1

Il riconoscimento vocale arriva ovunque, e per la privacy è anche peggio di quello facciale

Il riconoscimento vocale arriva ovunque, e per la privacy è anche peggio di quello facciale

Quando, nel corso di una chiamata a un servizio clienti, per un acquisto, un reclamo o una prenotazione, ascoltiamo il messaggio preimpostato “Questa telefonata potrebbe essere registrata per il controllo qualità” dovremmo farci qualche domanda in più. Perché non saranno solo gli operatori a essere monitorati nel loro lavoro – il che già apre da tempo fronti piuttosto problematici – ma anche i clienti. Le attività di marketing guidato in tempo reale da profilazioni della voce di milioni di clienti e di tutte le loro sfumature sono e saranno sempre di più una realtà, spiega su The Conversation Joseph Turow, docente di sistemi dei media all’università della Pennsylvania che sul tema ha condotto un’approfondita ricerca per il suo libro in uscita battezzato The Voice Catchers: How Marketers Listen In to Exploit Your Feelings, Your Privacy, and Your Wallet.

In base a tutte le interviste, le analisi e le letture che ha svolto, Turow spiega che “appare chiaro come siamo ai primi passi di una rivoluzione basata sulla profilazione della voce che le società vedono come parte integrante del futuro del marketing”. Ed è piuttosto curioso che questo accada, aggiungiamo noi, proprio in concomitanza con l’esplosione dei social network basati sulla voce, da Clubhouse alle novità di Facebook passando per Twitter Spaces. Non solo, ovviamente: “Grazie alla larga diffusione degli smart speaker, dei display intelligenti delle automobili e degli smartphone da gestire sempre con la voce, insieme alle capacità di analisi dei call center, i responsabili di questi settori si dicono in grado di poter sfruttare tecnologie di analisi vocale per ottenere dati e informazioni senza precedenti sulle identità e le inclinazioni dei clienti” spiega l’autore. Verso una pubblicità sempre più personalizzata, ben più che nel recente passato che pure su questo punto ha visto scontrarsi senza sosta regolamentazioni continentali, specie europee, e interessi di ogni genere da parte di piattaforme, colossi della tecnologia e cosiddetti “over the top”.

voce

Il risultato? Le persone potrebbero essere profilate non solo in base agli “speech pattern”, cioè ai loro schemi di conversazione e dialogo, ma anche valutate e categorizzate in virtù del timbro della voce. Un elemento per molti esperti unico e in grado di svelare, insieme a una serie di altri aspetti, sensazioni, sentimenti, tratti della personalità e perfino alcune peculiarità fisiche. Secondo i responsabili del marketing intervistati, questo tassello della profilazione sarà di fatto uno standard nel giro di una decina di anni. La ragione è paradossalmente la poca fiducia verso il sistema attuale: fra i blocchi delle inserzioni sui dispositivi e del tracciamento pubblicitario (come accade sui prodotti Apple con la soluzione App Tracking Transparency lanciata da poco tempo) , la confusione nella raccolta dei dati, l’uso di più profili e utenti su diversi dispositivi e molti altri fattori, quella profilazione – contrariamente a quanto pensano gli utenti – è tutt’altro che precisa. Fare leva su un dato biometrico come la voce cambierebbe ovviamente ogni cosa.

voce

Ovviamente Amazon e Google, i principali fornitori di smart speaker fuori dalla Cina e dei relativi sistemi di assistenza, insieme a Siri che equipaggia i dispositivi di Apple (che però sulla privacy ha una policy praticamente blindata e su cui fa leva un bel pezzo della propria credibilità), garantiscono di non utilizzare alcuna registrazione delle conversazioni e delle richieste degli utenti sui loro miliardi di device. Per ora, spiega Turow, convinto che il futuro porterà necessariamente con sé nuovi strumenti e soluzioni. Alcuni brevetti registrati negli scorsi anni svelano in effetti qualcosa delle prospettive. Un progetto di Amazon, per esempio, illustra un dispositivo con integrato l’assistente virtuale Alexa in grado di individuare le irregolarità nelle frasi di una donna in modo da valutare se abbia un raffreddore “utilizzando un’analisi del tono, del ritmo, della voce, del tremolio e/o dell’armonia della voce, come determinato dall’elaborazione dei dati vocali”. A cosa serve? Facile: Alexa potrebbe domandare all’utente se voglia ascoltare una ricetta per una tisana, una zuppa o ordinare un certo farmaco in farmacia.

voce

Un altro brevetto racconta invece di un’applicazione in grado di aiutare un commesso a decifrare la voce di un cliente per ricavare reazioni inconsce di quest’ultimo rispetto a un certo prodotto. E dunque variare di conseguenza la propria strategia di vendita. Uno di Google, invece, prevede di tracciare i membri di una famiglia in tempo reale sfruttando una serie di microfoni sparsi per casa: in base agli aspetti univoci delle diverse voci, Big G si dice in grado di ricavarne età e genere e categorizzarli in modo distinto così da registrare e comparare nel tempo le abitudini in casa (a che ora si mangia, quando si sta di fronte alla tv, quando si gioca ai videogame, quando si lavora e così via) e offrire agli utenti i suggerimenti più giusti per una corretta routine familiare. Inquietante, vero?

Per Turow ci si arriverà quando la frittata sarà già fatta, con buona pace delle sempre più esigenti legislazioni sulla riservatezza. Nel senso che, un po’ come è accaduto con Google e Facebook e l’incredibile mole di utenti e informazioni raccolte nel tempo, quel genere di marketing diventerà un pezzo fondamentale delle strategie di promozione e vendita proprio quando non potremo più fare a meno degli assistenti vocali. Quando, cioè, ancora più di oggi saranno dappertutto, integrati in ogni genere di dispositivo e in numeri che supereranno i miliardi di unità.

voce

Archiviando per un momento l’aspetto più importante, quello appunto alla riservatezza, il punto più assurdo è che in realtà anche questa strada è ricca di imprecisioni. Quando si parla di emozioni e propensioni non è mica chiaro quanto la voce sia in effetti affidabile. Se è vero, secondo Rita Singh, esperta del settore della Carnegie Mellon, che l’attività dei nervi vocali è collegata allo stato emotivo, “con l’ampia disponibilità di pacchetti di apprendimento automatico personale con competenze limitate sarà tentato di eseguire analisi delle voci di livello scadente, conducendo a conclusioni dubbie tanto quanto i metodi”. Senza contare una serie di altri fattori pregiudizievoli, di tipo culturale o fisiologico, che possono inficiare l’analisi.

voce

“Sebbene alcuni di questi progressi promettano di rendere la vita più facile – conclude l’autore – non è difficile vedere come la tecnologia vocale possa essere abusata e sfruttata. E se la profilazione vocale indicasse a un potenziale datore di lavoro che sei un grave rischio per un impiego di cui hai disperatamente bisogno? E se comunicasse a una banca che sei un pessimo pagatore quando stai chiedendo un prestito? E se un ristorante decidesse che non accetterà la tua prenotazione perché sembri di bassa classe o troppo esigente?”.




L’obiettivo di Calzedonia e Wwf: liberare le spiagge italiane dalla plastica

L’obiettivo di Calzedonia e Wwf: liberare le spiagge italiane dalla plastica

A pochi giorni dalla Giornata mondiale degli oceani (8 giugno) e negli stessi giorni in cui Tom Ford, forse il più influente stilista americano, lancia un premio da 1,2 milioni di dollari per chi trova soluzioni alternative alle microplastiche, Calzedonia presenta, in collaborazione con il Wwf, un’importante iniziativa per la pulizia delle spiagge italiane da ogni tipo di rifiuto. «Ci è sembrato naturale creare questo progetto, che abbiamo chiamato #missionespiaggepulite, con Calzedonia, brand del nostro portafoglio più focalizzato, in estate, sui costumi da bagno», spiega Marcello Veronesi (nella foto qui sotto), 34 anni, membro del cda di Calzedonia Holding, fondata dal padre Sandro. La collaborazione con il Wwf durerà per tutto il 2021 e permetterà di ripulire almeno 1,5 milioni di metri quadri di spiagge italiane dalla plastica e dai rifiuti abbandonati e dispersi. L’iniziativa accompagnerà per tutta l’estate la campagna GenerAzioneMare Wwf, nata per difendere quello che viene chiamato oro o capitale blu, l’acqua, che verrà lanciata proprio l’8 giugno.

Cambiamento culturale

«Per la mia generazione l’attenzione all’ambiente è legata a ogni comportamento, nella vita privata, in quella lavorativa e nelle abitudini di consumo – sottolinea Marcello Veronesi –. Ancora di più lo è per i miei fratelli, molto più giovani di me. La corporate social responsibility del gruppo Calzedonia però ha radici lontane e non si limita alla sostenibilità ambientale, ma comprende molti aspetti di attenzione al sociale, al territorio, alle condizioni di lavoro. Possiamo controllare e certificare praticamente ogni parte della filiera che c’è dietro ai brand del gruppo». Il primo appuntamento di #missionispiaggepulite è stato giovedì 27 maggio presso l’Oasi Wwf Trieste Miramare: oltre all’attività di pulizia (nella foto in alto), è stato organizzato un incontro con esperti che hanno guidato all’analisi dei rifiuti raccolti e una visito al museo dell’Oasi, specializzato nella biodiversità marina. Per aumentare l’impatto dell’iniziativa, che prevede un centinaio di tappe in tutta Italia, il brand Calzedonia, per ogni bikini venduto, si è impegnato a supportare Wwf per la pulizia di un metro quadrato di spiaggia.

I progetti per il futuro

«Contiamo di poter organizzare iniziative simili in altri Paesi – conclude Marcello Veronesi –. In parallelo, lavoriamo sulla sostenibilità dei nostri prodotti, investendo moltissimo in ricerca e sviluppo, perché la qualità deve essere la stessa dei prodotti “tradizionali”. Per minimizzare davvero l’impatto sull’ambiente, devono essere sostenibili tutti i materiali impiegati e occorre un impegno di filiera». Un esempio dei risultati della ricerca del gruppo e del brand Calzedonia in particolare sono alcuni costumi della linea Indonesia, bikini e interi in un tessuto soft e confortevole (nella foto qui sopra), che asciuga velocemente e soprattutto è ecologico. Il peso del filato riciclato nel tessuto necessario per un bikini, ad esempio, è equivalente al peso di cinque bottigliette di plastica da mezzo litro, per gli interi di sette.




Kering pubblica il primo report sull’economia circolare

Kering pubblica il primo report sull’economia circolare

Kering accelera sulla sostenibilità e pubblica Coming full circle, il report che presenta le ambizioni del gruppo luxury su economia circolare e sostenibilità. All’interno, le azioni concrete che i marchi del colosso come GucciYves Saint Laurent e Alexander McQueen, hanno intrapreso coerentemente agli obiettivi green prefissati. Tra questi, in prima linea l’allungamento della vita dei prodotti, grazie a materiali più durevoli e servizi di riparazione. In previsione anche lo shift verso modelli di produzione che limitano gli sprechi di risorse, come acqua ed energia elettrica, e al contempo eliminino la dispersione di microplastiche nell’ambiente e la plastica ad utilizzo singolo. In numeri, gli obiettivi principali sono l’utilizzo al 100% di energia rinnovabile entro il 2022, il totale abbandono di plastica ad utilizzo singolo entro il 2025, e la completa eliminazione di dispersione di microplastiche entro il 2030.

«In Kering poniamo molta attenzione al nostro approccio alla circolarità, insieme alla nostra responsabilità di accelerare il cambiamento. Siamo consapevoli che c’è ancora molto lavoro da fare», ha dichiarato Marie-Claire Daveu, responsabile per la sostenibilità e gli affari istituzionali del gruppo. «Questo è il momento di consolidare la nostra missione di circolarità tra tutti i nostri marchi e condividere i loro progressi, oltre a collaborare su temi che interessano l’intero settore, dall’inquinamento da microfibre all’aumento dell’efficienza, fino alla riduzione degli scarti tessili e presso i fornitori in generale». 




“L’algoritmo deve essere trasparente”, la Cassazione rilancia il GDPR

“L’algoritmo deve essere trasparente”, la Cassazione rilancia il GDPR

Èstata depositata proprio nel giorno del terzo compleanno del GDPR, la sentenza con la quale la Corte di Cassazione – per la verità applicando la disciplina previgente all’entrata in vigore del GDPR – ha messo nero su bianco un principio centrale nell’economia delle nuove regole europee in materia di protezione dei dati personali e, soprattutto, del governo dell’intelligenza artificiale.

Non c’è consenso senza trasparenza dell’algoritmo

Il principio in questione dice che quando si chiede a una persona il consenso a trattare i propri dati personali perché siano dati in pasto a un algoritmo al fine di pervenire a una decisione automatizzata capace di incidere sui propri diritti, il consenso non è valido se la persona non è adeguatamente informata delle logiche alla base dell’algoritmo.

In altre parole, meno tecniche ma più accessibili anche ai non addetti ai lavori: il consenso non vale se l’algoritmo non è trasparente semplicemente perché non può essere consapevole per davvero un consenso a un trattamento di dati personali senza conoscere esattamente come verranno utilizzati per giungere a una determinata decisione.

La sentenza della Cassazione

I giudici della Corte di Cassazione, nell’accogliere il ricorso del Garante avverso una Sentenza del Tribunale di Roma che aveva, a sua volta, parzialmente accolto il ricorso proposto da una società che si era vista vietare dal Garante la possibilità di implementare un complesso sistema di rating reputazionale hanno interpretato le disposizioni all’epoca (2016) dettate dal Codice Privacy in materia di caratteristiche dell’interessato.

Nella sostanza, infatti, la società in questione si proponeva di elaborare dei profili reputazionali degli associati a un’associazione al fine di consentire a questi ultimi di presentare delle proprie “credenziali” a clienti e potenziali clienti o, comunque, nelle dinamiche commerciali e professionali e si proponeva di porre in essere i trattamenti di dati personali strumentali all’elaborazione di tali profili sulla base del consenso degli interessati, un consenso, tuttavia, prestato senza che agli interessati fosse illustrato preventivamente il funzionamento dell’algoritmo utilizzato per l’elaborazione del profilo.

Il Tribunale nell’accogliere – almeno parzialmente – il ricorso della società in questione aveva ritenuto che la conoscenza della logica alla base del funzionamento dell’algoritmo non fosse presupposto di validità del consenso ma attenesse piuttosto a una valutazione successiva e eventuale del mercato nel cui ambito l’algoritmo in questione avrebbe potuto essere giudicato inadeguato, imperfetto o mal funzionante.

Non così secondo i Giudici della Cassazione che nel bocciare la decisione dei Giudici di primo grado scrivono: “La scarsa trasparenza dell’algoritmo impiegato allo specifico fine non è stata ben vero disconosciuta dall’impugnata sentenza la quale ha semplicemente ritenuto non decisivi i dubbi relativi al sistema automatizzato di calcolo per la definizione del rating reputazionale, sul rilievo che la validità della formula riguarderebbe ‘il momento valutativo del procedimento’, a fronte del quale spetterebbe invece al mercato ‘stabilire l’efficacia e la bontà del risultato ovvero del servizio prestato dalla piattaforma’. Questa motivazione non può essere condivisa giuridicamente, in quanto il problema non era (e non è) confinabile nel perimetro della risposta del mercato – sintesi metaforica per indicare il luogo e il momento in cui vengono svolti gli scambi commerciali ai più vari livelli – rispetto alla predisposizione dei rating attribuiti ai diversi operatori. Il problema, per la liceità del trattamento, era invece (ed è) costituito dalla validità – per l’appunto – del consenso che si assume prestato al momento dell’adesione. E non può logicamente affermarsi che l’adesione a una piattaforma da parte dei consociati comprenda anche l’accettazione di un sistema automatizzato, che si avvale di un algoritmo, per la valutazione oggettiva di dati personali, laddove non siano resi riconoscibili lo schema esecutivo in cui l’algoritmo si esprime e gli elementi all’uopo considerati”.

Non si può dire di si, insomma, al trattamento dei nostri dati personali attraverso un algoritmo del quale il titolare del trattamento non ci ha preventivamente raccontato logiche e dinamiche di funzionamento.

Un principio importante

Difficile non condividere il ragionamento degli ermellini che, d’altra parte, oggi è cristallizzato in quanto previsto dal GDPR che espressamente riconosce agli interessati, laddove i loro dati personali siano destinati a essere utilizzati per l’assunzione di una decisione automatizzata, il diritto, tra l’altro, di ricevere, evidentemente preventivamente rispetto all’eventuale prestazione del consenso al trattamento, “informazioni significative sulla logica utilizzata, nonché l’importanza e le conseguenze previste di tale trattamento”.

Tanto, peraltro, a prescindere dalla circostanza che il GDPR, almeno in principio, stabilisce che “L’interessato ha il diritto di non essere sottoposto a una decisione basata unicamente sul trattamento automatizzato, compresa la profilazione, che produca effetti giuridici che lo riguardano o che incida in modo analogo significativamente sulla sua persona.” (art. 22.1, GDPR).

E questa regola soffre poche eccezioni, ovvero che la decisione:

  • a) sia necessaria per la conclusione o l’esecuzione di un contratto tra l’interessato e un titolare del trattamento;
  • b) sia autorizzata dal diritto dell’Unione o dello Stato membro cui è soggetto il titolare del trattamento, che precisa altresì misure adeguate a tutela dei diritti, delle libertà e dei legittimi interessi dell’interessato;
  • c) si basi sul consenso esplicito dell’interessato.”.

La disciplina sulla protezione dei dati personali, dunque, come la Sentenza di ieri della Suprema Corte di Cassazione suggerisce, sembra davvero rappresentare un volano irrinunciabile e, and oggi, il presidio più prezioso nel governo dell’intelligenza artificiale come, d’altra parte, sembra confermare la proposta di Regolamento dell’Unione europea proprio in materia di intelligenza artificiale che, sotto molteplici profili – incluso quello oggetto della Sentenza – di fatto applica il metodo GDPR proprio dell’intelligenza artificiale.

I Giudici della Cassazione, insomma, hanno fatto un bel regalo di compleanno al GDPR sottolineandone implicitamente la modernità e la centralità nel governo del futuro prossimo venturo, società degli algoritmi inclusa.




Controlli su misura

Controlli su misura

Quando nel 2001 Kishore Sharfudeen, un uomo cordiale con due figli originario del Tamil Nadu, nel sud dell’India, fu assunto come capo del personale dal calzificio Snqs International Socks, davanti a lui si spalancarono nuovi mondi. Otto anni come avvocato gli avevano fatto perdere ogni illusione, e il suo nuovo datore di lavoro, nella città di Coimbatore, sembrava offrirgli una vita più facile in un’azienda che forniva calze a marchi europei come Primark e H&M.

Il suo compito principale era occuparsi dei circa trecento dipendenti della fabbrica – quasi tutte giovani donne dei villaggi del Tamil Nadu – accertandosi che il luogo di lavoro e i loro alloggi rispettassero le norme sanitarie e di sicurezza in vigore nel paese. “Ho imparato tanto facendo quel lavoro”, mi dice Kishore a proposito dei suoi cinque anni e mezzo in fabbrica quando ci incontriamo nella hall del mio hotel a Coimbatore, in una tarda mattinata di settembre. È difficile sentire elogi su un settore che da tempo è sinonimo di sfruttamento feroce e condizioni di lavoro infernali, ma la Snqs era un’eccezione.

Anche se i dipendenti ricevevano solo il salario minimo, circa quaranta dollari al mese, Kishore era orgoglioso di garantire che la fabbrica e l’ostello fossero in buone condizioni e che i lavoratori seguissero una dieta sana e avessero abbastanza tempo libero per riposare tra un turno e l’altro.

Vantaggio certificato

Kishore era entrato nell’industria della fast-fashion (moda veloce, la produzione in tempi brevissimi di capi d’abbigliamento che seguono le mode emergenti) in un periodo di grandi cambiamenti. Il nuovo millennio aveva portato con sé un’era di “responsabilità aziendale”, e i marchi occidentali, da Gap a Benetton, s’impegnavano a fare pressioni sui loro fornitori per promuovere standard di lavoro internazionali, scongiurare gli incidenti, rispettare la dignità dei lavoratori e non ricorrere al lavoro minorile. Tra queste promesse c’era anche la responsabilità sociale, ovvero la certificazione etica.

Ispirata all’auditing finanziario – una valutazione indipendente che vincola i registri contabili ai principali criteri di contabilità generale – la certificazione etica dovrebbe essere uno strumento per individuare gli abusi ai danni dei lavoratori nelle catene di forniture globali e porvi rimedio.

Sviluppato da ong e associazioni industriali come l’American apparel manufacturers e la European foreign trade association, e promossa da grandi marchi e rivenditori internazionali, la certificazione etica è comunque diversa da quella finanziaria di oggi per due aspetti cruciali: è volontaria e orientata al mercato. Questo significa che offre ai dirigenti di fabbrica l’opportunità di far ispezionare e certificare come “etici” i propri stabilimenti, ottenendo così un vantaggio competitivo sulla concorrenza. Ma i certificatori sono assunti da società ispettive scarsamente regolamentate e a scopo di lucro che si fanno concorrenza per ottenere contratti di revisione, un elemento che secondo Carolijn Terwindt, avvocata indipendente esperta di responsabilità aziendale, rischia di compromettere il fondamento stesso delle certificazioni. “Gli audit finanziari sono meglio regolamentati di quelli sociali”, spiega, “anche se i primi analizzano solo i rischi monetari, mentre i secondi si preoccupano della vita delle persone”.

Tra i pochi protocolli adottati nel settore dell’abbigliamento, lo standard SA8000 è considerato il più severo. Creato nel 1997 dalla Social accountability international (Sai), una ong con sede a New York che promuove i diritti dei lavoratori, ha fama di essere particolarmente rigido. Oltre al rispetto delle norme in materia di sicurezza, salario, salute
e altri standard, il SA8000 prevede che un’impresa corrisponda ai lavoratori uno stipendio sufficiente per vivere – non il semplice salario minimo – entro due anni dalla prima certificazione. Kishore dice che per un dirigente d’azienda riuscire a ottenere un SA8000 “era come una piuma sul cappello”, e quasi una garanzia di ordini futuri. Una delle società di certificazione con la storia più lunga è il Registro italiano navale (Rina), che nacque come istituto per la classificazione di navi mercantili, ma che oggi sostiene di essere “il terzo attore internazionale” nel campo della responsabilità sociale delle aziende.

Partecipare a programmi come il SA8000 è diventato un elemento essenziale per fare affari nell’industria globale dell’abbigliamento. Ma una serie d’interviste che ho condotto nella seconda metà del 2019 con decine di revisori, consulenti, direttori di fabbrica e lavoratori del settore dell’abbigliamento in India dimostra che l’industria dell’auditing sociale non è altro che questo: un’industria. Ho incentrato la mia inchiesta in particolare sul Rina, e il quadro che ne è uscito è deprimente.

Per le società di auditing i profitti vengono prima dei lavoratori. Non sono tenute a rispondere alle ong che hanno il compito di monitorare il loro lavoro. Le ispezioni compiute da queste società non hanno segnalato violazioni delle norme di sicurezza e del lavoro, perciò nelle fabbriche continuano a verificarsi incendi e altri incidenti drammatici. Questo perché il modello delle certificazioni sociali ha dei difetti strutturali. Dato che le ispezioni sono pagate dalle stesse aziende che le subiscono, le società di revisione non hanno particolare interesse a tutelare i diritti dei lavoratori. Stando alle mie interviste, i loro rapporti sono sistematicamente ingannevoli. E sono inaccessibili alle persone che sostengono di voler difendere: i lavoratori non hanno il diritto di essere informati sulle violazioni che i revisori dovessero riscontrare nella loro fabbrica.

Eppure rivenditori e marchi di abbigliamento come Gucci, Amazon, Walt Disney e Walmart sbandierano la loro collaborazione con l’industria degli audit come indice del loro impegno etico. Le ong e i gruppi industriali che dirigono e sovrintendono a programmi come l’SA8000 premono perché questi siano adottati nelle più diverse catene di fornitura, dagli alimentari all’elettronica. Questo significa che i fornitori non possono
più fare affari con i grandi marchi senza le certificazioni.

L’audit sociale è nato più di vent’anni fa e si è trasformato in un’industria globale dominata da una decina di multinazionali che competono per i contratti di certificazione.
Ogni anno gli ispettori di giganti come il francese Bureau Veritas, la britannica Intertek, e la tedesca TÜV Rheinland certificano migliaia di aziende in tutta l’Asia e il subcontinente indiano. Per farlo, però, devono prima ricevere l’accreditamento dall’ideatore della certificazione: se scelgono il SA8000 devono chiedere una licenza al Sai e, dopo averla ottenuta, versare all’organizzazione una commissione annuale. Il Sai, che è l’ideatore e il proprietario dello standard SA8000 e vigila sul suo mercato, dovrebbe intervenire se il Rina (o qualunque altra società di certificazione) si dimostra negligente o comunque inadatto al lavoro.

Ma il processo di certificazione ha un ulteriore livello. I produttori come il calzificio di Kishore raramente si rivolgono direttamente agli auditor per una revisione, ma assumono un “consulente esterno per le certificazioni”, in sostanza un coach, che li prepari per la revisione, li metta in contatto con le società d’ispezione approvate e faciliti il processo. Kishore faceva eccezione: per ottenere una certificazione per il calzificio nel 2006 decise di rivolgersi direttamente al Rina, che aveva un ufficio vicino alla fabbrica. Gli auditor che si presentarono da Kishore la mattina dell’ispezione “furono molto colpiti” dalle strutture, ricorda l’uomo, “e dissero che tutto sembrava perfetto”. Rimasero così colpiti che qualche settimana dopo il direttore generale del Rina per l’India, il Pakistan e il Bangladesh, K.T. Ramakrishnan, chiamò Kishore per congratularsi con lui. E poi gli offrì un lavoro come certificatore del Rina.

A Ramakrishnan, ingegnere meccanico di formazione, piaceva descrivere il suo lavoro come volto a “favorire la giustizia e l’uguaglianza sociale, l’attenzione per il genere umano e uno sforzo motivato per garantire la crescita”. Kishore accettò l’offerta, ma non per uno “scopo sociale”, precisa. “Il lavoro mi serve per avere uno stipendio”, dice, “per la mia famiglia”. Il mensile iniziale, 746 dollari, era circa un terzo di più di quanto prendeva al calzificio, perciò la decisione fu facile.

Una grande farsa

Nel primo mese di lavoro, Kishore dovette seguire i colleghi e imparare da loro. Il suo entusiasmo iniziale svanì rapidamente quando si rese conto che le aziende clienti del Rina somigliavano ben poco all’amichevole fabbrica di calze in cui aveva lavorato. Dalle uscite d’emergenza sbarrate ai sistemi antincendio fuori uso, dalla polvere di cotone ai dispositivi di sicurezza mancanti, ovunque intorno a sé vedeva “incidenti in attesa di succedere”. E il suo ruolo non era quello che aveva immaginato. Secondo il protocollo SA8000, i revisori dovrebbero essere quasi degli investigatori che, guidati da una lista di controllo lunga e dettagliata, seguono una routine standardizzata per accertare fatti e raccogliere prove: giro della fabbrica al mattino, controllo dei libri sociali dopo pranzo e colloqui con i lavoratori nel pomeriggio. Ma osservando i colleghi che interagivano con i direttori, presto si rese conto che più che investigatori erano venditori. Quella che vendevano, capì, era un’“esperienza” di certificazione positiva, relativamente indolore e che, soprat- tutto, avrebbe convinto i clienti a preferire il Rina a un concorrente per le revisioni successive.

Nuovo del settore, il Rina all’epoca stava aggressivamente cercando clienti nell’India meridionale, con notevole successo. Sotto la guida del capo di Kishore, Subburaja Ayyasamy – un abile venditore che all’epoca dirigeva l’ufficio di Tirupur e aveva guidato l’espansione del Rina nel sud del paese – l’ufficio di Tirupur è passato da una decina di clienti SA8000 nel 2006 a più di un centinaio nel 2010.

“Ramakrishnan lodava il nostro ufficio perché era fortissimo nel marketing”, ricorda Kishore, “mai noi ci procuravamo i clienti scendendo a compromessi su tutte le norme”. Solo una minima parte dei rischi per la sicurezza e la salute che notava durante le ispezioni nelle strutture dei clienti finiva nei rapporti inviati al Sai, dice. Il controllo dei documenti spesso era inquietante quanto il giro della fabbrica al mattino: scorrendoli, Kishore capiva rapidamente che erano in larga misura falsificati. A volte, dice, i registri delle prove antincendio indicavano nomi di lavoratori che quel giorno, stando ai fogli delle presenze appena esaminati, non erano neppure sul luogo di lavoro. Altre volte, i documenti mostravano giornate lavorative di otto ore dove turni di dodici ore erano la norma. Dai verbali delle riunioni ai cedolini degli stipendi, dalle lettere di nomina ai dati sugli straordinari, “la maggior parte delle volte era tutto inventato di sana pianta”, conclude. Per di più, Kishore si era aspettato di dover trattare con i capi del personale. Invece continuava a incontrare un consulente dopo l’altro, tutti ingaggiati dalle fabbriche per ottenere la certificazione. E sembrava che non facessero mai rispettare gli standard come dichiaravano. Piuttosto, secondo Kishore, il loro lavoro consisteva nel “simularlo”.

I colloqui con i lavoratori erano la parte più imbarazzante. Lo scopo era verificare i dettagli sui salari e gli orari di lavoro, e fare domande sulle molestie sessuali, i comportamenti antisindacali e altre forme di discriminazione o di abuso. Ma i certificatori che vide all’opera in quel primo mese “facevano solo domande generiche e banali”, ricorda, “tipo ‘Come sta la sua famiglia?’ e ‘Tutto bene qui al lavoro?’”. I dipendenti erano stati “tutti chiaramente imbeccati dai superiori a ripetere che tutto andava bene”. L’intero rituale dell’auditing sembrava una grande farsa, e quando cominciò a condurre ispezioni da solo Kishore non era disposto a stare al gioco. Il suo compito principale erano le revisioni di sorveglianza, a cui secondo lo standard SA8000 di quel periodo i direttori di fabbrica dovevano sottoporsi ogni sei mesi dopo la loro prima certificazione.

Ufficialmente le ispezioni arrivavano senza preavviso, ma in realtà i consulenti ingaggiati dalle fabbriche spesso fissavano le date insieme ai certificatori, come conferma Nikhil Shah, un ex collega al Rina. Con grande irritazione di Kishore, i consulenti spesso cambiavano le date dell’ispezione all’ultimo minuto quando avevano bisogno di più tempo per preparare i clienti, “il che mi faceva saltare tutto il calendario di lavoro”, racconta. A marzo del 2009 si lamentò di questo problema in un’email ad Ayyasami.

Kishore capiva che per molti fornitori certe violazioni, come il ricorso eccessivo agli straordinari, erano difficili da evitare, perché spesso il volume degli ordini e i termini di consegna imposti dai marchi occidentali erano imprevedibili. Negare la certificazione a quelle aziende per questi motivi gli avrebbe solo impedito di crescere e di rendere stabile il giro di affari. Perciò, come compromesso, Kishore decise di adottare un metodo più pragmatico: per esempio, accettare senza troppe storie libri falsificati “purché almeno sembrassero perfetti”, spiega. “Se si chiedesse la documentazione reale, nessuna fabbrica passerebbe l’esame”, aggiunge. Non si preoccupava neppure di chiudere un occhio davanti a violazioni di scarso rilievo – un armadietto di pronto soccorso incompleto o delle mascherine antipolvere mancanti – purché la direzione s’impegnasse a correre ai ripari.

Ma anche così “aveva una mentalità troppo aderente alla legge per il Rina”, spiega il suo ex collega Shah in una telefonata. “Continuava a scontrarsi con i capi, i clienti e i consulenti su quali questioni da risolvere doveva inserire nei rapporti e quali tralasciare”. Per i consulenti, dice Shah, “gli affari dipendevano dalla loro capacità di far certificare le aziende con il minimo sforzo”. Kishore invece pretendeva dai suoi clienti migliorie superiori alla media, e questo minava il loro successo. “Volevano che pensasse di più agli affari”. Ma i risultati del Rina erano strettamente legati alla buona volontà dei consulenti, perché gli intermediari sceglievano personalmente gli auditor per i loro clienti e negoziavano le condizioni a loro nome.

Il Rina sapeva come usare queste dinamiche a proprio vantaggio. Per procurarsi nuovi clienti, raccontano tre persone che hanno lavorato nell’industria, la società si ingraziava i consulenti pagando “commissioni di marketing” che potevano raggiungere il 10 per cento dei ricavi per ogni cliente procurato. La conseguenza, spiega Shah, è che la grande maggioranza dei clienti indiani del Rina per le certificazioni sociali arrivava attraverso una manciata di consulenti: un sistema che faceva dipendere il Rina proprio dalle persone (e dalle aziende) di cui avrebbe dovuto giudicare l’attività con il massimo rigore.

Il lato oscuro

Kishore si trovò a fare i conti con il lato oscuro di questo sistema: se il consulente riteneva che l’audit del Rina fosse troppo severo, poteva semplicemente portare tutti i suoi clienti da un rivale più accondiscendente. Questa dinamica di potere, dice Kishore, rendeva alcuni consulenti così certi della collaborazione del Rina che quasi non si sforzavano di far sembrare i loro clienti rispettosi delle normative.

E così il 23 marzo 2009, quando Kishore mandò un’email ad Ayyasamy per lamentarsi dei consulenti sostenendo che alcuni lo mandavano in fabbriche “dove non riesco a trovare neppure una traccia di SA8000”, la risposta sostanzialmente fu di continuare a fare il suo lavoro. Le fortissime pressioni perché non andasse per il sottile cominciarono a logorare Kishore. “Non riuscivo a zittire la mia coscienza”, dice. Shah, che nell’ufficio del Rina a Mumbai aveva il compito di rivedere i rapporti di tutto il paese, si accorse che “i resoconti di Kishore erano palesemente più sostanziosi e dettagliati” di quelli dei suoi colleghi e “di solito segnalavano un maggior numero di problemi”.

Shah condivideva molte delle preoccupazioni di Kishore per lo stile disinvolto di auditing del Rina. Un problema che aveva osservato era la prassi di mandare nelle fabbriche meno ispettori di quelli necessari, per ridurre le spese. Stando a Shah e a Kishore, un’altra tattica usata dal Rina per risparmiare era sottostimare il numero dei dipendenti di una fabbrica, il che in base alle normative SA8000 consentiva agli auditor di accorciare i tempi dell’ispezione. Shah all’epoca si preoccupava per questa prassi “perché senza un numero sufficiente di persone sul posto gli auditor rischiano di lasciarsi sfuggire violazioni importanti o rischi per la sicurezza”. Anche il “copia e incolla” da un rapporto all’altro era un sistema per risparmiare sui costi, dicono ancora Kishore e Shah. Perfino lo staff del Rina in Italia se ne accorse.

“Tutte le aziende certificate dall’ufficio di Tiripur [sic] hanno la stessa documentazione e usano gli stessi moduli”, scriveva nel gennaio 2011 Achille Tonani, un collega della sede centrale del Rina a Genova, in un’email a Ramakrishnan. “Due aziende hanno un piano di controllo dei fornitori identico alle ultime venti revisionate dal sottoscritto nell’ultimo mese. È possibile?”. L’ansia di Kishore salì alle stelle il 18 gennaio 2010, quando, dopo quasi due anni e mezzo di lavoro, ebbe lo scontro più duro mai avuto con un cliente. Quel giorno doveva ispezionare una fabbrica di maglieria di Tirupur che aveva ottenuto la certificazione dal suo capo sei mesi prima. I locali erano nel caos: estintori mancanti, uscite ostruite e operai chiaramente esposti a fumi tossici. Fu allarmato dal giovanissimo aspetto di alcuni lavoratori e scoprì che l’azienda non pagava gli straordinari. Ma la direzione invece di fornirgli i dati relativi all’età dei lavoratori e i cedolini degli stipendi per dimostrargli che si sbagliava – come richiesto dal protocollo SA8000 – “minacciò di denunciarmi ad Ayyasami”, racconta Kishore. “Io li invitai a farlo e li bocciai”.

Alla disperata ricerca di appoggi, tre giorni dopo Kishore contattò il suo capo a Mumbai, inoltrando a Ramakrishnan un infuocato scambio di email con Ayyasami, in cui deplorava “la qualità degli audit e lo scarso rispetto delle prescrizioni da parte di molti nostri clienti”. Ma gli audit erano l’ultima delle preoccupazioni per Ramakrishnan. Per i profitti del Rina era più importante il rapporto con i consulenti per le certificazioni, un rapporto che lo stile di lavoro di Kishore stava gravemente minando. Tra i consulenti che Kishore aveva fatto infuriare, un certo A. Faizall era il più minaccioso.

Residente a Tirupur, laureato in economia e con una lunga barba rossa, Faizall godeva di particolare prestigio al Rina per la sua ampia rete di clienti e gli affari che procurava alla società, raccontano Kishore e Shah. Kishore pensava di essere in rapporti cordiali con Faizall. Di certo non si aspettava che il 19 gennaio 2010 avrebbe scritto una lettera a Ramakrishnan, all’epoca ancora direttore del Rina India, accusandolo di “pretendere favori” dai produttori e minacciando implicitamente di portare i suoi clienti alla concorrenza se Kishore non rendeva più facile superare gli audit. Il tono delle email di Ramakrishnan diventò sempre più aspro, accusò Kishore di non avere “spirito di squadra” nel lavoro e lo sollecitò a pensare di più agli interessi del Rina. Kishore replicò ammonendo il suo capo che il Rina rischiava di perdere la sua credibilità se rifiutava di cambiare linea.

Qualche mese dopo, quando Kishore ricevette un’email di Rochelle Zaid, direttrice senior del Sai a New York, per un breve periodo pensò di aver visto giusto. Qualcuno aveva scritto un reclamo al Sai denunciando la negligenza delle attività di auditing del Rina a Tirupur, scriveva Zaid, e raccomandava Kishore come “una risorsa che può fornire alcune informazioni su queste accuse”. Era disposto a parlare? Kishore era combattuto. Voleva che il Sai intervenisse, però raccontando tutto all’organizzazione sarebbe venuto meno al suo accordo di riservatezza con il Rina e avrebbe dato alla società un’ottima scusa per licenziarlo. Ma alla fine non dovette prendere nessuna decisione. Il 30 agosto, appena tornato a casa dal lavoro, la moglie gli consegnò una lettera di risoluzione del contratto. Il Rina lo licenziava per non aver rispettato gli obiettivi di produzione.

Ormai disoccupato e senza niente da perdere, Kishore decise di inviare a sua volta un reclamo al Sai. Nei mesi seguenti inviò decine di rapporti di auditing e comunicazioni interne che provavano come il Rina falsificasse regolarmente le informazioni sulle aziende, inviasse pochi ispettori ai suoi clienti, copiasse i contenuti da un rapporto all’altro e consentisse sistematicamente ai consulenti di ispezionare il loro stesso lavoro come membri delle squadre di auditing del Rina. Passò un anno: il Sai indagò, scagionò il Rina da ogni accusa e chiuse il caso con un’email a Kishore del 6 ottobre 2011 in cui giustificava la sua decisione sostenendo che il copia e incolla dei contenuti degli audit non si ripercuote necessariamente sulla qualità dei rapporti. Inoltre dichiarava di aver trovato un solo caso in cui un auditor era stato erroneamente indicato come presente in due luoghi diversi e aggiungeva che il Rina aveva aggiornato le sue politiche in materia di conflitto d’interessi e risolto il problema dei consulenti che facevano anche da auditor.

Quello che la lettera trascurava di riferire era che il problema giudicato più allarmante da Kishore – e cioè che per velocizzare le ispezioni gli auditor sottostimavano il numero di lavoratori nelle fabbriche dei loro clienti – aveva preoccupato anche il Sai. Di fatto, quando il Sai aveva affrontato la questione alcuni mesi prima, Ramakrishnan aveva ordinato alla sua squadra di correggere i dati “con particolare riferimento all’effettiva forza lavoro e alle giornate di lavoro impiegate”. L’organizzazione preposta alla responsabilità sociale, quindi, sapeva di avere un problema, ma invece di penalizzare il Rina tenne per sé queste informazioni, consentendo alla società di continuare ad agire indisturbata.

Il disastro

L’11 settembre 2012 scoppiò un grosso incendio al piano terra della Ali Enterprises, una fabbrica di abbigliamento a Karachi, in Pakistan. Poche settimane prima gli ispettori del Rina avevano dichiarato l’azienda sicura e sufficientemente rispettosa dello standard SA8000. Più di 250 operai si accorsero troppo tardi delle fiamme e del fumo. Intrappolati al piano superiore dietro finestre con le sbarre e uscite d’emergenza chiuse a chiave e senza estintori funzionanti, non ebbero via di scampo. In una ricostruzione dell’incendio, i ricercatori di Forensic architecture, un istituto con sede all’Università Goldsmiths di Londra, hanno dimostrato che sarebbe stato sufficiente un sistema di allarme antincendio funzionante per ridurre sensibilmente il numero dei morti.

Il sistema di allarme antincendio guasto era uno dei tanti, vergognosi rischi per la sicurezza che gli auditor avrebbero dovuto imporre ai loro clienti di eliminare. Altre violazioni erano la mancanza di uscite di sicurezza al piano superiore e i registri sulle prove di evacuazione, palesemente falsificati. Quando sulla scia della tragedia i gruppi per la difesa dei diritti umani chiesero di vedere il rapporto dell’audit, Sai e Rina si opposero appellandosi alla riservatezza. Il Rina sostenne che il giorno dell’audit la Ali Enterprises aveva dimostrato di rispettare lo standard SA8000.

Lo European center for constitutional and human rights, una ong con base a Berlino, è riuscito a ottenerne una copia e l’ha mostrata ai superstiti e agli ex operai della Ali Enterprises, che l’hanno trovato pieno di imprecisioni. Nelle deposizioni giurate presentate nel 2015 a un tribunale tedesco in una causa contro il rivenditore tedesco KiK, i lavoratori che chiedevano un risarcimento all’acquirente della Ali Enterprises segnalavano che le foto allegate all’audit del Rina – tutte teoricamente esaminate dagli auditor il giorno dell’ispezione – erano vecchie di almeno sei anni e hanno detto che “l’edificio, con le pareti crepate,

i soffitti rotti e le finestre con le sbarre, sembrava una galera”. Nel 2019 il tribunale ha archiviato la causa per scadenza dei termini di prescrizione. Nel 2012 il Sai avviò una propria indagine sull’incendio, i cui risultati rispecchiavano molte testimonianze dei lavoratori. Rilevò che gli auditor non avevano visto o avevano ignorato molte violazioni delle norme di sicurezza e avevano accettato registri delle prove antincendio chiaramente falsi. Accertò anche che la Ali Enterprises aveva centinaia di operai in più rispetto a quanto dichiarato dal Rina. Kishore aveva informato il Sai delle pericolose pratiche di auditing del Rina più di un anno prima. Aveva detto al Sai che a suo giudizio il Rina sottostimava il numero di lavoratori dei suoi clienti non per errore ma per strategia. Eppure il Sai non ha troncato i rapporti con il Rina e ha sospeso solo la sua abilitazione a svolgere audit in Pakistan. In tutti gli altri paesi, i lavoratori dipendono ancora da questi audit per la loro sicurezza.

Gli incentivi finanziari sono una grossa parte del problema delle certificazioni della responsabilità sociale. Ma anche la cultura dell’ambiente di lavoro – compreso il ricorso diffuso agli accordi di riservatezza – ha un ruolo significativo. Come Kishore ha imparato a sue spese, i revisori rischiano di perdere il posto se decidono di informare i lavoratori delle violazioni delle norme di sicurezza nella loro fabbrica. “La piena trasparenza e il coinvolgimento dei lavoratori sono una necessità assoluta per qualunque iniziativa di controllo”, dice Mark Anner, professore associato di relazioni industriali e del lavoro alla Pennsylvania state university. “Fino a quando non saranno i lavoratori a promuovere le iniziative di monitoraggio e fino a quando non potranno neppure esaminare i rapporti, queste società di auditing continueranno a presentare un’immagine di progresso molto distorta che mette a rischio i lavoratori e ostacola la creazione di meccanismi più sostenibili ed efficaci per un lavoro dignitoso”.

A peggiorare le cose, consulenti ben introdotti come Faizall si comportano da padroni dell’universo delle certificazioni, un atteggiamento in larga misura alimentato dalla loro posizione di intermediari tra le società di auditing e i clienti. Dei 13 auditor che ho intervistato, 11 hanno espresso frustrazione per il potere dei consulenti sulle società di auditing e per i loro frequenti tentativi di imporre quello che i certificatori possono segnalare nei loro rapporti. Questo genere di pressioni spinge molti ispettori a comportarsi come aveva fatto Kishore: assumere un approccio “pragmatico”, valutare “le intenzioni” dei loro clienti invece che le effettive violazioni riscontrate, negoziare con i superiori i compromessi da accettare. In definitiva, sono i dirigenti dell’ufficio a decidere cosa includere nel rapporto di audit. E tra doppi libri e doppi registri, colloqui con un copione già scritto e ambigui accordi con i consulenti, le fabbriche pericolose appaiono in regola sulla carta, addirittura etiche. Alcuni auditor hanno perfino coniato un’espressione per definire questa prassi: “lavaggio degli occhi”.

Molti auditor e consulenti con cui ho parlato attribuiscono ai marchi, piuttosto che ai direttori di fabbrica, la colpa di questa situazione. Sottolineano che i prezzi ridotti all’osso, i termini di consegna troppo ravvicinati e la mancanza di garanzia sugli ordini hanno un impatto profondamente negativo su salari, orari di lavoro e pressione produttiva. “I proprietari delle fabbriche si lamentano sempre perché ogni anno i marchi vogliono ridurre i prezzi”, mi ha detto un consulente di Bangalore. “Volete gli stessi ordini? Allora la prossima volta dovete prendere di meno, dicono le aziende acquirenti”.

Mark Anner non è sorpreso. Negli ultimi due anni ha condotto un’indagine approfondita sui marchi occidentali in Vietnam, Bangladesh e India. Dopo aver intervistato centinaia di lavoratori e dirigenti d’azienda di questi paesi e dopo aver studiato i dati sul commercio internazionale degli ultimi vent’anni, ha concluso che i prezzi “predatori” peggiorano le condizioni di lavoro. Nei mesi scorsi la sua ricerca ha dimostrato che la richiesta di abbassare i prezzi si è ulteriormente aggravata durante la pandemia. Anner ha osservato che i lavoratori hanno bisogno non di audit ma di accordi di monitoraggio trasparenti e vincolanti tra marchi e sindacati. In base a questi accordi “se i marchi non rispettano i loro obblighi dovrebbero attivarsi dei meccanismi per consentire ai lavoratori di chiamarli a rispondere”. Attualmente esistono solo strumenti non vincolanti per spingere i marchi globali e le società di auditing a rispondere delle violazioni dei diritti umani, ma proprio perché non sono vincolanti i lavoratori sono troppo deboli per ottenere giustizia.

L’istanza

Lo dimostrano i tentativi delle vittime della Ali Enterprises e delle loro famiglie di chiamare in causa il Rina accusandolo di aver ignorato i rischi per la sicurezza nella fabbrica pachistana. A settembre del 2018 una coalizione di otto gruppi per la difesa dei diritti umani di Pakistan, Germania, Italia e Paesi Bassi ha presentato un’istanza contro il Rina al Punto di contatto (Pcn) italiano dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse) presso il ministero per lo sviluppo economico di Roma. Chiedevano, tra l’altro, al Rina di pubblicare il suo rapporto sull’audit della Ali Enterprises e d’impegnarsi a rivelare tutti i futuri rapporti di audit, garantire la partecipazione attiva e sicura dei lavoratori alle ispezioni, rafforzare la qualità delle sue revisioni interne e, soprattutto, fornire sostegno finanziario e presentare le sue scuse ai superstiti e alle famiglie in lutto.

Il Rina ha respinto tutte le accuse: ha dichiarato di non poter risolvere da solo i problemi dell’industria degli auditing e ha affermato che il processo del Pcn non era la strada giusta per fornire un risarcimento alle famiglie colpite. Ma il Pcn italiano dell’Ocse, incaricato di valutare l’istanza, l’ha accettata e alla fine di giugno del 2019 ha avviato un processo di mediazione. Nei sei mesi seguenti sia il Rina sia le vittime hanno fornito prove al conciliatore del Pcn, che a marzo del 2020 ha avanzato una proposta per risolvere la controversia. Ha raccomandato che il Rina versi 400mila dollari a chi è stato danneggiato dall’incendio; che un rappresentante della società incontri le famiglie per esprimere solidarietà; che il Rina si sforzi di migliorare il sistema di certificazione globale e che s’impegni a migliorare le proprie pratiche di due diligence, inclusa la trasparenza sulle sue politiche in merito alla gestione del rischio, alla corruzione e ai conflitti d’interesse.

Pur giudicando insoddisfacente la proposta, l’associazione delle vittime ha firmato l’accordo all’inizio di marzo del 2020. Il Rina, invece, l’ha respinto spiegando che l’ostacolo maggiore erano gli indennizzi alle famiglie. Alla richiesta di un commento, il Rina ci ha rimandato al suo sito web, dove dichiara che “la società al momento del fatto risultava in possesso di certificazione SA 8000 rilasciata da Rina Services” e che il Rina non aveva quindi alcuna responsabilità nell’incendio.

“Ancora una volta il Rina si sta sottraendo alla sua responsabilità e si rifiuta perfino di concedere alle famiglie della Ali Enterprises i gesti simbolici che chiedono”, dice Deborah Lucchetti di Abiti Puliti, una delle associazioni che hanno presentato l’istanza. “Uno dei motivi per cui il Rina e altre società di auditing continuano a farla franca con questo comportamento è che il loro nome non è noto a cittadini e consumatori potenzialmente indignati, consapevoli del loro potere di consumatori”. Nel frattempo, le imprese che “ingaggiano società come il Rina alzano le spalle perché quello di cui hanno più bisogno è di certificare le fabbriche e non di una società che controlli davvero se le fabbriche sono sicure”.

Una questione d’affari

Nell’India del sud, Kishore è arrivato a una conclusione altrettanto pessimistica. Dopo la fine del suo rapporto di lavoro con il Rina nel 2010, ha aperto uno studio di consulenza legale. Fornisce consulenze sulla gestione del personale a imprese di tutta l’India del sud, e firma ogni email con il suo motto: “Meglio prepararsi e prevenire che riparare e pentirsi!”. Il Sai non ha voluto commentare le accuse di Kishore, ma ha insistito che la sua certificazione è la più idonea a minimizzare “la pressione dei marchi, le frodi e la corruzione che si riscontrano nell’attuale industria degli auditing”. Molti ex superiori di Kishore lavorano ancora nel settore: Kamakrishnan e Ayyasami, per esempio, sono passati al Wrap, un concorrente del Sai creato da un gruppo commerciale statunitense e popolare tra i marchi americani. Il Rina continua a condurre audit per certificazioni SA8000, Wrap e altri protocolli.

Faizall, che aiuta ancora i suoi clienti a ottenere certificati etici, non crede che i marchi pagheranno mai a sufficienza i fornitori per rispettare i presunti requisiti etici di questi standard. Quando gli ho chiesto come valuta il ruolo delle società di auditing, delle ong e dei consulenti che gestiscono il sistema, considerando questi limiti strutturali, la sua risposta è stata secca: “È solo una questione d’affari. Nessuno è qui per fare del bene.”