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Bottega Veneta NON ha lasciato Instagram

Bottega Veneta NON ha lasciato Instagram

Molte testate e siti di settore riportano della “cancellazione” da Instagram dell’account ufficiale di Bottega Veneta, ma è proprio così?

Qualche giorno fa l’account Instagram di Bottega Veneta si dissolve nel nulla, facendo letteralmente impazzire le testate e i siti di settore.

“Bottega Veneta ha lasciato Instagram” titola un articolo di Vogue Italia.

Per Harper’s Bazaar “Bottega Veneta è scomparso dai social media”.

Scomparso o, per dirlo a là Bauman, “liquidificato“?

Ci sono diversi indizi che inducono a pensare che Bottega Veneta abbia sì rimosso il proprio account dai social, ma che non abbia realmente abbandonato quelle piattaforme.

Piuttosto si sia “liquidificato” in svariati account, attraverso la tecnica “Mother Slave“.

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Cancellazione da Instagram o strategia “Mother Slave”?

Il metodo “Mother Slave” è una delle tante strategia di crescita di un account sui social network.

La teoria alla base del “Mother Slave” è molto semplice.

L’account “Madre” è quello che deve crescere in termini di follower/engagement/awareness.

Questo account è quello “istituzionale”, con contenuti strettamente coerenti con i valori del Brand – soprattutto nel “tone of voice“.

Poi ci sono gli account “Slave” o “Figlio”, creati con lo scopo principale di promuovere l’account “Madre”.

Questi possono assumere varie “forme”: “fan-page”, “magazine” o addirittura account “paralleli”.

L’obiettivo di questo metodo è quello di creare tante piccole comunità o “triboo”, presentando il prodotto in maniera diversa a tante nicchie (quanto più ristrette possibili) a seconda dei vari target di riferimento.

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Facendo qualche ricerca su Instagram, ci si può rendere conto delle centinaia di account che repostano contenuti farciti di prodotti Bottega Veneta.

Anche senza l’account ufficiale, il numero di post su Instagram con l’hashtag #bottegaveneta ammontano, nel momento in cui scriviamo, a 1.951.682.

Si potrebbe ipotizzare che l’account “Madre”, troppo “oneroso” da mantenere in termini di costi-opportunità – per sostenere l’adeguato livello di engagement e/o awareness (?) – abbia ceduto il posto ai suoi molteplici figli.

Ciascuno con un proprio carattere, una propria estetica ed un proprio modo di essere leader di una “triboo” (leggi “nicchia”), ma tutti accomunati dall’anima che li muove: Bottega Veneta.

Global Content Editor cercasi

Un paio di giorni fa, inoltre, Bottega Veneta si mette alla ricerca di un Global Content Editor.

La risorsa si occuperà “delle attività di marketing: newsletter, social media, CRM ed altre attività di marketing” si legge nell’annuncio di lavoro.

Ci siamo chiesti: perché il nuovo Global Content Editor dovrebbe occuparsi di contenuti per i social media, se l’azienda ha deciso di non presidiare più quelle piattaforme?

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Bottega Veneta e il “Buzz Marketing”

Da tanto tempo poi non avevamo manifestazioni così importanti di “Buzz Marketing” e la “scomparsa” dai social del Brand ha ottenuto anche questo risultato.

Letteralmente “ronzìo”, il “buzz” in marketing è quel fenomeno (misterioso) secondo cui una tale notizia riguardante un brand ha una eco così grande da occupare uno spazio su tutti i principali media, divenendo per qualche tempo un vero e proprio fenomeno mediatico.

Sembra l’introduzione giusta per spiegare la “questione Bottega Veneta” ai nostri nipoti, quando sui manuali di Marketing leggeranno cosa sia potuto accadere quel giorno del 7 gennaio 2021.

Immaginario Collettivo®

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Emissioni Co2 nell’ambiente: quanto inquina la nostra vita digitale

Emissioni Co2 nell’ambiente: quanto inquina la nostra vita digitale

Le nostre vite ai tempi del Covid-19 sono cambiate, e cambieranno. Il danno economico da pandemia sarebbe stato ben maggiore se alcune attività non si fossero trasferite su Internet. Dallo smart working, alla teledidattica, dall’e-commerce all’home banking, dalle video conferenze, ai webinar per presentare i libri ed eventi culturali. Anche chi è poco digitale deve imparare in fretta perché il suo uso ormai intensivo, oltre a sostituire molte attività fisiche, responsabili di emissioni di CO2 equivalenti, farà bene all’ambiente. Le soluzioni digitali possono sostenere l’economia circolare, supportare la decarbonizzazione di tutti i settori e raggiungere così gli obiettivi di sostenibilità che il Green New Deal europeo si propone. Ma non è per nulla scontato. Fino ad ora infatti le transizioni digitali hanno perpetuato modelli di crescita ad alta intensità di risorse e gas serra, responsabili del riscaldamento globale. E allora qual è l’impronta ambientale del digitale?

Transizione digitale ed emissioni di Co2e

Computer, dispositivi elettronici e infrastrutture digitali consumano quantità sempre maggiori di elettricità. E l’energia elettrica, se non proviene da fonte rinnovabile, produce emissioni di gas serra. Nel 2008 le tecnologie digitali utilizzate nelle trasmissione, ricezione ed elaborazione di dati e informazioni (ICT) hanno contribuito per il 2% alle emissioni globali di CO2e; nel 2020 sono arrivate al 3,7% e raggiungeranno l’8,5% nel 2025, l’equivalente delle emissioni di tutti i veicoli leggeri in circolazione (Fonte: The Shift Project nel Report: LEAN ICT – TOWARDS DIGITAL SOBRIETY). Lo studio «Assessing ICT global emissions footprint», ipotizza che nel 2040 l’impatto del digitale arriverà al 14%. Confrontando le emissioni del digitale nel 2020 in tutti i Paesi si può vedere che se le infrastrutture digitali fossero uno Stato, sarebbe uno fra i più grandi consumatori di energia al mondo.

Il consumo che si vede nella bolletta elettrica

Immagini, video in ultra-definizione per smart-tv, sensori distribuiti, immagini riprese da telecamere di sicurezza, robotizzazione, città intelligenti, videochiamate digitali, servizi on-line, messaggistica istantanea e molto altro ancora costituiscono un «universo digitale» in continua espansione, alimentato dai dati creati, utilizzati e richiesti ogni giorno – senza sosta – da industrie, pubbliche amministrazioni, ospedali, banche, centri di ricerca e da noi utenti. Per comprendere il peso dei consumi elettrici del digitale partiamo dal nostro quotidiano domestico. Un forno elettrico convenzionale da 2000W usato alla massima potenza per 3 minuti consuma 0,1 kWh. Un frigorifero con freezer in classe C + in un anno consuma 150kWh -190kWh. Ricaricare lo smartphone consuma 4kWh l’anno. Questi consumi, quantificati nelle bollette, sono sotto il nostro controllo diretto. Il problema è che i dispositivi digitali connessi su Internet producono dei consumi al di là del nostro contatore elettrico.

Il Cloud non è una nuvola, ma una nebbia

Guardare per 10 minuti un video ad alta definizione in streaming equivale, come impatto energetico, a utilizzare un forno elettrico da 2.000 W a piena potenza per 3 minuti. Ma quello che noi paghiamo è solo l’energia consumata dallo smartphone, il dispositivo cardine del business digitale, che è basato sulla creazione incessante di nuovi dati prodotti dagli utenti finali. I consumi elettrici di queste attività dipendono dal tempo e soprattutto dal tipo di utilizzo. Tutto il traffico che viaggia su Internet, formato da dati che sono stati acquisiti, immagazzinati, elaborati in qualche Data Center, dove vengono creati i servizi digitali che usiamo in remoto, consuma enormi quantità di energia elettrica.

L’immagine del «Cloud» ci illude che la fruizione di servizi sia a impatto zeroE’ un sistema globale dove ci depositiamo roba e ne recuperiamo altra, in continuazione, ma non è un luogo senza peso e sperduto fatto di vapore e onde radio dove tutto funziona magicamente. E’ una infrastruttura fisica allocata altrove, composta da fibre ottiche, routers, satelliti, cavi sul fondo dell’oceano, sterminati centri di elaborazione pieni di computer, che necessita di colossali quantità di energia e sistemi di raffreddamento. Questi consumi non sono né noti né visibili dall’utente finale, che paga invece agli operatori telefonici i Gigabyte di traffico, e ai fornitori di contenuti, l’abbonamento o l’acquisto di film, serie TV, etc.

Video in streaming: quanta energia consumano

Secondo l’associazione indipendente The Shift Project che considera il sistema nel suo complesso ed elabora stime medie, guardare 10 minuti di video in streaming consuma 1500 volte più elettricità che la ricarica della batteria di uno smartphone. Secondo la International Energy Agency (IEA), il consumo è invece di 150 volte, perché le stime sono effettuate su dati di singoli player (in particolare Netflix ) e su casi specifici di combinazioni: il tipo di dispositivo, risoluzione del contenuto, e di connessione. Si tratta comunque di consumi enormi, ma come è possibile che le stime siano così diverse? La risposta consiste nel fatto che non esistono dati globali, basati su misurazioni, del consumo energetico indotto dagli usi digitali. Né standard definiti per tracciarli. Il dato certo è che per guardare video in streaming sul grande schermo di un televisore ad altissima definizione il consumo di energia è gigantesco. Solo in Italia, dal 24 al 26 dicembre, la visione di film in streaming è passata dai 2,8 milioni di ore nel 2019, a 6,5 milioni del 2020. L’utilizzo via smart tv è cresciuo del 1000%, dello smarphone del 143%. E l’analisi Sensemakers ha considerato solo gli editori nazionali, perché Netflix a Amazon Prime non si fanno rilevare. Non tutte le attività su Internet però sono egualmente pesanti. È necessario trascorrere 5 ore a scrivere e inviare e-mail per generare un consumo di elettricità analogo a quello generato dalla visione di un filmato di 10 minuti. Quando invece usiamo ad esempio la geolocalizzazione sul nostro cellulare, provochiamo un continuo flusso di informazioni relative alla nostra posizione. Una vita connessa ha continuamente bisogno di elettricità e a consumarla sono soprattutto i Data Center. Da dove proviene l’energia che utilizzano?

I Data center usano energia pulita o sporca?

L’associazione Greenpeace analizza le performance del settore ICT in base alla domanda energetica proveniente da Internet per i singoli servizi di video, messaggistica e musica. Nel 2017 ha pubblicato un report nel quale osserva l’impronta energetica dei grandi operatori di Data Center e di circa 70 tra siti web e applicazioni. Le operazioni di Apple negli Usa utilizzano energia pulita per l’83% delle volte. Facebook per il 67%, Google il 56%, Microsoft il 32%, Adobe 23%, Oracle 8%. Di Amazon si conosce poco, inoltre l’azienda sta allargando le proprie attività in aree geografiche in cui sono utilizzate prevalentemente energie sporche, che dichiara di bilanciare comprando crediti di compensazione. La stessa cosa fa Netflix, che si appoggia su Cloud Amazon.

Dispositivi connessi: più 10% l’anno

Il traffico dati esplode con la crescita dell’Internet delle cose, la moltiplicazione di applicazioni come contatori intelligenti, videosorveglianza, monitoraggio sanitario, trasporto e tracciamento di pacchi o risorse. Le connessioni machine-to-machine cresceranno da 1,2 miliardi nel 2018 a 4,4 miliardi entro il 2023 (Cisco Annual Internet Report). Mentre i televisori collegati (che includono TV a schermo piatto, set-top box, adattatori multimediali digitali, lettori di dischi Blu-ray e console di gioco) raddoppieranno, e arriveranno a 3,2 miliardi. A livello globale, i dispositivi connessi stanno crescendo su base annua del 10%, ossia più velocemente degli utenti Internet (che crescono del 6%). E queste stime sono antecedenti alla pandemia, che ha certamente accelerato la transizione digitale.

Intelligenza artificiale e criptovalute

I ricercatori dell’Università Amherst del Massachusetts, hanno fornito una valutazione sull’energia necessaria ad «addestrare» modelli evoluti di elaborazione del linguaggio naturale: può arrivare ad emettere 284 tonnellate di CO2e, pari a quasi cinque volte quelle della vita media di un auto americana, produzione inclusa. Possiamo ritenere che questo sia un prezzo da pagare per avere sistemi in grado di fornire risposte intelligenti a domande complesse, o riconoscere immagini. Più controversa la produzione della criptomoneta. Secondo il New York Times, che cita l’economista Alex de Vries, l’energia consumata per ottenere un solo bitcoin è pari a quella usata in due anni da una famiglia americana media, mentre una singola transazione potrebbe alimentare una casa per un mese intero. Le elaborazioni necessarie all’attività di mining delle criptovalute avvengono perlopiù in Data Center allocati in zone, come la Mongolia, che si riforniscono di energia prodotta con il carbone. I Bitcoin sono molto utilizzati nell’attività di riciclaggio e pagamento di riscatti, a seguito di attacchi di cybercrime ad aziende pubbliche e private.

Quante «pesa» la fase di produzione

Va detto che l’efficienza energetica di dispositivi e infrastrutture digitali è in continuo miglioramento, e questo è positivo per l’ambiente, ma comporta che occorre cambiare spesso smartphone, tablet, computer, televisori collegati, e questo non è per nulla positivo. Il consumo di energia del ciclo di vita di questi oggetti, ovvero dall’ estrazione dei minerali rari, alla produzione, al trasporto, allo smaltimento, si aggirano rispettivamente attorno all’83% del consumo totale per lo smartphone, dell’80% per un laptop, del 60% per un televisore connesso. Questo ancora prima che vengano messi in vendita. Per avere un’idea: produrre un grammo di smartphone (che ha una vita media di due anni) richiede un consumo di energia 80 volte superiore a quello che serve per produrre un grammo di un auto a benzina (LEAN ICT -TOWARDS DIGITAL SOBRIETY). Aumenta anche il consumo di energia durante la fase di riciclo, poiché l’energia necessaria per separare i metalli cresce in funzione della complessità e della scala di miniaturizzazione. Sappiamo inoltre che l’attività di riciclo dei materiali a norma non è diffusa come dovrebbe, e lo smaltimento a fine vita dei dispositivi è inquinante e pericoloso, se non avviene in impianti di trattamento innovativi. Oggi, nel mondo, solo le norme europee sono all’avanguardia.

Indicazioni per una sostenibilità digitale

La trasformazione digitale è considerata un mezzo per ridurre il consumo di energia consentendo un uso più efficiente delle risorse in ogni settore: trasporti, industria, servizi, edifici, agricoltura, ecc. Le novità tecnologiche possono diminuire l’impatto ICT, ma la velocità di crescita nella domanda ne annulla i vantaggi se non sono accompagnate da misure adeguate di decarbonizzazione digitale. Nel calcolare il saldo netto vanno considerate sia le emissioni evitate (il viaggio aereo non effettuato) che quelle prodotte per fornire il servizio alternativo (la video conferenza), e gli effetti rimbalzo (con il tempo risparmiato prendo un aereo per fare una vacanza).

Per poter arrivare a una qualsiasi regolamentazione bisogna poter misurareUna informatica sostenibile deve coinvolgere tutte le figure che progettano e gestiscono il mondo interconnesso, e richiede una ricerca interdisciplinare fra scienze ambientali, scienza dell’informazione e le varie discipline ingegneristiche, per avere metriche e standard condivisi. Fino a qualche anno fa la scelta fra energia da fonti pulite o sporche si ripercuoteva solo nel prezzo; poi gli investimenti nella ricerca, l’innovazione e una forte domanda hanno reso le fonti rinnovabili competitive. Una domanda consapevole che si è formata sulla scia di scelte precise dell’Unione Europea, che hanno favorito non solo lo sviluppo di nuovi modelli e impianti, ma anche tutta la filiera: dai produttori, al mercato fino al consumatore finale.

Cosa si può fare

Gestire il conflitto fra i grandi player che vogliono vendere sempre più dispositivi, controllare dati, produrre contenuti, vendere dispositivi sempre più potenti, e l’ambiente, che non ha un suo difensore altrettanto forte, richiede capacità di governance. Anche da parte dei manager dell’informatica pubblica. Vanno definite apposite clausole nei contratti di servizi informatici in Cloud, esigendo trasparenza da parte dei fornitori nel dichiarare da quali fonti di energia elettrica si riforniscono, e presuppone la capacità di riconoscere un lavoro serio da un banale green washing.

Anche a livello individuale si può fare qualcosa: per esempio cambiare un po’ meno frequentemente dispositivo, evitare un uso compulsivo di invio video e immagini, non mantenere App inutili che si aggiornano in continuazione producendo un traffico di cui non ci rendiamo conto. Il tema è ineludibile: questo è il mondo che abbiamo creato, e ci dobbiamo vivere.

(ha collaborato Giovanna Sissa – Università di Genova)




INTELLIGENZA ARTIFICIALE E GIUSTIZIA SOCIALE

INTELLIGENZA ARTIFICIALE E GIUSTIZIA SOCIALE

Una sfida per la ChiesaDi Antonio Spadaro e Paul Towmey*

I poveri in un mondo dominato dai «big data»

Nell’era dell’intelligenza artificiale (IA) l’esperienza umana sta cambiando profondamente, ben più di quanto la stragrande maggioranza della popolazione mondiale riesca a vedere e a comprendere. La vera e propria esplosione dell’IA ha un forte impatto sui nostri diritti nel presente e sulle nostre opportunità future, determinando processi decisionali che, in una società moderna, riguardano tutti. Si rivela un enorme cambiamento tecnologico, che prospetta grandi benefìci e rischi insidiosi. La proporzione in cui rischi e benefici si presenteranno dipenderà dai pionieri e dai creatori di questa tecnologia, e in particolare da quanto sarà chiara la loro visione del bene comune e corretta la loro comprensione della natura dell’esperienza umana[1].

Bisogna capire che l’intelligenza artificiale rappresenta una sfida e un’opportunità anche per la Chiesa: è una questione di giustizia sociale. Infatti, la ricerca pressante, avida e non trasparente dei big data, cioè dei dati necessari ad alimentare i motori di apprendimento automatico[2] può portare alla manipolazione e allo sfruttamento dei poveri: «I poveri del XXI secolo sono, al pari di chi non ha denaro, coloro che, in un mondo basato sui dati e sulle informazioni, sono ignoranti, ingenui e sfruttati»[3]. Inoltre, gli stessi scopi per i quali vengono addestrati i sistemi di IA possono portarli a interagire in forme imprevedibili per garantire che i poveri vengano controllati, sorvegliati e manipolati.

Attualmente i creatori di sistemi di IA sono sempre più gli arbitri della verità per i consumatori. Ma al tempo stesso le sfide filosofiche essenziali – la comprensione della verità, la conoscenza e l’etica – si fanno incandescenti man mano che le possibilità dell’IA crescono verso e oltre il superamento dei limiti cognitivi umani[4]. Nel contesto dei progressi del XXI secolo, l’esperienza e la formazione della Chiesa dovrebbero essere un dono essenziale offerto ai popoli per aiutarli a formulare un criterio che renda capaci di controllare l’IA, piuttosto che esserne controllati.

La Chiesa è chiamata anche alla riflessione e all’impegno. Nelle arene politiche ed economiche in cui viene promossa l’IA devono trovare spazio le considerazioni spirituali ed etiche. Soprattutto, nel XXI secolo l’IA è una disciplina e una comunità assetata di evangelizzazione. La Chiesa deve impegnarsi a informare e ispirare i cuori di molte migliaia di persone coinvolte nella creazione e nell’elaborazione dei sistemi di intelligenza artificiale. In ultima analisi, sono le decisioni etiche a determinare e a inquadrare quali problemi affronterà un sistema di IA, come esso vada programmato e come debbano essere raccolti i dati per alimentare l’apprendimento automatico. Sul codice che viene scritto oggi si baseranno i futuri sistemi di IA per molti anni a venire.

Possiamo leggere la sfida di quella che potremmo definire l’«evangelizzazione dell’IA» come una combinazione tra la raccomandazione di papa Francesco a guardare il mondo dalla periferia e l’esperienza dei gesuiti del XVI secolo, il cui metodo pragmatico di influenzare chi è influente oggi si potrebbe riformulare come condividere il discernimento con gli scienziati dei dati.

Che cosa è l’intelligenza artificiale?

La definizione e il sogno dell’IA ci accompagnano da oltre sessant’anni. Essa è la capacità di un computer, o di un robot controllato da un computer, di eseguire attività comunemente associate agli esseri intelligenti, quali quelle di ragionare, scoprire significati, generalizzare o imparare dalle esperienze passate.

Il lungo sviluppo dell’IA è passato attraverso l’evoluzione della riflessione su come le macchine possono apprendere, accompagnata tuttavia dal recente e radicale miglioramento della capacità di calcolo. L’IA è stata la prima idea, alla quale hanno fatto seguito l’apprendimento automatico e, più recentemente, le reti neurali e l’apprendimento profondo.

…per proseguire nella lettura dell’articolo, vai alla pagina originale sul sito La Civiltà Cattolica

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*Paul Twomey è uno dei fondatori della Internet Corporation for Assigned Names and Numbers (Icann).

Copyright © 2020 – La Civiltà Cattolica

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[1].      Cfr G. Cucci, «Per un umanesimo digitale», in Civ. Catt. 2020 I 27-40.

[2].      I big data, o in italiano «megadati», indicano una raccolta di dati talmente estesa da richiedere tecnologie e metodi analitici specifici per l’estrazione di valore o conoscenza e la scoperta di legami tra fenomeni diversi e la previsione di quelli futuri.

[3].      M. Kelly – P. Twomey, «I “big data” e le sfide etiche», in Civ. Catt. 2018 II 446.

[4].      Cfr A. Spadaro – T. Banchoff, «Intelligenza artificiale e persona umana. Prospettive cinesi e occidentali», in Civ. Catt. 2019 II 432-443.

[5].      Cfr J. Angwin – J. Larson – S. Mattu – L. Kirchner, «Machine Bias», in ProPublica, 23 maggio 2016 (www.propublica.org/article/machine-bias-risk-assessments-in-criminal-sentencing).

[6].      M. Purdy – P. Daugherty, Why Artificial Intelligence is the Future of Growth (www.accenture.com/us-en/insight-artificial-intelligence-future-growth).

[7].      Cfr C. B. Frey – M. A. Osborne, «The Future of Employment: How Susceptible Are Jobs to Computerisation?», in Technological Forecasting and Social Change 114 (2017) 254-280.

[8]  .    Cfr McKinsey Global Institute, «Jobs Lost, Jobs Gained: Workforce Transitions in a Time of Automation» (in www.mckinsey.com).

[9]  .    Cfr le argomentazioni in S. Lohr, «A.I. Will Transform the Economy. But How Much, and How Soon?», in The New York Times, 30 novembre 2017.

[10].    Per esempio, i media hanno sottolineato il netto pregiudizio razziale riscontrato nell’uso giudiziario di algoritmi di condanna da parte di molti tribunali statunitensi. Cfr R. Wexler, «When a Computer Program Keeps You in Jail», ivi, 13 giugno 2017.

[11].    Cfr J. Obar – B. McPhail, «Preventing Big Data Discrimination in Canada: Addressing Design, Consent and Sovereignty Challenges», Wellington, Centre for International Governance Innovation, 2018 (www.cigionline.org/articles/preventing-big-data-discrimination-canada-addressing-design-consent-and-sovereignty).

[12].    V. Eubanks, Automating Inequality: How High-Tech Tools Profile, Police, and Punish the Poor, New York, St Martin’s Press, 2018, 11.

[13].    Ivi.

[14].    Cfr L. Jaume-Palasí – M. Spielkamp, «Ethics and algorithmic processes for decision making and decision support», in AlgorithmWatch Working Paper, n. 2, 6-7 (algorithmwatch.org/en/publication/ethics-and-algorithmic-processes-for-decision-making-and-decision-support).

[15].    Cfr M. Tegmark, Vita 3.0. Essere umani nell’era dell’intelligenza artificiale, Milano, Raffaello Cortina, 2017.

[16].    R. Cellan-Jones, «Stephen Hawking Warns Artificial Intelligence Could End Mankind», in BBC News (www.bbc.com/news/technology-30290540), 2 dicembre 2014.

[17].    Cfr Top 10 Principles for Workers’ Data Privacy and Protection, UNI Global Union, Nyon, Switzerland, 2018.

[18].    Cfr Microsoft, The Future Computed, Redmond, 2017 (news.microsoft.com/cloudforgood/_media/downloads/the-future-computed-english.pdf).

[19].    Oecd Principles on AI (www.oecd.org/going-digital/ai/principles), giugno 2019.

[20].    Cfr European Commission, Ethics guidelines for trustworthy AI (ec.europa.eu/digital-single-market/en/news/ethics-guidelines-trustworthy-ai), 8 aprile 2019.

[21].    Cfr G20 Ministerial Statement on Trade and Digital Economy (www.mofa.go.jp/files/000486596.pdf), giugno 2019.

[22].    Una ricerca di Pew Charitable Trusts ha dimostrato che gli algoritmi dell’IA vengono compilati in primo luogo per ottimizzare l’efficienza e la redditività, considerando gli esseri umani un mero input del processo, piuttosto che vederli come esseri reali, senzienti, sensibili e mutevoli. Ne risulta una società alterata, condizionata dalla logica degli algoritmi. Per contrastare tale percezione e i conseguenti rischi di parzialità nell’IA, si rivela fondamentale l’impegno per ciò che riguarda la definizione delle finalità e per la raccolta e l’utilizzo dei dati. Come afferma l’esperto di etica Thilo Hagendorff: «Le caselle di controllo da spuntare non devono essere gli unici “strumenti” dell’etica dell’IA. È necessaria una transizione […] verso un criterio etico sensibile alle situazioni sulla base delle virtù e delle disposizioni personali, dell’espansione delle conoscenze, dell’autonomia responsabile e della libertà d’azione» (T. Hagendorff, «The Ethics of AI Ethics – An Evaluation of Guidelines» [arxiv.org/abs/1903.03425], 28 febbraio 2019).




Diversity management, tre realtà italiane che provano a cambiare le cose

Diversity management, tre realtà italiane che provano a cambiare le cose

Diversità e inclusione sono valori che si stanno affermando come imprescindibili all’interno di ogni azienda. Ma come promuoverli?

Il diversity management è l’insieme di pratiche e di strategie volte alla promozione e alla valorizzazione della diversità all’interno di un ambiente lavorativo, oltre che all’abbattimento di ogni barriera di genere, religione, etnia ed orientamento sessuale, nato grazie una sempre crescente attenzione da parte di HR e recruiters e alla spinta data dall’emissione di leggi volte a tutelare i diritti di ogni cittadino come quella per le Pari Opportunità o quella sulle Unioni Civili

Ma se è vero che, al giorno d’oggi, tutti parlano di diversity management, lo è altrettanto che, nella pratica, ideare e progettare strategie di inclusione non è certo cosa semplice. Ed è proprio per questo motivo che, anche in Italia, sono nate diverse realtà che si occupano specificatamente di questo: promuovere i valori di diversità e inclusività in un ambiente di lavoro attraverso pratiche e politiche aziendali che non risultino fini a loro stesse, ma che siano indirizzate a portare un effettivo beneficio in termini che riguardano non solo l’”umanità” di una data azienda o società, ma anche la stessa efficenza del suo operato.

Diversity management in Italia e all’estero

L’integrazione e il rispetto di ogni dipendente, infatti, non sono importanti solo se guardati da un punto di vista etico, ma lo sono anche in termini di employer branding, in quanto migliorano l’immagine di un’azienda agli occhi dei suoi consumatori, e di business, dal momento che ogni persona è portata a lavorare meglio in un ambiente dove si senta a proprio agio. Tuttavia, come ha spiegato in un articolo apparso quest’estateClaudio Guffanti, esperto di D&I e fondatore di Unlimited Views, società che si occupa di coaching e progettazione di strategie di inclusione per le aziende, «se da un lato assistiamo a progressi importanti da parte di alcune aziende, dall’altro, invece, molte organizzazioni in Italia sono ferme a piccoli progetti».

Parole che fanno pensare, soprattutto quando scopriamo che «nel mercato US nessuno si chiede più se la diversity sia una reale leva di business», continua Guffanti, secondo cui sono ancora in pochi, nel nostro Paese, ad aver capito a fondo i reali vantaggi che un investimento in D&I può portare con sé. Non solo, ma, sempre secondo l’ingegnere, «alcune aziende vivono nella fierezza di credersi estremamente inclusive, ma basta poco per accorgersi che in molti casi chiamano inclusione quella che in realtà è non discriminazione, senza neppure conoscerne la differenza di significato».

Unlimited Views: l’idea del diversity coaching

Ed è quindi proprio in virtù di questa scarsa consapevolezza che nasce Unlimited Views, brand che si propone di far crescere le aziende grazie al coaching, alla diversità e all’inclusione, intendendo per diversità la “pluralità dei punti di vista attraverso cui ognuno di noi da il proprio contributo” e per inclusione la “costruzione di un ambiente dove ognuno sia rispettato e supportato”. Per il raggiungimento di questi obbiettivi, strumento indispensabile viene considerato il cosiddetto diversity coaching, uno dei servizi offerti dall’azienda, un tipo di coaching finalizzato proprio ad istruire leader e manager nello sviluppo di processi di inclusione e che li aiuti a rispondere ai diversi dubbi che possono nascere quando si affrontano i temi di D&I.

DNA – Difference in Addition: innovazione e cambiamento

Di strategie di D&I si occupa poi anche DNA – Difference In Addition, realtà che ha già fatto largamente parlare di sé, una piattaforma multistakeholder volta ad aiutare le aziende nella creazione di innovazione attraverso un cambiamento che sia sempre sostenibile e che guardi al benessere di ognuno. Sviluppandosi come un vero e proprio hub di competenze relative ai temi di D&I, DNA opera nel campo della formazione, della consulenza e della comunicazione, offrendo ai propri clienti servizi come incontri, eventi, co-progettazioni e partecipazione a bandi, attraverso un supporto multidisciplinare che possa orientare le aziende nelle scelte future e sostenendo tutte le aree dell’organizzazione.  

Tra le attività portate avanti da DNA ci sono anche quelle di Talent Center e di Osservatorio. Il Talent Center DNA è il servizio finalizzato all’inserimento in aziende di figure appartenenti a categorie svantaggiate, come persone con disabilità, persone di origine straniera e persone transessuali/transgender, attraverso la valorizzazione delle loro competenze e delle loro stesse differenze. Quello del Talent Center è quindi un servizio nato per favorire l’incontro fra domanda e offerta, e che viene condotto grazie a modalità di approccio differenti, come candidature on-line, job day e selezioni individuali. Quello del DNA Observatory, invece, è un progetto condotto attraverso collaborazioni con Università sia italiane che straniere che ha come obiettivo lo sviluppo e la diffusione di conoscenze relative a diversity, inclusione e welfare, grazie ad attività quali la raccolta e la diffusione di dati, l’indagine della relazione tra pratiche di diversity management e performance nelle diverse aziende e la collaborazione con organizzazioni pubbliche e private per la divulgazione di informazioni riguardanti tale tema.

Parks – Liberi e Uguali: orientamento sessuale e identità di genere

In ultimo, non può non essere menzionata Parks – Liberi e Uguali, associazione senza scopo di lucro che da ormai dieci anni si occupa di aiutare le aziende a realizzare opportunità di business legate alla valorizzazione della diversità, con un focus prevalente sulle due aree forse più sfidanti del diversity management, ovvero quelle relative all’orientamento sessuale e all’identità di genere

Secondo i dati che ci vengono forniti dall’OMS, le persone LGBT rappresentano circa il 5%della popolazione mondiale, il che vuol dire che più di uno dei ventitré milioni di individui che lavorano in Italia è omosessuale, bisessuale o transessuale. Tuttavia spesso l’appartenenza ad una di queste categorie viene mantenuta nascosta sul luogo di lavoro, poiché si temono ripercussioni e discriminazioni, facendo così nascere un sentimento di paura che può avere conseguenze anche sulle prestazioni lavorative di una persona, portandola a “lavorare peggio”.

Ecco perché la comunità LGBT rappresenta oggi un tema così importante: le aziende che non trattano questo discorso con la dovuta attenzione rischiano di farsi promotrici di luoghi di lavori non ci si senta a proprio agio, così come di climi ed atmosfere che possono inficiare non solo sulla propria reputazione, ma anche sull’operato dei propri dipendenti. Ed è proprio qui che entra in gioco Parks, associazione nata nell’aprile del 2010 (e che vanta tra i suoi fondatori aziende del calibro di Ikea, Johnson&Johnson e Telecom Italia) che si propone di offrire alle aziende servizi relativi a formazione, comunicazione e consulenza su politiche che rispecchino le necessità dei lavoratori LGBT, oltre che sulla creazione di questionari e ricerche ad hoc e l’organizzazione di eventi focalizzati sui temi di D&I, una serie di attività che è sempre calibrata sulle diverse realtà aziendali e che si pone il costante obiettivo di creare un ambiente che sia rispettoso delle scelte e delle esigenze di ogni individuo. 

Altri due servizi offerti, infine, sono il Network e il ParksLab. Le aziende che si associano a Parks possono accedere ad un’area riservata dedicata che si propone di essere uno spazio di condivisione, dove le diverse aziende possono confrontarsi, scaricare documenti e rimanere aggiornati sulle varie attività dell’organizzazione. Il ParksLab, invece, è una serie di incontri tematici su questioni LGBT studiati per fornire gli strumenti necessari alle aziende per il superamento di eventuali problematiche relative all’introduzione e all’implementazione di politiche inclusive.




Torino approva il Piano Strategico dell’Infrastruttura Verde

Torino approva il Piano Strategico dell’Infrastruttura Verde

La Giunta Comunale di Torino, su proposta dell’Assessore all’Ambiente Alberto Unia, ha approvato il Piano Strategico dell’Infrastruttura Verde, strumento di analisi e di programmazione per indirizzare gli investimenti e le politiche di gestione del sistema del verde urbano pubblico torinese nei prossimi decenni, integrativo degli strumenti di pianificazione urbanistica.

La proposta di Piano sarà pubblicata sul sito web della Città e sarà possibile inviare osservazioni per un periodo di 30 giorni. Verrà inoltre trasmessa all’Ente di Gestione delle Aree Protette del Po Torinese e alle Circoscrizioni per i pareri di loro competenza. Successivamente passerà all’esame della Sala Rossa.

“L’incremento quantitativo e il miglioramento qualitativo dei parchi e degli spazi verdi sono indicatori di una città che si cura dell’ambiente e della qualità della vita dei propri abitanti – ha dichiarato l’Assessore al Verde Alberto Unia – e la realizzazione di questo Piano Strategico è una tappa fondamentale per la pianificazione del sistema del verde pubblico. Si tratta di un documento realizzato in continuità con altri strumenti di analisi e di visione del sistema del verde cittadino, a partire dalla candidatura di Torino quale European Green Capital, al Piano di Resilienza Climatica della Città di Torino, e infine con il processo di revisione del PRG la cui proposta tecnica del progetto preliminare è stato approvato in Sala Rossa lo scorso mese di luglio”.

La presenza di infrastruttura verde – ovvero spazi e elementi verdi – in una città, oltre ad indicare la qualità urbana degli spazi costruiti, è un vero e proprio indicatore di sviluppo urbano sostenibile dal punto di vista sociale, economico e ambientale.

Gli spazi verdi assolvono da sempre molteplici funzioni di natura ambientale, sociale, ecologica, culturale ed economica, che ne fanno una delle componenti fondamentali della sostenibilità urbana. Contribuiscono ad esempio a migliorare la salute fisica e psicologica dei cittadini, favoriscono le relazioni sociali e la coesione comunitaria, tutelano l’ecosistema e migliorano il microclima della città, mitigano i rischi dei cambiamenti climatici e dell’inquinamento, attutiscono gli effetti negativi delle isole di calore, accrescono la biodiversità e il valore ecologico dell’ambiente urbano.

Il Piano si compone di dieci capitoli e sette allegati, analizza e approfondisce il sistema del verde urbano di Torino definendo strategie di medio-lungo periodo per la sua valorizzazione e il suo sviluppo.

Si tratta di un documento di pianificazione per indirizzare investimenti in nuove opere e interventi manutentivi, definire priorità gestionali del sistema di infrastruttura verde pubblica urbana, partendo da un’analisi complessiva del sistema di verde pubblico, identificando i punti di forza e le debolezza, valutando le opportunità e definendo strategie, obiettivi e azioni. Si basa in gran parte su due approcci analitici: il primo, il cosiddetto greenprint, è un’analisi sia quantitativa sia qualitativa dell’intero sistema del verde pubblico. Il secondo è l’analisi quantitativa ed economica dei servizi ecosistemici generati dall’intero sistema d’infrastruttura verde della città come base per la pianificazione futura delle sue funzioni.

Più nel dettaglio, i primi capitoli del Piano analizzano le diverse tipologie del verde urbano torinese, con un focus su verde ricreativo, orticoltura urbana, verde ecosistemico, verde coltivato e verde bene turistico. Un capitolo è riservato al ruolo del verde pubblico nella gestione delle emergenze nell’ambito delle attività di protezione civile; vengono inoltre analizzate le diverse modalità di cura del verde e di gestione del verde pubblico, le diverse forme di partenariato pubblico-privato e di coinvolgimento attivo dei cittadini per la cura e per lo sviluppo del verde pubblico, da considerarsi come uno dei principali “beni comuni urbani”. L’ultimo capitolo è dedicato al sommario delle strategie del Piano e degli indicatori di monitoraggio.

Alcuni degli elementi più innovativi del Piano sono: l’analisi del contesto sociale relativo al verde ricreativo; la valutazione qualitativa del verde ricreativo; la valutazione dei servizi ecosistemici generati dall’infrastruttura verde e lo sviluppo di strategie e strumenti di pianificazione per massimizzare gli stessi, compresa la progettazione dimostrativa; le strategie per rafforzare la biodiversità urbana; il piano forestale aziendale per la gestione dei boschi collinari, primo a livello nazionale in ambito urbano; le strategie per la diffusione di infrastruttura verde su tutto il territorio comunale per contrastare le vulnerabilità climatiche; la destinazione di aree libere di patrimonio pubblico a finalità ambientali e sociali; l’evoluzione degli approcci gestionali; l’introduzione di nuove forme di partenariato pubblico-privato per il potenziamento del sistema del verde.

Il Piano Strategico dell’Infrastruttura verde si inserisce in un quadro normativo complesso che partendo dal Piano Regolatore Generale (PRG) comprende il Piano Territoriale Comunale (PTC2) della Città Metropolitana oltre che il Piano Paesaggistico Regionale e altri piani sovraordinati.

Il Piano definisce le strategie per quel verde che già̀ oggi è di proprietà̀ della Città o che, in base alla destinazione d’uso a Parco o a servizi a verde data dal vigente PRG, è destinato a diventare verde pubblico in un prossimo futuro. Per quanto riguarda il verde di proprietà̀ privata, di altri enti e istituzioni non destinato a Parco, sono in vigore invece le norme di attuazione del PRG, il Regolamento del Verde Pubblico e Privato della Città di Torino e le norme sovraordinate.

Il percorso che ha portato alla stesura del Piano ha preso avvio nel 2018 con la sottoscrizione di un Protocollo d’Intesa tra Città di Torino, Comitato per lo Sviluppo del Verde Pubblico (costituito dal Ministero per l’ambiente e la tutela del territorio e del mare), Città Metropolitana di Torino e Regione Piemonte, attraverso cui ciascun ente si è impegnato a perseguire l’obiettivo comune di definire una strategia di sviluppo e valorizzazione dell’infrastruttura verde e della foresta urbana e dei servizi ecosistemici ad essi connessi, da attuarsi anche attraverso l’individuazione di metodi di gestione dei contributi ambientali utili a supportare lo sviluppo e la valorizzazione del patrimonio naturale.

A livello nazionale lo strumento del Piano Strategico dell’infrastruttura verde è stato individuato nel 2017 come strumento integrativo, non obbligatorio, della regolamentazione urbanistica generale a livello locale, dalle “Linee guida per la gestione del verde urbano e prime indicazioni per una pianificazione sostenibile” elaborate da Anci e dal Comitato per lo Sviluppo del verde pubblico. Con il DM del 10 marzo 2020 il Ministero per l’ambiente e la tutela del territorio e del mare, ha ribadito come lo strumento del Piano Strategico, insieme al censimento e regolamento del verde, debba essere alla base per una gestione sostenibile del verde urbano, costituisca lo strumento integrativo alla pianificazione urbanistica generale e debba stabilire gli obiettivi a lungo termine in termini di valorizzazione dei servizi ecosistemici e gli interventi di sviluppo e valorizzazione del verde urbano e periurbano.