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Qualcosa unisce le pubblicità post Covid dei brand (e le rende tutte un po’ simili)

Qualcosa unisce le pubblicità post Covid dei brand (e le rende tutte un po’ simili)

Avete notato come è cambiato il tono delle pubblicità nelle ultime settimane? I brand stanno comunicando in modo diverso, come è diverso il momento che stiamo vivendo a causa del Covid-19. Dopo il picco di emergenza sanitaria, il lockdown e i divieti imposti per oltre due mesi, entriamo nella Fase 2, una fase di progressiva riapertura in cui ci ritroviamo a fare i conti con una triste realtà emotiva ed economica.

L’Italia sente l’esigenza di una spinta verso la ripresa. Ci siamo fatti forza con la solidarietà, il “sentirci vicini rimanendo lontani”, le connessioni del quotidiano. Ma ora più che mai abbiamo bisogno di identificarci con valori essenziali e con messaggi positivi ed incoraggianti per affrontare questa nuova fase. Così anche la pubblicità segue una sorta di trend del post-Covid (e non solo in Italia).

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I brand che ci accompagnano ogni giorno si connettono con il momento particolare e fanno sentire la loro vicinanza – o meglio – la loro responsabilità nei nostri confronti. Le pubblicità post Covid raccontano le nostre giornate passate in casa alla riscoperta di tante emozioni che avevamo forse messo da parte. I brand riconoscono nella tecnologia il ruolo fondamentale di connessione tra affetti e condivisione alternata tra momenti di svago e attività lavorative.

In questo momento ritroviamo infatti uno scenario “universale” il cui target è ampio, al limite del generico.

Momenti e spazi condivisi

Lo spot Chiquita celebra l’originalità tutta italiana dimostrata durante il lockdown. Una serie di foto e video che dietro un momento storico difficile mostra un vissuto simpatico, espresso da ognuno attraverso i propri spazi e impegnando la propria creatività. Un ringraziamento agli italiani, che non si sono arresi e che con la stessa forza e originalità sono pronti a ripartire. (Agency: Bitmama)

Sulle note della canzone My Favourite ThingsMulino Bianco ci ricorda che la felicità è fatta di piccole cose, dai gesti quotidiani ai piccoli vizi golosi. Le immagini raccontano questi ultimi mesi, ripercorrendo quegli attimi che ci hanno reso protagonisti nelle nostre case, allo stesso modo. Sono proprio questi momenti di positività su cui il brand si fa forza per restituircela, per accompagnarci al ritorno della normalità senza dimenticare di fare tesoro delle belle emozioni riscoperte. (Agency: Publicis)

Così anche Carrefour ci fa compagnia in casa dove, per noi amanti del buon cibo, gli ingredienti non sono un semplice elenco di prodotti ma un insieme di occasioni per tenerci uniti(Agency: Publicis)

Vicinanza ed empatia anche per Jeep che attraverso i volti dei lavoratori, l’inventiva e lo spirito combattivo degli italiani incita ad un nuovo inizio. L’augurio del brand è quello di una nuova ripartenza, la nostra e quella dell’economia italiana. (Agency: Leo Burnett)

I brand dunque ci spronano, assicurano la loro vicinanza, promettono di tenerci la mano in questa risalita. Forse per questo, per l’uso di parole rassicuranti, toni e musiche pacate, scene di convivialità, riconosciamo una certa somiglianza tra le pubblicità post Covid.

Del resto in questo particolare momento, l’insight che ritroviamo è lo stesso per tutti, per i diversi brand e anche per noi.

Alcuni spot però, almeno nella narrazione sono riusciti a distinguersi dagli altri, distaccandosi da una esagerata ricerca dell’effetto empatico e da una rincorsa ai buoni sentimenti. 

Pibblicità post-covid: ripartire consapevoli di emozioni riscoperte

Milano è una delle città sfortunatamente protagoniste di questa pandemia. Ma Milano non si ferma: come un leone colpito si rialza fiera, un passo alla volta, con la voglia di rialzarsi ancora più forte.

Il rapper Ghali, tra i diversi quartieri, ci racconta una città ferita, ferma ma impaziente di ricominciare, che si adatta, aspetta, si reinventa. L’alba è quella tanto attesa da una metropoli che si sveglia ancora assonnata ma con la determinazione di ripartire con le sue mille attività. Perché dopo il buio arriva sempre l’alba che si apre in “quel cielo di Lombardia, così bello quando è bello” (cit. Manzoni, Promessi Sposi). (Agency: TBWA)

Mentre il mondo è andato in pausa, le emozioni e le esperienze hanno continuato ad esistere in casa con ognuno di noi. Uno specchio di vita, di preoccupazioni, di cambiamento, di amore, di riscoperte raccontate proprio dai nostri spazi più familiari.

Ed è da lì che Ikea ci sprona a ripartire e continuare, anche se in modo diverso, quella vita che almeno dentro casa non si è mai fermata(Agency: DDB)

Lavazza inneggia al sentimento di un’umanità ritrovata, alla sensibilità individuale che fa eco nella comunità. Il rispetto e la responsabilità verso ciò che è diverso, verso il nuovo e quello che già esiste grazie anche al ruolo della tecnologia e della scienza: queste sono le parole tratte dal discorso finale di Charlie Chaplin nel suo film “Il Grande Dittatore”.

La ricerca di ciò che è giusto per tutti attraverso un consapevole annullamento degli stereotipi e delle prevaricazioni. Sembra strano realizzare che queste parole, attuali più che mai, siano state pronunciate nel 1940. (Agency: Armando Testa)

C’è chi dice basta alla pubblicità post-Covid

Eppure, c’è sempre un rovescio della medaglia. Dopo esser stati bombardati da messaggi rassicuranti, ringraziamenti e celebrazioni di una nuova fase c’è qualcuno che mal sopporta queste pubblicità.

Sui social, da qualche settimana è diventata sempre più forte l’insofferenza verso questa retorica nella comunicazione. C’è infatti tutto un altro pubblico che non si riconosce in queste esagerate coccole dei brand. Un pubblico che prende voce e si rivolge ai brand, sgridandoli.

La campagna si riferisce all’esasperazione spettacolare di molte pubblicità ideate già prima del Covid ma che per alcuni, calza perfettamente con questo momento. (Agency: 5hort)




Antonio Cerasa (Cnr): «Le riunioni del futuro? Le faranno i nostri ologrammi»

Antonio Cerasa (Cnr): «Le riunioni del futuro? Le faranno i nostri ologrammi»

«Ci saranno ologrammi ovunque: in ogni videochiamata, in ogni webinar, in ogni lezione a distanza». Secondo Antonio Cerasa, neuroscienziato dell’Istituto per la Ricerca e l’innovazione Biomedica del CNR, «in un futuro non molto lontano saranno le nostre immagini tridimensionali a partecipare alle conversazioni e riunioni virtuali».

«Questo avrà dei vantaggi enormi», spiega lo scienziato. «L’olografia, infatti, non solo ci regalerà l’illusione della presenza nonostante i km di distanza – cosa che in parte già a riescono fare piattaforme come Zoom, Google Hangouts, Skype, FaceTime – ma ci consentirà di rappresentare la nostra figura fisica, attraverso le sue tre dimensioni, e di avere un’interazione più umana, più rilassante, più emozionante, e quindi più efficace, con il nostro pubblico».

In pratica, chiarisce Cerasa, «attraverso gli ologrammi mimeremo le nostre relazioni sociali, renderemo le conversazioni simili a quelle reali, arricchiremo il significato delle nostre parole, affiancheremo alla nostra voce anche la mimica facciale, la gestualità, l’espressività». Tutti questi elementi «che saranno finti ma non falsi», e che «lavoreranno sul coinvolgimento emozionale e sensoriale», aggiunge lo scienziato, «saranno importanti non solo perché renderanno (più) affascinante la nostra esperienza, ma anche perché attraverso questa fascinazione saranno in grado di catturare le nostra attenzione e ridurranno il rischio di annoiare e annoiarci».

La «Zoom fatigue» ci attanaglia

Oggi, sottolinea lo scienziato, è molto difficile rimanere concentrati guardando e ascoltando esclusivamente le immagini piatte che sembrano appese ai nostri schermi a due dimensioni. «Osservare e ascoltare delle talking heads – delle teste parlanti – non ci emoziona. Per questo con il trascorrere delle ore, aumenta la tentazione di cedere alle distrazioni», spiega Cerasa. «Se invece dobbiamo resistere a tutti i costi, il nostro cervello si impegna in una dura lotta, e alla fine ne usciamo stravolti».
E infatti, sono molte le persone che raccontano di arrivare a fine giornata completamente stremate e spossate dalla nuova routine imposta da webinar e videochiamate. Così tante che vari scienziati e studiosi hanno dovuto coniare un nuovo termine per descrivere questa sensazione: «Zoom fatigue», l’hanno chiamata. Letteralmente significa «affaticamento da Zoom», ma si applica anche alle videochiamate fatte con qualsiasi interfaccia.

Più distratti di un pesce rosso

La difficoltà a rimanere concentrati, però, non è (solo) un effetto collaterale della pandemia Covid-19. Uno studio del 2015 di Microsoft ha calcolato che la nostra soglia di attenzione è passata da dodici secondi (nel 2000) a otto secondi: in pratica, siamo più distratti di un pesce rosso, che è capace di concentrarsi per nove secondi.
«Solo che oggi», spiega Cerasa, «la nostra già precaria capacità di rimanere concentrati è aggravata dal continuo bombardamento di notifiche che arrivano da tutti i dispositivi elettronici. Queste interferenze rendono ancora più difficile l’esecuzione di alcuni lavori che richiedono lunghi periodi di attenzione sostenuta».

Inutile lavorare 4 ore di fila

Per questo motivo, chiarisce lo scienziato «dal punto di vista neurofisiologico è del tutto inutile, se non addirittura controproducente, cercare di rimanere concentrati per troppe ore consecutivamente: non solo perché il nostro cervello non ce la fa, ma anche perché quando la capacità di attenzione diminuisce per la stanchezza siamo più propensi a commettere errori».
Che senso ha, domanda Cerasa, restare fermi a fissare uno schermo (o un foglio o una macchina) se non riusciamo a rimanere concentrati e attenti? «Forse sarebbe meglio se imparassimo a parcellizzare il lavoro, così come le riunioni e le conversazioni online: funzioniamo meglio, cioè siamo più produttivi, più efficaci, più brillanti, se ci impegniamo per piccoli intervalli su alcuni “tasks” specifici». Cerasa lo spiega bene nel suo libro Expert Brain (FrancoAngeli), dedicato a quegli individui che hanno sviluppato una particolare abilità ed eccellono in essa, al punto che il loro cervello si è modellato di conseguenza (tra cui giocolieri, musicisti, scacchisti e chef).

Se siamo concentrati lo dicono le nostre ciglia

Tutto bello. Ma, specie in Italia, ci sono ancora parecchi datori di lavoro che avvertono un forte bisogno di controllare i propri dipendenti e collaboratori. Come fare allora? «Se un datore volesse misurare il grado di attenzione di un suo dipendente potrebbe installare telecamere che misurano i movimenti degli occhi (le saccadi)», dice Cerasa. «Quando siamo concentrati, o stiamo compiendo uno sforzo cognitivo, i nostri occhi si muovono in un modo completamente differente rispetto a quando siamo distratti o assonati. Non mi stupirebbe se qualcuno lo stesse già facendo». Certo, aggiunge, «può apparire inquietante, ma questo dato potrebbe essere utile per capire qual è la durata ottimale delle videochiamate, delle riunioni e potrebbe essere utile anche per rendere più efficaci le lezioni erogate tramite di didattica a distanza». Lo sanno bene all’Università degli studi di Milano Bicocca, dove una equipe di ricercatori dei Dipartimenti di Psicologia, Informatica e Scienze della Formazione, coordinati da Roberta Daini, sta studiando il rapporto tra la capacità di mantenere l’attenzione nel tempo e le caratteristiche delle lezioni a distanza e una parte del progetto riguarderà proprio la registrazione dei movimenti oculari.

La strada però è ancora lunga

Comunque, prima di vedere ologrammi ovunque, bisognerà attendere ancora un po’. C’è un elemento che ne frena la diffusione massiccia: al momento i costi sono ancora piuttosto alti. «Ma l’evoluzione della tecnologia (soprattutto della velocità di trasmissione dei dati ) e dei contenuti digitali potrebbero favorirne la diffusione, a casa e sul lavoro». La strada è avviata: oggi sono già moltissimi i progetti che hanno richiesto l’impiego di ologrammi: dagli eventi aziendali alle convention di politica, dalle presentazioni di libri e film, alle lezioni alle università, fino alle sfilate di haute couture.




Moda, Giorgio Armani: “Questa crisi è una meravigliosa opportunità per ridare valore all’autenticità”

Moda, Giorgio Armani: “Questa crisi è una meravigliosa opportunità per ridare valore all’autenticità”

Il mondo della moda è, da sempre, il settore che fa da traino all’economia italiana, raccontando il valore del made in Italy nel mondo, e con l’emergenza da covid19 se ne è avuta ulteriore conferma. Il timore di compromettere la propria reputazione e, quindi, il proprio valore economico era legittimo e comune alla maggior parte delle aziende, soprattutto considerando che, allo scoppio dell’emergenza, l’industria del fashion si preparava a lanciare la collezione primaverile, con tanto di campagne già pianificate e budget già investiti.

Le aziende di moda italiane, in passato, si sono spesso rivelate solide e produttive, con un indice di ebit margin, che indica la capacità di generare profitto, in media del 9,3%, contro il 6,2% dei brand sotto il controllo di un player straniero. Un dato che è ancora migliore per quei marchi a controllo familiare, per i quali la media è del 13,4% (dati studio Mediobanca R&S)

Anche in questo caso, alcuni brand italiani non solo sono riusciti a resistere ad una crisi – sanitaria ma anche economica – di portata globale, ma hanno saputo gestire il momento, tanto da uscirne con una reputazione, e di conseguenza un valore economico, migliorata, stando a quanto emerge dall’analisi effettuata con Reputation Rating, algoritmo che pesa e misura le dimensioni della Reputazione, certificando una serie di parametri oggettivi e soggettivi, quali certificati, media intelligence e Sentiment Analysis, attraverso la tecnologia blockchain.

È importante comprendere che la reputazione non è solo “ciò che dicono ti te le altre persone” o l’andamento di parametri finanziari. Per questo, Reputation Rating valuta informazioni differenti, concependo la reputazione in termini di reti e sistemi e stabilendone il peso specifico attraverso la logica dei certificati.

Tra coloro che meglio identificano le eccellenze della moda italiana, e che dovrebbe essere preso ad esempio per la gestione dell’emergenza, c’è sicuramente Giorgio Armani, noto anche come Re Giorgio. Intervistato da Reputation Review, lo stilista ha discusso le modalità della ripartenza in questo settore così fondamentale per il nostro Paese. Un’azienda che conta oggi più di 7 mila dipendenti nel mondo, con un fatturato globale pari a 2.1 miliardi di euro. Ma ciò che maggiormente caratterizza Armani è la sua straordinaria leadership e la capacità di valorizzare in primis sempre il contributo del fattore umano.

«Questa crisi è una meravigliosa opportunità per riallineare tutto, per ridare valore all’autenticità – Racconta Re Giorgio nell’intervista pubblicata sul numero 22 della rivista – Il momento che stiamo attraversando è turbolento, ma ci offre anche la possibilità, unica davvero, di aggiustare quello che non va, di riguadagnare una dimensione più umana per dar spazio a valori come il coraggio, la solidarietà e lo spirito di sacrificio, che poi sono le caratteristiche della nostra cultura. È bello vedere che in questo senso siamo tutti uniti. L’emergenza attuale dimostra come un rallentamento attento e intelligente sia la sola via d’uscita. Il declino del sistema moda per come lo conosciamo è iniziato quando il settore del lusso ha adottato le modalità operative del fast fashion, carpendone il ciclo di consegna continua nella speranza di vendere di più, ma dimenticando che il lusso richiede tempo, per essere realizzato e per essere apprezzato. Il lusso non può e non deve essere fast.”

È nei momenti di difficoltà, in fondo, che si vede il valore di un vero leader. E Giorgio Armani lo è. In questo momento difficile, ha voluto contribuire alla rinascita economica e reputazionale di Milano, città che lo adottò anni fa e che tanto ama, e dell’Italia, decidendo di riportare nel capoluogo lombardo le sue sfilate di alta moda, dopo anni di assenza, augurandosi che i suoi colleghi facciano lo stesso.

“Dal lockdown, la Reputazione di Armani è cresciuta in particolar modo in riferimento alla Corporate Social Responsibility (CSR), non solo come diretta conseguenza della donazione a concreto supporto sul fronte Coronavirus, ma anche per il costante impegno nel sostenere l’ecosistema nazionale, riportando dopo anni le sfilate di alta moda a Milano. – Commentano Davide Ippolito e Joe Casini, fondatori di Reputation Review, l’unica rivista italiana interamente dedicata all’analisi delle reputazioni – Contestualmente, forti segnali positivi sono stati rilevati per il Driver delle Performance e, parallelamente, nei confronti degli Stakeholder Investitori e Finanziatori, proprio per la forza e stabilità che ha trasmesso Armani durante l’emergenza economico-sanitaria; non per ultima, la Leadership di Armani è stata rilevata in crescita, trascinando con sé un miglioramento della Reputazione percepita da Società e Istituzioni. Dalla ricerca, pertanto, emerge come il capitale reputazionale pregresso, basato fortemente sulla Leadership e sulla Reputazione nei confronti dei Consumatori, abbia consentito al brand di superare in modo brillante questa crisi senza precedenti.”




Ellie Goldstein è la prima modella Gucci con la sindrome di Down

Ellie Goldstein è la prima modella Gucci con la sindrome di Down

Ellie Goldstein è  la prima modella di Gucci con la sindrome di Down

La 18enne di Ilford – a nord di Londra – ce l’ha fatta a realizzare il suo sogno: dopo anni di gavetta tra pubblicità e shooting, Ellie ha sfondato. Una conquista sua e anche del mondo della moda che ha scavalvato pregiudizi e resistenze nei confronti della disabilità.

Ellie è il volto della nuova campagna beauty di Gucci

che sui social ha raccolto migliaia di like. Tre anni fa il suo primo contratto con un’agenzia che rappresenta persone con disabilità, poi le prime pubblicità con brand importanti come Vodafone e Nike. Ellie sponsorizza il mascara L’Obscur ed è la prima modella con la sindrome di Down della nota maison di lusso. Ellie Goldstein vuole anche laurearsi, è  iscritta alla facoltà di arti performative del college di Redbridge.

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Allarme deepfake, così l’intelligenza artificiale ci aiuterà (forse) a combattere i falsi creati dall’intelligenza artificiale

Allarme deepfake, così l’intelligenza artificiale ci aiuterà (forse) a combattere i falsi creati dall’intelligenza artificiale

L’ultimo esempio è quello più innocuo, ma che però ha creato più scalpore: un finto Tom Cruise, praticamente identico all’originale, che scherza e ride in una serie di video molto condivisi su TikTok. Talmente condivisi da suscitare un ampio dibattito online e da spingere il loro creatore a rimuoverli temporaneamente dal social network, dimostrazione pratica del livello raggiunto dai cosiddetti deepfake, quei falsi (immagini, video, audio) realizzati grazie all’utilizzo di algoritmi basati sull’intelligenza artificiale, che partendo da un volto è in grado di simularne un altro, anche ricreando la mimica facciale e le espressioni.

Quelle clip erano (sono) fatte per divertire e infatti su TikTok sono tornate e sono rimaste, ma il timore di molti è che siano un antipasto di quello che ci attende in futuro, quando i deepfake saranno utilizzati per imitare in maniera incredibile (anzi, molto credibile) un esponente politico, un personaggio pubblico, un vicino di casa, la maestra di nostra figlia. E farle dire qualsiasi cosa. Come faranno le persone a capire che cosa è vero e che cosa no? Come faranno i giornalisti? Facendosi aiutare dalla tecnologia, ovviamente.

Le IA usate contro le IA

Alcuni ricercatori dell’Università di Buffalo, negli Stati Uniti, hanno trovato un modo per distinguere i volti umani da quelli generati da un computer, analizzando il riflesso negli occhi. Nel documento stilato dagli scienziati (che è questo, in pdf) viene ricordato che la cornea funziona un po’ come uno specchio e riflette la luce che si trova di fronte: nel caso degli esseri umani, quello che si vede riflesso nei due occhi è pressoché uguale, perché hanno davanti gli stessi oggetti e le stesse fonti luminose; nel caso dei deepfake questo non succede, o comunque non succede quasi mai, perché (semplificando) i volti artificiali (come questo) vengono creati da database di facce che vengono combinate insieme per ottenere il risultato desiderato e gli occhi possono anche arrivare da due visi diversi. 

Per trovare i falsi, i ricercatori hanno utilizzato un software che ha imparato a riconoscere gli umani dopo avere studiato decine di migliaia di occhi e i loro riflessi, cioè un’intelligenza artificiale per contrastare un’altra intelligenza artificiale. E i risultati sono piuttosto soddisfacenti, visto che sfiorano il 95% di affidabilità.

Uno dei video del falso Tom Cruise su TikTok

Una battaglia che è appena iniziata

Con qualche controindicazione, evidenziata dagli stessi ricercatori: il sistema funziona (molto) bene se davanti al viso c’è una fonte di luce abbastanza chiara ed evidente da generare un riflesso sulle cornee e soprattutto se entrambi gli occhi sono visibili, così che l’IA possa metterli a confronto; inoltre, un successivo lavoro di post-produzione sul “falso” potrebbe intervenire anche a livello di questi dettagli, così da armonizzare fra loro i riflessi su occhio destro e occhio sinistro.

Col tempo, comunque, è probabile che queste contromisure diventino ancora più efficaci (nell’aiutarci), cosa che però faranno anche i deepfake (nell’ingannarci). Insomma, è solo l’inizio dell’ennesima battaglia fra buoni e cattivi… solo che questa volta riguarda le macchine.