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Deliveroo crolla al debutto in Borsa, fondi e investitori stanno con i rider

Deliveroo crolla al debutto in Borsa, fondi e investitori stanno con i rider

Era stata annunciata come la più grande quotazione degli ultimi anni in arrivo sul listino di Londra ma alla fine si è rivelata un clamoroso flop: ieri i titoli azionari di Deliveroo, big britannica delle consegne di pasti a casa, hanno esordito sul mercato con una perdita di oltre il 30%. Nelle ore successive il trend è un po’ migliorato ma le azioni hanno chiuso la loro prima giornata con un tonfo del 26,3% a 2,87 sterline. Si tratta di un fiasco che non si vedeva da tempo e che segnerà una brutta battuta d’arresto negli sforzi della Londra post-Brexit di diventare una piazza attraente per le quotazioni dei gruppi tecnologici internazionali. È però anche la prima volta che una società della gig economy riceve una sonora sberla dai mercati e potrebbe segnare un nuovo inizio per i diritti dei lavoratori di questo settore.

Il sentore che il debutto di Deliveroo si sarebbe potuto trasformare in un clamoroso disastro era nell’aria. Nei giorni scorsi la società aveva rivisto al ribasso la forchetta, vale a dire il range di proposta del primo prezzo. Questa era stato abbassata da 3,90 – 4,60 sterline a 3,90 – 4,10 sterline ad azione e il valore di avvio era stato fissato sul margine più basso a 3,90 sterline. In genere questo tipo di decisioni nascondono la paura di una cattiva accoglienza da parte degli investitori. E così è stato. La mossa di «scontare» l’offerta non è bastata e gli investitori hanno voltato in massa le spalle all’Ipo.

Alla base della fuga da Deliveroo ci sarebbe il rischio che la società possa finire in una «lista nera» delle aziende che non si attivano per i propri lavoratori. Su questo hanno influito le proteste dei rider, i fattorini che materialmente effettuano le consegne dei pasti e che chiedono maggiori tutele e salari più congrui.

Proprio per questo aspetto, secondo quanto riferiva Bloomberg qualche giorno fa, alcuni dei maggiori asset manager della City avrebbero sollevato preoccupazioni sul fatto che Deliveroo potrebbe non rientrare negli schemi previsti per gli investimenti socialmente sostenibili. Questo punto escluderebbe infatti i titoli della società dai fondi delle grandi case di investimento. Su questo tema si sono espressi alcuni grandi gestori britannici, come Aberdeen, Aviva e Legal & General, che si sono rifiutati di mettere nei propri panieri una società i cui standard nel trattamento dei lavoratori non sono considerati in linea con i criteri di investimento Esg, vala a dire a favore dell’ambiente, del sociale e di governance corrette. «I diritti dei lavoratori sono importanti» ha recentemente spiegato Andrew Millington, capo degli investimenti azionari Uk di Aberdeen mentre i rider cercavano di attirare i riflettori sulle proprie condizioni proclamando, come ha fatto il sindacato Iwgb, scioperi delle consegne durante l’Ipo.

«Gli investitori non guardano più soltanto ai libri contabili quando decidono dove indirizzare i propri capitali. Le questioni ambientali, sociali e di governance (Esg) sono ora di primaria importanza. La recente sentenza della Corte Suprema del Regno Unito sullo status degli autisti di Uber è stata un momento spartiacque, segnando l’inizio di una nuova era nella gig economy – ha commentato ieri Laura Petrone, Senior Thematic Research Analyst di GlobalData -. In questa nuova fase, gli investitori saranno sempre più preoccupati per i diritti di base dei lavoratori e per i potenziali rischi normativi man mano che i governi di tutto il mondo si attiveranno per regolamentare questo modello di business».




“CRISIS” SUPERLEGA, I CLUB TRAVOLTI DALLE POLEMICHE: SULL’INADEGUATEZZA DI ANDREA AGNELLI, E ALTRE STORIE

Crisis management Superlega

Superlega: un caso da manuale di pessimo crisis management, con le inevitabili ricadute sulla reputazione dei protagonisti

Ieri sera, dietro la sede della FIGC a Roma, in via Giulio Caccini, è stato realizzato un murales che raffigura Andrea Agnelli, con un coltello che buca un pallone: il Presidente della Juventus è ritenuto responsabile – assieme a Florentino Perez del Real Madrid – del lancio del criticatissimo progetto “Superlega”, assurto in questi giorni agli onori delle cronache nazionali e internazionali. Il murales in questione è stato realizzato dalla street artist Laika MCMLIV, che ha chiamato l’opera “La morte del calcio”, aggiungendo peraltro:

“Il tentativo di creare una competizione a invito riservata ai club più ricchi è la morte dei sogni dei tifosi di tutto il mondo. Lo sport dovrebbe insegnare che con la fantasia, il talento e l’allenamento tutti possono provare a vincere. La Superlega, in nome di un business sempre più monopolizzato, sconfessa definitivamente questo sogno. L’idea che sia stato pensato fa paura perché tutto ciò non riguarda solo il calcio”.

Crisis Superlega: una breve cronistoria

Riepilogando quanto accaduto, per i pochi che non avessero seguito la polemica, si tratta del progetto di avvio di una competizione a cadenza annuale per una decina di Club calcistici alternativa alla Champions League, che avrebbe riunito alcune tra le migliori squadre europee in una sorta di campionato di super élite, organizzato autonomamente dai Club promotori. L’UEFA, in risposta, ha minacciato una causa milionaria contro tutti i club che avessero aderito al progetto, nonché esclusione degli stessi dalle competizioni ufficiali (Champions ed Europa League) come anche dei loro giocatori dalle Nazionali e da tutte le competizioni UEFA e FIFA, generando una rapida escalation a colpi di comunicati stampa che ha portato il tema Super Lega ad essere negli ultimi 3 giorni trend-topic oltre che su mass-media tradizionali anche e soprattutto su tutte le più importanti piattaforme digitali.

Un progetto, quella della Super League, durato il tempo di un respiro: a mezzanotte di domenica scorsa venne diffuso il comunicato che ne annunciava la costituzione, stanotte (il martedì successivo) alle 2 i promotori hanno ufficializzato la sospensione del piano a tempo indeterminato, di fatto prendendo atto del naufragio dello stesso.

Naufragio – un’ennesima volta – attribuibile in larga parte dall’ignoranza, da parte dei protagonisti della contesa, dei più elementari principi di reputation management e di crisis communication, ampiamente documentati in letteratura; a dimostrazione, una volta di più, che il “dimensionamento” dell’organizzazione (in questo caso alcuni dei più noti e prestigiosi Club calcistici del mondo) non va necessariamente d’accordo con l’efficacia e l’efficienza nella gestione di scenari critici, in grado di pregiudicare tangibilmente il valore per gli azionisti – confermato anche dal crollo in borsa delle azioni Juventus, arrivate a toccare il -13% in un’unica giornata – e in generale per tutti gli altri stakeholder.

Cattiva comunicazione e tono di voce arrogante: la tempesta perfetta

Criticità, quelle sopra richiamate, emerse peraltro fin dal primo momento, con una comunicazione dal tone of voice tendenzialmente arrogante: Agnelli ha provato fino all’ultimo a difendere la Super Lega, dichiarando in un’intervista pubblicata ieri mattina su Repubblica e Corriere dello Sport “Andiamo avanti, c’è un patto di sangue tra noi”, per poi ammettere poche ore dopo – con evidente carenza di coerenza – che non vi erano più le condizioni per proseguire nel progetto.

In realtà, la mancanza di compattezza granitica dei pool di Club coinvolti è emersa con estrema chiarezza non solo con il disimpegno rumorosissimo delle squadre inglesi, ma – non meno rilevante – anche con la mancata adesione di Amazon all’ipotesi Super League, con il gigante dell’intrattenimento dell’home-video che ha dichiarato di comprendere e condividere le preoccupazioni dei tifosi sul progetto Super Lega:

Crediamo che il dramma e la bellezza del calcio europeo arrivino dall’abilità di ogni club di raggiungere i successi tramite le performances sul campo

hanno commentato sollecitamente dal quartier generale di Seattle, dando quindi una prima inequivoca indicazione sotto il profilo della potenziale mancata monetizzazione dei diritti TV che le squadre coinvolte avrebbero voluto incassare.

La domanda che affolla le cronache è principalmente una: ha avuto senso per i Club promotori del progetto Super Lega dichiarare guerra in modo sprezzante ai tifosi, da un lato, e alle istituzioni calcistiche dall’altro?

Superlega: crisis management, questo sconosciuto

Un’evidente trascuratezza dei delicati meccanismi sottesi alla costruzione e gestione della reputazione, in quest’epoca liquida quanto mai da intendersi in chiave multi-stakeholder, nonché, come abbiamo già evidenziato, delle più elementari regole afferenti al mondo del crisis management, che vede nella simulazione preventiva degli scenari di crisi secondo il modello del whorst-case-scenario (immaginare a tavolino, in tempo di pace, il peggior scenario possibile, e attrezzarsi per gestirlo al meglio dal punto di vista della comunicazione) un proprio irrinunciabile pilastro, specie in un mondo dove il digitale, facendola da padrone, determina le caratteristiche Glocal (globali e locali assieme, ovvero tutto ciò che accade qui, accade ovunque…) di ogni crisi reputazionale.

La comunicazione dei leader dei Club promotori del progetto è apparsa invece inopportuna nei toni e nei tempi (era dall’epoca della confusa gestione dell’emergenza pandemica da parte del Governo Conte che non assistevamo a comunicati stampa diramati in piena notte, indici di pressapochismo e, appunto, di carenza di efficace programmazione) nonché caratterizzata da un apparente quanto evidente fuga in avanti nelle prime fasi del lancio, a fronte di una solo apparente compattezza d’intenti, sgretolata in poche ore dinnanzi alla presa di posizione – quella sì pressoché granitica – da parte della quasi totalità delle tifoserie nel mondo, sia di piccoli come di grandi Club.

La reputazione di Andrea Agnelli e di altri protagonisti dello sfortunato progetto pare non venir adeguatamente tutelata da loro stessi neppure in extremis, a posteriori, né – ad oggi – essi sembrano aver pronto un sollecito recovery plan: per contro, dopo la netta presa di distanza da parte dell’Arsenal, è intervenuto magistralmente il proprietario del Liverpool, l’americano John W. Henry, che ha pubblicato un vero e proprio video di scuse rinunciando a far parte della Super Lega, e rivolgendosi ai tifosi con una dichiarazione senza mezzi termini:

“Nelle ultime 48 ore abbiamo causato un disagio, ma va detto che il progetto presentato non sarebbe mai durato senza il supporto dei tifosi. In queste 48 ore siete stati molto chiari sul fatto che non avrebbe funzionato. E voglio scusarmi con i giocatori e tutti coloro che lavorano così duramente al LFC per rendere orgogliosi i nostri tifosi (…). Mi dispiace, e solo io sono responsabile della negatività inutile portata avanti negli ultimi due giorni. È qualcosa che non dimenticherò, e mostra il potere che i fan hanno oggi e che giustamente continueranno ad avere (…). È importante che la famiglia calcistica del Liverpool rimanga intatta, vitale e impegnata in ciò che abbiamo visto da voi a livello globale, con gesti locali di gentilezza e sostegno. Posso promettervi che farò tutto il possibile per promuoverlo”.

Una dichiarazione – quella del patron dei Reds – perfettamente in linea con le best practics del crisis management, che prevedono nella presentazione delle scuse incondizionate agli stakeholder il primo e irrinunciabile passo di un’efficace gestione di crisi.

In casa Juve, invece, ancora una volta arroganza e vanità, peccati peraltro assai gravi: Vanitas vanitatum et omnia vanitas”, come ci ricorda il bellissimo libro dell’Ecclesiaste, che – fossimo a scuola – la Maestra condannerebbe Andrea Agnelli a rileggere ad alta voce almeno 50 volte; meglio in ginocchio sui ceci, dietro la lavagna.




Covid-19: alla ricerca di un vaccino per la cacofonia

Abbiamo imparato a difenderci dal nuovo Coronavirus, ma non da tutto il "rumore" mediatico che accompagna la pandemia

Insieme a quante persone stiamo trascorrendo questo – ahimè, ennesimo – lockdown? La risposta parrebbe in prima battuta, semplice: una, due, oppure quattro, per chi ha anche figli in casa.

Invece, a ben contare, decine, centinaia, per qualcuno migliaia di persone, se contiamo colleghi, studenti, clienti e quant’altri imperversano su Zoom per ragioni professionali; parenti e amici che intasano la messaggistica di Whatsapp; influencer e perfetti sconosciuti che pontificano sui nostri wall Social; per non parlare di opinionisti e giornalisti che dicono la loro dagli schermi televisivi e sulle frequenze radiofoniche. Un vero buzz costante, ma con il volume – purtroppo – sempre al massimo, una babele di voci, dati, opinioni, ipotesi e allarmi.

Vien da chiedersi come sia possibile non uscirne pazzi, e infatti i dati confermano un’impennata delle diagnosi di depressione e dell’uso (e abuso) di psicofarmaci: di fatto, tutti i nostri sensi hanno trascorso gli ultimi 13 mesi a correre come criceti in gabbia. Una gabbia, però, davvero troppo affollata. Una cacofonia che non lascia indenne neppure l’apparentemente asettico dominio della scienza: come farsi mancare, ad esempio, le recenti accese polemiche sulla sicurezza del vaccino AstraZeneca, o “Oxford Vaccine”, come lo chiama – autarchicamente – il Premier inglese Boris Johnson?

A seguito delle due tristi morti per trombosi registrate in Italia, le pagine Social dell’autorevole (sic!) “BustoArsizioToday” hanno pubblicano strilli e articoli sul mal di testa della Sciura Brambilla dopo la prima inoculazione del vaccino, domandando in grassetto ai lettori “E voi: vi fidate di questo vaccino…?”; le cronache di mezza Italia ci hanno tenuti impegnati per giorni sul tema “AstraZeneca si, AstraZeneca no”: come se a decidere sulla sicurezza di un vaccino dovessero essere i giornalisti, o peggio ancora, per plebiscito, i cittadini laureati all’Università della strada.

Più precisamente, sono stati registrati – purtroppo – due decessi nel nostro Paese, tra i vaccinati con AstraZeneca, su 3 milioni di dosi (leggasi: uno ogni 1,5 milioni), per una causa di morte – la trombosi cerebrale – che uccideva comunque, prima del lancio del vaccino, 30 italiani al giorno (uno ogni 2 milioni). Possiamo immaginare che questi due tristi decessi, avvenuti in concomitanza con la somministrazione del vaccino, siano accaduti del tutto a prescindere dall’inoculazione del prodotto? È quanto meno ragionevole ipotizzarlo. Qualora invece si trattasse di una correlazione diretta tra somministrazione del vaccino ed effetto collaterale, è giustissimo evidenziarlo: come scrive Roberto Colombo in un bell’articolo su Avvenire, “Inutile negare o sminuire i possibili eventi avversi rari ma seri riscontrati nella somministrazione dei vaccini (come avviene anche per altri farmaci), o nasconderli in qualche modo agli occhi dei cittadini, nella speranza di evitare timori sproporzionati o rifiuti irrazionali. Come la storia del rapporto tra paziente e medico insegna, la fiducia del primo il secondo se la conquista con la correttezza professionale, la trasparenza e il dialogo“. Ma senza panico, please, e senza per questo mettere in dubbio ad ampio raggio l’utilità dell’uso di uno strumento terapeutico fondamentale quale quello dei vaccini, che nel corso dell’ultimo secolo hanno salvato milioni di vite, pur presentando – tendiamo a dimenticarlo: come qualunque farmaco che utilizziamo ogni giorno – alcuni, rarissimi, effetti collaterali: dati alla mano, i vaccini Moderna e Pfizer insieme hanno causato alla data di pubblicazione di questo articolo segnalazioni per reazioni avverse gravi (meritevoli di ricovero, ma non mortali, per fortuna) in 138 casi, e quello AstraZeneca 36; numericamente ridicoli i primi, e praticamente inesistenti i secondi, se paragonati al numero complessivo di persone vaccinate.

Per non parlare poi delle polemiche sollevate – sempre dalla sciatta stampa nostrana – sull’efficacia del vaccino Astrazeneca per gli over 65. I produttori anglo-svedesi avevano consegnato all’EMA, l’agenzia europea per i medicinali, dati di trials ancora insufficienti a garantire la totale efficacia del prodotto per quella fascia d’età; ebbene, il rilievo relativo al fatto che la sperimentazione fosse stata inizialmente condotta su un numero di soggetti over 65 insufficiente per costituire una base statistica affidabile si è cabarettisticamente trasformato sui nostri giornali in titoli ad effetto di centinaia di organi di stampa: “AstraZeneca, vaccino pericoloso per gli anziani!”, generando un tanto diffuso quanto inutile allarmismo.

Ma non basta. Oggi, in Europa e quasi tutto il mondo, con poche felici eccezioni, i produttori di vaccini sono – purtroppo – in ritardo sulla produzione delle dosi che si sono impegnate a consegnare. Ecco allora i titoli sui più diffusi mass-media: “Big Farma ci ha truffati, promettendo centinaia di milioni di dosi, che poi in realtà va a vendere altrove” (chissà dove, poi).

Aggiungiamo magari anche le polemiche nostrane sulle lungaggini e disorganizzazioni nel piano vaccinale (certamente, si poteva – e si dovrà – far meglio), e tra titoli sensazionalistici e teorie complottiste l’ennesimo effetto distorsivo della realtà è garantito.

In un recente articolo pubblicato su The Atlantic a firma di Zeynep Tufekci, poi tradotto da Internazionale, l’apprezzata docente alla North Carolina University e al Berkman Klain Center di Harvard ha ricordato come quando fu approvato il vaccino contro la Poliomelite la notizia venne accolta con enormi manifestazioni di esultanza, con le campane delle chiese che suonarono a festa in tutti gli Stati Uniti, e i giornali che titolarono “Una vittoria monumentale”, bambini che uscirono prima da scuola per festeggiare e adulti per strada a ballare dalla gioia; per il Covid, curiosamente, non è accaduto nulla di tutto questo.

Vero, “big pharma” in passato ci ha male abituati: disease mongering (variazione dei criteri diagnostici di una malattia per vendere più farmaci, tecnica di marketing ampiamente documentata in letteratura), comparaggio (impegno assunto da un medico di agevolare a scopo di lucro la diffusione di prodotti farmaceutici di una determinata azienda), corruzione vera e propria, e anche occultamento doloso di studi scientifici che dimostravano che propri prodotti farmaceutici erano non solo inutili ma anche pericolosi… Pare insomma che l’industria farmaceutica si sia davvero impegnata, negli ultimi decenni, per pregiudicare la propria stessa reputazione e incrinare il rapporto di fiducia con i pazienti e la cittadinanza in generale, tanto che a seguito di questi deprecabili comportamenti la quasi totalità delle aziende farmaceutiche multinazionali è stata oggetto di sanzioni assai elevate, in alcuni casi vere e proprie multe monstre da miliardi di dollari.

Per non parlare poi della pessima gestione dell’emergenza socio-sanitaria causata dal Covid-19, da parte del Governo dell’allora Presidente del Consiglio Giuseppe Conte, che pare abbia a sua volta fatto di tutto per incrinare la fiducia tra istituzioni e cittadini: altro che Italia come modello virtuoso nella gestione della pandemia, sono stati ben altri i Paesi che sono stati in grado di fare la differenza nel numero di decessi.

Ma ragioniamo, e una volta per tutte circostanziamo razionalmente l’analisi a quanto realmente accaduto negli ultimi mesi. Quindici mesi fa si veniva a conoscenza dell’esistenza di un nuovo coronavirus in Cina, il Covid-19; quattordici mesi fa si otteneva il completo sequenziamento del genoma di questo virus, sequenziamento che gli scienziati di tutto il mondo hanno avuto disponibile nelle successive 24 ore; oggi, a distanza di poco più di un anno dal “paziente zero”, disponiamo di una dozzina di vaccini già iniettati in centinaia di milioni di braccia, e altri stanno venendo approvati dalle autorità regolatorie.

Ben pochi, tuttavia, i titoli sui mass-media tali da segnalare in modo incisivo una delle notizie – francamente la più interessante ini questa pandemia – ovvero quella relativa al vero e proprio miracolo della scienza e della ricerca farmaceutica costituito dall’assoluta rapidità di risposta a questa crisi di dimensioni mondiali, che – direttamente o come concausa – ha lasciato per strada quasi 3 milioni di morti, con buona pace di Fragolina81, professione estetista, che su Facebook si straccia le vesti postando a gran voce, in grassetto e con sintassi dadaista: “Complotto! I vaccini li fanno con i feti morti e ci mettono dentro il microchip per il 5G di Bilgheitz”.

Probabilmente, non sarebbe azzardato scrivere che “Mai nella storia dell’uomo si è stati capaci di rispondere così rapidamente ed efficacemente a una nuova malattia”, con uno strumento efficace come il vaccino per il Covid-19, come dimostrano i dati straordinari della campagna vaccinale in Israele, segnalati a più riprese anche con tagliente ironia dal virologo Roberto Burioni. Ecco, questa sarebbe la vera notizia da enfatizzare a gran voce, risultato del quale giustamente godranno anche no-vax, complottisti, teorici del “potere di big pharma”, critici del metodo scientifico, e via discorrendo.

E a dimostrazione che la scienza non è perfetta ma perfettibile, vorremmo prima di concludere ricordare il lavoro di Katarina Kariko, per anni snobbata da tutti i consigli di facoltà e dai principali atenei, che ha fatto carte false per portare avanti la propria ricerca sull’RNA Messaggero, trascurata da ogni possibile finanziatore e anche boicottata da non pochi suoi colleghi, scienziata che – nonostante il vento avverso – ha tenacemente costruito anno dopo anno il know-how che oggi costituisce l’infrastruttura scientifica su cui poggiano buona parte dei vaccini anti-Covid. A questa scienziata straordinariamente lungimirante forse – anche in ambito accademico – qualcuno dovrebbe chiedere scusa, qualcun altro dedicare magari una targa, e tutti noi un minuto di riconoscenza. In silenzio, magari, così da bilanciare il pessimo spettacolo dato da non pochi uomini di scienza, che – caduti nella trappola del nostro dequalificato giornalismo – si sono scatenati a litigare h 24 in diretta TV: un epidemiologo che dibatte con un immunologo, un direttore sanitario che si prende a pesci in faccia con un medico di base, un virologo insultato da un fisico, e via discorrendo.

Per i mass-media, e relativi Social, tutto ciò si é sostanziato in accesi scontri, ovvero audience e click sulle notizie, quindi in definitiva, in soldi; per la scienza, è stato invece un pessimo spettacolo, perché gli scienziati dovrebbero dibattere in modo anche acceso nei congressi scientifici, e non in televisione, e dai congressi fare sintesi – possibilmente con un approccio multidisciplinare – per poi spiegare a noi cittadini il senso delle cose, con una sola versione, chiara, condivisa, per quanto possibile semplice, e comunque facilmente declinabile, in modo comprensibile, ai non addetti ai lavori. Diversamente, rischia di passare – come purtroppo a tratti è invece passato – il pericoloso messaggio che “neppure la scienza ha le idee chiare”, e allora per qualcuno ben venga il ciarlatano venditore di comode verità pret-a-porter spacciate come soluzioni alternative, o gli allarmismi in salsa pseudo-scientifica. Come ricordato dalla Tufekci sulle colonne del mensile americano, “La lotta alla pandemia è stata anche ostacolata da una comunicazione paternalistica che ha preferito imporre divieti, invece di fare corretta informazione. È necessario cambiare strategia, e soprattutto essere più ottimisti sui vaccini”

Sarebbe davvero il caso, allora, di dare tregua alle nostre menti confuse e disorientate, e concederci un po’ di tranquillità, magari spegnendo per un tempo ragionevole i nostri Device, e prendendo le distanze da tutta questa ridondante cacofonia, per la quale, purtroppo, non esiste ancora alcun efficace vaccino.




L’importanza della reputazione per gli Stati e l’urgenza di tutelare l’Italia

L’importanza della reputazione per gli Stati e l’urgenza di tutelare l’Italia

Alla luce della crescente concorrenza tra i paesi non solo su scala continentale ma anche su quella locale, governi e istituzioni pubbliche negli ultimi anni, hanno intrapreso diverse iniziative per aumentare il livello di competitività del proprio Paese, per migliorare la propria innovatività e risultati macroeconomici.

Oggi, nell’era dell’informazione contemporanea, le fonti di maggiore vantaggio competitivo si riscontrano sempre più frequentemente nel dominio degli asset intangibili, e attualmente uno degli asset più preziosi che aiuta a costruire il valore e vantaggio competitivo di un paese è – com’è noto – la sua reputazione.

Come abbiamo illustrato con maggiore dettaglio nel recente rapporto “Lo Stato in crisi. Pandemia, caos e domande per il futuro, edito da Franco Angeli, al quale hanno collaborato 35 firme eccellenti del mondo accademico, professionale e istituzionale, una buona reputazione nazionale infatti consente di attrarre nuovi investimenti esterni, trovare di nuove fonti di finanziamento per progetti, allettare lavoratori qualificati, turisti e nuovi residenti. Inoltre diversi studi hanno registrato un legame tra la reputazione del paese e quelle aziendali. Secondo Newburry (2012), la relazione tra la reputazione del paese e la reputazione aziendale è infatti una delle questioni contemporanee di maggiore rilievo per gli studiosi di reputazione ed economia internazionale: è stato dimostrato come società che prosperano in un Paese con una buona reputazione (ad esempio, le aziende automobilistiche tedesche) possono avere vantaggi competitivi nel mercato globale nonostante la loro scarsa reputazione aziendale.

Per raggiungere questi obiettivi, vengono applicati dagli stati gli strumenti tradizionalmente utilizzati nel mondo del business. Si tratta dell’attività di soft power, in chiave per lo più economica, che prende il nome di Nation Branding definita da Pauline Kerr e Geoffry Wisemsn nel loro libro “Diplomacy in a Globalizing World: Theories and Practice”, Oxford University Press (2013), come: «l’applicazione di concetti e tecniche di marketing aziendale, alle nazioni, con l’intento di supportare con la reputazione le relazioni internazionali».

Negli ultimi due decenni, è stata prestata una crescente attenzione al Nation Branding sia dagli studiosi di marketing (come Anholt, 2002; Fan, 2006) che da studiosi di pubbliche relazioni (ad esempio, Wang, 2006): il Nation Branding infatti è tutt’oggi un campo in via di sviluppo in cui gli studiosi continuano la loro ricerca di un quadro teorico unificato al fine di implementare ed affinare le strategie volte alla gestione e all’accrescimento della reputazione di uno stato.

Attualmente, a mettere a rischio la già critica reputazione italiana – calata di due posizioni nell’ultima indagine del repTrak Index, anche a causa delle pessime performance sul fronte della corruzione, della complessità burocratica, della lentezza dei processi giudiziari, etc – si configura la negativa gestione del Paese rispetto l’emergenza sanitaria da Covid-19, che non ha di certo contribuito a rafforzare la visione, su scala globale, del nostro paese. Di seguito s’illustrerà la ricerca di un importante consorzio europeo sulla gestione degli stati colpiti dall’attuale emergenza sanitaria, ricerca che non vede l’Italia posizionarsi in modo positivo tra le statistiche internazionali.

Il DKG e la gestione Covid-19 in Italia

Deep Knowledge Group è un consorzio misto profit-no profit, che – anche grazie a un accordo di collaborazione scientifica con il King’s College di Londra – si occupa di ricerca e sviluppo e di investimenti nei campi dell’Intelligenza artificiale, dell’analisi di Big-data e delle soluzioni di tecnologia avanzata per i Governi.

In un interessante ed approfondito articolo su Forbes, curiosamente non ripreso dalla stampa italiana, si evidenzia come – nonostante il continuo release di un enorme quantità di dati sulla pandemia Covid-19 rilasciati da organizzazioni come OMS, CDC, Johns Hopkins University e Worldometers – tali dati assai raramente vengano analizzati in modo efficiente e sistematico per fornire indicazioni realmente utili alla gestione dell’emergenza sanitaria, che interessa materie assai differenti tra loro – ma complementari – come medicina, biologia, epidemiologia, psicologia studio dei comportamenti umani, ed altre aree di interesse scientifico.

Un team di esperti DKG ha quindi raccolto e analizzato i dati generati per 200 paesi in tutto il mondo, e ha sviluppato alcuni quadri analitici avanzati per analizzare lo scenario dell’epidemia di Coronavirus, presentando poi l’output sotto forma di dettagliate classifiche che dovrebbero essere utili alle istituzioni pubbliche per inquadrare meglio le strategie realmente vincenti nel contenimento dei danni da Covid-19 e per la gestione efficace dell’impatto economico della pandemia.

L’analisi di DKG – che ha valutato i dati in modo imparziale tramite una metodologia basata su metriche proprietarie e accessibile in modalità open-source – è stata progettata per valutare rapidamente la situazione in continua evoluzione nei vari paesi, che muta mentre le autorità si sforzano di mitigare le conseguenze sanitarie ed economiche della diffusione del virus, e ha dimostrato che alcuni paesi sono stati assai efficaci nella lotta contro COVID-19 fin dall’inizio, mentre altri – al di la delle roboanti dichiarazioni utili per la propaganda politica interna – assai meno.

I paesi virtuosi si sono concentrati sulla prevenzione anticipata della pandemia, implementando misure di quarantena prima che il numero di casi confermati superasse numeri ingestibili per il servizio sanitario pubblico, e utilizzando metodi efficienti per la mappatura del contagio e per il trattamento dei pazienti ospedalizzati, utilizzando anche tecnologie come l’intelligenza artificiale, la robotica e l’analisi dei big data, in combinazione con le tecniche di trattamento medico e di gestione dell’assistenza sanitaria strutturate in modo sofisticato.

Ogni paese analizzato è stato classificato con un punteggio numerico costruito utilizzando una metodologia ben definita: a ogni aspetto viene assegnato un peso specifico, o fattore di importanza, che viene utilizzato come input nelle equazioni utilizzate nello studio per generare vari quadri di classificazione matematica dei fenomeni e comportamenti analizzati, e tutti i quattro quadri di classificazione (primo quadro con informazioni sul grado di sicurezza in senso assoluto nei vari Paesi, secondo quadro sul rischio Covid nelle nazioni analizzate, terzo quadro sull’efficienza specifica con la quale sta venendo trattato il virus COVID-19, e infine quarto quadro di classificazione che misura il grado di sicurezza potenziale all’interno dei Paesi dell’Eurozona), la classificazione riservata all’Italia è – in varia misura – impietosa). Completa l’analisi un set di interessanti infografiche, dalle quali risulta chiaro una volta di più lo spazio di miglioramento del sistema Italia in questa (e in future) gestioni di emergenze sanitarie e pandemiche.

Le non conformità critiche

Queste, in estrema sintesi, le scelte critiche che fin dall’inizio della gestione dell’emergenza hanno contribuito a pregiudicare la reputazione dell’Italia nella gestione Covid-19:

  • disomogeneità delle strategie di comunicazione e visibilità sui canali informativi ufficiali, con molti enti presenti online, attraverso una pluralità di siti (Governo, Ministero della Salute, Protezione Civile, Istituto Superiore di Sanità, etc.) riportanti messaggi non sempre allineati;
  • assenza – specie nella prima fase della gestione dell’emergenza – di una voce unica che parli a nome di tutte le istituzioni pubbliche, facilmente riconoscibile, e che sia ritenuta autorevole dalla cittadinanza. La mancanza di coordinamento nel merito dei messaggi ha evidenziato una gestione della crisi per certi versi improvvisata: Presidente del Consiglio, Ministro della Salute, Commissario all’emergenza Borrelli, Presidenti delle Regioni coinvolte, Protezione Civile… tutti hanno parlato, con il risultato di ridurre l’efficacia del messaggio e aumentare i fattori confondenti (fino all’epic fail del 3 marzo, con le fonti governative che alle 14:00 confermavano la chiusura delle scuole in tutta Italia, e la Ministra dell’Istruzione che la smentiva alle 14:15 per poi confermarla in conferenza stampa alle 18:00);
  • assenza nei siti istituzionali di una sezione informativa specifica sulle bufale relative al Coronavirus (ne circolano di ogni tipo), utile per garantire una comunicazione il più possibile priva di contenuti confondenti per la popolazione;
  • presenza del Presidente Giuseppe Conte, nella prima agitata fase dell’epidemia, in ospitate TV – da “Live Non è la D’Urso” a “Che tempo che fa” di Fazio – più adatte a una soubrette o a un opinionista qualsiasi, che non al Presidente del Consiglio di una delle prime dieci potenze industrializzate del mondo, con un approccio scientificamente poco affidabile tale da non riuscire affatto a rasserenare i concittadini alla prese con un emergenza tanto inedita quanto preoccupante;
  • indicizzazione dei siti web nazionali ufficiali sui principali motori di ricerca affidata al caso (organica, ovvero sulla base delle ricerche degli utenti, e non governata dalle istituzioni). Sarebbe stato sufficiente accordarsi (possibilmente in anticipo rispetto allo scoppio dell’epidemia) con Google Italia, prevedendo l’attivazione di un box apposito in testa alla prima pagina di qualunque ricerca online, per far trovare in evidenza il rimando all’hub informativo principale;
  • informazioni online non aggiornate in tempo reale (ad esempio, per giorni nelle FAQ del Ministero Salute non è stato riportato l’elenco delle Regioni interessate da decreti di restrizione dei servizi, ma si parlava solo delle delibere di Lombardia e Veneto);
  • a parte i video informativi con protagonisti il giornalista RAI Michele Mirabella, ben fatti e con alcuni consigli utili di comportamento e prevenzione, lanciati il 7 febbraio (ma che – oltre che spiegare, assai discutibilmente, che il contagio non sarebbe stato affatto facile – neppure riportavano il numero verde del Ministero della Salute), non sono stati programmati nelle prime tre settimane di epidemia specifici spot informativi in TV, che potevano esser realizzati precedentemente, in un’ottica di corretta previsione della crisi, e a costi assai contenuti (i video con Amadeus o i cartelli con le norme di buon comportamento appariranno circa un mese dopo la deflagrazione dell’epidemia);
  • a distanza di un mese dalla dichiarazione di emergenza, i canali social Facebook, Twitter, Instagram e Youtube del Ministero della Salute risultavano ingaggiati nella gestione dell’emergenza solo sotto il profilo della pubblicazione di informazioni e aggiornamenti, ma le molte domande – soprattutto su Facebook – poste dai cittadini non ottenevano alcuna risposta, situazione decisamente anomala rispetto alle best practices in materia di comunicazione digitale (anomalia che peraltro permane a tutt’oggi);
  • numeri verdi d’informazione andati in tilt per giorni: sempre occupati, nessuna risposta, cadeva la linea. Uno dei più eclatanti pessimi indicatori di scostamento dalle buone prassi internazionali in materia: non si è fatta un’adeguata simulazione di scenario, e quindi i canali di comunicazione più immediati (le linee telefoniche, oltre ai Social) non sono stati presidiati con risorse professionali numericamente sufficienti per resistere alla (prevedibile da tempo) onda d’urto delle chiamate della popolazione;
  • azione di contenimento promossa a macchia di leopardo, dando l’immagine di un Governo centrale quasi in reciproca competizione con le Regioni, e in particolare con alcune di esse, che hanno preso iniziative in ordine sparso. La tutela della salute chiaramente viene al primo posto: ma occorre anche qui non improvvisare, e poter contare su un crisis plan (un piano di gestione della crisi) preparato con cura in precedenza, così da prevedere accuratamente ogni scenario e gli adeguati strumenti di risposta e di gestione;
  • assenza di un piano per la sollecita riconversione dei piccoli ospedali dismessi, in aree per la terapia intensiva;
  • tardivo coordinamento con gli specialisti medici delle Forze Armate, che avrebbero fin da subito potuto garantire professionalità e spazi (mentre pubblichiamo questo articolo, l’ospedale da campo degli Alpini a Bergamo è ancora in fase di allestimento, anche questo avviato, poi bloccato a e poi ripartito);
  • ritardo inspiegabile nella requisizione, in accordo con le proprietà, di strutture alberghiere per la creazione di hospice per la quarantena Coronavirus (il primo fu l’hotel Michelangelo a Milano il 21 marzo 2020, oltre un mese dopo lo scoppio dell’epidemia nel nostro Paese);
  • in generale, inefficace coordinamento tra le istituzioni nazionali e quelle locali, come successivamente ribadito anche da autorevoli giuristi come il Prof. Cassese, giudice emerito della Corte Costituzionale, che ha sollecitato a ridisegnare il perimetro delle reciproche competenze, lamentando anche in un suo intervento la mancata applicazione dell’articolo 117 della Costituzione, che riserva allo Stato i compiti in materia di profilassi internazionale, l’articolo 120 della Costituzione che consente al Governo di sostituirsi alle Regioni in casi di pericolo grave per l’incolumità, e la legge 833 del 1978 che assegna al Ministro della salute il compito di intervenire in caso di epidemie;
  • per l’intera durata dell’emergenza, perlomeno fino alla data di pubblicazione di questo articolo e dei successivi aggiornamenti assenza del Commander-in-chief (il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte) sui luoghi del disastro, ovvero, con riguardo a questo particolare tipo di crisi, sul territorio delle regioni più colpite dalla pandemia, Lombardia e Veneto in primis. Nel processo di costruzione di senso il tentativo dev’essere quello di ridurre l’incertezza dei vari pubblici coinvolti nella crisi e ispirare fiducia nei leader che devono gestirla: l’assenza del PdC Conte dal territorio non ha certamente aiutato a raggiungere questo obiettivo.

Conclusioni: le lezioni da imparare

Dal punto di vista del crisis management, il modello di gestione che tra tutti sembra aver operato nella giusta direzione, nel complesso, resta quello di Taiwan, anche per l’esiguo numero di vittime imputabili al Coronavirus, grazie alla messa in opera di un efficiente e completo crisis-plan preventivamente elaborato e testato.

È bene ricordare come le regole internazionalmente riconosciute valide nella gestione degli scenari di crisi, specie sotto il profilo della comunicazione, sono – ribadisco – note. In sintesi: autorevolezza, rapidità, trasparenza, coerenza, affidabilità, frequenza di aggiornamento, robustezza delle infrastrutture dedicate a erogare le informazioni; c’è poco o nulla da inventare, e proprio l’Italia, tra l’altro, ha dato parecchio sotto il profilo della costruzione di percorsi e prassi d’eccellenza in materia.

Pur con molta buona volontà da parte delle istituzioni, e ferma restando la dedizione e abnegazione assoluta dei nostri operatori sanitari, che sta realmente facendo la differenza, l’impressione è che il Governo – nonostante i molti segnali (neppur troppo deboli) di crisi – sia arrivato ampiamente impreparato al grave appuntamento con questa epidemia, sottostimando la più importante delle regole auree del crisis management e della crisis communication, che è un po’ il minimo comune denominatore di tutti i punti sopra elencati: è umanamente impossibile reagire con efficacia a crisi di ampia portata se il sistema di comunicazione e di relazione con il grande pubblico non è costruito (e testato con appositi stress-test) ben prima dell’evento critico, ad esempio, in estrema sintesi:

  • attrezzandosi con professionalità adeguate (sia per qualità che per numero) per poter garantire comunicazioni e istruzioni dettagliate alla cittadinanza in casi di emergenza, con indicazioni specifiche per essere preparati in casa, sul luogo del lavoro o a scuola;
  • organizzando iniziative off-line come il reclutamento di volontari in caso di allarme;
  • disponendo vere e proprie esercitazioni, così da valorizzare un lavoro preventivo letteralmente vitale in caso di emergenza;
  • avviando in tempo di pace l’indispensabile processo di informazione, preparazione ed educazione dei cittadini;
  • elaborando e progettando, ben prima della deflagrazione della crisi, una narrativa convincente, così da poter poi allo scoppio dell’emergenza assemblare un messaggio  autorevole, che fornisca speranza, mostri empatia per le vittime e assicuri che le autorità stanno facendo il massimo per ridurre e controllare le conseguenze dell’emergenza.

A smentire ulteriormente le voci che lodano il modello Italiano, non mancano i dati e le informazioni di cui il web si fa prodigo portatore e che al momento stanno contribuendo a causare un danno reputazionale non indifferente all’Italia, in quanto, come è noto, quando l’immagine che si cerca offrire risulta incoerente e distonica rispetto ciò che invece si è, la perdita in termini reputazionali è semplicemente inevitabile.

Occorrerebbe piuttosto, invece che esaltare un modello assai lacunoso, operare in direzione critica, riconoscendo gli errori che lo Stato italiano – assieme ad altri stati, ma per questo non meno responsabile – ha compiuto negli ultimi mesi nel gestire una crisi, quella relativa alla pandemia da Coronavirus che ci ha trovati largamente impreparati nonostante l’esistenza – completamente ignorata – di un piano di prevenzione di crisi pandemica nazionale.

Quello che oggi è opportuno fare, cercando di imparare dagli errori è dirigersi verso un attento studio di quella che è la già ricca e articolata letteratura delle discipline di crisis management e crisis communication, al fine di preservare la preziosa reputazione dello Stato italiano, funzionale a sostenere il sistema Paese, e quindi le imprese e i cittadini che in questa nazione vivono e lavorano.

*Luca Poma è 
Professore di Reputation management all’Università LUMSA di Roma e all’Università della Repubblica di San Marino, specialista in Crisis management e Crisis communication




Ambiente, sostenibilità ed eco-mafie: il punto di vista dello Stato

AMBIENTE, SOSTENIBILITÀ ED ECO-MAFIE: IL PUNTO DI VISTA DELLO STATO, Massimiliano Corsano

Comandante Corsano, qual è il ruolo dei Nuclei che lei dirige e più estesamente dei Reparti dell’Arma impegnati a difesa dell’ambiente?

Il Comando Carabinieri per la Tutela Ambientale assolve principalmente funzioni di polizia giudiziaria con la finalità di vigilare, prevenire e reprimere i reati a danno del patrimonio ambientale, e pone in essere attività di rilevanza strategica nel settore del controllo della sicurezza ambientale. Per “criminalità ambientale” si intende un fenomeno di preoccupante estensione in quanto dotato di una intrinseca trasversalità che coinvolge ambiti di interesse sempre più variegati oltre che soggetti o consorterie sempre più evoluti e, pertanto, si fa riferimento all’insieme di condotte contrarie alla legge e direttamente lesive di un superiore diritto della persona che comprendono anche l’integrità fisica e psichica, oltre che la salvaguardia della qualità della vita.

A quali risultati ha portato questa vostra attività?

A confermare il coinvolgimento non solo della criminalità organizzata di tipo mafioso, quanto invece l’attivo operare di gruppi imprenditoriali di spessore (con interessi commerciali diversificati) che, per la materia specifica, si avvalgono della consulenza e delle prestazioni di figure di elevata professionalità, evitando spesso i contatti diretti con esponenti mafiosi. Tale ruolo appare vieppiù consolidarsi nel contesto della gestione illecita del ciclo dei rifiuti ove è frequente l’intervento diretto di “imprese criminali” le quali perseguono, attraverso l’esercizio di attività economiche, illeciti profitti, acquisendo ingenti quantitativi di rifiuti – ignorando scientemente quanto previsto dalle autorizzazioni – anche a prezzi fuori mercato, omettendo successivamente di sottoporli ai necessari trattamenti. L’esame delle attività investigative mostra come il traffico illecito dei rifiuti rientri tra le scelte d’impresa volte alla indebita riduzione dei costi e conseguente alterazione dei vprezzi di mercato, in spregio alle leggi che tutelano la libera concorrenza e loperato delle aziende oneste. È ormai noto il ruolo diretto delle grandi organizzazioni criminali nel “business ambiente” soprattutto a causa dei molteplici ambiti nei quali è possibile diversificare le infiltrazioni illegali, nonché per l’imponente quantità di denaro che gravita intorno al patrimonio ambientale del Paese. Il traffico e lo smaltimento illecito dei rifiuti, l’inquinamento dei corsi d’acqua e delle sorgenti, l’abusivismo edilizio ed il settore delle energie rinnovabili sono i principali settori nei quali le imprese criminali e la malavita organizzata hanno intravisto la possibilità di ingenti guadagni, anche per mezzo di connivenze eccellenti. Attratta dai grandi flussi di denaro e dai menzionati appoggi, la criminalità che opera anche nel settore ambientale ha avuto modo di diffondersi rapidamente su tutto il territorio nazionale e, sempre più frequentemente, di trovare validi riferimenti per proseguire oltre frontiera i propri traffici.

È cambiato qualcosa durante l’emergenza Covid?

Le attività illecite connesse al ciclo dei rifiuti sono state negli anni agevolate da una serie di congiunture nazionali e sovranazionali come la cronica difficoltà di reperire siti di stoccaggio o l’inadeguatezza della legislazione di alcuni paesi esteri, che hanno determinato implicitamente “condizioni favorevoli” all’insorgere ed al consolidarsi di atteggiamenti criminali. Un esempio di queste congiunture è stata la chiusura del mercato cinese all’importazione di imballaggi e materiali riciclabili in genere – sono 24 le tipologie di materiale inizialmente bandite – che con il conseguente intasamento dei magazzini delle ditte operanti nel settore, private di sbocchi sul mercato, situazione che è stata ulteriormente aggravata dai cali dei livelli produttivi globali derivanti dalla pandemia da COVID-19. Senza entrare nel dettaglio di ciò che sta emergendo, si può certamente affermare che, come spesso avviene, in situazioni di crisi di carattere economico si creano degli spazi che vengono occupati dalla criminalità, ed è ciò che si sta verificando anche in materia ambientale.

Di quali strumenti disponete nel concreto per intercettare, sanzionare e bloccare attività criminose sul fronte ambientale?

L’apparato di norme utili per questo fine è imponente e articolato, tanto che alcune fattispecie di reato riguardanti la c.d. “ecomafia” sono state inserite tra le materie di competenza della Direzione Distrettuale Antimafia. Parliamo spesso in questi casi di veri e propri “delitti d’impresa”, dove l’ingiusto profitto ottenuto mediante la violazione delle normative ambientali rappresenta in un certo senso lo spread tra un’impresa produttiva in termini economici ma fondata sul malaffare e un’impresa non così concorrenziale, poiché onesta. Stante la rilevata poliedricità del fenomeno della criminalità ambientale, la expertise investigativa dei Carabinieri che si occupano di tutela dell’ambiente deve dunque necessariamente estendersi ad ulteriori settori quali la conoscenza delle dinamiche e della normativa di funzionamento della Pubblica Amministrazione, degli appalti, dell’esecuzione di Grandi Opere Pubbliche e delle fonti rinnovabili non fossili (eolico, fotovoltaico, geotermico, biomassa, biogas, etc.). Un’ulteriore sfida contemporanea è costituita dalla “misurazione” degli impatti ambientali, aspetto che tra l’altro ha un’influenza notevole anche sulle modalità gestionali in ambito aziendale.

Può illustrare brevemente, come esempio, una tipologia di inchiesta realmente seguita dai vostri uffici e che “faccia scuola” sul fronte del contrasto alla criminalità ambientale?

Il settore che ci ha maggiormente impegnati di recente, e non solo da un punto di vista investigativo ma anche e soprattutto da un punto di vista analitico, è certamente quello degli incendi, argomento particolarmente sensibile. In tutta Italia infatti, a partire dal 2016, ha assunto sempre maggiore rilevanza il fenomeno degli incendi di natura dolosa ai danni di impianti dediti – a vario titolo – alla gestione dei rifiuti, la cui incidenza è apparsa fin da subito come evidentemente sintomatica di una diffusa speculazione criminale inerente al business dei rifiuti. La diffusione del fenomeno ha infatti fatto sì che l’attenzione di tutti i soggetti attivi nella difesa della legalità ambientale sia passata dal tema “classico” della combustione illecita, oggetto di provvedimenti legislativi ad hoc, al tema dell’interdipendenza tra eventi incendiari e mancata corretta chiusura del ciclo dei rifiuti. Dal punto di vista operativo le attività condotte dai NOE del Comando Carabinieri per la Tutela Ambientale hanno dimostrato – in linea con quanto più volte sostenuto dalla Procura Nazionale Antimafia – come tali fenomeni possano essere inquadrati, più che nell’ambito di dinamiche riconducibili alla criminalità organizzata di stampo mafioso, come spia della sussistenza, a monte, di importanti traffici illeciti di rifiuti. Le (criminali) imprese di settore, infatti, per evidenti ragioni connesse con lo spregiudicato perseguimento dell’illecito profitto, acquisiscono ingenti quantitativi di rifiuti – ignorando scientemente quanto previsto dalle autorizzazioni – anche a prezzi fuori mercato, omettendo successivamente di sottoporli ai necessari trattamenti, avviando così a smaltimento e/o riciclo materiali “intonsi” ai quali, attraverso la nota tecnica del girobolla vengono assegnati codici EER (I codici dell’Elenco Europeo dei Rifiuti) del tutto fasulli. La illecita esasperazione di simili condotte comporta, al fine di tagliare a monte la filiera dei costi nonché di evitare i controlli delle autorità preposte ed il rischio di essere soggetti – oltre alle conseguenze penali – agli oneri di bonifica, l’eliminazione a mezzo fuoco dei materiali giacenti.

Strettamente connesse agli incendi (ma palese anticamera di possibili ulteriori episodi) sono anche le condotte delittuose di alcuni soggetti spregiudicati che – allo scopo di far perdere la tracciabilità dei rifiuti – sono alla spasmodica ricerca di capannoni industriali in disuso, al cui interno stipare migliaia di tonnellate di materiali di cui disfarsi ad ogni costo. Siti che diventano così delle vere e proprie bombe ecologiche, i cui futuri costi di smaltimento ricadono interamente sulla collettività. A questo proposito, la pressione investigativa – scaturita dal monitoraggio eseguito sul fenomeno degli incendi – esercitata nel settore da parte dei NOE del Comando Carabinieri per la Tutela Ambientale è stata davvero incessante, con esecuzione di un gran numero di ordinanze di custodia cautelare e sequestri di beni in tutta Italia, a carico di soggetti responsabili di “attività organizzata per il traffico illecito di rifiuti”, nell’ambito di manovre investigative coordinate dalle DDA territorialmente competenti.

Qual è lo stato dell’arte in Italia su questi temi dal punto di vista della cultura, dei cittadini e delle imprese? C’è ancora strada da fare, e su quali aspetti in particolare?

L’esperienza maturata nel settore delle investigazioni in materia di criminalità ambientale ha consentito di effettuare un innovativo risk assesment del settore e di acquisire una approfondita visione delle dinamiche di mercato che ne regolano il funzionamento. E l’utilizzo del termine “mercato” va opportunamente sottolineato. La visione del reato ambientale come “reato mezzo”, utilizzato per il raggiungimento di un “fine” essenzialmente economico comporta di fatto un approccio alla materia che si focalizzi non tanto su aspetti di natura meramente ed esclusivamente ambientalista bensì su dinamiche di natura – appunto – economica, giacché le forme di inquinamento che derivano dalle attività illecite degli eco-criminali rappresentano sovente degli effetti indiretti, si potrebbe dire collaterali, di condotte mirate a tutt’altro. In senso metaforico, sono manifestazioni sintomatiche di una patologia, rappresentata dalla criminalità ambientale, al punto che la definizione inglese di Pollution Crime appare riduttiva e non adeguatamente significativa rispetto alla più consona ed esaustiva Environmental Crime.

Anche la – ormai annosa – questione della equiparazione tra la c.d. “ecomafia” e la criminalità organizzata di stampo mafioso nostrana, in tutte le sue varie sfaccettature geografiche, va chiarita; sostenere che l’ecomafia è una forma di criminalità imprenditoriale ancor più e ancor prima che mafiosa, non significa sminuirne la portata. Una simile affermazione, che deriva da decenni di investigazioni mirate nel mondo ecocriminale, semmai amplifica la portata del fenomeno, accende un ulteriore riflettore sulla sua pervicacia e pericolosità, poiché significa affermare che la controparte non ha una fisionomia ben definita (come è appunto quella di stampo mafioso, per quanto poi ben integrata nel tessuto sociale) ma appare quanto mai sfuggevole. Ciò che la Camorra forse per prima scoprì, ossia le potenzialità economiche del mondo dei rifiuti ben definite dalla sintomatica affermazione di Gaetano Vassallo, “Ministro dei Rifiuti” dei Casalesi e braccio destro del boss Bidognetti, secondo la quale “i rifiuti meno li tocchi e più valgono”, è ormai patrimonio comune anche di una miriade di pseudo-imprenditori del settore, che avvelenano i tessuti economici tanto quanto i territori nei quali imperversano. E siccome spesso la criminalità economica è ben più pericolosa di quella di stampo mafioso (ovviamente quando non sono la stessa cosa) si comprende facilmente come in realtà, non limitandosi a parlare solo di “mafia” in senso stretto, si stia cercando di non ridurre ad una semplicistica equiparazione una fenomenologia ben più caleidoscopica, e dunque pericolosa. Anzi, talvolta tanto più pericolosa quanto più elegante è l’abito indossato da chi si macchia di certi crimini.

Ciò detto, non si vuole né si deve in alcun modo colpevolizzare l’intera classe imprenditoriale: si vuole semmai, enfatizzando la portata e la natura economica di tali reati, sottolineare le difficoltà di chi opera nel settore in maniera assolutamente lecita, trovandosi a dover fronteggiare la concorrenza spietata di chi agisce sul medesimo mercato a prezzi palesemente irragionevoli. E proprio i prezzi rappresentano un indicatore fondamentale nella valutazione del settore ambientale, che non a caso è stato definito più volte con il termine “mercato”. Molto spesso, infatti, ci si limita a valutare al massimo le dinamiche dei prezzi che regolano la tariffazione sui rifiuti – la nota TARI – tralasciando quasi completamente l’aspetto fondamentale in ogni settore economico: la profittabilità.

Comportamenti scorretti oltre che danneggiare l’ambiente possono anche danneggiare la reputazione delle imprese: le aziende, dal suo punto di vista, hanno questa sensibilità?

In un momento storico nel quale parole come circular economy, sostenibilità, green new deal sono di moda – e talvolta ahimè rappresentano esclusivamente un vezzo per aumentare la c.d. brand reputation in assenza di provvedimenti ed iniziative concrete ed effettive – è necessario affrontare il tema in maniera concreta, giacché – piaccia o meno – trattandosi di un mercato, non si può realisticamente credere che gli imprenditori della galassia ambiente e rifiuti possano rinunciare al profitto. Infatti dietro una miriade di annunci sulla sostenibilità e sulle scelte “green” c’è il concreto rischio che si celino in realtà attività meramente propagandistiche volte ad attirare investimenti e risorse attraverso una visibilità derivante da forme di pubblicità e di utilità sociale ingannevoli, e questa sarà una delle nostre prossime frontiere operative a tutela delle aziende sane.

A titolo esemplificativo, uno studio effettuato attraverso uno screening del web e pubblicato il 28 gennaio 2021 dall’UE ha acceso un importante riflettore sul tema del c.d. greenwashing arrivando a dimostrare come circa il 42% degli spot in materia di sostenibilità siano esagerati, falsi o ingannevoli. Le aziende al giorno d’oggi non possono più permettersi di nascondersi dietro al falso mito della scarsa conoscenza, in quanto la matrice ambientale è divenuta ormai un tema – fortunatamente – imprescindibile in primis in un’ottica di sostenibilità economica. Sono quanto mai centrati i criteri utilizzati dalla Suprema Corte nel declinare la c.d. “epistemologia dell’incertezza” in contesti di rischio incerto (es. utilizzo di sostanze chimiche “emergenti” come i PFAS o PFOA, oggi tristemente agli onori delle cronache per le attività investigative svolte dai NOE Carabinieri di Treviso ed Alessandria) secondo le seguenti tre categorie: orbita della prevedibilità; la figura dell’imprenditore-modello; l’evitabilità dell’evento. Inoltre, il “dovere di sapere” e quindi di acquisire informazione sui rischi è di pertinenza delle imprese ed è un dovere che va costantemente implementato nel contesto del più generale dovere degli Enti di auto-organizzarsi efficacemente sul terreno della prevenzione del rischio-reato. La diligenza esigibile dipende inevitabilmente dalla conoscenza del rischio, secondo il modello normativo consolidatosi nella materia della sicurezza sul lavoro. Si rende quindi necessaria – in fase di risk assessment – una “analisi endoscopica” della realtà e del contesto d’impresa, considerando in via prioritaria che il principio dell’azione ambientale, costituendo un obbligo gravante sulle organizzazioni complesse, impone la più ampia tutela ambientale, degli ecosistemi e del patrimonio culturale, secondo i principi “chi inquina paga”, di precauzione, di azione preventiva e di correzione prioritaria alla fonte dei danni ambientali.

Siete impegnati anche nella formazione delle nuove generazioni su temi ambientali?

L’Arma dei Carabinieri è da sempre particolarmente attenta al tema del contatto con le nuove generazioni, basti pensare alle iniziative che annualmente si tengono presso gli Istituti scolastici di ogni livello in materia di cultura della legalità e che vedono coinvolte tutte le componenti dell’Istituzione, a iniziare dalla fondamentale figura dei Comandanti di Stazione. In tale ottica, i temi ambientali stanno assumendo sempre maggiore rilievo e il confronto con le nuove generazioni, particolarmente attente all’argomento, rappresenta spesso anche un momento di arricchimento per chi opera in questo settore e lo vive in veste investigativa. Da diversi anni ormai prendiamo quindi parte a numerosi eventi anche al di fuori degli ambiti scolastici e accademici, per condividere il nostro patrimonio conoscitivo con i nostri stakeholders e allo stesso tempo per ascoltare le esigenze dei cittadini, verso i quali sentiamo la forte responsabilità di dover fornire le migliori risposte possibili in materia di tutela dell’ambiente e quindi della salute.

Analogamente, da tempo, il Comando Carabinieri per la Tutela Ambientale è impegnato ad esercitare la propria leadership in numerosi consessi internazionali e progetti multilaterali (INTERPOL, EUROPOL, ENVICRIMENET, EMPACT, OPFA Waste), anche allo scopo di condividere su larga scala la propria expertise e consentire di fronteggiare adeguatamente la minaccia della criminalità ambientale oltre frontiera, sia direttamente che attraverso collaborazioni e progetti operativi con gli Stati aderenti. Sono sfide ambiziose, ma siamo fortemente ingaggiati in questi scenari, e ottimisti sui risultati, sia per quanto fin qui ottenuto, che per quello che riusciremo a fare in futuro, anche grazie alla dedizione ed alla straordinaria professionalità delle donne e degli uomini in divisa quotidianamente impegnati nella lotta contro le varie forme di criminalità.


Intervista a cura di Luca Poma, Professore in Reputation Management all’Università LUMSA di Roma, per il Blog www.creatoridifuturo.it