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Federico Marchetti lascia Yoox: “L’azienda che ho creato e che amo, dove ho osato fare l’impossibile”

Federico Marchetti lascia Yoox: “L’azienda che ho creato e che amo, dove ho osato fare l’impossibile”

«Sono emozionato di lasciare l’azienda che ho creato e che amo, dove ho osato fare l’impossibile: abbiamo trasformato una startup italiana in un unicorno e poi in un gruppo globale». Così Federico Marchetti ha annunciato pochi giorni fa, sui social, il suo addio a Yoox. Dopo aver ceduto il comando a Geoffroy Lefebvre, attuale Ceo di Yoox Net-A-Porter, lo scorso gennaio, l’imprenditore aveva mantenuto fino ad oggi il ruolo di presidente. Il 23 luglio, concluso il periodo di transizione, lascerà definitivamente l’azienda. Quella che per lui è stata «come un figlio».

Ieri il saluto ai dipendenti di Bologna, postato in un video su Instagram.

È iniziato tutto da qui. A differenza delle startup statunitensi, Yoox è nato in un magazzino, non in un garage. Quel magazzino di Bologna è cresciuto (tanto!) negli anni, ma sarà sempre il cuore di Yoox. Grazie al team per la passione, il duro lavoro e l’innovazione in tutti questi anni

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Da zero a re della moda online

Figlio di un capo magazziniere della Fiat e di una telefonista della Sip, Marchetti ha fatto tutto da solo. Partito dalla provincia di Ravenna, senza conoscere nessuno, ma con la voglia matta di fare qualcosa di suo, nel 1999 ha unito le sue due grandi passioni (internet e moda) e ha creato Yoox. Il «geek dello chic» lo ha definito poi il New Yorker. «Allora tutti mi dicevano: è impossibile, nessuno comprerà vestiti online» ha raccontato tempo fa a Millionaire. Oggi il gruppo Yoox Net-A-Porter fattura miliardi.

Tra difficoltà e grandi successi, Marchetti ha fatto diventare la startup un colosso del fashion e-commerce, il primo unicorno italiano. L’ha portata in Borsa, ha acquisito il suo più grande concorrente (Yoox Net-A-Porter), ha fatto una exit miliardaria, vendendo al gruppo svizzero Richemont nel 2018. Oggi Ynap ha più di 4,3 milioni di clienti in 180 paesi, oltre 5000 dipendenti. «È la destinazione di lusso online numero uno al mondo, con quasi 5 milioni di clienti attivi e una crescita dei ricavi dell’86% nell’ultimo trimestre» scrive Marchetti in un post.

Un «viaggio stellare» durato più di 20 anni

«Quando ero ragazzo, vendendo i fumetti di Topolino ai miei amici al mare a Ravenna, avevo sempre sperato di avviare un’attività tutta mia, e sognavo in grande! Ora mi piace pensare che abbiamo 21 anni: abbiamo iniziato 21 mesi dopo Google, ma prima di Facebook (dove ora ci seguono oltre 4,6 milioni di persone) e Instagram (7,8 milioni di follower) e molto prima dell’iPhone (oggi facciamo oltre 1 miliardo di dollari di vendite da mobile ogni anno). Netflix è nata prima, nel 1997, ma allora noleggiava solo video. Abbiamo fatto tanta strada!».

I progetti per il futuro

Dopo l’uscita da Yoox, «l’uomo che ha portato la moda sul web», come lo ha definito il New York Times, non resterà certo con le mani in mano. Un anno fa è entrato nel Cda di Giorgio Armani, e poi nel consiglio del gruppo Gedi. Di recente ha ricevuto dal Principe Carlo di Inghilterra il prestigioso incarico di occuparsi del settore Fashion nel progetto Sustainable Markets Initiative, per rendere la moda più sostenibile. Con il reale inglese aveva già stretto una partnership e lanciato una capsule collection nel 2020. Da settembre terrà anche un corso all’università Bocconi, Creating a Startup in the Digital and Sustainable Economy. Insegnerà ai giovani come si crea una startup nell’economia digitale e sostenibile. E forse il primo consiglio sarà quello che aveva dato tempo fa ai nostri lettori: «Farcela non è una questione di soldi. Le persone sono più importanti dei capitali, sono loro che trasformano le idee in realtà».

«Quel che è certo è che non farò più il dipendente» ha detto in un’intervista a SkyTg24. «Il Dna da imprenditore mi piace troppo e quindi l’unica cosa che posso veramente fare è aiutare gli altri oppure avere il mio progetto». Chissà se tra qualche anno non lo vedremo far nascere il prossimo unicorno italiano.




SCIENZIATI DANNO AD IA CAPACITÀ DI IMMAGINARE COSE MAI VISTE: ECCO I RISULTATI

SCIENZIATI DANNO AD IA CAPACITÀ DI IMMAGINARE COSE MAI VISTE: ECCO I RISULTATI

L’intelligenza artificiale si sta rivelando davvero preziosa in moltissimi ambiti e aspetti della vita umana. Siamo ancora all’inizio e gli esperti hanno solo iniziato a “scalfire la superficie” delle possibili applicazioni di questi potentissimi software. Così in un nuovo studio degli scienziati hanno dato all’IA la capacità di “immaginare”.

Come si fa a dare l’immaginazione a un software? I ricercatori hanno escogitato un nuovo metodo per consentire ai sistemi di intelligenza artificiale di capire come dovrebbe essere un oggetto, anche se non ne avevano mai visto uno. “Siamo stati ispirati dalle capacità di generalizzazione visiva umana per cercare di simulare l’immaginazione umana nelle macchine“, afferma l’informatico Yunhao Ge della University of Southern California (USC).

Il team ha addestrato l’intelligenza artificiale con un grande database di informazioni e ha utilizzato un approccio simile a quello utilizzato dai software che creano deepfake. In questo modo, ad esempio, se un’intelligenza artificiale vede un’auto rossa e una bici blu, sarà in grado di “immaginare” una bici rossa, anche se non ne ha mai vista una prima.

L’IA è quindi in grado di riconoscere somiglianze e differenze nei campioni che vede, utilizzando questa conoscenza per produrre qualcosa di completamente nuovo (potrete vedere un esempio di quanto detto in un’immagine che troverete in calce alla notizia). “Questo nuovo approccio scatena davvero un nuovo senso di immaginazione nei sistemi di intelligenza artificiale, avvicinandoli alla comprensione umana del mondo“, afferma Laurent Itti, informatico della USC.

Un approccio simile potrebbe essere utilizzato in futuro anche nel campo della medicina e delle auto a guida autonoma. In che modo? L’intelligenza artificiale potrebbe immaginare nuovi farmaci o visualizzare nuovi scenari stradali. Insomma, le possibili applicazioni sono davvero tantissime e siamo solamente all’inizio.




ITALY, il videogioco della Farnesina per far conoscere le bellezze dell’Italia al mondo

ITALY, il videogioco della Farnesina per far conoscere le bellezze dell’Italia al mondo

La Farnesina lancia ITALY Land of Wonders, un videogioco per far conoscere l’Italia, il suo patrimonio culturale e le sue meraviglie al pubblico straniero, in particolare ai giovani. Curato nella grafica e adatto ai grandi come ai più piccoli, ITALY Land of Wonders racconta bellezza e tradizione del nostro Paese in maniera interattiva e divertente. Totalmente gratuito e in 11 lingue, è disponibile per smartphone e tablet in tutto il mondo dal 19 luglio nelle versioni per iOS e, a breve, Android.

La storia e il Gameplay

Elio è l’anziano guardiano del faro che, ogni mattina, con l’aiuto di 20 scintille recuperate nel corso della notte dalle 20 Regioni d’Italia, accende il Sole che splende sul nostro Paese. All’inizio del gioco vediamo Elio al tramonto in cerca di un aiutante per portare a termine il suo gravoso compito. Ha convocato un misterioso personaggio ai piedi del Faro: il giocatore, coinvolto in un’avvincente avventura notturna in giro per l’Italia, dovrà recuperare le 20 scintille, accendere il Faro e fare sì che il Sole torni a brillare. Nel suo viaggio, il giocatore incontrerà 5 Custodi che lo guideranno alla scoperta di Natura, Gastronomia, Arte, Spettacolo e Design, i 5 settori fondamentali del nostro patrimonio culturale. Alla fine del percorso, la grande sorpresa: il giocatore prenderà il posto di Elio, diventando simbolicamente il nuovo Guardiano del Faro, con la missione di proteggere le bellezze del nostro Paese. Ma prima dovrà superare ben 100 avvincenti livelli in stile puzzle game, ognuno con la sua ricostruzione 3D di un luogo simbolo dei tesori dell’Italia. Un vero e proprio appassionante percorso a tappe, attraverso mari e montagne, città e castelli, tradizioni e miti del nostro Paese. Pensato per chi già conosce l’Italia, ma anche e soprattutto per chi ha voglia di scoprirla, ITALY Land of Wonders si propone anche come guida di viaggio, grazie a 600 testi pieni di storie, notizie e curiosità raccolti in un album sfogliabile.

“Un vero prodotto del Made in Italy”

Anche la musica svolge un ruolo importantissimo all’interno del gioco. Composizioni originali ispirate a grandi classici della musica italiana, dal melodramma al barocco, e famose colonne sonore, fanno da cornice a un gioco che è anche uno strumento didattico, divertente e informativo, per le scuole in cui si studia l’italiano come lingua straniera. «Il mercato dei videogiochi mobile è divenuto ormai uno dei canali di maggiore diffusione di contenuti, anche artistici e culturali» ha detto l’Ambasciatore Lorenzo Angeloni, Direttore Generale per la Promozione del Sistema Paese. «Nel mondo post-pandemico, è nostro dovere cogliere ogni occasione e sfruttare ogni mezzo per promuovere il nostro Paese e le sue eccellenze nel mondo. Lo facciamo dunque anche con questa modalità, fortemente innovativa per il nostro Ministero e per la pubblica amministrazione italiana in generale: una modalità di comunicazione in cui crediamo moltissimo. Ci rivolgiamo a giovani e giovanissimi: con ITALY Land of wonders il nostro obiettivo è far appassionare i ragazzi di tutto il mondo al nostro Paese e alle sue bellezze, costruire un senso di familiarità che li possa guidare, un domani, alla scoperta vera e propria dei nostri territori. Il nostro titolo non è solo un gioco divertente per smartphone, è un vero e proprio prodotto del Made in Italy, che unisce sapientemente cultura e tecnologia. É un’avventura alla portata di tutti per scoprire la bellezza, la creatività e il gusto dell’Italia». Come tutta la programmazione culturale di italiana-esteri ITALY Land of Wonders si inserisce nella strategia generale della Farnesina a sostegno delle industrie culturali e creative italiane post-Covid. Per scaricarlo basterà visitare italiana.esteri.it, il nuovo portale della Farnesina per la cultura italiana nel mondo.




VALUE REPORTING FOUNDATION, VERSO LA SEMPLIFICAZIONE DEGLI STANDARD PER IL REPORTING DI SOSTENIBILITÀ

VALUE REPORTING FOUNDATION, VERSO LA SEMPLIFICAZIONE DEGLI STANDARD PER IL REPORTING DI SOSTENIBILITÀ

Imprese e investitori richiedono da tempo di rendere più semplice e accessibile il panorama del reporting aziendale sulla sostenibilità, finora troppo frammentato tra modelli e standard diversi fra loro. In risposta a queste istanze, l’International Integrated Reporting Council (Iirc) e il Sustainability Accounting Standards Board (Sasb) hanno deciso di fondersi insieme per dare vita alla Value Reporting Foundation. L’obiettivo dell’organizzazione è costruire un quadro di riferimento per il reporting dei criteri ESG più completo e coerente, armonizzando tra loro i framework esistenti. Il nuovo organismo è stato presentato al pubblico italiano durante un evento online organizzato da O.I.B.R (Organismo Italiano Business Reporting): per chi volesse approfondire, la registrazione del webinar è disponibile a questo link.

DI COSA SI OCCUPERÀ LA VALUE REPORTING FOUNDATION?

La Value Reporting Foundation nasce per razionalizzare e rendere più fruibili i vari standard di rendicontazione della sostenibilità, creando un terreno comune che agevolerà aziende e organizzazioni nei processi decisionali e nella comunicazione delle strategie a lungo termine. Come arriverà a questo risultato? Facilitando l’uso combinato dei due strumenti Iirc e Sasb, l’Integrated Reporting Framework e gli standard Sasb, che sono adottate rispettivamente da più di 2.500 e 1.000 organizzazioni al mondo. Si tratta di sistemi di rendicontazione che muovono da una base comune di valori e che sono complementari fra loro, ma che comunque presentano differenze che possono confondere le imprese. La Value Reporting Foundation intende allora portare maggiore trasparenza e chiarezza, guidando le aziende nell’uso combinato dei due strumenti, allineando sempre di più i concetti alla base dei due standard.

INTEGRATED REPORTING FRAMEWORK E STANDARD SASB: QUALI SONO LE DIFFERENZE?

In cosa si differenziano l’Integrated Reporting Framework e gli standard Sasb? Perché un’azienda dovrebbe decidere di fare riferimento a entrambi i modelli?

L’Integrated Reporting Framework permette di avere una visione più olistica della strategia, della governance, delle performance e delle prospettive di un’impresa in riferimento al contesto economico, sociale e ambientale in cui si muove. La prospettiva di rendicontazione adottata è multi-capitale e copre diverse aree di interesse (capitale naturale, finanziario, umano, intellettuale, ecc.). Gli standard Sasb propongono invece metriche specifiche in base al settore industriale di riferimento: questo rende i dati comparabili all’interno di aree omogenee fra di loro e mette in evidenza l’abilità di un’azienda di creare valore sul lungo termine per gli investitori.

È evidente come i due approcci siano complementari. Se il primo offre una più ampia visione di insieme, utile per indirizzare al meglio i processi decisionali, il secondo fornisce una prospettiva più specifica, che facilita gli investitori nelle loro scelte. Integrarli e facilitarne l’adozione è la missione della neonata Value Reporting Foundation.




BREVETTI SUI VACCINI COVID: UNA QUESTIONE DI (CATTIVA) REPUTAZIONE?

BREVETTI SUI VACCINI COVID: UNA QUESTIONE DI (CATTIVA) REPUTAZIONE?Brevetti vaccini e reputazione di BIg pharma

Lo scorso maggio è stato un mese di fuoco per l’andamento in borsa – negativo, in questo caso – dei colossi del comparto pharma: l’annuncio con il quale Joe Biden informava i mass-media e i mercati del possibile libero accesso ai brevetti sui vaccini per il Covid-19 di Pfitzer, Johnson&Johnson e Moderna, per la parte di proprietà intellettuale registrata in USA, scatenò una specie di terremoto.

Liberalizzare i brevetti sui vaccini? Le risposte di Big Pharma

La Federazione Nazionale del Pharma USA ha sparato a zero contro il Presidente, sostenendo pragmaticamente che “rimuovere la protezione brevettuale non farà di per sé aumentare la produzione di vaccini”. Il numero uno di Pfitzer, l’intrigante veterinario di origine greca dalla folgorante carriera, che nel 2020 ha chiuso l’accordo per la ricerca sui vaccini Covid con la partner BioNTech con una stretta di mano su Zoom, come ha raccontato lui stesso in un’interessante intervista – ha rincarato la dose: “Il modo migliore per garantire un accesso equo ai vaccini è tramite un dialogo con il settore privato, mentre questa iniziativa della Casa Bianca ha ragioni solo politiche e non aiuterà a contrastare l’emergenza sanitaria” (le ragioni politiche alle quali fa riferimento sono la necessità per Washington di blandire i Paesi in via di sviluppo, tagliati fuori dalle grandi campagne vaccinali a causa dei costi dei vaccini, nonché – per lo stesso motivo – l’India, universo inqueto da oltre 1 miliardo di potenziali pazienti, ndr).

Al di là degli eventuali esiti concreti di questa proposta del Presidente Biden, che allo stato attuale resta poco più di una provocazione (non è nota alcuna successiva iniziativa legislativa a riguardo, e l’incontro al Vertice mondiale della salute di Roma del 21 maggio scorso si è concluso su questo punto con un nulla di fatto), è interessante spendere qualche parola per analizzare l’argomento dal punto di vista della reputazione delle aziende Big-Pharma.

Covid-19 e vaccini: un dibattito aperto

In un recente articolo avevo con onestà intellettuale lodato lo sforzo dei grandi colossi farmaceutici nel portare a termine quella che si è rivelata una vera e propria impegnativa corsa – dagli esiti non scontati – verso il traguardo dell’approvazione a tempo record di un vaccino contro il SARS-CoV-2 (quattro quelli approvati in Europa, ma – oltre al vaccino cinese Sinovac e quello russo Sputnink – altre decine sono in fase di sperimentazione in tutto il mondo, e – considerata la mole di richiami che ci aspetta – il business è certamente ghiotto). Interessante ricordare che un collega, al quale ero legato da una relazione di amicizia intensa e che durava con reciproca grande soddisfazione da oltre dieci anni, mi ha tolto definitivamente il saluto a causa del “crimine” commesso dal sottoscritto – da sempre schierato criticamente verso molte operazioni di business spregiudicato delle farmaceutiche – nel lodare l’impegno di queste aziende (for profit, ovviamente, non sono degli enti benefici) nella ricerca scientifica in occasione di questa emergenza pandemica: si sa, le tesi, quali che siano, sono gradite solo fintantoché sono in linea con i nostri bias cognitivi, e – stante l’approccio ideologico di molti – è spesso considerato inopportuno criticare un’azienda a ragion veduta e nel contempo lodarla, le volte che fa qualcosa di sensato.

Tornando al focus della nostra analisi, Big Pharma – conscia del possibile rischio reputazionale – tentò nei mesi precedenti di prevenire l’attacco, in vari modi: Moderna, ad esempio, a dicembre scorso ha formalmente garantito che per tutto il periodo dell’emergenza pandemica non avrebbe intrapreso alcuna azione legale a tutela dei propri brevetti in caso di “copie generiche” degli stessi, mentre AstraZeneca e J&J hanno avviato la vendita del prodotto a prezzo di costo, e nel complesso le farmaceutiche coinvolte hanno sottoscritto circa 200 accordi di sub-licenza garantendo accesso alle formule brevettate e al relativo know-how ad aziende potenzialmente loro concorrenti, così da agevolare un aumento significativo della produzione dei vaccini, specie a vantaggio dei Paesi più poveri.

Tutto ciò non è bastato: l’annuncio del Presidente USA ha scatenato un crollo di oltre 20 miliardi in un solo giorno dei titoli Biontech, Moderna, Novavax, Pfitzer, coinvolgendo a ruota tutte le altre farmaceutiche impegnate nella corsa contro il virus.

I motivi saranno anche stati solo politici, ma i numeri parlano chiaro: dei 3,2 miliardi di dosi somministrate nel pianeta, la grande maggioranza è andata ai Paesi con reddito alto e medio, e solo l’1% è stata destinata ai Paesi poveri, nonostante in molti di essi la pandemia stia impazzando, con picchi di contagio mai visti nella prima fase della pandemia nel 2020. Considerando la forte interrelazione tra tutti i territori del mondo e la facilità di veicolazione del virus, che ha il brutto vizio e la maleducazione di non rispettare le barriere doganali, il tema è di assoluta attualità anche per l’intero mondo occidentale.

Il percorso dell’ipotesi di liberalizzazione – anche solo temporanea – della proprietà intellettuale relativa ai vaccini Covid è tuttavia assai accidentato: difficile sia percorribile in tempi brevi una modifica dei Trattati WTO che la renderebbero possibile, ancor più se consideriamo che il sostegno alla proposta – anche grazie alle pressioni delle abili agenzie di lobbies al servizio di Big Pharma – non è certamente unanime da parte di tutti i Paesi. Il tema tornerà tuttavia ad essere discusso in occasione della prossima pandemia, dal momento che quella generata dal SARS-CoV-2 non sarà certamente l’ultima ad affliggerci.

Le grandi aziende farmaceutiche hanno solo eventualmente rimandato il problema, strette come sono tra la contraddizione generata dal disallineamento tra l’evidenza dei fatti (aziende i cui sforzi nella ricerca hanno aumentato – e di molto – l’aspettativa di vita di tutti noi, “dettaglio” che i complottisti tendono sempre a dimenticare o sottostimare), la narrazione eccessivamente enfatica e poco genuina che tentano di costruire nei loro bilanci sociali e report integrati (aziende che salvano il mondo per sincera dedizione al benessere del genere umano, sic) e le problematiche giudiziarie da sempre sotto gli occhi di tutti (disease mongering, ovvero variazione dei criteri diagnostici di una malattia per vendere più farmaci, tecnica di marketing ampiamente documentata in letteratura, ma anche corruzione vera e propria, e occultamento doloso di studi scientifici che dimostravano che alcuni loro prodotti farmaceutici blockbuster erano non solo inutili ma anche pericolosi per la salute umana).

Sotto il profilo reputazionale, pare insomma che l’industria farmaceutica si sia davvero impegnata, negli ultimi decenni, per pregiudicare il valore dei propri stessi brand, incrinando sistematicamente il rapporto di fiducia con i pazienti e la cittadinanza in generale, tanto che a seguito di questi deprecabili comportamenti la quasi totalità delle aziende farmaceutiche multinazionali è stata negli anni oggetto di contestazioni e a volte di sanzioni assai elevate, in alcuni casi vere e proprie multe monstre da miliardi di dollari.

Un giro di smalto ai propri marchi l’avevano dato con i brillanti risultati – dei quali tutti stiamo godendo – derivanti dalla messa a punto e approvazione a tempo record dei vaccini contro il Covid, per poi scivolare di nuovo sullo sdrucciolevole terreno della reputazione con l’alzata di scudi dinnanzi alla proposta di liberalizzare i brevetti avanzata da Biden, contrarietà tanto comprensibile tecnicamente quanto difficilmente spiegabile alla popolazione. La sensazione è che, nonostante tutto, questi giganteschi colossi siano arrivati piuttosto impreparati allo tsunami della polemica sui mass-media, ad ulteriore dimostrazione – come dico e scrivo da sempre – che il dimensionamento in termini di fatturato non è quasi mai di per sé automaticamente sintomo di efficienza, dal punto di vista del crisis management e della crisis communication, ovvero della capacità di governo delle crisi reputazionali.

Si potrà obiettare che il caso dell’India tende a confermare la linea narrativa di Big Pharma: nonostante la concessione a titolo completamente gratuito – da parte dell’azienda stessa – della licenza sul brevetto Moderna al governo di New Delhi, agli inizi di giugno solo il 3% della popolazione era stata vaccinata (la campagna ha tuttavia subito una forte accellerazione a metà giugno, con 8 milioni di dosi somministrate al giorno, ndr), a riprova che le problematiche non ruotano tanto attorno alla disponibilità delle formule per il vaccino quanto più alle inefficienze interne e alla burocrazia notoriamente incompetente e corrotta di quel Paese.

Vaccini e brevetti: la parola all’esperto

Inoltre, le farmaceutiche hanno dalla loro un argomento più forte di altri: se gli Stati desiderano formule Patent free, investano essi stessi decine di miliardi di dollari in ricerca, e si creino loro proprietà intellettuali pubblicamente disponibili. Crudo, scontroso e cinico, come statement, ma denso di una certa logica.

Più sobrio ma non meno schietto è stato Fabrizio Jacobacci, avvocato a capo dell’impero italiano della protezione intellettuale, tra i primi 3 gruppi del genere in Europa, che da me interpellato ha dichiarato:

“Il brevetto di per sé non rende indisponibile il prodotto e qualora così fosse, esistono dei rimedi legali che gli Stati potrebbero esperire per superare l’indisponibilità del prodotto, se essa fosse causata dall’esistenza di un brevetto. Questa tuttavia è una decisione politica, non tecnica. Da sempre l’intervallo temporale più o meno ampio tra scoperta di un farmaco, compreso un vaccino, e il suo rilascio per la somministrazione al pubblico è la conseguenza dei molti test e sperimentazioni che devono essere fatti allo scopo – giustamente – di tutelare la salute pubblica. Inoltre, la produzione di farmaci sofisticati come i vaccini per il Covid-19 non sono alla portata di tutti i produttori di farmaci: la domanda di vaccini determinata dalla pandemia è di carattere esplosivo, capace di mettere in crisi molti sistemi produttivi, non tarati sulla fabbricazione di centinaia di milioni di dosi in poco tempo. A queste complessità, si aggiunge il fatto che nel caso di un vaccino somministrato durante un’epidemia, la domanda è caratterizzata da un picco seguito da una rapida flessione: chi vende un vaccino – e le aziende, al netto delle ipocrisie, esistono per vendere prodotti e servizi – sa che deve sfruttare il picco, perché una volta superata la crisi, la domanda inevitabilmente viene meno”.

Tutto assai ragionevole, ma si sa – come spiego nel dettaglio nel mio ultimo volume, dal titolo Il reputation management spiegato semplice – la buona o cattiva reputazione è determinata, oltre a ciò che si fa, anche da come si è percepiti dai vari stakeholder. E lavorare sul proprio profilo reputazionale equivale a creare valore e guadagnare più denaro: il Reputation Institute americano stima che, in media, una variazione di 1 punto nell’indice reputazionale dell’azienda (misurato dal loro indice RepTrak) vale un incremento di circa il 2,6% del valore di mercato dell’azienda stessa.

Per i colossi di big-pharma, tuttavia, la strada della buona reputazione, in termini di percezione da parte del grande pubblico – pare essere sempre, invariabilmente e nonostante tutto, in salita.