e – a riprova di quanto “costi” violare i fondamentali del reputation management – il partito di Grillo è riuscito a inanellare un record negativo dopo l’altro, passando in meno di 2 anni da più del 30% di consensi a – secondo le attuali intenzioni di voto – circa il 10%.

Salvini, egualmente, per quelle scelte pagò un prezzo tangibile ed evidente in termini di consenso diffuso, tanto che secondo l’Osservatorio permanente sulla reputazione digitale dei Ministri di Reputation Science, società che si occupa dell’analisi e della gestione del posizionamento sul web, e che ha monitorato costantemente la percezione online degli utenti nei confronti dei protagonisti politici in Italia, in quel periodo la reputazione dell’ex Ministro Salvini registrò un significativo calo. Per quale motivo?

Occupazione di spazio a qualunque costo vs. costruzione della reputazione

La risposta è semplice: la politica – esattamente come le aziende – ha tutti gli strumenti per identificare, monitorare, comprendere quali sono le aspettative e le esigenze dei cittadini, qui ed ora, grazie alle nuove tecnologie in grado di monitorare il sentiment del pubblico sulle diverse piattaforme Social, e usa questi strumenti per raccogliere una miriade di informazioni e di dati su aspettative e desideri degli elettori, informazioni spesso inquinate da bias potenzialmente distorsivi; questi dati vengono poi utilizzati per “adattare” costantemente la comunicazione politica ai desiderata del pubblico e per apparire in sintonia con gli umori prevalenti, invertendo il processo e agendo quindi non da traino, disegnando un’idea di nazionale e lavorando per costruirla, bensì semplicemente parlando alla pancia degli elettori e seguendo i loro umori del momento.

Mentre le aziende hanno da tempo compreso che la reputazione si costruisce assieme ai propri pubblici, col tempo e per durare nel tempo, la politica si da un’“agenda” diversa: occupare velocemente lo spazio mediatico, intervenendo per primi sulla notizia del giorno, polarizzare tutta la discussione, lanciare messaggi forti e spesso sguaiati, estraendo dall’opinione pubblica sentimenti come rabbia paura e aggressività, i cosiddetti “sentimenti negativi”, funzionali a catturare il consenso di coloro che ascoltano; queste sono le caratteristiche di una strategia di comunicazione politica che brucia il proprio capitale reputazionale sull’altare del consenso immediato, strategia che è stata per lungo tempo la “cifra” della comunicazione politica di Matteo Salvini.

Salvini rinasce e il suo stile di comunicazione politica volta (nuovamente) pagina

Oggi, tuttavia, leggiamo ancora una volta una “storia” diversa: dopo un periodo di gestione pandemica durante il quale i tecnici, gli esperti e i “professori” hanno ritrovato per forza di cose ruolo e autorevolezza, il pirotecnico leader della Lega è nuovamente al governo, seppur questa volta per interposta persona, e sotterra l’ascia di guerra, indossando il tovagliolo per sedersi a tavola, pur senza abbandonare il suo piglio vivace, con dichiarazioni sorprendenti e disorientanti per chi ha strumenti per leggere tra le righe.

Dinnanzi agli accesi malumori di una parte del suo elettorato, infiammata dall’obiettiva e disarmante incompetenza del Ministro Speranza, che – pur avendo piene deleghe per la gestione dell’emergenza pandemica durante tutta la crisi di governo appena conclusa – attende le ultime ore prima della riapertura degli impianti da scii per comunicare agli imprenditori della montagna che la stagione è conclusa ancor prima di iniziare e che gli impianti resteranno chiusi, promettendo (nelle promesse i membri della nostra sciatta e dequalificata classe politica continuano ad essere campioni…) improbabili ennesimi ristori, Salvini prende la parola per dire: “Non è tempo di divisioni, è tempo di assumersi responsabilità, di stare uniti, mettiamo da parte i malumori e lavoriamo a testa bassa”. Il messaggio al suo popolo è tanto inaspettato quanto chiaro: ci sarà tempo e modo per avere soddisfazione, ora dinnanzi a questa tavola imbandita dobbiamo fare la nostra parte “nell’interesse del Paese”.

Aveva già destato forte stupore il richiamo – di fatto europeista – di pochi giorni fa, nel punto stampa tenuto da Salvini all’uscita dalle consultazioni con il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella (“Siamo in Europa, ma vogliamo un’Italia che abbia più voce nella UE”), come anche la successiva dichiarazione pro-Draghi (“Non sarò mai lo sfasciacarrozze di questo Governo”) e ancora la dichiarazione sul Ministro della Salute dopo le polemiche dell’altro giorno (“Speranza ha avuto un anno di forte tensione, non lo invidio, lo sosterremo in ogni modo”).

Ora il segretario della Lega procede a ritmo serrato, e mira forse a rendere evidenti le contraddizioni di Andrea Orlando, il Ministro PD che non più tardi di un mese fa aveva liquidato la Lega affermando “Un governo anche con Salvini? Neanche venisse Superman”, e che ora dovrà rassegnarsi non solo a governare con il leader del più importante partito del centro-destra ma anche a incontrarlo e a negoziare proprio con lui vari dossier caldi sul tema del lavoro.

Una vera e propria giravolta: prima le cubiste, le bandane, i cocktail super-alcolici e la musica sguaiata del Papeete Beach di Riccione, ora una comunicazione politica volta all’assunzione di responsabilità come “azionista” del Governo Draghi, condita da abbondanti dosi di rassicurante buonsenso.

Stante il clima nel Paese, e la voglia di voltare pagina, vari esperti osservatori tracciano già la linea: al Governo dell’ex Presidente della BCE il lavoro difficile di contenimento della pandemia, di accelerazione della campagna vaccinale, e d’impostazione delle riforme strutturali indispensabili per far uscire il Paese dalla crisi; poi, nuove elezioni, e governo di centro-destra.

A quel punto, nella sua nuova veste di politico dotato della “diligenza media del buon padre di famiglia” (cit.) la strada per Palazzo Chigi, per il leader leghista, sarà molto probabilmente perfettamente spianata.