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Tabacco, la guerra segreta di Philip Morris contro l’Oms

Tabacco, la guerra segreta di Philip Morris contro l’Oms

Philip Morris ha creato una Fondazione, la Foundation for a Smoke-Free World, a capo della quale ha messo quello che era il nemico pubblico numero uno del tabacco, Derek Yach dell’Oms, per favorire la propria attività di lobbynginfluenzare i ricercatori e soprattutto promuovere l’alternativa alla sigaretta tradizionale, la Iqos. A raccontare la “guerra segreta di Philip Morris contro l’Organizzazione della sanità” è l’inchiesta firmata da Stéphane Horel per Le Monde realizzata insieme a Ties Keyzer, Tim Luimes ed Eva Schram di “The Investigative Desk” (Paesi Bassi) e con la collaborazione di “Follow the Money” (Paesi Bassi) e “Knack” (Belgio).

Derek cambia vita

Nel lungo racconto pubblicato dal quotidiano francese un ruolo centrale lo gioca Derek Yach medico sudafricano, esperto di salute pubblica di fama mondiale che ha guidato per anni la Tobacco Free Initiative dell’Oms. Considerato una “rockstar nel controllo al tabacco” è stato uno dei principali artefici di uno storico trattato internazionale che blocca l’accesso della lobby del tabacco ai decisori pubblici, Oms in testa. Nel 2017 però la vita e il ruolo di Derek Yach cambiano radicalmente: come ricostruisce Le Monde, dopo aver avuto modo di incontrare l’amministratore delegato di Philip Morris André Calantzopoulos  Derek Yach annuncia a settembre la creazione della Foundation for a Smoke-Free World, di cui ha accettato di assumere la presidenzaCompletamente finanziata da Philip Morris per un importo di 80 milioni di dollari l’anno (67,22 milioni di euro) per dodici anni, ovvero quasi 1 miliardo di dollari (840 milioni di euro), la fondazione  mira a “porre fine al fumo in una generazione”. La dotazione economica è, scrive la Horel, in gran parte destinata a finanziare la “ricerca indipendente”.

Una valanga di proteste accoglie la nascita della fondazione. “Corruzione da 1 miliardo di dollari“, lamenta l’Unione internazionale contro la tubercolosi e le malattie polmonari, una storica organizzazione scientifica. La prestigiosa American Cancer Society mette in guardia dalla tentazione “immorale” di prendere i soldi facili della fondazione, “guadagnati con la principale causa di morte prevenibile nel mondo”. Più di 400 organizzazioni di sanità pubblica, università, istituti di ricerca e riviste scientifiche hanno da allora annunciato di aver rifiutato tutte le sovvenzioni della fondazione, che i presidi delle principali scuole di sanità pubblica del Nord America considerano “finanziamento dell’industria”.

La difesa: “Philip Morris non incide sulla Fondazione”

Le parole più dure vengono proprio dall’Oms dove Yach aveva costruito la sua carriera. Qualsiasi collaborazione con la fondazione, afferma il segretariato della Convenzione quadro  per il controllo del tabacco, “costituirebbe una palese violazione dell’articolo 5.3” che stabilisce come “Funzionari della sanità pubblica e difensori della salute concordano sul fatto che l’industria del tabacco non debba avere voce in capitolo per quanto concerne la definizione delle politiche per la salute”.

In base a quell’articolo è difficile per le compagnie del tabacco fare pressioni se vengono bandite dal tavolo di discussione. La Convenzione quadro è stata firmata da 182 paesi, quasi l’intero pianeta.

Ma l’Oms riserva parole molto dure anche per Derek Yach. Tramite posta elettronica, infatti sollecita il suo ex direttore esecutivo a rimuovere dal sito web della fondazione ogni menzione del suo precedente ruolo.

Sentito da Le Monde, Derek Yach “assicura che lo statuto della fondazione, la sua organizzazione no-profit e le regole per l’assegnazione delle sovvenzioni vietano a Philip Morris di partecipare alla sua governance, decisioni, strategie o attività”. Sarà proprio così?

Chi è stato finanziato

L’inchiesta condotta da Le Monde e The Investigative Desk sulla base di documenti interni, moduli fiscali, procedimenti giudiziari e analisi dei ricercatori delle università di Bath (Regno Unito) e California (Stati Uniti) dimostra per la prima volta che la fondazione serve soprattutto gli interessi dell’azienda.

Nel mese di maggio 2019 è cessata la pubblicazione on line dei verbali delle riunioni del consiglio della Fondazione for a Smoke-Free World. “L’identità dei membri del suo consiglio scientifico, sciolto in data ignota, non è mai stata resa nota“, precisa Le Monde. Per quanto riguarda i 40 milioni di euro di contributi concessi dalla fondazione in più di tre anni di esistenza e i 96 milioni promessi, non solo gli importi e i nomi dei beneficiari non sono pubblici, ma i criteri di aggiudicazione sono sconosciuti.

In totale, circa 100 entità in tutto il mondo hanno ricevuto finanziamenti. Il gruppo di ricerca sul controllo del tabacco dell’Università di Bath ha estratto i dati dalle dichiarazioni della fondazione alle autorità fiscali statunitensi. Scrive la Horel: “La sua analisi sul sito web di riferimento di Tobacco Tactics mostra che i beneficiari più dotati sono tre ricercatori incaricati di creare ‘centri di eccellenza’ attorno alla questione della riduzione del danno. Negli Stati Uniti quello guidato da Jed Rose, inventore del cerotto alla nicotina, ha ricevuto 4 milioni di euro. Il Centro neozelandese di Marewa Glover sulla ‘sovranità degli indigeni e il fumo’ ha ricevuto poco più di 6 milioni di dollari per promuovere la riduzione del danno tra le popolazioni indigene”.

Poi c’è l’Università di Catania e in particolar modo il “Centro di eccellenza per l’accelerazione della riduzione dei rischi, che ha ricevuto 6,8 milioni di euro dalla Fondazione, che si è impegnata a versarle ulteriori 18 milioni, secondo i documenti fiscali del 2019″. Nel 2017, poi Philip Morris, prosegue l’inchiesta de Le Monde “ha affidato a Riccardo Polosa quasi 1 milione di euro per valutare la sigaretta elettronica e Iqos”. Il professor Polosa, è personaggio noto nel mondo del tabacco. Scrive di lui TobaccoTactics: “È un sostenitore della riduzione del danno da tabacco ed è stato descritto come uno degli autori accademici ‘più prolifici’ nel settore delle sigarette elettroniche. Ha fatto pressioni sui governi a favore di una regolamentazione meno restrittiva per i prodotti a rischio potenzialmente ridotto e ha una storica collaborazione con le aziende del tabacco”.

Siamo indipendenti dal nostro finanziatore. Questa non è un’affermazione, è un fatto legale, etico e non negoziabile “, ha tuttavia assicurato Derek Yach sulla rivista  The Lancet nel 2019.

Gli interessi sul tabacco high-tech

Facciamo una pausa e cerchiamo di capire cosa succede sul mercato e quali sono le strategie di Big Tobacco. In una decina d’anni, le vendite complessive di sigarette sono diminuite del 20% nei paesi ad alto reddito, il loro mercato principale. Quindi, senza rinunciare alla propria attività, le principali aziende hanno investito nella nicotina high-tech, sigarette elettroniche e sistemi a tabacco riscaldato come l’Iqos.

Il business delle sigarette elettroniche, apparso nel 2009, è dominato, scrive ancora Le Monde, dalle aziende del tabacco che hanno gradualmente acquisito piccoli produttori. La casa madre di Philip Morris Usa, Altria, ha così acquisito il 35% di Juul Labs, leader negli Stati Uniti, “che le autorità americane accusano di aver creato una “epidemia” di vaping tra i giovani attraverso un marketing aggressivo”. Dal 2014 il produttore di Marlboro si è affidato principalmente al suo Iqos, un dispositivo che utilizza la tecnologia heat not burn: riscaldati senza arrivare alla combustione, Heets, mini sigarette di tabacco, emettono tra il 90% e il 95% di componenti nocivi in ​​meno rispetto al fumo di sigaretta, assicura Philip Morris con i propri studi. Le vendite del dispositivo generano quasi 6 miliardi di euro all’anno, ovvero quasi un quarto del fatturato della multinazionale.

La posizione dell’Oms sulle “alternative” alla sigarette tradizionali è molto netta: “Ci sono ancora molte domande senza risposta sulle alternative al fumo. Ma la ricerca necessaria per rispondere non dovrebbe essere finanziata dalle compagnie del tabacco“. Tuttavia la Convenzione quadro dell’Organizzazione mondiale della sanità è contraria ai prodotti del tabacco elettronici. Dunque, prosegue l’inchiesta di Le Monde “anche se la Fda negli Usa ha concesso lo status di ‘tabacco a rischio modificato‘ nel 2020, Iqos deve essere monitorato. Quanto all’Oms, che dà l’indirizzo al resto del mondo, disapprova l’uso di prodotti alternativi”.

Dividere i ricercatori

Per far passare la linea del “rischio ridotto” e della “riduzione del danno”, Big Tobacco ha intrapreso in questi anni varie strategie: innanzitutto ha amplificato le posizioni dei sostenitori della “riduzione del danno” contro quella dei proibizionisti cercando di far passare “il concetto di riduzione del danno come legittima politica pubblica nella regolamentazione del tabacco”.

Inoltre, spiega ancora Le Monde, si è cercato di “stabilire la legittimità dei produttori di tabacco a partecipare al dibattito normativo sui ‘prodotti a rischio ridotto’”. L’obiettivo dichiarato? Cancellare l’articolo 5.3 della Convenzione. Ruth Malone, ricercatore accreditato del settore, ha spiegato a Le Monde: “Accedere alla Convenzione quadro e sbarazzarsi dell’articolo 5.3 che ostacola la loro capacità di influenzare i decisori politici: questo è il vero obiettivo di Philip Morris“.

Nel maggio 2020 ci pensa ancora una volta Derek Yach a dare il suo contributo: “descrive la Convenzione quadro come ‘congelata nel tempo’ e bisognosa di ‘modernizzazione‘. ‘Essendo diventato un ostacolo al cambiamento‘, l’articolo 5.3 ‘perpetua lo status quo’, e i governi  – insiste – ‘devono impegnarsi in un dialogo sostenuto con le compagnie del tabacco per accelerare la loro trasformazione’”.

L’accusa dell’ex capo della comunicazione

L’accusa più imbarazzante di “connivenza” tra la Fondazione e la multinazionale viene dall’interno. Scrive Le Monde: “In un contenzioso per licenziamento ingiusto, l’ex direttore dei media digitali e social della Fondazione accusa l’organizzazione di ‘riferire a Philip Morris e Altria’, società madre di Philip Morris USA. La Fondazione, afferma Lourdes Liz nella sua denuncia, datata gennaio 2021, ‘dirotta il suo status di organizzazione no-profit esentasse per agire come organizzazione di facciata per l’industria del tabacco e promuovere un messaggio a favore dello svapo tra i giovani e gli adolescenti, dannoso per la salute pubblica’”.

“Durante l’estate del 2018 – prosegue –  Derek Yach ha incontrato rappresentanti di Altria e ha voluto inserire elementi del linguaggio dell’azienda nella comunicazione della Fondazione. Pochi mesi dopo la partenza del dipendente, a settembre 2020, l’accordo è stato aggiornato e si è aggiunta una frase: ora la fondazione è libera di ‘scambiare informazioni o interagire con terzi’… Come Altria o Philip Morris”, aggiunge maliziosamente la giornalista del quotidiano parigino.

Il piano Sunrise: “Rompere il fronte dei ricercatori”

giugno 2020 l’autorevole rivista scientifica American Journal of Public Health pubblica un numero speciale sulle sigarette elettroniche. Il movimento antifumo scopre con stupore un articolo a difesa degli aromi degli e-liquidi firmato da Derek Yach, Patricia Kovacevic, ex dipendente di Philip Morris, e Brian Erkkila, vicepresidente della fondazione responsabile salute, scienza e tecnologia (che diventerà – scrive Le Monde – direttore degli affari normativi presso Swedish Match, un produttore di tabacco svedese, nel marzo 2021). Mentre i direttori in capo della rivista si sono giustificati sostenendo che “le imprese e i loro interessi hanno voce in capitolo nel processo di regolamentazione”, dozzine di scienziati hanno protestato contro il “pericoloso precedente” rappresentato da questa “legittimazione” dell’industria del tabacco in una rivista dedicata alla promozione della salute pubblica.

Ma la causa viene portata avanti da molti anni e l’articolo sull’American Journal of Public Health è solo l’ultimo tassello di una strategia decennale. Documenti interni analizzati da Ruth Malone “descrivono un piano che Philip Morris stava promuovendo nel 1995 per ‘dividere e conquistare meglio’: il progetto Sunrise. Per rompere l’unità all’interno del movimento anti-tabacco ‘sfruttando le differenze di opinione’ tra moderati e ‘proibizionisti’, l’azienda ha quindi progettato di ‘creare una scissione tra i diversi gruppi anti-tabacco’ e ‘promuovere un dibattito che divide gli antiproibizionisti’”.

Più di vent’anni dopo Philip Morris è riuscita nell’intento: le divisioni all’interno del movimento antifumo sono evidenti e  sul tema dei nuovi prodotti i sostenitori della riduzione del rischio hanno superato i “proibizionisti”.




Facebook vuole cambiare l’algoritmo del News Feed per farci arrabbiare di meno

Facebook vuole cambiare l'algoritmo del News Feed per farci arrabbiare di meno

Facebook ha annunciato l’intenzione di cambiare il modo con cui il suo algoritmo mostrerà i post agli utenti sui loro News Feed. L’intenzione del colosso di Menlo Park è semplice, e solo apparentemente scontata: mostrare agli utenti solo post dai contenuti dal contenuto positivo, lasciando nascosti alla vista quelli divisivi o contrari al proprio credo.

Verso la fine di marzo, il social network ha battezzato nuovi filtri per consentire agli utenti di personalizzare il loro feed. Ora è interessato a far sì che l’algoritmo impari a distinguere ciò che un utente apprezza e ciò che non gli piace o ne scatena reazioni negative, mettendo da parte i contenuti politici che pure hanno – col loro tasso di engagement – fatto la fortuna di Facebook e prediligendo ciò che Menlo Park definisce “post d’ispirazione” di carattere più pratico o legato agli hobby e interessi personali.

Per addestrare al meglio l’algoritmo, Facebook sfrutterà i feedback degli utenti e una serie di sondaggi che misurano il peso e le influenze di amici, pagine e gruppi preferiti dall’utenza. “Se le persone dicono che un post vale il loro tempo, mireremo a mostrare post come quello più in alto nel feed di notizie; e se non vale il loro tempo, li metteremo in coda, in fondo al News Feed”, ha scritto Aastha Gupta, Product Management Director di Facebook sul blog della società.

Facebook afferma anche che chiederà agli utenti quali argomenti non sono interessanti, in modo da poter mostrare loro altri post più pertinenti ai loro interessi, migliorando il sentiment medio della piattaforma.

Tra le novità annunciate, è importante sottolineare la scelta di Facebook di dare meno importanza ai post politici. Questa decisione è arrivata dopo l’ultima convocazione in udienza che i vertici della società hanno avuto a marzo al Congresso degli Stati Uniti, per discutere del ruolo che il social network ha avuto nell’aumentare la divisione politica negli Stati Uniti.




In Italia c’è una scuola dove si insegna il fallimento

In Italia c’è una scuola dove si insegna il fallimento

Uno sbaglio sul lavoro. Un esame non superato. Un compito non portato a termine in azienda. Una frase detta male sui social o magari un pensiero non condiviso che scatena l’umiliazione pubblica. Quando si studia, si lavora o semplicemente si porta avanti la propria vita, la disfatta è dietro l’angolo. Solo che nessuno insegna solitamente come gestire un insuccesso e come trarne persino giovamento. 

La Scuola di Fallimento, con sede a Modena, è la prima e unica realtà in Italia che si occupa di una delle esperienze più comuni e allo stesso tempo più temute: sbagliare. Ha i suoi alunni, lavora soprattutto con multinazionali e scuole, e possiede i suoi corsi e i suoi obiettivi: creare una “cultura dell’errore” che permetta a chi inciampa di non bloccarsi e di non colpevolizzarsi eccessivamente. A chi sta intorno, spetta invece il compito di creare una zona sicura, dove far fallire gli altri senza la paura del giudizio. Facile, no? Chi pensa che si tratti ‘solo’ di filosofia e di coaching non applicato è fuori strada. Perché imparare la sconfitta senza conseguenze drammatiche, significa dare alle aziende e alle persone la possibilità di innovare e sperimentare, quindi di crescere.

Chi sbaglia, cosa fa?

Intanto, il contesto. “​​Nella nostra società – racconta ad upday Francesca Corrado, fondatrice ed ex sportiva – c’è una profonda e radicata cultura della colpa e della critica. Osserviamo la difficoltà di chiedere scusa e di ammettere le proprie responsabilità per paura di essere giudicati o puniti. È una profonda paura di fallire che ostacola, per le aziende, la capacità di innovare e, per le persone, la capacità di innovarsi e reinventarsi. E poi percepiamo il bisogno latente di trovare uno spazio in cui condividere in modo non stigmatizzante i propri errori e di considerarsi di successo anche quando il successo non ha i connotati imposti dalla società dell’apparenza e dei social”. Perfezionismo da social che secondo un’indagine esporrebbe i millennial, i nati tra gli anni ‘80 e ‘90, a puntare al perfezionismo con conseguenze negative sulla salute mentale.

Perché se sbagliare è comunissimo, è tuttavia un fenomeno mal tollerato dalla nostra società. Sui social network l’errore altrui, e ci fermiamo ai casi in cui vengono contestate le parole o le dichiarazioni e non a quelli che riguardano strettamente offese e discriminazioni, scatena comportamenti come quelli della shitstorm, la tempesta di insulti di massa, o il boicottaggio e la vera e propria cancellazione di colui che sbaglia, senza seconda possibilità. Ma anche rimanendo in campo d’impresa, le aziende stesse fanno fatica a gestire il fallimento

Imparare dalle sconfitte sportive

Francesca Corrado non la pensa proprio così rispetto alla possibilità di avere una seconda opportunità. Da ex pallavolista, rivela. “Lo sport mi ha aiutato moltissimo – dichiara- mi ha insegnato a ‘saper giocare’ in squadra; a sviluppare la persistenza: è finita solo quando è finita. Ma soprattutto ad accogliere la possibilità di perdere; ad accettare la sconfitta come uno degli ingredienti del gioco. Nel gioco come nello sport: a volte si vince, a volte s’impara”. A lei è capitato da vicino. “La Scuola è nata per l’appunto da una serie di fallimenti. Fino al 2014 avevo una start up innovativa, un contratto da docente universitaria, un fidanzato e una casa. Nei primi due mesi del 2015 ho perso tutto. A non rendere facile il periodo anche le condizioni di mio padre, malato di Alzheimer, che in quel periodo peggiorarono. Ed è stata proprio la malattia che mi ha permesso di guardare ai miei errori e fallimenti da una prospettiva diversa: non quella della colpa e della rabbia, ma quella dell’accettazione e della comprensione dei propri limiti e delle proprie fragilità”. 

Le parole degli ex alunni 

“Sono sempre stata una ragazza molto severa con me stessa – racconta ad upday Anna Romanini, studentessa di Scienze filosofiche e dell’educazione a Ferrara – ho sempre preteso molto e difficilmente perdonavo i miei errori. Ho imparato a vederli sotto una prospettiva diversa solo da poco. Con la scuola, ho imparato a capire cosa significa la frase “sbagliando si impara” e questo mi ha aiutata a essere meno severa con me stessa e a permettermi di fare i miei errori per imparare cose nuove e uscire dai momenti di crisi come una persona effettivamente diversa”.

Dagli studenti, ai professionisti, tutti tornano sui banchi. “In azienda – spiegano Daniele Righele e Manuela Beltrami, ex corsisti di Banca Credem – abbiamo vissuto l’esperienza di fallimento come uno stato di difficoltà, un ostacolo mentalmente difficile da superare, temendo il rischio di compromettere le relazioni altrui e la nostra autostima. Eravamo i primi a non tollerare i nostri errori, i nostri fallimenti e si faceva fatica anche solo a parlare di errori. Abbiamo avviato un percorso di cambiamento negli ultimi anni per una migliore sicurezza e cultura interna che possa permettere alle persone di esprimersi, provare, osare e sbagliare per il miglioramento e la crescita professionale e personale”. Anche se il successo è una parola da maneggiare con cura: “Insegniamo che il successo – conclude Corrado – è la capacità di far accadere le cose che si reputano di valore, di raggiungere gli obiettivi che sono coerenti con la propria visione e missione e i nostri migliori successi sono quindi le persone e le loro storia”. Guardandosi indietro c’è anche spazio per l’orgoglio. “Aver trasformato una paralizzante paura di fallire nella capacità di rimettersi in gioco con successo di un piccolo imprenditore, aver aiutato una studentessa a superare il blocco degli esami e trasformato la sua fragilità in un punto di forza sono senza dubbio i nostri migliori successi. Sapere di essere stati di supporto a qualcuno in un momento critico della propria vita è il primo indicatore che abbiamo fatto bene”. 




Il social media cinese WeChat ha cancellato molti account lgbtq+

Il social media cinese WeChat ha cancellato molti account lgbtq+

La comunità lgbtq+ continua a essere al centro di discriminazioni e censura in tutto il mondo. Mentre l’Unione europea si trova ad affrontare il problema della legge contro la “propaganda gender” in Ungheriail social media cinese WeChat, di proprietà del gigante tecnologico Tencent, ha deciso di cancellare decine di account per i diritti lgbtq+, perché in contrasto con le leggi sull’informazione online della Cina.

Pur non esistendo leggi che vietino l’omosessualità o la transessualità, la comunità Lgbtq+ cinese è ancora fortemente stigmatizzata e costretta a vivere quasi nell’anonimato. L’unico Pride organizzato in Cina è stato sospeso a tempo indeterminato, dopo che gli organizzatori hanno ricevuto minacce e si sono dichiarati preoccupati per la propria incolumità fisica. Inoltre, le autorità hanno più volte agito per impedire la diffusione di informazioni riguardanti l’identità di genere e la Cyberspace administration of China ha annunciato un giro di vite sui contenuti di questo tipo, ritenuti di “cattiva influenza” per i minori. Il social media Weibo ha già rimosso numerosi contenuti relativi alla comunità lesbica, mentre la community online Zhihu ha censurato tutti gli argomenti relativi alle tematiche di genere.

Nella giornata di ieri, 6 luglio, diversi membri di gruppi Lgbtq+ hanno contattato Reuters sostenendo che l’accesso ai loro account WeChat fosse stato bloccato, per poi scoprire anche che tutti i contenuti condivisi in precedenza erano stati cancellati“Ci hanno censurato senza alcun preavviso, siamo stati spazzati via tutti”, hanno dichiarato alcuni attivisti rimasti anonimi. Reuters riporta di aver provato ad accedere ad alcuni account, ma che ogni tentativo è stato fermato da un messaggio di WeChat secondo cui le pagine hanno violato le norme sugli account che offrono un servizio di informazione sulla rete internet cinese”. Altri account non sono nemmeno apparsi nei risultati di ricerca. La piattaforma social non ha rilasciato ancora alcuna dichiarazione a riguardo.




“Quando decidiamo. Siamo attori consapevoli o macchine biologiche?” di Mauro Maldonato

“Quando decidiamo. Siamo attori consapevoli o macchine biologiche?” di Mauro Maldonato

Prof. Mauro Maldonato, Lei è autore del libro Quando decidiamo. Siamo attori consapevoli o macchine biologiche?, edito da Giunti: la nostra razionalità è un illusione?

Quando decidiamo. Siamo attori consapevoli o macchine biologiche? Mauro Maldonato

Sì, se si identifica la razionalità con la logica. Sebbene sia stata a lungo considerata fondamento della razionalità, la logica non è una facoltà superiore della mente. Per molti secoli, il termine ratio ha designato la capacità di scegliere i mezzi più adatti a perseguire uno scopo. In realtà, i nostri ragionamenti si basano in gran parte su inferenze inconsapevoli, non deduttive. In questo senso, l’orizzonte della logica è ben più ampio di quello della logica formale tradizionalmente intesa; anche se tra la logica e la ricerca delle condotte e dei mezzi più idonei per la sopravvivenza vi è una stretta relazione. Intento del libro è provare a far chiarezza su questa zona di confine. Credo sia necessaria una nuova discussione. Soprattutto in un’epoca in cui la nozione di decisione sembra oggetto di un vero e proprio complotto intellettuale, come evidenzia la generale tendenza alla mediazione e al compromesso.
Per tornare alla sua domanda, a me pare largamente fallace l’idea secondo cui la nostra mente è attrezzata per trarre conclusioni valide a prescindere dalle premesse. Nella prima metà del Novecento intere generazioni di economisti hanno sostenuto che le condotte individuali sono dettate da norme inflessibili e che eventuali deviazioni dipendevano da variabili psicologiche risolte dalle dinamiche macroeconomiche. Gli sviluppi recenti della scienza della decisione hanno revocato in dubbio questa idea di razionalità, restituendo centralità a fattori decisivi come imprevedibilità e incertezza. Nel mondo reale, decidiamo quasi sempre secondo schemi semplificati, spesso condizionati da rappresentazioni e percezioni distorte del rischio: variabili, queste, che rendono altamente improbabili risposte ottimali. Al di là delle informazioni disponibili su avversità, concorrenti e così via, nelle nostre decisioni intervengono fattori extracognitivi come la valutazione emotiva del rischio, la perseveranza, il timore per le conseguenze di un’azione, la tolleranza alle frustrazioni, il coraggio, l’autostima. Per non dire poi delle situazioni di rischio, in cui ci si affida sovente a informazioni parziali o insufficienti

Quali processi mentali si attivano nel processo decisionale?
Al netto dei strutture e delle funzioni neurofisiologiche sottostanti (troppo complesse anche per farvi solo cenno qui), trasformerei così la domanda: come decidiamo nel mondo reale, in tutte quelle situazioni caratterizzate da pressioni temporali, conoscenza incompleta delle alternative, tensione emotiva, incertezza, obiettivi mal definiti, posta in gioco alta e diversi gradi di esperienza del decisore? Lo facciamo a partire da una valutazione globale delle azioni possibili in base alle opzioni disponibili e non al confronto tra le loro caratteristiche specifiche. Inoltre, più che cercare e valutare dettagliatamente le alternative, confrontiamo le possibilità e le azioni potenziali in base alla loro accettabilità. Infine, più che soluzioni ottimali, cerchiamo ciò che è soddisfacente. In situazioni di emergenza, medici, comandanti militari, vigili del fuoco, piloti e altre categorie non seguono modelli teorici astratti. Ad esempio, se il comandante di una pattuglia di vigili del fuoco non decidesse efficacemente e in pochi secondi sul da farsi, rischierebbe di mettere a repentaglio la vita di molte persone. Ma come fa a decidere quando gli obiettivi non sono chiari (mettere al sicuro le persone o estinguere rapidamente l’incendio?), le informazioni incerte (quale è la planimetria dell’edificio in fiamme, che materiale è contenuto?) e le procedure di intervento non sempre codificate (come liberare un ferito da un’automobile dopo un incidente?)? Ecco, gli esperti decidono rifacendosi rapidamente a situazioni ed esperienze note. Individuano gli indizi più importanti da considerare, gli obiettivi da perseguire, i piani d’azione da seguire, la possibile evoluzione della situazione. Non hanno generalmente il tempo per confrontare la propria con altre decisioni: cercano soluzioni plausibili. Sono i principianti ad analizzare e comparare pro e contro di ogni opzione. Gli esperti decidono senza valutare. In situazioni critiche procedono sulla base di pochi indizi o di elementi depositati in memoria. Quando un esperto prende una decisione, ‘fotografa’ la situazione presente e agisce in base all’intuito. L’associazione tra indizi rilevati ed esperienza definisce rapidamente il corso d’azione possibile. Di solito sceglie un’opzione ragionevolmente accettabile. Non si perde in analisi dettagliate: sprecherebbe, infatti, troppo tempo, troppe energie e valuterebbe in modo distorto vantaggi e svantaggi delle opzioni a disposizione.

Nel processo mentale della decisione, quali sono i meccanismi che ci inducono in errore?
Negli anni ’70 del secolo scorso, due formidabili ricercatori, Daniel Kahneman e Amos Tversky, misero a punto un programma di ricerca per verificare se individui alle prese con problemi decisionali, opportunamente congegnati, ragionassero e decidessero secondo criteri razionali. Tale programma ha permesso di venire a capo dei limiti di elaborazione dell’informazione che spingono un individuo ad adottare soluzioni ai problemi, per così dire, a forte indice adattativo. I due studiosi riconobbero nelle cosiddette “euristiche” alcuni tra gli strumenti più efficaci per ridurre il carico cognitivo e consentire risposte rapide e generalmente efficaci ai problemi decisionali. Ma cos’è, precisamente, un’euristica? È un dispositivo (un mix di ragionamento, intuito ed emozioni) che ci consente di scegliere rapidamente (compatibilmente con la complessità della situazione e i limiti della memoria) aggirando le procedure logiche, deduttive o probabilistiche. In situazioni incerte e rischiose, è spesso l’unico strumento a nostra disposizione. Oggi sappiamo con certezza che anche i nostri brillanti ragionamenti sono condizionati da emozioni e misteriosi congegni che ci fanno saltare subito alle conclusioni. Per queste ragioni l’uomo non può essere una macchina pensante, ma una macchina emozionale che pensa.
In realtà, lo abbiamo sempre saputo. Non abbiamo, forse, sempre saputo che quando guardiamo un paesaggio non vediamo un paesaggio neutro, ma un paesaggio splendido, un paesaggio deprimente, un paesaggio rilassante e così via? Quasi sempre scegliamo quel che ci attrae istintivamente. Solo dopo avanziamo giustificazioni più o meno plausibili. Immaginazione, emozione e decisione, sono fortemente legate. Inoltre, le nostre preferenze dipendono anche da come ci rappresentiamo il compito decisionale. Capita spesso che, di fronte a uno stesso problema, prendiamo decisioni addirittura opposte, a seconda di come ce le rappresentiamo o come ci vengono presentate (magari strumentalmente). Questo chiarisce come le nostre decisioni siano influenzate da fattori esterni a esse: tendiamo, cioè, a “incorniciare” le opzioni disponibili e le rispettive probabilità di successo oppure cerchiamo elementi di coerenza e di razionalità. Il rischio è che potremmo essere influenzati da informazioni esplicite o implicite; essere spinti a considerare solo alcuni aspetti delle alternative; essere indotti a valutare erroneamente le conseguenze di una scelta; essere sollecitati a esaminare solo parte delle informazioni a nostra disposizione; o, infine, essere persuasi a giudicare il valore di un’alternativa non per quel che è, ma in relazione al contesto. Ad esempio, perdite o guadagni hanno un impatto cognitivo differente perché alterano la rilevanza delle informazioni a disposizione e influenzano la propensione al rischio.
Ancora una volta, la nostra mente segue percorsi differenti da quelli postulati dalla teoria della scelta razionale. Decidiamo di fronte a situazioni altamente contingenti e utilizziamo strategie adattative per rimediare ai limiti imposti dalla complessità dei compiti e dei contesti. È così che rimediamo a uno stato di ignoranza iniziale per giungere a un soddisfacente stato di conoscenza finale. Insomma, non adottiamo quasi mai modelli stereotipati, ma strategie flessibili. Inoltre, l’accuratezza e lo sforzo cognitivo non sono variabili indipendenti individuali, ma variabili dipendenti dal contesto decisionale. Questo ci spinge a selezionare strategie per buone decisioni col minor sforzo e in una continua negoziazione con l’ambiente. L’obiettivo è minimizzare il peso emotivo dovuto alla presenza contemporanea di valori in conflitto tra le diverse opzioni e raggiungere decisioni socialmente accettabili e giustificabili. Naturalmente, più accurate sono le scelte più sforzo comportano. A dimostrazione del fatto che ogni decisione è sempre il risultato di un compromesso tra aspirazioni, desideri, vincoli e possibilità.

Lei definisce il nostro cervello un “sistema aperto”: cosa significa?
A differenza di qualche decennio fa, il cervello umano appare oggi come un sistema aperto che fluttua entro dinamiche costantemente distanti dall’equilibrio: un sistema continuamente esposto a vincoli interni e dinamiche esterne che generano livelli crescenti di instabilità e creano nuove strutture d’ordine. La struttura e le funzioni del cervello sono continuamente influenzate da fattori diversi e imprevedibili (povertà e ricchezza sensoriali, qualità e intensità percettiva) che ne condizionano lo sviluppo e le connessioni. Si tratta di un processo antichissimo, iniziato già nelle prime fasi dell’ominazione, quando le cure materne e l’interazione culturale sollecitarono fortemente la crescita delle connessioni neuronali del cervello. Su tutto questo abbiamo fatto progressi formidabili, ma abbiamo domande vertiginose aperte davanti a noi. Ad esempio, da cosa hanno origine le innumerevoli interazioni tra le singole aree cerebrali; lo scambio di tracce e dati sensoriali tra intricatissime reti neuronali; la costante rielaborazione delle informazioni preesistenti; la collaborazione e la competizione tra le strutture corticali e sottocorticali? Quale meraviglioso algoritmo biologico governa gli effetti della contingenza e dell’irreversibilità storica, l’azione di processi non lineari, la creazione artistica, i sistemi etici, la visione scientifica del mondo? Ecco, credo il vero miracolo dell’universo sia proprio l’esistenza della natura: la stessa natura governata dalle implacabili leggi della fisica e della chimica. Fin dall’origine, la materia si è costituita in forme di crescente complessità. Nei suoi formidabili mutamenti ha imparato ad assimilare e a trasmettere l’informazione, a diventare un eccezionale veicolo di immaterialità. Non ha molta importanza che si tratti di stelle, di galassie o di esseri umani. La materia decade e si trasforma, si rinnova e si separa. L’informazione, invece, si espande costantemente, lasciando traccia di sé in nudi aggregati molecolari, ma soprattutto generando un impensabile aumento di senso nella storia dell’universo. Se non riconosceremo tutto questo resteremo inesorabilmente prigionieri dell’antica dicotomia tra materia e spirito.

È possibile ottimizzare il processo decisionale rendendolo il più possibile razionale ed esente da condizionamenti?
Temo sia una sfida perduta in partenza. È una pia (e drammatica illusione) concepire comportamenti umani oscillanti entro schemi predefiniti che riassorbono tensioni interne ed esterne per ripristinare un equilibrio ottimale. I comportamenti reali e gli stati psicologici sostenuti da fini e progetti tendono motu proprio ad alterare gli stati di equilibrio preesistenti, a creare dinamiche sempre nuove. Anche per questo, una decisione non corrisponde mai, in nessun caso, a un “primato dell’astratto”, ma è una permanente oscillazione tra un’intenzione efficace e veloce e la forma che la realtà assume in seguito alla soluzione di un problema. È poi argomento vacuo considerare irrazionale il carattere non ottimale del ragionamento. Non ottimizzante non significa irrazionale. Semmai è la razionalità astratta a non riconoscere i vincoli della realtà esterna e i limiti cognitivi dell’uomo. Insomma, solo in un mondo astratto è tutto già al suo posto. Nel mondo reale, ogni decisione ha un prima, un mentre e un poi. Certo, si possono commettere errori. Ma ogni conoscenza implica, di per sé, il rischio dell’illusione e dell’errore. Difficile riconoscerli. Vi siamo tutti esposti. La stessa scienza, che è un potente strumento di individuazione degli errori e di controllo razionale delle illusioni, per quanto rigorosa, non può evitare errori al proprio interno. Né può affrontare da sola le questioni che l’assillano. D’altro canto, spesso senza accorgersene, gli uomini mentono a se stessi: per egocentrismo, auto-giustificazione, alibi. Molte fonti di errori risiedono nella nostra memoria, che ci fa privilegiare i ricordi vantaggiosi e piacevoli e rimuovere quelli svantaggiosi e spiacevoli. Si tratta di meccanismi che deformano fortemente i ricordi, al punto da farci credere arbitrariamente di aver vissuto (o, se rimossi, di non aver vissuto) eventi anche importanti della vita. Le nostre idee possono essere non solo fallaci, ma anche dissimulare errori e illusioni. Non c’è da sorprendersi, dunque, quando ci accorgiamo che i nostri eleganti ragionamenti non ci conducono alla verità. La nostra cognizione delle cose non può offrirci alcuna certezza di verità. Essa contempla nella sua stessa essenza quell’incertezza che ci mette, sempre in modo nuovo, davanti ai problemi. Dopotutto una percezione non è mai uno specchio del mondo, ma una traduzione e una ricostruzione di segnali captati e modificati dai nostri sensi. Siamo inevitabilmente esposti al rischio dell’errore perché i nostri metodi, le nostre interpretazioni sono pregiudicati dalle inevitabili proiezioni delle nostre aspettative, dalle nostre paure, dalle nostre speranze.