1

Parliamo di reputazione….

Parliamo di reputazione....

Giovedì 4 febbraio ho “preso un caffè”, chiacchierando di reputazione con Piero Muscari, nel suo format “un caffè che vale”, in collaborazione con 101Caffè.

Qui di seguito, l’audio della trasmissione:

Puoi anche guardarla sul canale Youtube di Italiavale;




Giochi di ruolo online: nuova frontiera della socializzazione in epoca Covid? Intervista a Davide Murmora

Giochi di ruolo online: nuova frontiera della socializzazione in epoca Covid? Intervista a Davide Murmora

Davide Murmora da 20 anni si occupa di comunicazione web e, specificatamente, di posizionamento nei motori di ricerca. Sul suo sito gestisce un blog su Social, Google e loro funzionamento. Lo ho intervistato per creatoridifuturo.it

Web & Social come fuga dalla realtà, specie in epoca Covid. Un mondo (online) sempre più polarizzato e aggressivo, quasi una “valvola di sfogo”. Da utente digitale e da informatico esperto, come legge questo scenario?

L’aggressività sui social è un fenomeno molto noto che, se vogliamo, si è anche acuito nel periodo Covid (poiché abbiamo più tempo libero e dedichiamo maggiore attenzione ai Social). Da un lato rileviamo quello che gli psicologi chiamano “caduta dei freni inibitori” o “caduta dei freni sociali”, diretta conseguenza della aumentata percezione di sicurezza personale dovuta allo schermo “protettivo”. Abbiamo di fronte uno schermo, non una persona reale, questo ci può dare la falsa sensazione che le nostre parole non abbiano conseguenza sugli altri o comunque su persone “vere e reali” quanto noi. I fenomeni che ho citato sono oggetto di studio da parte di psicologi, ma questo non ci impedisce di utilizzare comunque i social e farli utilizzare anche a soggetti minori di età, i quali invece meriterebbero maggiori tutele. La seconda causa dell’aggressività sui social sono proprio i loro algoritmi, che creano due fenomeni ugualmente preoccupanti: la filter bubble ed i post virali. Filter bubble è un termine, noto da tempo agli addetti ai lavori, coniato per la prima volta dall’attivista internet Eli Pariser nel suo libro “The Filter Bubble: What the Internet Is Hiding from You”: in pratica il social network, per fare in modo di aumentare il tempo di connessione da parte degli utenti, finisce per mostrarci soltanto i risultati che ci fa piacere vedere. Ed è inutile mettere mi piace a pagine che la pensano diversamente da noi (ad esempio con diverso orientamento politico) perché, a meno che non ci ricordiamo di navigarle spesso e mettere likes (anche quando non siamo d’accordo) in breve tempo semplicemente spariranno dalla nostra vista. Lo stesso vale per gli amici che leggiamo o che vediamo online. In poche parole Facebook, ma anche Google quando ci mostra i risultati di ricerca, decide per noi cosa dobbiamo vedere. Siamo in una sorta di gabbia, rotta esclusivamente per fare entrare qualche contenuto virale; il che ci porta al secondo punto, i post virali. Quando un post diventa virale? Quando riceve molti like e molti commenti. Cosa succede a quel punto? Facebook (per citare il Social più conosciuto) apre il rubinetto e mostra il post a più persone, e man mano che il post macina likes e commenti ecco che il rubinetto viene sempre più aperto e il post a quel punto diventa virale. Quali post diventano virali? Un tempo bastavano i likes, e quindi ecco i post di gattini, ma ora l’algoritmo è cambiato ed i commenti sono più importanti dei like. Ecco quindi che i post che causano contrasto, indignazione, in poche parole alimentano la rabbia, sono quelli che paradossalmente si diffondono di più. Nei social quindi o restiamo chiusi nel nostro recinto, o ci arrabbiamo: entrambi gli scenari sono inquietanti.

Lei è – tra le altri cose – un progettista di giochi di ruolo, l’ultimo suo prodotto è Crossdoom, un gioco di ruolo di grande giocabilità, molto semplice e adatto anche a utenti non esperti. Quali sono le caratteristiche più innovative di questa Sua proposta, e in generale come si sta evolvendo questo specifico settore?

Il gioco di ruolo è per certi versi esattamente l’antitesi del videogioco. Mentre il videogioco spinge all’isolamento e al gioco solitario o solo al guadagno personale quando si gioca con altri, il gioco di ruolo è vissuto, nella vita reale, intorno a un tavolo, con dei dadi (a volte anche senza) e può essere di diversi generi: fantastico, fantascientifico, investigativo. Nel gioco di ruolo classico, sono presenti generalmente due figure: il game master (detto semplicemente master) e i giocatori. Il master conosce il manuale delle regole e crea la storia che poi i partecipanti giocano, interpretando uno dei personaggi che il manuale mette a disposizione. Con l’esplodere dell’epidemia Covid e il distanziamento sociale imposto dall’emergenza, giocare intorno ad un tavolo è diventato impossibile ed allora molti giocatori hanno scoperto il gioco di ruolo nella sua versione online, sfruttando diverse piattaforme (peraltro già presenti anche in precedenza) come Roll20, Discord, e vari altri sistemi di multi-chat, e le giocate di ruolo sono aumentate anziché ridursi. Il gioco di ruolo online permette di giocare con persone anche molto lontane (ho giocato poche sere fa con un amico di Roma) e questo fa si che i gruppi di gioco si mescolino e che tutti ne abbiano guadagno dal punto di vista anche emotivo, perché più si gioca con persone differenti più la nostra abilità come giocatori o Game master ne trae guadagno, come anche viene soddisfatto il nostro legittimo e naturale desiderio di socializzazione.

Il gaming è parte della proposta (o bombardamento, direbbero i più pessimisti) transmediale al quali è sottoposto il cittadino nel XXI secolo: anche in questo caso esiste un rischio di “fuga dalla realtà” e di non “effetto rifugio” per non dover confrontare le criticità che ci assillano in epoca pandemica?

Come detto sopra, i videogiochi tendono a isolare, anche quando richiedono una modalità cooperativa, perché in quasi nessun gioco è importante la vittoria della squadra fine a se stessa (come ad esempio è invece nel gioco di ruolo), ma sempre come fine per ottenere guadagni personali. Detto questo esistono anche dei videogiochi che sono dei veri e propri giochi di ruolo in solitaria, come ad esempio Cyberpunk. Nonostante l’immersività, le immagini definite e il 3D però non vedo ancora un pericolo di fuga della realtà, sino a che si rispettano le età consigliati per l’utilizzo dei singoli giochi. Vero è che quando un gioco è vietato ai minori di 18 anni non lo si dovrebbe acquistare per un bambino, anche se lo hanno tutti i suoi compagni; stessa cosa dicasi per i videogiochi vietati ai minori di 14 o 12 anni. Queste regole – che non sono elaborate a caso da chi ha progettato il gioco, ma seguono precise indicazioni degli esperti – troppo spesso non vengono assolutamente rispettate dai genitori che, diciamo chiaramente, mettono in pericolo i propri figli, e anche lo stesso mercato dei videogiochi. Un esempio: basta ascoltare su Youtube alcuni tutorial di Grand Theft Auto V fatti da voci talmente giovani che non possono appartenere ad un maggiorenne, eppure non soltanto hanno giocato al videogioco che è rigorosamente vietato ai minori di 18 anni, ma ci hanno giocato talmente tanto da poterne fare un tutorial su Youtube!

Un eccezionale contributo de La Civiltà Cattolica pubblicato pochi giorni fa mette in allarme sui rischi della mancanza di controllo sulle Intelligenze Artificiali. Cosa ne pensa?

Non penso si sia già arrivati al punto da doversi preoccupare del rischio di singolarità con le Intelligenze Artificiali; siamo però sicuramente già al punto di doverci preoccupare di tutelare i minori da Social network pericolosi per la stabilità mentale ed emotiva di bambini e ragazzi, che utilizzano algoritmi creati appositamente per dare dipendenza a una mente giovane ed inesperta. Uno su tutti: Tik tok, al centro di enormi polemiche deflagrate proprio in questi giorni dopo la morte di una ragazzina siciliana che aveva ingaggiato una challenge su quel Social. Dopo avere visto il documentario su Netflix “The Social Dilemma”, viene da chiedersi come mai il governo non abbia ancora proibito il Social network tik tok ai minori di 18 anni. Un’emergenza crescente, che ci richiama tutti a maggiore responsabilità, e che temo non potrà che andare a crescere.




TRIVIOQUADRIVIO: “È ORA DI LEGALIZZARE LA COMPLESSITÀ”

TRIVIOQUADRIVIO: “È ORA DI LEGALIZZARE LA COMPLESSITÀ”

Intervista di Giorgia Grandoni a Leonardo Previ – Presidente di Trivioquadrivio, Sustainability Manager di Starching – sulla campagna LEGALISE COMPLEXITY e sul il podcast gratuito di 10 episodi nato per raccontare i vantaggi della complessità legalizzata.

Come nasce questo affascinante progetto sulla legalizzazione della complessità?

Come spesso accade in questi casi, da un’istanza, un’urgenza: siamo esausti di una classe dirigente che rifiuta questa caratteristica così diffusa nell’epoca nella quale viviamo che è la complessità. Da una parte, c’è la consapevolezza, da parte nostra, che la complessità è diffusa, onnipresente e dunque impossibile da schivare, e dall’altra parte c’è la constatazione, la presa d’atto, che chi ha dei ruoli di responsabilità agisce molto frequentemente come se la complessità, invece, non fosse parte dell’equazione. Come se al posto della complessità ci fosse quella che appunto noi chiamiamo “complicazione”. Il podcast nasce quindi dall’idea di rendere il più evidente possibile che quando si affrontano difficoltà con gli strumenti non adatti si è destinati a continuare a convivere con quella stessa difficoltà. L’esempio che facciamo spesso è proprio questo. Noi frequentiamo molte imprese, frequentiamo decisori, leader, dirigenti davvero bravi con la propria cassetta degli attrezzi a fronteggiare problemi complicati, magari problemi anche particolarmente articolati. Ma quando si trovano a dover fronteggiare un sistema complesso ecco che le loro chiavi inglesi girano a vuoto. Di qui è nata l’idea di costruire un percorso in 10 episodi che raccontasse le basi teoriche di questo movimento che noi chiamiamo di diffusa “criminalizzazione della complessità” e che poi desse anche qualche spunto per capire come legalizzare la complessità, come tornare a non averne paura. Per molto tempo noi umani non abbiamo affatto avuto paura della complessità, che è stata a lungo parte dalla nostra cultura. Ecco, noi nel podcast suggeriamo di adottare alcuni stratagemmi, alcuni atteggiamenti che ci possono aiutare in primo luogo a non averne paura, perché la paura non è mai una buona compagna di strada quando si tratta di assumere decisioni delicate; e in secondo luogo una volta liberatici dalla paura, capire come possiamo fare per ottenere il risultato che noi riteniamo più ambito: abitare la complessità.

Chi sono i “criminalizzatori della complessità”?

Tutti coloro che a partire dal secondo dopoguerra hanno, a volte consapevolmente, a volte inconsapevolmente, adottato strumenti adatti a tentare di gestire un mondo complicato. Gli strumenti dell’analisi, gli strumenti della statistica, gli strumenti della valutazione quantitativa. Nella categoria dei decisori noi inseriamo dirigenti d’azienda, ma anche i dirigenti della pubblica amministrazione, i dirigenti scolastici, e tutti coloro che dentro ambiti organizzativi molto più intimi e persino privati come le famiglie, si comportano assumendo decisioni come se tutto ciò che non è quantificabile, non avesse dignità di esistenza. Questi sono i criminalizzatori della complessità perché da una parte, hanno imparato e dall’altra hanno insegnato – quindi sono stati in qualche modo loro stesse le prime vittime di un sistema educativo che ha messo “fuori legge” la complessità – un’attitudine molto diffusa, molto pervicace che ha cercato di negare la presenza della complessità nei sistemi organizzativi. I principali responsabili di questa criminalizzazione della complessità sono proprio i decisori. Coloro che maneggiano il potere, e che possono stabilire per esempio quali criteri adottare per misurare la validità di una prestazione professionale o di una prestazione formativa o di un sistema di apprendimento. Coloro che possono decidere da che parte occorre guardare per stabilire se si è fatto o meno un buon lavoro. Questi sono i criminalizzatori della complessità. Nel podcast li chiamiamo, semplificando, burocrati oppure luogo-comunisti.

Cosa si intende per “decomplessificazione”?

È una parola che abbiamo rubato a un antropologo, Francesco Remotti, e che identifica un aspetto molto molto importante di legalize complexity. Remotti dice: “la complessità è dappertutto non la possiamo scartare, ma a volte è talmente elevata che dobbiamo cercare con delicatezza e con cognizione di causa di semplificarla”. I processi di decomplessificazione sono quelli a cui noi stiamo assistendo in questi mesi di fronte all’emergenza sanitaria. Questa è un’emergenza ampia che chiama in causa campi molto distanti tra di loro. È una emergenza che ci irretisce tutti, che ingarbuglia lo scenario. Che collega le decisioni politiche collegate a quelle economiche e queste ultime a quelle sanitarie. Ecco, tutta questa serie di intrighi, dice Remotti, quando si ingarbugliano troppo, occorre vengano un po’ semplificati. Remotti usa un’immagine che ci ha ispirato e che usiamo molto spesso: decomplessificare significa passare dagli intrighi agli intrecci. Mentre gli intrighi sono territori nei quali non si capisce bene che cosa succede, e si espongono facilmente al caos, gli intrecci sono come i tappeti: ci offrono un pavimento più solido sul quale noi possiamo camminare per cercare di fronteggiare le situazioni complesse.

Proprio in relazione a quello che mi ha appena detto volevo proporle una riflessione: nell’ultimo libro del professor Luca Poma, “Apri la tua mente”, la crisi viene descritta come “Un repentino e inaspettato aumento del grado di entropia in un dato sistema”. Tanto più aumenta l’entropia, tanto più cresce il caos, in un sistema che se paragonato a un’organizzazione complessa corrisponde ad un numero di informazioni impossibili da processare, e quindi a uno stato di crisi. Allo stesso modo, la totale assenza di entropia in un sistema, e quindi di complessità, potrebbe essere paragonata a una “morte” dell’organizzazione dove non esistono azioni, intenzioni, movimenti, comunicazione. È quindi quanto mai opportuno oggi per chi si occupa di crisi e di comunicazione imparare a “leggere la complessità” garantendo in questo modo un grado di entropia per quanto possibile basso e conseguentemente una maggiore accessibilità alle informazioni disponibili e una valutazione di possibili scenari. Lei cosa ne pensa?

Credo che, come abbiamo raccontato nel podcast, attraverso strumenti nuovi ai quali magari si può accedere aprendo appunto la propria mente, o se volessimo utilizzare un’immagine metaforica, attraverso l’utilizzo di occhiali diversi rispetto a quelli a cui siamo abituati, possiamo senz’altro capire meglio quali sono le informazioni di cui in quel preciso momento abbiamo bisogno. Nel podcast facciamo spesso riferimento ai pericoli della comunicazione e al valore delle relazioni. Questo è naturalmente un vecchio argomento dei migliori tra i relatori pubblici: c’è una insistita sopravalutazione del valore della comunicazione e c’è una diffusa sottovalutazione del valore delle relazioni. La complessità è di fatto un sistema di relazioni, un sistema estremamente articolato nel quale è piuttosto difficile riconoscere legami diretti, un sistema per lo più dominato da legami indiretti. Chi è capace di riconoscere il valore delle relazioni si può districare con maggiore maestria all’interno di questo sistema.

Oggi ci troviamo di fronte all’evidenza che con le sole capacità di analisi di computazione è impossibile decifrare e comprendere la complessa realtà che ci circonda. Le volevo chiedere, appunto, quali sono invece le abilità umane che occorre sviluppare secondo lei?

Legalize complexity insiste su una nuova parola che abbiamo inventato qualche tempo fa e di cui ci serviamo spesso che fa riferimento proprio a 3 capacità salienti: la parola è ASANABI, una parola composta da un acronimo delle iniziali di ascoltare, anticipare, abilitare. Queste sono a nostro avviso le 3 capacità chiave di chi intende abitare la complessità. La capacità di ascolto, un ascolto molto particolare quello che vuole ascoltare l’altro con l’obiettivo di cambiare il proprio punto di vista. Anticipare, come la capacità di riuscire, grazie alle abilità acquisite attraverso l’ascolto, ad anticipare le istanze dei nostri interlocutori e riconoscerle ancor prima che queste vengano notificate: quali sono i territori in cui i nostri interlocutori potrebbero venirsi a trovare? E infine abilitare, abilitare forse è l’elemento più importante di legalize complexity. Io credo, sono convinto da lungo tempo che i decisori debbano trasformarsi in abilitatori. La capacità principale del leader complesso è la capacità di abilitare le risorse di cui sono portatori tutti i collaboratori che circondano il leader, ma anche abilitare tutte le risorse che il territorio della complessità nel quale il leader si muove, offre. Ecco questo tema, dell’ascolto, dell’anticipo e dell’abilitazione è il nostro corrispettivo della “aprire la mente”, credo quindi che – tornando a quanto abbiamo accennato prima – il Professor Poma potrebbe ritrovarsi in questo in questo acronimo, in questo ASANABI, perché credo ci siano molte cose in comune con i discorsi che lui fa sulla entropia, sui sistemi, sull’ordine e sul caos.

Il nono episodio del podcast si concentra sul tema della misurazione e già nei primi minuti viene proposta un’interessante riflessione sulla differenza tra le dimensioni di impatto e di risultato. Le chiedo innanzitutto di spiegare brevemente ai lettori la differenza tra questi due indicatori, e poi vorrei chiederle: perché secondo lei essi vengono troppo spesso sovrapposti, perché è invece importante osservare con attenzione l’esatta dimensione dell’impatto?

La nostra cultura è innamorata dei risultati e noi abbiamo un sistema premiante nelle organizzazioni d’impresa che è ancorato, sostanzialmente, agli obiettivi. Il nome di questo sistema è Management by objectives. Gestiamo a partire dagli obiettivi. L’impatto è un concetto che eccede il risultato ottenuto. Ogni azione umana genera un impatto che è destinato ad andare oltre i risultati che immediatamente si possono cogliere. La figurazione, che più ci aiuta comprenderlo meglio, è proprio il sasso lanciato nello stagno: io ho l’obiettivo di lanciare il sasso, raggiungo lo stagno ma non mi accorgo, se mi concentro soltanto sui miei raggiungimenti immediati, che il mio gesto genera molti cerchi nell’acqua. Quei cerchi sono gli impatti generati dai miei gesti, a volte gli impatti generati dalle mie intenzioni e questi cerchi finiscono per raggiungere e bagnare delle sponde che io non mi accorgo nemmeno esistano, perché magari mi sono già voltato dopo avere lanciato il mio sasso, e mi sono disposto ad altri ottenimenti e cercherò di raggiungere nuovi obiettivi. Noi abbiamo ottimi strumenti per misurare i risultati, ma pessimi strumenti per misurare gli impatti. Per questo dobbiamo dotarci di un’attrezzatura che ci consente di valorizzare la complessità delle intenzioni umane e leggere il più possibile, valutare e dov’è possibile misurare, gli impatti che l’azione umana genera.

Secondo lei quali azioni quindi occorrono per imparare ad abitare meglio la complessità?

Noi abbiamo offerto un decalogo,10 attività, e chi abbia voglia di divertirsi a riconoscere 10 passi per abitare la complessità vi trova molti riferimenti. Ecco, io direi che se dovessi provare a dare un’idea di questa articolata serie di suggerimenti che noi diamo all’interno dei podcast, insisterei su un tema, forse il tema più semplice, ma ahimè il tema più abusato, che è il tema delle conversazioni. Abitare la complessità significa diventare maestri di conversazione, è ritornare ad essere capace di conversare con l’eleganza, con disponibilità, con il tempismo necessario ad offrire ai propri interlocutori l’opportunità di divenire contributori, di offrire un contributo significativo alla conversazione stessa. Noi abbiamo purtroppo disimparato a conversare. C’era un vecchio libro di Norbert Elias che raccontava bene il valore delle conversazioni nelle società di corte. Ecco, rispetto ai cortigiani, noi siamo diventati molto più volgari, abbiamo compromesso le capacità di ascolto e ci siamo scordati che comunicare non vuol dire necessariamente conversare. Per conversare ci sono alcune caratteristiche che appaiono difficili da frequentare, a volte contraddittorie: un limitato numero di persone, una disponibilità all’ascolto ampia e naturalmente la condivisione di un sistema di codici di riferimento. Quindi conversare significa comprendere quali sono i vocabolari a cui si riferiscono i nostri interlocutori ed essere capaci di abitarli, di tradurli, di frequentarli e quando questo non è possibile di sospendere la valutazione e sospendere il giudizio. Troppo di frequente noi finiamo per disabitare la complessità perché frettolosamente etichettiamo le valutazioni degli altri come irricevibili mentre dovremmo fare un po’ più attenzione e cercare di metterci in conversazione traducendo tutti i codici che non ci sono familiari.

Nel podcast si parla della figura del “impactholder” che in questo nuovo paradigma prende il posto dello “stakeholder”. Questa sostituzione “implica il principio che un progetto è ritenuto buono non soltanto se negozia con coloro che detengono un interesse riconosciuto rispetto agli esiti attesi del progetto stesso, diviene buono il solo progetto proposto da un progettista capace di conversare con tutti coloro che lo sappiano o meno e lo vogliano o meno, stanno per essere investiti dall’onda lunga del progetto”. Questa distinzione è totalmente assimilabile alle nuove e moderne mappature degli stakeholder – sulle quali ha lavorato il team di ricerca del prof. Poma già nel 2008 – in cui partendo dall’assunto in cui “tutti sono stakeholder” non esistono pubblici “influenti” ma solo un diverso grado di interconnessione con l’organizzazione (e tra di loro). Questa riflessione coerentemente con l’applicazione della logica ad insiemi sfumati (che caratterizza i diversi pubblici, anche quelli di minore prossimità) rende l’organizzazione complessa responsabile per tutti loro e consapevole dell’impatto che ogni azione può avere nell’ecosistema. Cosa ne pensa?

Penso che questa concezione del significato del termine stakeholder sia molto vicina alla nostra idea di impactholder. La ragione per cui abbiamo coniato questo termine è che dentro il termine stakeholder lavora una idea di attività, di responsabilità, di immediatezza, to hold and stake, che evoca una certa consapevolezza. Nel definire qualcuno stakeholder, noi stiamo attribuendo a questo qualcuno la capacità di to hold, di sostenere, di possedere, di gestire in qualche modo un interesse. La concezione di stakeholder che lei ha evocato è più ampia, quindi per me è decisamente più interessante. Quello che ci piaceva del concetto di impactholder è che spesso esistono stakeholder privi della consapevolezza dell’impatto che stanno per subire e dunque una buona misurazione di impatto deve raggiungere tutti quegli stakeholder che stanno per essere raggiunti da un impatto. Questo è un punto molto importante. È irrilevante come li chiamiamo. È importante che li coinvolgiamo. Quindi direi che c’è una convergenza molto ampia tra il concetto di stakeholder che lei offre e il nostro concetto di impact holder.

C’è qualcosa che le sarebbe piaciuto raccontarmi che non le ho domandato?

Questi sono 10 episodi da una ventina di minuti ciascuno, e nello scrivere i testi che ho successivamente registrato, con molto rammarico ho dovuto escludere molti temi. Oggi un aspetto che mi piacerebbe ricordare è che per abitare la complessità, come racconto nell’ultimo episodio, dobbiamo recuperare due valori molto importanti che credo siano rilevanti anche nelle relazioni pubbliche. Il primo elemento è la capacità di divertirsi: e con questo parlo di scanzonatura, dobbiamo tornare ad essere scanzonati, a non prenderci troppo sul serio; il che non significa affatto non fare le cose come si deve, bisogna fare le cose per bene ma con scanzonatura. Il secondo elemento, che sembra contraddittorio forse, rispetto chi si occupa di relazioni pubbliche e che spesso sembra votato ad un certo grado di visibilità, è quello della discrezione. Dobbiamo imparare a risultare più discreti perché al contrario abitare la complessità diventerebbe impossibile, verremo sopraffatti da essa. Al contrario, grazie a una personale discrezione potremmo cercare di abitarla. Quindi: divertiti e discreti. Ma di questo parliamo una prossima una volta…




Che cos’e il Digital PR? La definizione…

John Mueller, Google, ha appena scosso il settore, dichiarando il Digital PR più importante della SEO tecnica (in alcuni casi):

La comunità Twitter a questo momento sta discutendo su che cos’è il Digital PR, ho visto una piccola manciata di persone scorrettamente dichiarare che il Digital PR è falso, che non favorisce le prestazioni, che non funziona per la SEO, e che è soltanto un modo glorificato per dire “link building” – ma si sbagliano! Ho visto di prima mano la bellezza segreta del Digital PR e il suo impatto se fatto bene! E allora ho pensato di condividerla con voi…

Parlando da persona che gestisce la più grande squadra Digital PR nel mondo ho pensato di aiutare a definirlo una volta per tutti, definendo anche il suo rapporto con la SEO e la differenza con il PR tradizionale.

Allora, che cos’è il Digital PR?

Il Digital PR è una tattica promozionale usato dai marketer per aumentare la presenza online del marchio. È una strategia misurabile e tangibile per favorire la brand awareness, il traffico verso un sito Web, i link che possono incentivare classifiche di ricerca organiche, le vendite, il seguito sui social e il coinvolgimento.

Nonostante suo “origine” nella SEO (ritorniamo su questo di sotto), il Digital PR NON È link building, e in realtà ha un uso molto più ampio che solamente per la SEO. E non alzare gli occhi al cielo, pensando che stia dicendo cazzate. Leggete un po’ e vedrete la bellezza…

Il Digital PR non fa parte della SEO. Fa parte del marketing. I content marketer usano il Digital PR per far vedere il loro contenuto da milioni di persone, i marketer usano il Digital PR per mostrare i loro prodotti a un pubblico diretto, i fondatori usano il Digital PR per creare hype intorno al lancio ed essere posizionati come esperti, creatori video usano il Digital PR per favorire le visualizzazioni e costruire autorevolezza.

È una tattica ampiamente utilizzata, che richiede l’applicazione dei principi del PR tradizionale alla promozione di contenuto/storie/marchi/prodotti online. Viene usato come un modo di stare al passo e distinguersi.

Relazioni pubbliche vengono tradizionalmente definite come “un processo di comunicazione strategica che costruisce rapporti tra le organizzazioni e i loro pubblici.”

Quindi, come costruiamo i rapporti ora? Facciamo sapere al pubblico chi siamo, ci facciamo piacere da loro, gli facciamo fidarsi di noi, gli facciamo connettersi a noi attraverso simili interessi. E poi ci raccomandano, vero? Ebbene, è lo stesso qui nelle relazioni pubbliche digitali.

Carrie Rose, fondatrice di Rise at Seven e Digital PR Examples dice: “Digital PR si tratta di costruire la presenza, la fiducia e l’autorevolezza. Non solo per Google ma per gli utenti, che sono online. Crei contenuti e li distribuisci online in modo che gli utenti sanno chi sei, vanno d’accordo con quello che dici, credano che tu abbia ragione, ti raccomandano e comprano da te.

Digital PR non è il link building. Il link building è una tattica SEO. Ed è importante conoscere la differenza tra loro. Tuttavia, il Digital PR può avere risultati e impatti ALLUCINANTI quando si lavora con la SEO. Perché il Digital PR può anche costruire link. Ecco come…

Come il Digital PR può funzionare per la SEO

Fatto bene, il Digital PR può farti trovare link. Sto parlando di LINK autorevolissimi, impegnatissimi! Link che vengono veramente cliccati, che spingono traffico verso un pezzo di contenuto su un sito, che guidano condivisioni ed coinvolgimento per un marchio e favoriscono ricerche. E poi quei link possono anche favorire le vendite dirette. Si, SUL SERIO! Quei link sono il risultato di contenuto, prodotti, un marchio fantastici. Contenuto rilevante, coinvolgente, utile, intraprendente o diverso.

Quei link e i contenuti rilevanti possono avere un enorme impatto su classifiche organiche. BONUS! Google riconosce i link come un segnale di fiducia e autorevolezza su un soggetto. Più ci sono link che rimandano al tuo sito da siti autorevoli che parlano di quel soggetto, più Google si fiderà di te. È quindi una questione di qualità e quantità. Non uno o l’altro, ma TUTT’E DUE!

I link che il Digital PR ottiene, insieme a una solida SEO tecnica e al contenuto del sito, può aiutare ad aumentare la visibilità della ricerca per frasi chiave non di marca. La ricerca è il canale che ottiene il traffico e l’aumento delle vendite, il Digital PR è uno degli elementi che contribuisce a questo.

Tuttavia, quei link non favoriscono classifiche organiche drasticamente più alte se sono di poca pertinenza, se il sito ha dei problemi tecnici, se il contenuto è scadente. Se possono funzionare assieme, è l’ingrediente perfetto.

Il Digital PR e la SEO funzionando insieme è una bellissima combinazione di avere un ottimo sito e fare credere a tutti – Google compreso – che è un ottimo sito. Se tutti credono che hai un marchio online eccezionale, ma il tuo sito dice tutta un’altra storia (un sito lento, con contenuto di merda, UX scadente, ecc.) Google lo sa che stai ingannando il pubblico e non ti ricompensa.

Il Digital PR non è link building

Link building è sempre stato un modo di ingannare gli altri, inizialmente con Google e poi gli utenti. Ma Google ora è molto più avanzato.

Link building viene usato per fare credere a Google che questo è un sito da cui fidarsi. Ma non è un modo di DIMOSTRARE agli utenti che è un sito da cui fidarsi. Quell’infografica che hai creato sta soltanto costruendo link, non amore per il marchio, non la fiducia degli utenti, non consapevolezza. Solo una tattica per favorire le classifiche organiche (e se la vedi così, stai sprecando tempo).

Dove il Digital PR è iniziato

Il Digital PR esiste da anni e anni, ma non nella forma che vedete oggi. Io ho incominciato a lavorare nella SEO nel 2013 quando le squadre Digital PR avevano appena iniziato ad apparire in agenzie come Branded3 e Epiphany che al tempo erano all’avanguardia.

Essenzialmente l’aggiornamento Google Penguin nel 2012 era l’inizio di questo movimento, cambiando il modo in cui si costruivano link da un sito a un altro in modo di favorire le classifiche organiche più alte. Prima, i link venivano comprati in massa, pagati dalla SEO. Spesso furono irrilevanti, mancavano di coinvolgimento, e dietro di loro c’era poca strategia tranne favorire “LINK JUICE”. Creato per ingannare Google.

Tuttavia, l’aggiornamento Penguin è arrivato di colpo nel 2012, penalizzando i marchi per tutto il web. Migliaia (se non milioni) di soldi sono stati sprecati. Abbiamo rinnegato i link e abbiamo rincominciato da capo. E da questo furono nate le squadre Digital PR.

Una squadra “Digital PR” all’epoca creava contenuto e storie che guadagnavano link invece di dover pagare. Essenzialmente abbiamo fatto tutto quello che potevamo per ottenere un link senza pagare. Questo includeva mandando blogger agli eventi (in cambio di un link), gestire sondaggi per ottenere storie di dati da mandare alla stampa (in cambio di un link) e infografica su infografica da mandare ai siti come pezzi editoriali (in cambio di un link). La maggior parte di questo contenuto meritava PR. Prendere l’approccio PR per ottenere link per la SEO, storie che i giornalisti naturalmente avrebbero trattavano perché erano eccezionale, intraprendente or semplicemente diverse. Abbiamo persino trovato che era più facile ottenere link di più alta qualità, con più autorevolezza, che aiutò a favorire le classifiche ancora di più. Tuttavia, eravamo ancora link builder. Stavamo ancora ingannando Google. Solo che odiavamo ammetterlo!

“Digital PR” divenne più creativo nel corso degli anni. Passò dalle infografiche alle mappe, ai strumenti interattivi, i quiz, micro-siti e altro ancora. Ma l’obiettivo è sempre stato lo stesso – favorire classifiche organiche (SEO) più alte. Tuttavia, una cosa notevole è che quasi sempre il contenuto aveva pochissimo a che fare col marchio ed era solo una tattica per ottenere link.

Ho visto contenuto riguardando morte di celebrità per ottenere link a un sito Web di trucco, infografiche su Netflix per marchi dei giochi dell’azzardo, delle classifiche dei marchi di birra più popolari del mondo per un servizio di installazione di finestre. La pertinenza del contenuto è stato discutibile, ma la verità è che ai SEO non importava se i link venivano cliccato o no. Non gli importava neanche se l’articolo su cui il link è atterrato fu letto, o se ha spinto il marchio o la ricerca, o se ha raggiunto il pubblico giusto. Ho posto la domanda me stesso e moltissime persone hanno confessato che non gli importa.

Devo ammettere che anch’io sono colpevole di averlo fatto. Una volta ho pagato per link (nel 2013 quando i tempi erano duri e era normale fare così) ma ho insegnato alla mia intera squadra come prima creiamo un rapporto tra un marchio e il suo pubblico, a cui la gente vuole bene e di cui si fidano, e poi come usiamo SEO, contenuto di alta qualità e un sito intraprendente per dimostrarlo a Google.

Adesso dove siamo?

Nei ultimi due anni l’industria fiorisce, con una notevole spinta e domanda nei ultimi 12 mesi in particolare. E questo LO AMO!

Ci sono agenzie e persone che continuano a sbagliare nel Digital PR e come funziona per la ricerca. La cosa difficile è che Google non penalizza più i marchi. Lo ignorano e basta. È uno spreco di soldi e di tempo – fino a quando non lo fai bene.

Attualmente lavoro con 65 clienti per tutto il mondo, favorendo le classifiche organiche, traffico e reddito, usando content marketing come un solo modo di farlo. Incomincio a costruire consapevolezza del marchio, contenuto eccezionale, dati che sono unici o pieni di risorse, e poi uso il Digital PR per convincere tutti a crederci, sia gli utenti che Google. Tutto questo a fianco della squadra SEO spingendo il sito ad essere il migliore risultato nei SERP, il team ti progettazione rendendo i siti veloci, usabili e piacevoli con cui interagire, creativi fare sembrare affidabile il sito marchio, sembrare diverso, e costruire l’amore marchio.

Qui c’è un perfetto esempio di come funziona…un anno dopo e la visibilità di questo marchio è più alto che mai.

Non so se l’hai notato, ma le agenzie creative hanno incominciate a vendere il Digital PR. Saltando dentro quello che è sempre stato il NOSTRO spazio. Perché riconoscono il suo impatto su altre parti FUORI dalla SEO. Sebbene tante agenzie creative si stanno dilettando nella SEO, fanno ancora fatica a realizzare quel legame. Voi avete ancora tempo. Voi avete il vantaggio di essere esperti SEO pur essendo capaci di promuovere i contenuti a milioni di persone.

Hai mai sentito la citazione sulla percezione?

“Se cambi il tuo modo di guardare le cose, il modo di guardare le cose cambia.”

Forse è l’ora di cambiare il modo in cui guardi il Digital PR, perché quando io l’ho fatto, ha cambiato il mio mondo. Letteralmente!

Se vuoi vedere esempi di nostro lavoro leggi qua


Carrie Rose
Co-fondatrice e direttore creativo di Rise at Seven. Carrie è una pluripremiata content marketer.




Cybersecurity alla sfida cognitivista, ecco i bias che ci rendono “insicuri digitali”

Cybersecurity alla sfida cognitivista, ecco i bias che ci rendono “insicuri digitali”

Percezione del rischio e attitudine mentale giocano un ruolo centrale nella capacità di proteggere i nostri dati personali. Portandoci spesso a sottostimare l’impatto di eventi avversi. Analizziamo le dinamiche che si celano dietro le quinte dei processi decisionali. E come superare gli ostacoli

La cybersecurity passa anche da una maggiore consapevolezza dei nostri processi decisionali. Per questo serve non solo una forte spinta strategica sull’alfabetizzazione digitale, ma anche una svolta etica nella fase di progettazione delle piattaforme online.

Un esempio su tutti, per capire di cosa stiamo parlando: tutti noi ricordiamo che perfino la password dell’account Twitter di Donald Trump – prima che questo venisse sospeso in seguito ai fatti di Washington – era finita su tutti i giornali: maga2020. L’aveva individuata l’hacker “etico” Victor Gevers in soli cinque tentativi.

Partendo dallo slogan che ha accompagnato per anni il presidente, “Make America Great Again (usato spesso, appunto, con l’acronimo MAGA), il ricercatore olandese – fondatore della organizzazione non profit GDI Foundation – ha utilizzato questa violazione come simbolo delle vulnerabilità della rete, al fine di accrescere la consapevolezza degli utenti sui rischi di un uso non attento ai temi di sicurezza. Possiamo ridere del Presidente e del suo staff, ma ad essere sinceri la maggior parte di noi non è tanto più attenta: tra le password più usate in rete troviamo la stringa di numeri “123456”, seguita da “123456789” e, subito dopo, l’immancabile “qwerty”. Inutile sottolineare che sono anche le più facili da hackerare.

Per giunta usiamo le stesse password per diversi account e dispositivi, anche quando li condividiamo con amici e parenti, con un comportamento estremamente rischioso; è noto quanto le persone utilizzino password identiche per più domini (dal 40% fino ad un 80-90% in casi di parziale riutilizzo), per cui, nell’uso promiscuo di applicazioni apparentemente innocue – come Netflix o altri account di video streaming tra amici – c’è una implicita condivisione di dati sensibili, perché potenzialmente si stanno condividendo le medesime password utilizzate per account più impegnativi (come ad esempio gli accessi bancari).

Gli esempi di tutti quei piccoli incauti gesti che compiamo senza considerarli particolarmente insicuri, coinvolgono attività che sono entrate a pieno titolo nelle nostre abitudini e facciamo fatica a immaginare possano essere rischiose: dal lasciare che Alexa ci aiuti nelle attività domestiche, senza disabilitare la registrazione delle nostra conversazioni, fino all’invio di foto private, foto di bambini o foto intime, tramite Whatsapp e Facebook. Potremmo continuare a lungo elencando piccoli comportamenti che mettiamo in atto senza pensare troppo alle conseguenze in termini di cybersecurity e viene naturale chiedersi quale sia effettivamente la base delle nostre scelte in termini di sicurezza digitale.

Percezione del rischio e bias cognitivi

Un discorso noto agli addetti ai lavori, che si fa sempre più urgente ed importante a livello globale anche per i non esperti, oggi che – per via dell’emergenza sanitaria – all’intera società è richiesto di intensificare l’uso del digitale tra smart workingDad e digitalizzazione della PA.

Il rischio è definibile come la probabilità di subire un fatto negativo a fronte di variabili date, per cui nella nostra mente si traduce in un rapporto costi/benefici strettamente correlato al modo in cui percepiamo ed analizziamo la situazione pericolosa. Già nel 1738 Bernoulli aveva teorizzato l’approccio psicofisico al processo decisionale, sottolineando l’avversità al rischio: la maggioranza delle persone preferisce una sicurezza minore a un azzardo incerto.

L’avversità o la propensione al rischio, intesi come la possibilità di rifiutare o accettare un rischio futuro contro una sicurezza immediata, sono correlate essenzialmente non già ai risultati attesi, ma all’attesa del valore soggettivo dei risultati che si prevedono.

Il principio fondamentale sotteso al processo attribuzionale, prevede erroneamente che l’uomo sia in grado di padroneggiare la realtà, mosso da un bisogno fondamentale di prevedere il futuro controllare gli eventi. Abbiamo bisogno di risposte confortanti anche nel confrontarci con la casualità, e tendiamo ad  attribuire un significato a una struttura da noi percepita, specialmente quando il significato può essere confortante e ridurre l’instabilità dell’ignoto. Ad esempio, la familiarità con una persona ci farà percepire le nostra interazioni digitali più sicure di quanto non lo siano: scambieremo dati e foto tramite whatsapp o email senza concepire il mio comportamento come pericoloso. Allo stesso modo, gli ambienti dotati di determinate caratteristiche saranno correlati ad una elevata percezione di sicurezza e saranno navigati senza troppe preoccupazioni.

In questo caso, intervengono le quattro dimensioni fondamentali connesse alla sicurezza in ambienti digitali, su cui convergono la maggior parte degli studiosi:

  • riservatezza
  • integrità delle informazioni scambiate
  • disponibilità dei contenuti ricercati
  • non-repudiation (non sconfessione) delle transazioni avvenute (soprattutto per i sistemi che prevedono pagamenti).

La teoria del doppio processo

La realtà è complessa, i soggetti sono molto poco razionali e gli esiti dei processi decisionali rispondono più alla necessità di sintesi e semplificazione che non da analisi causali e razionali. Ciascuno di noi ha una sua personale attribuzione di pericolo alle situazioni a prescindere dalla loro reale ed oggettiva rischiosità: le persone associano rischi differenti ad attività che essenzialmente hanno uguali probabilità di produrre conseguenze negative. Da questo punto di vista il decision making essenzialmente si concentra sul concetto di percezione, che prescinde dal rischio oggettivo ma si basa su giudizi e valutazioni che ne danno i soggetti.

Per comprendere i pregiudizi che guidano il nostro comportamento nell’analisi di rischio, è utile ricondurre il pensiero umano in una struttura, chiamata “teoria del doppio processo” che divide la cognizione umana in due modalità: una implicita, sintetica e veloce, che è anche quella più utilizzata nonostante ci faccia incorrere in errori, i bias cognitivi; un’altra esplicita, lenta e sistematica, che sopraggiunge quando siamo disposti ad investire più energie.

Un dato ormai consolidato in letteratura è la discrepanza tra la percezione soggettiva del rischio e la sua valutazione oggettiva. Il sistema di pensiero intuitivo che agisce in modo preminente, seppur implicito, nel creare le nostre valutazioni coscienti, coinvolge le reazioni emotive che associamo a diversi stimoli. Per quanto incidano fattori individuali, ad oggi sappiamo che è possibile focalizzare la risposta ad una situazione di rischio principalmente attorno alla percezione di gravità e probabilità di accadimento di evento.

due criteri di classificazione noti come rischio terrificante e rischio sconosciuto, sono intrinsecamente correlati alla componente affettiva che investe la situazione. Da una parte, quindi abbiamo la percezione di conseguenze gravi, correlata ad una certa attività e dall’altra la possibilità che l’esito non si realizzi, grazie alla capacità di controllare il possibile esito rischioso.

Partendo da questi due fattori ciascuno costruisce implicitamente una personale mappa cognitiva della rischiosità associata ad una determinata attività, che coinvolgerà anche la risposta emotiva connessa ai possibili esiti della situazione. In tal senso, se le attività sono percepite come piacevoli e fonte di benefici, come può ad esempio esserlo condividere foto personali con gli amici attraverso Whatsapp e Messenger, vengono considerate anche poco rischiose o per lo meno la valutazione in termini di costi/benefici è sbilanciata a favore del beneficio correlato alla condivisione, contro un costo che viene percepito come limitato e meno grave, anche in contraddizione con la logica fattuale.

Assunzione di responsabilità e processi decisionali

Nella cybersecurity la comprensione ed il superamento della percezione relativa alla sicurezza, con i relativi bias decisionali, sono aspetti fondamentali, poiché influiscono sull’allocazione delle risorse e sull’analisi delle minacce. Il problema principale è che noi, in qualità di “avari cognitivi”, per prendere le nostre decisioni ci basiamo unicamente su quello che vediamo in modo rapido e tutt’altro che sistematico, senza realmente considerare tutte le informazioni a disposizione: protagoniste del processo sono senza dubbio le euristiche, le scorciatoie cognitive che agiscono a livello inconsapevole, che assumono un peso fondamentale nelle decisioni connesse alla valutazione del rischio, lasciando un ampio margine di influenza alle emozioni correlate alle decisioni.

La componente del rischio spesso non è basata quindi su un dato oggettivo, ma piuttosto sulla percezione soggettiva che ciascuno ha rispetto alla possibilità che un evento negativo si verifichi, ma soprattutto il peso emotivo che attribuisce alle opzioni immaginate.

Un ruolo più importante lo assumono, quindi, le rappresentazioni che ciascuno costruisce, nel tempo ed in virtù di esperienze e relazioni personali, le quali influenzano in maniera determinante i processi decisionali. Così accade che – in assenza di un pericolo imminente e conclamato – le aziende preferiscano non chiamare un esperto di cybersecurity o le persone evitino di aggiornare il costoso antivirus o ancora che non si impegnino a cambiare effettivamente la password con costanza, tutto questo pur di non spendere soldi o tempo hic et nunc.

Senza dubbio il frame e la comunicazione acquistano un rilievo non indifferente nel contesto, se pensiamo che, a parità di probabilità, cambiando la prospettiva del problema – ad esempio invertendo vincite e perdite – si nota una modifica delle risposte (Prospect Theory).

Cybersecurity e effetto framing

L’effetto framing affida un peso rilevante al modo in cui viene contestualizzata la situazione in termini informativi: le parole che scegliamo per proporre un problema inficiano sul modo in cui leggiamo la situazione.

Facciamo un esempio:

  • i dati Coware ci dicono che il 30% dei casi di ransomware include una minaccia di rilascio di dati esfiltrati ed il 22% contiene effettivamente questi dati.
  • i dati Coware ci dicono che il 70% dei casi di ransomware non include minaccia di dati esfiltrati difatti solo il 22% contiene effettivamente questi dati.

L’informazione è esattamente la stessa, ma ad un lettore inesperto nel primo caso appare piuttosto allarmante, nel secondo tutto sommato rassicurante: cambierà totalmente la mia percezione della pericolosità dei ransomware e le relative azioni di difesa che metterò in atto.

In generale il negativo vince sul positivo, nella misura in cui il cervello risponde in fretta anche a minacce puramente simboliche, soprattutto se espresse in maniera emotivamente carica, arrivando ad elaborare in maniera più sistematica le informazioni cattive rispetto a quelle positive.

Oltre a questo, Kahneman ci ha dimostrato che le persone sono più propense a correre il rischio di una grossa perdita differita nel tempo, piuttosto che accettare nell’immediato una perdita reale più piccola, incorrendo così nel bias del presente (o hyperbolic discounting). Le ragioni di questa distorsione sono correlate ad un altro errore molto diffuso, che è la tendenza ad ignorare o sottostimare la possibilità che eventi negativi possano riguardarci in prima persona (bias dell’ottimismo). Questo pregiudizio, secondo la neurologa Tali Sharot, ha una sua funzionalità adattiva: “Research on the optimism bias suggests an important divergence from classic approaches to understanding mind and behaviour. It highlights the possibility that the mind has evolved learning mechanisms to mis-predict future occurrences, as in some cases they lead to better outcomes than do unbiased beliefs”.

Impatti del “bias dell’ottimismo”

Rispetto a credenze imparziali, la tendenza a sovrastimare la possibilità di esiti positivi in futuro, porta a risultati migliori, ed è un comportamento che si è andato consolidando, non solo per il noto processo di minimizzazione delle perdite e massimizzazione dei risultati, ma per una ragione ben più profonda: il nostro sistema cognitivo elabora mappe del futuro tendenzialmente positive, ancorandosi al presente e distorcendo i fatti in modo da non soccombere alla depressione o allo stress. L’illusione ottimistica è quindi evoluzionisticamente necessaria, andandosi a consolidare come processo più frequente nelle valutazioni quotidiane del rischio.

Per quanto alcuni autori arrivino a considerare le illusioni ottimistiche come l’unico gruppo di miscredenze effettivamente adattive, è necessario sottolineare che, in quanto distorsioni cognitive, si tratta sempre e comunque di un processo potenzialmente pericoloso, giacché la sottovalutazione del rischio può ridurre il comportamento precauzionale. Banalmente, se riteniamo improbabile un attacco hacker al nostro sistema informatico, procrastineremo monitoraggi, controlli ed aggiornamenti facendoci trovare vulnerabili nel caso di incursione.

Allo stesso tempo si attiva il pregiudizio egoistico per cui il soggetto attribuisce la “colpa” di ciò che gli accade in prima persona a fattori ambientali o contestuali piuttosto che interiorizzare l’errore come un tratto interno. In caso di attacco, quindi, saremo portati a sminuire le nostre responsabilità attribuendo al virus, all’hacker o al sistema vulnerabile, una potenza superiore alle possibili attese. Come attori sociali, abbiamo la consuetudine di osservare il mondo dal nostro personalissimo punto di vista, il che attiva in modo più vivido un pregiudizio che è frequente nel nostro funzionamento cognitivo: l’errore fondamentale di attribuzione. Si tratta della tendenza a vedere i fallimenti o gli errori di altre persone come parte della loro identità invece che attribuire il fallimento o l’errore a influenze contestuali o ambientali.

Questo accade in maniera ancora più sistematica se abbiamo un’elevata sensazione di controllo personale del rischio, perché l’idea di avere capacità per gestire la situazione ci fa percepire meno grave il pericolo, soprattutto se ci siamo esposti volontariamente alla situazione rischiosa. A questo è associato il bias di conferma che porta ciascuno ad essere d’accordo con le persone che la pensano allo stesso modo ed evitare individui o gruppi che la pensano diversamente ed inducono disagio o dissonanza. Il bias di conferma non solo influenza le nostre strategie di ragionamento, ma influisce anche sul modo in cui memorizziamo le informazioni e le recuperiamo quando necessario. Le persone tendono a concentrarsi e ricordare le informazioni che confermano o si allineano con le loro convinzioni, mentre scartano o dimenticano le informazioni che si oppongono al loro punto di vista.

Anche gli esperti, ad esempio, potrebbero incorrere in questo pregiudizio inconsapevolmente, trovandosi a cercare soluzioni a problemi associati ad un evento avverso, solo fra le cause in linea con le proprie teorie. IIl superamento del bias di conferma richiede un pensiero creativo e flessibile, in particolare il capacità e volontà di guardare una situazione da diversi punti di vista.

Sfida etica per i progettisti

Preso atto che, spesso, il nostro sistema cognitivo incorre in errori e distorsioni, è ancora più chiaro quanto la percezione del rischio sia un processo personale e complesso, nel quale la relazione tra rischi e benefici di un’attività o di una situazione siano percepiti in modo differente da come questa relazione si realizzi nella realtà. Dato oggettivo e percezione soggettiva non coincidono, ma questa consapevolezza va resa parte della cultura digitale e dei suoi processi di alfabetizzazione.

Nel momento in cui si spinge verso una maggiore utilizzo del digitale, l’insicurezza digitale diviene ancora di più un problema pubblico ed urgente. Quotidianamente noi consegniamo ai gestori delle piattaforme importanti informazioni personali, per cui assieme alla sensibilizzazione civica rispetto al problema, si pone anche una questione etica dei progettisti, cui corre l’obbligo di implementare sistemi che prendano atto delle nostre debolezze cognitive, non per sfruttarle a proprio vantaggio, ma per aumentare la sicurezza della navigazione dei propri utenti.

Come sempre, le competenze tecniche e l’uso dei mezzi hanno scarso effetto se non dialogano con le competenze immateriali e culturali di sensibilizzazione rispetto agli effetti a lungo termine di azioni concrete. L’attuale cyber-insicurezza dipende senza dubbio “dall’evoluzione rapidissima degli attori, delle modalità, della pervasività e dell’efficacia degli attacchi”, ma dobbiamo necessariamente contemplare la componente umana, le scelte personali, le “credenze” ed i comportamenti dei singoli. In tal senso le abitudini e l’educazione connesse alla sicurezza acquistano un peso decisivo nel discorso pubblico.