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Covid-19: alla ricerca di un vaccino per la cacofonia

Abbiamo imparato a difenderci dal nuovo Coronavirus, ma non da tutto il "rumore" mediatico che accompagna la pandemia

Insieme a quante persone stiamo trascorrendo questo – ahimè, ennesimo – lockdown? La risposta parrebbe in prima battuta, semplice: una, due, oppure quattro, per chi ha anche figli in casa.

Invece, a ben contare, decine, centinaia, per qualcuno migliaia di persone, se contiamo colleghi, studenti, clienti e quant’altri imperversano su Zoom per ragioni professionali; parenti e amici che intasano la messaggistica di Whatsapp; influencer e perfetti sconosciuti che pontificano sui nostri wall Social; per non parlare di opinionisti e giornalisti che dicono la loro dagli schermi televisivi e sulle frequenze radiofoniche. Un vero buzz costante, ma con il volume – purtroppo – sempre al massimo, una babele di voci, dati, opinioni, ipotesi e allarmi.

Vien da chiedersi come sia possibile non uscirne pazzi, e infatti i dati confermano un’impennata delle diagnosi di depressione e dell’uso (e abuso) di psicofarmaci: di fatto, tutti i nostri sensi hanno trascorso gli ultimi 13 mesi a correre come criceti in gabbia. Una gabbia, però, davvero troppo affollata. Una cacofonia che non lascia indenne neppure l’apparentemente asettico dominio della scienza: come farsi mancare, ad esempio, le recenti accese polemiche sulla sicurezza del vaccino AstraZeneca, o “Oxford Vaccine”, come lo chiama – autarchicamente – il Premier inglese Boris Johnson?

A seguito delle due tristi morti per trombosi registrate in Italia, le pagine Social dell’autorevole (sic!) “BustoArsizioToday” hanno pubblicano strilli e articoli sul mal di testa della Sciura Brambilla dopo la prima inoculazione del vaccino, domandando in grassetto ai lettori “E voi: vi fidate di questo vaccino…?”; le cronache di mezza Italia ci hanno tenuti impegnati per giorni sul tema “AstraZeneca si, AstraZeneca no”: come se a decidere sulla sicurezza di un vaccino dovessero essere i giornalisti, o peggio ancora, per plebiscito, i cittadini laureati all’Università della strada.

Più precisamente, sono stati registrati – purtroppo – due decessi nel nostro Paese, tra i vaccinati con AstraZeneca, su 3 milioni di dosi (leggasi: uno ogni 1,5 milioni), per una causa di morte – la trombosi cerebrale – che uccideva comunque, prima del lancio del vaccino, 30 italiani al giorno (uno ogni 2 milioni). Possiamo immaginare che questi due tristi decessi, avvenuti in concomitanza con la somministrazione del vaccino, siano accaduti del tutto a prescindere dall’inoculazione del prodotto? È quanto meno ragionevole ipotizzarlo. Qualora invece si trattasse di una correlazione diretta tra somministrazione del vaccino ed effetto collaterale, è giustissimo evidenziarlo: come scrive Roberto Colombo in un bell’articolo su Avvenire, “Inutile negare o sminuire i possibili eventi avversi rari ma seri riscontrati nella somministrazione dei vaccini (come avviene anche per altri farmaci), o nasconderli in qualche modo agli occhi dei cittadini, nella speranza di evitare timori sproporzionati o rifiuti irrazionali. Come la storia del rapporto tra paziente e medico insegna, la fiducia del primo il secondo se la conquista con la correttezza professionale, la trasparenza e il dialogo“. Ma senza panico, please, e senza per questo mettere in dubbio ad ampio raggio l’utilità dell’uso di uno strumento terapeutico fondamentale quale quello dei vaccini, che nel corso dell’ultimo secolo hanno salvato milioni di vite, pur presentando – tendiamo a dimenticarlo: come qualunque farmaco che utilizziamo ogni giorno – alcuni, rarissimi, effetti collaterali: dati alla mano, i vaccini Moderna e Pfizer insieme hanno causato alla data di pubblicazione di questo articolo segnalazioni per reazioni avverse gravi (meritevoli di ricovero, ma non mortali, per fortuna) in 138 casi, e quello AstraZeneca 36; numericamente ridicoli i primi, e praticamente inesistenti i secondi, se paragonati al numero complessivo di persone vaccinate.

Per non parlare poi delle polemiche sollevate – sempre dalla sciatta stampa nostrana – sull’efficacia del vaccino Astrazeneca per gli over 65. I produttori anglo-svedesi avevano consegnato all’EMA, l’agenzia europea per i medicinali, dati di trials ancora insufficienti a garantire la totale efficacia del prodotto per quella fascia d’età; ebbene, il rilievo relativo al fatto che la sperimentazione fosse stata inizialmente condotta su un numero di soggetti over 65 insufficiente per costituire una base statistica affidabile si è cabarettisticamente trasformato sui nostri giornali in titoli ad effetto di centinaia di organi di stampa: “AstraZeneca, vaccino pericoloso per gli anziani!”, generando un tanto diffuso quanto inutile allarmismo.

Ma non basta. Oggi, in Europa e quasi tutto il mondo, con poche felici eccezioni, i produttori di vaccini sono – purtroppo – in ritardo sulla produzione delle dosi che si sono impegnate a consegnare. Ecco allora i titoli sui più diffusi mass-media: “Big Farma ci ha truffati, promettendo centinaia di milioni di dosi, che poi in realtà va a vendere altrove” (chissà dove, poi).

Aggiungiamo magari anche le polemiche nostrane sulle lungaggini e disorganizzazioni nel piano vaccinale (certamente, si poteva – e si dovrà – far meglio), e tra titoli sensazionalistici e teorie complottiste l’ennesimo effetto distorsivo della realtà è garantito.

In un recente articolo pubblicato su The Atlantic a firma di Zeynep Tufekci, poi tradotto da Internazionale, l’apprezzata docente alla North Carolina University e al Berkman Klain Center di Harvard ha ricordato come quando fu approvato il vaccino contro la Poliomelite la notizia venne accolta con enormi manifestazioni di esultanza, con le campane delle chiese che suonarono a festa in tutti gli Stati Uniti, e i giornali che titolarono “Una vittoria monumentale”, bambini che uscirono prima da scuola per festeggiare e adulti per strada a ballare dalla gioia; per il Covid, curiosamente, non è accaduto nulla di tutto questo.

Vero, “big pharma” in passato ci ha male abituati: disease mongering (variazione dei criteri diagnostici di una malattia per vendere più farmaci, tecnica di marketing ampiamente documentata in letteratura), comparaggio (impegno assunto da un medico di agevolare a scopo di lucro la diffusione di prodotti farmaceutici di una determinata azienda), corruzione vera e propria, e anche occultamento doloso di studi scientifici che dimostravano che propri prodotti farmaceutici erano non solo inutili ma anche pericolosi… Pare insomma che l’industria farmaceutica si sia davvero impegnata, negli ultimi decenni, per pregiudicare la propria stessa reputazione e incrinare il rapporto di fiducia con i pazienti e la cittadinanza in generale, tanto che a seguito di questi deprecabili comportamenti la quasi totalità delle aziende farmaceutiche multinazionali è stata oggetto di sanzioni assai elevate, in alcuni casi vere e proprie multe monstre da miliardi di dollari.

Per non parlare poi della pessima gestione dell’emergenza socio-sanitaria causata dal Covid-19, da parte del Governo dell’allora Presidente del Consiglio Giuseppe Conte, che pare abbia a sua volta fatto di tutto per incrinare la fiducia tra istituzioni e cittadini: altro che Italia come modello virtuoso nella gestione della pandemia, sono stati ben altri i Paesi che sono stati in grado di fare la differenza nel numero di decessi.

Ma ragioniamo, e una volta per tutte circostanziamo razionalmente l’analisi a quanto realmente accaduto negli ultimi mesi. Quindici mesi fa si veniva a conoscenza dell’esistenza di un nuovo coronavirus in Cina, il Covid-19; quattordici mesi fa si otteneva il completo sequenziamento del genoma di questo virus, sequenziamento che gli scienziati di tutto il mondo hanno avuto disponibile nelle successive 24 ore; oggi, a distanza di poco più di un anno dal “paziente zero”, disponiamo di una dozzina di vaccini già iniettati in centinaia di milioni di braccia, e altri stanno venendo approvati dalle autorità regolatorie.

Ben pochi, tuttavia, i titoli sui mass-media tali da segnalare in modo incisivo una delle notizie – francamente la più interessante ini questa pandemia – ovvero quella relativa al vero e proprio miracolo della scienza e della ricerca farmaceutica costituito dall’assoluta rapidità di risposta a questa crisi di dimensioni mondiali, che – direttamente o come concausa – ha lasciato per strada quasi 3 milioni di morti, con buona pace di Fragolina81, professione estetista, che su Facebook si straccia le vesti postando a gran voce, in grassetto e con sintassi dadaista: “Complotto! I vaccini li fanno con i feti morti e ci mettono dentro il microchip per il 5G di Bilgheitz”.

Probabilmente, non sarebbe azzardato scrivere che “Mai nella storia dell’uomo si è stati capaci di rispondere così rapidamente ed efficacemente a una nuova malattia”, con uno strumento efficace come il vaccino per il Covid-19, come dimostrano i dati straordinari della campagna vaccinale in Israele, segnalati a più riprese anche con tagliente ironia dal virologo Roberto Burioni. Ecco, questa sarebbe la vera notizia da enfatizzare a gran voce, risultato del quale giustamente godranno anche no-vax, complottisti, teorici del “potere di big pharma”, critici del metodo scientifico, e via discorrendo.

E a dimostrazione che la scienza non è perfetta ma perfettibile, vorremmo prima di concludere ricordare il lavoro di Katarina Kariko, per anni snobbata da tutti i consigli di facoltà e dai principali atenei, che ha fatto carte false per portare avanti la propria ricerca sull’RNA Messaggero, trascurata da ogni possibile finanziatore e anche boicottata da non pochi suoi colleghi, scienziata che – nonostante il vento avverso – ha tenacemente costruito anno dopo anno il know-how che oggi costituisce l’infrastruttura scientifica su cui poggiano buona parte dei vaccini anti-Covid. A questa scienziata straordinariamente lungimirante forse – anche in ambito accademico – qualcuno dovrebbe chiedere scusa, qualcun altro dedicare magari una targa, e tutti noi un minuto di riconoscenza. In silenzio, magari, così da bilanciare il pessimo spettacolo dato da non pochi uomini di scienza, che – caduti nella trappola del nostro dequalificato giornalismo – si sono scatenati a litigare h 24 in diretta TV: un epidemiologo che dibatte con un immunologo, un direttore sanitario che si prende a pesci in faccia con un medico di base, un virologo insultato da un fisico, e via discorrendo.

Per i mass-media, e relativi Social, tutto ciò si é sostanziato in accesi scontri, ovvero audience e click sulle notizie, quindi in definitiva, in soldi; per la scienza, è stato invece un pessimo spettacolo, perché gli scienziati dovrebbero dibattere in modo anche acceso nei congressi scientifici, e non in televisione, e dai congressi fare sintesi – possibilmente con un approccio multidisciplinare – per poi spiegare a noi cittadini il senso delle cose, con una sola versione, chiara, condivisa, per quanto possibile semplice, e comunque facilmente declinabile, in modo comprensibile, ai non addetti ai lavori. Diversamente, rischia di passare – come purtroppo a tratti è invece passato – il pericoloso messaggio che “neppure la scienza ha le idee chiare”, e allora per qualcuno ben venga il ciarlatano venditore di comode verità pret-a-porter spacciate come soluzioni alternative, o gli allarmismi in salsa pseudo-scientifica. Come ricordato dalla Tufekci sulle colonne del mensile americano, “La lotta alla pandemia è stata anche ostacolata da una comunicazione paternalistica che ha preferito imporre divieti, invece di fare corretta informazione. È necessario cambiare strategia, e soprattutto essere più ottimisti sui vaccini”

Sarebbe davvero il caso, allora, di dare tregua alle nostre menti confuse e disorientate, e concederci un po’ di tranquillità, magari spegnendo per un tempo ragionevole i nostri Device, e prendendo le distanze da tutta questa ridondante cacofonia, per la quale, purtroppo, non esiste ancora alcun efficace vaccino.




L’importanza della reputazione per gli Stati e l’urgenza di tutelare l’Italia

L’importanza della reputazione per gli Stati e l’urgenza di tutelare l’Italia

Alla luce della crescente concorrenza tra i paesi non solo su scala continentale ma anche su quella locale, governi e istituzioni pubbliche negli ultimi anni, hanno intrapreso diverse iniziative per aumentare il livello di competitività del proprio Paese, per migliorare la propria innovatività e risultati macroeconomici.

Oggi, nell’era dell’informazione contemporanea, le fonti di maggiore vantaggio competitivo si riscontrano sempre più frequentemente nel dominio degli asset intangibili, e attualmente uno degli asset più preziosi che aiuta a costruire il valore e vantaggio competitivo di un paese è – com’è noto – la sua reputazione.

Come abbiamo illustrato con maggiore dettaglio nel recente rapporto “Lo Stato in crisi. Pandemia, caos e domande per il futuro, edito da Franco Angeli, al quale hanno collaborato 35 firme eccellenti del mondo accademico, professionale e istituzionale, una buona reputazione nazionale infatti consente di attrarre nuovi investimenti esterni, trovare di nuove fonti di finanziamento per progetti, allettare lavoratori qualificati, turisti e nuovi residenti. Inoltre diversi studi hanno registrato un legame tra la reputazione del paese e quelle aziendali. Secondo Newburry (2012), la relazione tra la reputazione del paese e la reputazione aziendale è infatti una delle questioni contemporanee di maggiore rilievo per gli studiosi di reputazione ed economia internazionale: è stato dimostrato come società che prosperano in un Paese con una buona reputazione (ad esempio, le aziende automobilistiche tedesche) possono avere vantaggi competitivi nel mercato globale nonostante la loro scarsa reputazione aziendale.

Per raggiungere questi obiettivi, vengono applicati dagli stati gli strumenti tradizionalmente utilizzati nel mondo del business. Si tratta dell’attività di soft power, in chiave per lo più economica, che prende il nome di Nation Branding definita da Pauline Kerr e Geoffry Wisemsn nel loro libro “Diplomacy in a Globalizing World: Theories and Practice”, Oxford University Press (2013), come: «l’applicazione di concetti e tecniche di marketing aziendale, alle nazioni, con l’intento di supportare con la reputazione le relazioni internazionali».

Negli ultimi due decenni, è stata prestata una crescente attenzione al Nation Branding sia dagli studiosi di marketing (come Anholt, 2002; Fan, 2006) che da studiosi di pubbliche relazioni (ad esempio, Wang, 2006): il Nation Branding infatti è tutt’oggi un campo in via di sviluppo in cui gli studiosi continuano la loro ricerca di un quadro teorico unificato al fine di implementare ed affinare le strategie volte alla gestione e all’accrescimento della reputazione di uno stato.

Attualmente, a mettere a rischio la già critica reputazione italiana – calata di due posizioni nell’ultima indagine del repTrak Index, anche a causa delle pessime performance sul fronte della corruzione, della complessità burocratica, della lentezza dei processi giudiziari, etc – si configura la negativa gestione del Paese rispetto l’emergenza sanitaria da Covid-19, che non ha di certo contribuito a rafforzare la visione, su scala globale, del nostro paese. Di seguito s’illustrerà la ricerca di un importante consorzio europeo sulla gestione degli stati colpiti dall’attuale emergenza sanitaria, ricerca che non vede l’Italia posizionarsi in modo positivo tra le statistiche internazionali.

Il DKG e la gestione Covid-19 in Italia

Deep Knowledge Group è un consorzio misto profit-no profit, che – anche grazie a un accordo di collaborazione scientifica con il King’s College di Londra – si occupa di ricerca e sviluppo e di investimenti nei campi dell’Intelligenza artificiale, dell’analisi di Big-data e delle soluzioni di tecnologia avanzata per i Governi.

In un interessante ed approfondito articolo su Forbes, curiosamente non ripreso dalla stampa italiana, si evidenzia come – nonostante il continuo release di un enorme quantità di dati sulla pandemia Covid-19 rilasciati da organizzazioni come OMS, CDC, Johns Hopkins University e Worldometers – tali dati assai raramente vengano analizzati in modo efficiente e sistematico per fornire indicazioni realmente utili alla gestione dell’emergenza sanitaria, che interessa materie assai differenti tra loro – ma complementari – come medicina, biologia, epidemiologia, psicologia studio dei comportamenti umani, ed altre aree di interesse scientifico.

Un team di esperti DKG ha quindi raccolto e analizzato i dati generati per 200 paesi in tutto il mondo, e ha sviluppato alcuni quadri analitici avanzati per analizzare lo scenario dell’epidemia di Coronavirus, presentando poi l’output sotto forma di dettagliate classifiche che dovrebbero essere utili alle istituzioni pubbliche per inquadrare meglio le strategie realmente vincenti nel contenimento dei danni da Covid-19 e per la gestione efficace dell’impatto economico della pandemia.

L’analisi di DKG – che ha valutato i dati in modo imparziale tramite una metodologia basata su metriche proprietarie e accessibile in modalità open-source – è stata progettata per valutare rapidamente la situazione in continua evoluzione nei vari paesi, che muta mentre le autorità si sforzano di mitigare le conseguenze sanitarie ed economiche della diffusione del virus, e ha dimostrato che alcuni paesi sono stati assai efficaci nella lotta contro COVID-19 fin dall’inizio, mentre altri – al di la delle roboanti dichiarazioni utili per la propaganda politica interna – assai meno.

I paesi virtuosi si sono concentrati sulla prevenzione anticipata della pandemia, implementando misure di quarantena prima che il numero di casi confermati superasse numeri ingestibili per il servizio sanitario pubblico, e utilizzando metodi efficienti per la mappatura del contagio e per il trattamento dei pazienti ospedalizzati, utilizzando anche tecnologie come l’intelligenza artificiale, la robotica e l’analisi dei big data, in combinazione con le tecniche di trattamento medico e di gestione dell’assistenza sanitaria strutturate in modo sofisticato.

Ogni paese analizzato è stato classificato con un punteggio numerico costruito utilizzando una metodologia ben definita: a ogni aspetto viene assegnato un peso specifico, o fattore di importanza, che viene utilizzato come input nelle equazioni utilizzate nello studio per generare vari quadri di classificazione matematica dei fenomeni e comportamenti analizzati, e tutti i quattro quadri di classificazione (primo quadro con informazioni sul grado di sicurezza in senso assoluto nei vari Paesi, secondo quadro sul rischio Covid nelle nazioni analizzate, terzo quadro sull’efficienza specifica con la quale sta venendo trattato il virus COVID-19, e infine quarto quadro di classificazione che misura il grado di sicurezza potenziale all’interno dei Paesi dell’Eurozona), la classificazione riservata all’Italia è – in varia misura – impietosa). Completa l’analisi un set di interessanti infografiche, dalle quali risulta chiaro una volta di più lo spazio di miglioramento del sistema Italia in questa (e in future) gestioni di emergenze sanitarie e pandemiche.

Le non conformità critiche

Queste, in estrema sintesi, le scelte critiche che fin dall’inizio della gestione dell’emergenza hanno contribuito a pregiudicare la reputazione dell’Italia nella gestione Covid-19:

  • disomogeneità delle strategie di comunicazione e visibilità sui canali informativi ufficiali, con molti enti presenti online, attraverso una pluralità di siti (Governo, Ministero della Salute, Protezione Civile, Istituto Superiore di Sanità, etc.) riportanti messaggi non sempre allineati;
  • assenza – specie nella prima fase della gestione dell’emergenza – di una voce unica che parli a nome di tutte le istituzioni pubbliche, facilmente riconoscibile, e che sia ritenuta autorevole dalla cittadinanza. La mancanza di coordinamento nel merito dei messaggi ha evidenziato una gestione della crisi per certi versi improvvisata: Presidente del Consiglio, Ministro della Salute, Commissario all’emergenza Borrelli, Presidenti delle Regioni coinvolte, Protezione Civile… tutti hanno parlato, con il risultato di ridurre l’efficacia del messaggio e aumentare i fattori confondenti (fino all’epic fail del 3 marzo, con le fonti governative che alle 14:00 confermavano la chiusura delle scuole in tutta Italia, e la Ministra dell’Istruzione che la smentiva alle 14:15 per poi confermarla in conferenza stampa alle 18:00);
  • assenza nei siti istituzionali di una sezione informativa specifica sulle bufale relative al Coronavirus (ne circolano di ogni tipo), utile per garantire una comunicazione il più possibile priva di contenuti confondenti per la popolazione;
  • presenza del Presidente Giuseppe Conte, nella prima agitata fase dell’epidemia, in ospitate TV – da “Live Non è la D’Urso” a “Che tempo che fa” di Fazio – più adatte a una soubrette o a un opinionista qualsiasi, che non al Presidente del Consiglio di una delle prime dieci potenze industrializzate del mondo, con un approccio scientificamente poco affidabile tale da non riuscire affatto a rasserenare i concittadini alla prese con un emergenza tanto inedita quanto preoccupante;
  • indicizzazione dei siti web nazionali ufficiali sui principali motori di ricerca affidata al caso (organica, ovvero sulla base delle ricerche degli utenti, e non governata dalle istituzioni). Sarebbe stato sufficiente accordarsi (possibilmente in anticipo rispetto allo scoppio dell’epidemia) con Google Italia, prevedendo l’attivazione di un box apposito in testa alla prima pagina di qualunque ricerca online, per far trovare in evidenza il rimando all’hub informativo principale;
  • informazioni online non aggiornate in tempo reale (ad esempio, per giorni nelle FAQ del Ministero Salute non è stato riportato l’elenco delle Regioni interessate da decreti di restrizione dei servizi, ma si parlava solo delle delibere di Lombardia e Veneto);
  • a parte i video informativi con protagonisti il giornalista RAI Michele Mirabella, ben fatti e con alcuni consigli utili di comportamento e prevenzione, lanciati il 7 febbraio (ma che – oltre che spiegare, assai discutibilmente, che il contagio non sarebbe stato affatto facile – neppure riportavano il numero verde del Ministero della Salute), non sono stati programmati nelle prime tre settimane di epidemia specifici spot informativi in TV, che potevano esser realizzati precedentemente, in un’ottica di corretta previsione della crisi, e a costi assai contenuti (i video con Amadeus o i cartelli con le norme di buon comportamento appariranno circa un mese dopo la deflagrazione dell’epidemia);
  • a distanza di un mese dalla dichiarazione di emergenza, i canali social Facebook, Twitter, Instagram e Youtube del Ministero della Salute risultavano ingaggiati nella gestione dell’emergenza solo sotto il profilo della pubblicazione di informazioni e aggiornamenti, ma le molte domande – soprattutto su Facebook – poste dai cittadini non ottenevano alcuna risposta, situazione decisamente anomala rispetto alle best practices in materia di comunicazione digitale (anomalia che peraltro permane a tutt’oggi);
  • numeri verdi d’informazione andati in tilt per giorni: sempre occupati, nessuna risposta, cadeva la linea. Uno dei più eclatanti pessimi indicatori di scostamento dalle buone prassi internazionali in materia: non si è fatta un’adeguata simulazione di scenario, e quindi i canali di comunicazione più immediati (le linee telefoniche, oltre ai Social) non sono stati presidiati con risorse professionali numericamente sufficienti per resistere alla (prevedibile da tempo) onda d’urto delle chiamate della popolazione;
  • azione di contenimento promossa a macchia di leopardo, dando l’immagine di un Governo centrale quasi in reciproca competizione con le Regioni, e in particolare con alcune di esse, che hanno preso iniziative in ordine sparso. La tutela della salute chiaramente viene al primo posto: ma occorre anche qui non improvvisare, e poter contare su un crisis plan (un piano di gestione della crisi) preparato con cura in precedenza, così da prevedere accuratamente ogni scenario e gli adeguati strumenti di risposta e di gestione;
  • assenza di un piano per la sollecita riconversione dei piccoli ospedali dismessi, in aree per la terapia intensiva;
  • tardivo coordinamento con gli specialisti medici delle Forze Armate, che avrebbero fin da subito potuto garantire professionalità e spazi (mentre pubblichiamo questo articolo, l’ospedale da campo degli Alpini a Bergamo è ancora in fase di allestimento, anche questo avviato, poi bloccato a e poi ripartito);
  • ritardo inspiegabile nella requisizione, in accordo con le proprietà, di strutture alberghiere per la creazione di hospice per la quarantena Coronavirus (il primo fu l’hotel Michelangelo a Milano il 21 marzo 2020, oltre un mese dopo lo scoppio dell’epidemia nel nostro Paese);
  • in generale, inefficace coordinamento tra le istituzioni nazionali e quelle locali, come successivamente ribadito anche da autorevoli giuristi come il Prof. Cassese, giudice emerito della Corte Costituzionale, che ha sollecitato a ridisegnare il perimetro delle reciproche competenze, lamentando anche in un suo intervento la mancata applicazione dell’articolo 117 della Costituzione, che riserva allo Stato i compiti in materia di profilassi internazionale, l’articolo 120 della Costituzione che consente al Governo di sostituirsi alle Regioni in casi di pericolo grave per l’incolumità, e la legge 833 del 1978 che assegna al Ministro della salute il compito di intervenire in caso di epidemie;
  • per l’intera durata dell’emergenza, perlomeno fino alla data di pubblicazione di questo articolo e dei successivi aggiornamenti assenza del Commander-in-chief (il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte) sui luoghi del disastro, ovvero, con riguardo a questo particolare tipo di crisi, sul territorio delle regioni più colpite dalla pandemia, Lombardia e Veneto in primis. Nel processo di costruzione di senso il tentativo dev’essere quello di ridurre l’incertezza dei vari pubblici coinvolti nella crisi e ispirare fiducia nei leader che devono gestirla: l’assenza del PdC Conte dal territorio non ha certamente aiutato a raggiungere questo obiettivo.

Conclusioni: le lezioni da imparare

Dal punto di vista del crisis management, il modello di gestione che tra tutti sembra aver operato nella giusta direzione, nel complesso, resta quello di Taiwan, anche per l’esiguo numero di vittime imputabili al Coronavirus, grazie alla messa in opera di un efficiente e completo crisis-plan preventivamente elaborato e testato.

È bene ricordare come le regole internazionalmente riconosciute valide nella gestione degli scenari di crisi, specie sotto il profilo della comunicazione, sono – ribadisco – note. In sintesi: autorevolezza, rapidità, trasparenza, coerenza, affidabilità, frequenza di aggiornamento, robustezza delle infrastrutture dedicate a erogare le informazioni; c’è poco o nulla da inventare, e proprio l’Italia, tra l’altro, ha dato parecchio sotto il profilo della costruzione di percorsi e prassi d’eccellenza in materia.

Pur con molta buona volontà da parte delle istituzioni, e ferma restando la dedizione e abnegazione assoluta dei nostri operatori sanitari, che sta realmente facendo la differenza, l’impressione è che il Governo – nonostante i molti segnali (neppur troppo deboli) di crisi – sia arrivato ampiamente impreparato al grave appuntamento con questa epidemia, sottostimando la più importante delle regole auree del crisis management e della crisis communication, che è un po’ il minimo comune denominatore di tutti i punti sopra elencati: è umanamente impossibile reagire con efficacia a crisi di ampia portata se il sistema di comunicazione e di relazione con il grande pubblico non è costruito (e testato con appositi stress-test) ben prima dell’evento critico, ad esempio, in estrema sintesi:

  • attrezzandosi con professionalità adeguate (sia per qualità che per numero) per poter garantire comunicazioni e istruzioni dettagliate alla cittadinanza in casi di emergenza, con indicazioni specifiche per essere preparati in casa, sul luogo del lavoro o a scuola;
  • organizzando iniziative off-line come il reclutamento di volontari in caso di allarme;
  • disponendo vere e proprie esercitazioni, così da valorizzare un lavoro preventivo letteralmente vitale in caso di emergenza;
  • avviando in tempo di pace l’indispensabile processo di informazione, preparazione ed educazione dei cittadini;
  • elaborando e progettando, ben prima della deflagrazione della crisi, una narrativa convincente, così da poter poi allo scoppio dell’emergenza assemblare un messaggio  autorevole, che fornisca speranza, mostri empatia per le vittime e assicuri che le autorità stanno facendo il massimo per ridurre e controllare le conseguenze dell’emergenza.

A smentire ulteriormente le voci che lodano il modello Italiano, non mancano i dati e le informazioni di cui il web si fa prodigo portatore e che al momento stanno contribuendo a causare un danno reputazionale non indifferente all’Italia, in quanto, come è noto, quando l’immagine che si cerca offrire risulta incoerente e distonica rispetto ciò che invece si è, la perdita in termini reputazionali è semplicemente inevitabile.

Occorrerebbe piuttosto, invece che esaltare un modello assai lacunoso, operare in direzione critica, riconoscendo gli errori che lo Stato italiano – assieme ad altri stati, ma per questo non meno responsabile – ha compiuto negli ultimi mesi nel gestire una crisi, quella relativa alla pandemia da Coronavirus che ci ha trovati largamente impreparati nonostante l’esistenza – completamente ignorata – di un piano di prevenzione di crisi pandemica nazionale.

Quello che oggi è opportuno fare, cercando di imparare dagli errori è dirigersi verso un attento studio di quella che è la già ricca e articolata letteratura delle discipline di crisis management e crisis communication, al fine di preservare la preziosa reputazione dello Stato italiano, funzionale a sostenere il sistema Paese, e quindi le imprese e i cittadini che in questa nazione vivono e lavorano.

*Luca Poma è 
Professore di Reputation management all’Università LUMSA di Roma e all’Università della Repubblica di San Marino, specialista in Crisis management e Crisis communication




Ambiente, sostenibilità ed eco-mafie: il punto di vista dello Stato

AMBIENTE, SOSTENIBILITÀ ED ECO-MAFIE: IL PUNTO DI VISTA DELLO STATO, Massimiliano Corsano

Comandante Corsano, qual è il ruolo dei Nuclei che lei dirige e più estesamente dei Reparti dell’Arma impegnati a difesa dell’ambiente?

Il Comando Carabinieri per la Tutela Ambientale assolve principalmente funzioni di polizia giudiziaria con la finalità di vigilare, prevenire e reprimere i reati a danno del patrimonio ambientale, e pone in essere attività di rilevanza strategica nel settore del controllo della sicurezza ambientale. Per “criminalità ambientale” si intende un fenomeno di preoccupante estensione in quanto dotato di una intrinseca trasversalità che coinvolge ambiti di interesse sempre più variegati oltre che soggetti o consorterie sempre più evoluti e, pertanto, si fa riferimento all’insieme di condotte contrarie alla legge e direttamente lesive di un superiore diritto della persona che comprendono anche l’integrità fisica e psichica, oltre che la salvaguardia della qualità della vita.

A quali risultati ha portato questa vostra attività?

A confermare il coinvolgimento non solo della criminalità organizzata di tipo mafioso, quanto invece l’attivo operare di gruppi imprenditoriali di spessore (con interessi commerciali diversificati) che, per la materia specifica, si avvalgono della consulenza e delle prestazioni di figure di elevata professionalità, evitando spesso i contatti diretti con esponenti mafiosi. Tale ruolo appare vieppiù consolidarsi nel contesto della gestione illecita del ciclo dei rifiuti ove è frequente l’intervento diretto di “imprese criminali” le quali perseguono, attraverso l’esercizio di attività economiche, illeciti profitti, acquisendo ingenti quantitativi di rifiuti – ignorando scientemente quanto previsto dalle autorizzazioni – anche a prezzi fuori mercato, omettendo successivamente di sottoporli ai necessari trattamenti. L’esame delle attività investigative mostra come il traffico illecito dei rifiuti rientri tra le scelte d’impresa volte alla indebita riduzione dei costi e conseguente alterazione dei vprezzi di mercato, in spregio alle leggi che tutelano la libera concorrenza e loperato delle aziende oneste. È ormai noto il ruolo diretto delle grandi organizzazioni criminali nel “business ambiente” soprattutto a causa dei molteplici ambiti nei quali è possibile diversificare le infiltrazioni illegali, nonché per l’imponente quantità di denaro che gravita intorno al patrimonio ambientale del Paese. Il traffico e lo smaltimento illecito dei rifiuti, l’inquinamento dei corsi d’acqua e delle sorgenti, l’abusivismo edilizio ed il settore delle energie rinnovabili sono i principali settori nei quali le imprese criminali e la malavita organizzata hanno intravisto la possibilità di ingenti guadagni, anche per mezzo di connivenze eccellenti. Attratta dai grandi flussi di denaro e dai menzionati appoggi, la criminalità che opera anche nel settore ambientale ha avuto modo di diffondersi rapidamente su tutto il territorio nazionale e, sempre più frequentemente, di trovare validi riferimenti per proseguire oltre frontiera i propri traffici.

È cambiato qualcosa durante l’emergenza Covid?

Le attività illecite connesse al ciclo dei rifiuti sono state negli anni agevolate da una serie di congiunture nazionali e sovranazionali come la cronica difficoltà di reperire siti di stoccaggio o l’inadeguatezza della legislazione di alcuni paesi esteri, che hanno determinato implicitamente “condizioni favorevoli” all’insorgere ed al consolidarsi di atteggiamenti criminali. Un esempio di queste congiunture è stata la chiusura del mercato cinese all’importazione di imballaggi e materiali riciclabili in genere – sono 24 le tipologie di materiale inizialmente bandite – che con il conseguente intasamento dei magazzini delle ditte operanti nel settore, private di sbocchi sul mercato, situazione che è stata ulteriormente aggravata dai cali dei livelli produttivi globali derivanti dalla pandemia da COVID-19. Senza entrare nel dettaglio di ciò che sta emergendo, si può certamente affermare che, come spesso avviene, in situazioni di crisi di carattere economico si creano degli spazi che vengono occupati dalla criminalità, ed è ciò che si sta verificando anche in materia ambientale.

Di quali strumenti disponete nel concreto per intercettare, sanzionare e bloccare attività criminose sul fronte ambientale?

L’apparato di norme utili per questo fine è imponente e articolato, tanto che alcune fattispecie di reato riguardanti la c.d. “ecomafia” sono state inserite tra le materie di competenza della Direzione Distrettuale Antimafia. Parliamo spesso in questi casi di veri e propri “delitti d’impresa”, dove l’ingiusto profitto ottenuto mediante la violazione delle normative ambientali rappresenta in un certo senso lo spread tra un’impresa produttiva in termini economici ma fondata sul malaffare e un’impresa non così concorrenziale, poiché onesta. Stante la rilevata poliedricità del fenomeno della criminalità ambientale, la expertise investigativa dei Carabinieri che si occupano di tutela dell’ambiente deve dunque necessariamente estendersi ad ulteriori settori quali la conoscenza delle dinamiche e della normativa di funzionamento della Pubblica Amministrazione, degli appalti, dell’esecuzione di Grandi Opere Pubbliche e delle fonti rinnovabili non fossili (eolico, fotovoltaico, geotermico, biomassa, biogas, etc.). Un’ulteriore sfida contemporanea è costituita dalla “misurazione” degli impatti ambientali, aspetto che tra l’altro ha un’influenza notevole anche sulle modalità gestionali in ambito aziendale.

Può illustrare brevemente, come esempio, una tipologia di inchiesta realmente seguita dai vostri uffici e che “faccia scuola” sul fronte del contrasto alla criminalità ambientale?

Il settore che ci ha maggiormente impegnati di recente, e non solo da un punto di vista investigativo ma anche e soprattutto da un punto di vista analitico, è certamente quello degli incendi, argomento particolarmente sensibile. In tutta Italia infatti, a partire dal 2016, ha assunto sempre maggiore rilevanza il fenomeno degli incendi di natura dolosa ai danni di impianti dediti – a vario titolo – alla gestione dei rifiuti, la cui incidenza è apparsa fin da subito come evidentemente sintomatica di una diffusa speculazione criminale inerente al business dei rifiuti. La diffusione del fenomeno ha infatti fatto sì che l’attenzione di tutti i soggetti attivi nella difesa della legalità ambientale sia passata dal tema “classico” della combustione illecita, oggetto di provvedimenti legislativi ad hoc, al tema dell’interdipendenza tra eventi incendiari e mancata corretta chiusura del ciclo dei rifiuti. Dal punto di vista operativo le attività condotte dai NOE del Comando Carabinieri per la Tutela Ambientale hanno dimostrato – in linea con quanto più volte sostenuto dalla Procura Nazionale Antimafia – come tali fenomeni possano essere inquadrati, più che nell’ambito di dinamiche riconducibili alla criminalità organizzata di stampo mafioso, come spia della sussistenza, a monte, di importanti traffici illeciti di rifiuti. Le (criminali) imprese di settore, infatti, per evidenti ragioni connesse con lo spregiudicato perseguimento dell’illecito profitto, acquisiscono ingenti quantitativi di rifiuti – ignorando scientemente quanto previsto dalle autorizzazioni – anche a prezzi fuori mercato, omettendo successivamente di sottoporli ai necessari trattamenti, avviando così a smaltimento e/o riciclo materiali “intonsi” ai quali, attraverso la nota tecnica del girobolla vengono assegnati codici EER (I codici dell’Elenco Europeo dei Rifiuti) del tutto fasulli. La illecita esasperazione di simili condotte comporta, al fine di tagliare a monte la filiera dei costi nonché di evitare i controlli delle autorità preposte ed il rischio di essere soggetti – oltre alle conseguenze penali – agli oneri di bonifica, l’eliminazione a mezzo fuoco dei materiali giacenti.

Strettamente connesse agli incendi (ma palese anticamera di possibili ulteriori episodi) sono anche le condotte delittuose di alcuni soggetti spregiudicati che – allo scopo di far perdere la tracciabilità dei rifiuti – sono alla spasmodica ricerca di capannoni industriali in disuso, al cui interno stipare migliaia di tonnellate di materiali di cui disfarsi ad ogni costo. Siti che diventano così delle vere e proprie bombe ecologiche, i cui futuri costi di smaltimento ricadono interamente sulla collettività. A questo proposito, la pressione investigativa – scaturita dal monitoraggio eseguito sul fenomeno degli incendi – esercitata nel settore da parte dei NOE del Comando Carabinieri per la Tutela Ambientale è stata davvero incessante, con esecuzione di un gran numero di ordinanze di custodia cautelare e sequestri di beni in tutta Italia, a carico di soggetti responsabili di “attività organizzata per il traffico illecito di rifiuti”, nell’ambito di manovre investigative coordinate dalle DDA territorialmente competenti.

Qual è lo stato dell’arte in Italia su questi temi dal punto di vista della cultura, dei cittadini e delle imprese? C’è ancora strada da fare, e su quali aspetti in particolare?

L’esperienza maturata nel settore delle investigazioni in materia di criminalità ambientale ha consentito di effettuare un innovativo risk assesment del settore e di acquisire una approfondita visione delle dinamiche di mercato che ne regolano il funzionamento. E l’utilizzo del termine “mercato” va opportunamente sottolineato. La visione del reato ambientale come “reato mezzo”, utilizzato per il raggiungimento di un “fine” essenzialmente economico comporta di fatto un approccio alla materia che si focalizzi non tanto su aspetti di natura meramente ed esclusivamente ambientalista bensì su dinamiche di natura – appunto – economica, giacché le forme di inquinamento che derivano dalle attività illecite degli eco-criminali rappresentano sovente degli effetti indiretti, si potrebbe dire collaterali, di condotte mirate a tutt’altro. In senso metaforico, sono manifestazioni sintomatiche di una patologia, rappresentata dalla criminalità ambientale, al punto che la definizione inglese di Pollution Crime appare riduttiva e non adeguatamente significativa rispetto alla più consona ed esaustiva Environmental Crime.

Anche la – ormai annosa – questione della equiparazione tra la c.d. “ecomafia” e la criminalità organizzata di stampo mafioso nostrana, in tutte le sue varie sfaccettature geografiche, va chiarita; sostenere che l’ecomafia è una forma di criminalità imprenditoriale ancor più e ancor prima che mafiosa, non significa sminuirne la portata. Una simile affermazione, che deriva da decenni di investigazioni mirate nel mondo ecocriminale, semmai amplifica la portata del fenomeno, accende un ulteriore riflettore sulla sua pervicacia e pericolosità, poiché significa affermare che la controparte non ha una fisionomia ben definita (come è appunto quella di stampo mafioso, per quanto poi ben integrata nel tessuto sociale) ma appare quanto mai sfuggevole. Ciò che la Camorra forse per prima scoprì, ossia le potenzialità economiche del mondo dei rifiuti ben definite dalla sintomatica affermazione di Gaetano Vassallo, “Ministro dei Rifiuti” dei Casalesi e braccio destro del boss Bidognetti, secondo la quale “i rifiuti meno li tocchi e più valgono”, è ormai patrimonio comune anche di una miriade di pseudo-imprenditori del settore, che avvelenano i tessuti economici tanto quanto i territori nei quali imperversano. E siccome spesso la criminalità economica è ben più pericolosa di quella di stampo mafioso (ovviamente quando non sono la stessa cosa) si comprende facilmente come in realtà, non limitandosi a parlare solo di “mafia” in senso stretto, si stia cercando di non ridurre ad una semplicistica equiparazione una fenomenologia ben più caleidoscopica, e dunque pericolosa. Anzi, talvolta tanto più pericolosa quanto più elegante è l’abito indossato da chi si macchia di certi crimini.

Ciò detto, non si vuole né si deve in alcun modo colpevolizzare l’intera classe imprenditoriale: si vuole semmai, enfatizzando la portata e la natura economica di tali reati, sottolineare le difficoltà di chi opera nel settore in maniera assolutamente lecita, trovandosi a dover fronteggiare la concorrenza spietata di chi agisce sul medesimo mercato a prezzi palesemente irragionevoli. E proprio i prezzi rappresentano un indicatore fondamentale nella valutazione del settore ambientale, che non a caso è stato definito più volte con il termine “mercato”. Molto spesso, infatti, ci si limita a valutare al massimo le dinamiche dei prezzi che regolano la tariffazione sui rifiuti – la nota TARI – tralasciando quasi completamente l’aspetto fondamentale in ogni settore economico: la profittabilità.

Comportamenti scorretti oltre che danneggiare l’ambiente possono anche danneggiare la reputazione delle imprese: le aziende, dal suo punto di vista, hanno questa sensibilità?

In un momento storico nel quale parole come circular economy, sostenibilità, green new deal sono di moda – e talvolta ahimè rappresentano esclusivamente un vezzo per aumentare la c.d. brand reputation in assenza di provvedimenti ed iniziative concrete ed effettive – è necessario affrontare il tema in maniera concreta, giacché – piaccia o meno – trattandosi di un mercato, non si può realisticamente credere che gli imprenditori della galassia ambiente e rifiuti possano rinunciare al profitto. Infatti dietro una miriade di annunci sulla sostenibilità e sulle scelte “green” c’è il concreto rischio che si celino in realtà attività meramente propagandistiche volte ad attirare investimenti e risorse attraverso una visibilità derivante da forme di pubblicità e di utilità sociale ingannevoli, e questa sarà una delle nostre prossime frontiere operative a tutela delle aziende sane.

A titolo esemplificativo, uno studio effettuato attraverso uno screening del web e pubblicato il 28 gennaio 2021 dall’UE ha acceso un importante riflettore sul tema del c.d. greenwashing arrivando a dimostrare come circa il 42% degli spot in materia di sostenibilità siano esagerati, falsi o ingannevoli. Le aziende al giorno d’oggi non possono più permettersi di nascondersi dietro al falso mito della scarsa conoscenza, in quanto la matrice ambientale è divenuta ormai un tema – fortunatamente – imprescindibile in primis in un’ottica di sostenibilità economica. Sono quanto mai centrati i criteri utilizzati dalla Suprema Corte nel declinare la c.d. “epistemologia dell’incertezza” in contesti di rischio incerto (es. utilizzo di sostanze chimiche “emergenti” come i PFAS o PFOA, oggi tristemente agli onori delle cronache per le attività investigative svolte dai NOE Carabinieri di Treviso ed Alessandria) secondo le seguenti tre categorie: orbita della prevedibilità; la figura dell’imprenditore-modello; l’evitabilità dell’evento. Inoltre, il “dovere di sapere” e quindi di acquisire informazione sui rischi è di pertinenza delle imprese ed è un dovere che va costantemente implementato nel contesto del più generale dovere degli Enti di auto-organizzarsi efficacemente sul terreno della prevenzione del rischio-reato. La diligenza esigibile dipende inevitabilmente dalla conoscenza del rischio, secondo il modello normativo consolidatosi nella materia della sicurezza sul lavoro. Si rende quindi necessaria – in fase di risk assessment – una “analisi endoscopica” della realtà e del contesto d’impresa, considerando in via prioritaria che il principio dell’azione ambientale, costituendo un obbligo gravante sulle organizzazioni complesse, impone la più ampia tutela ambientale, degli ecosistemi e del patrimonio culturale, secondo i principi “chi inquina paga”, di precauzione, di azione preventiva e di correzione prioritaria alla fonte dei danni ambientali.

Siete impegnati anche nella formazione delle nuove generazioni su temi ambientali?

L’Arma dei Carabinieri è da sempre particolarmente attenta al tema del contatto con le nuove generazioni, basti pensare alle iniziative che annualmente si tengono presso gli Istituti scolastici di ogni livello in materia di cultura della legalità e che vedono coinvolte tutte le componenti dell’Istituzione, a iniziare dalla fondamentale figura dei Comandanti di Stazione. In tale ottica, i temi ambientali stanno assumendo sempre maggiore rilievo e il confronto con le nuove generazioni, particolarmente attente all’argomento, rappresenta spesso anche un momento di arricchimento per chi opera in questo settore e lo vive in veste investigativa. Da diversi anni ormai prendiamo quindi parte a numerosi eventi anche al di fuori degli ambiti scolastici e accademici, per condividere il nostro patrimonio conoscitivo con i nostri stakeholders e allo stesso tempo per ascoltare le esigenze dei cittadini, verso i quali sentiamo la forte responsabilità di dover fornire le migliori risposte possibili in materia di tutela dell’ambiente e quindi della salute.

Analogamente, da tempo, il Comando Carabinieri per la Tutela Ambientale è impegnato ad esercitare la propria leadership in numerosi consessi internazionali e progetti multilaterali (INTERPOL, EUROPOL, ENVICRIMENET, EMPACT, OPFA Waste), anche allo scopo di condividere su larga scala la propria expertise e consentire di fronteggiare adeguatamente la minaccia della criminalità ambientale oltre frontiera, sia direttamente che attraverso collaborazioni e progetti operativi con gli Stati aderenti. Sono sfide ambiziose, ma siamo fortemente ingaggiati in questi scenari, e ottimisti sui risultati, sia per quanto fin qui ottenuto, che per quello che riusciremo a fare in futuro, anche grazie alla dedizione ed alla straordinaria professionalità delle donne e degli uomini in divisa quotidianamente impegnati nella lotta contro le varie forme di criminalità.


Intervista a cura di Luca Poma, Professore in Reputation Management all’Università LUMSA di Roma, per il Blog www.creatoridifuturo.it




Post-Pandemic Leadership: come cambia la gestione d’impresa al tempo del Covid-19?

La maggior parte delle aziende tradizionali sono overmanaged e underled. Questa tesi parte dal presupposto che il management abbia a che fare con “la riduzione del rischio e della complessità”, contrastabili con il rigore nella gestione operativa e con la definizione di processi. I quali processi per loro stessa natura tendono a ridurre il margine di arbitrarietà e a generare economie di scala, di scopo e di apprendimento. Seguendo questa posizione, la leadership avrebbe invece a che fare con il cambiamento, con la trasformazione, e sarebbe cruciale nelle fasi in cui le evoluzioni dello scenario di riferimento rendono necessario esprimere una nuova visione. 

Negli ultimi anni abbiamo vissuto un importante cambio di paradigma, spesso definito semplicemente “trasformazione digitale”, che ha indotto tutte le aziende nate in epoca industriale a un darwiniano processo di adattamento. Il che non è stato affatto indolore. È chiaro che al crescere delle cosiddette legacy – quel groviglio di risorse tangibili e intangibili, processi, valori, consuetudini, tipico delle aziende consolidate – cresce la difficoltà di effettuare una virata quando si scorge una tempesta all’orizzonte.  

Ebbene, nonostante il mare fosse già molto mosso e il vento piuttosto teso per effetto della summenzionata trasformazione digitale, è arrivata una tempesta di ancora maggiore intensità: la tempesta perfetta, come molti non hanno esitato a definirla. Negli scorsi decenni avevamo già vissuto delicati periodi di recessione dovuti a crisi della domanda (ad esempio la contrazione dei consumi che si è verificata post 11 settembre), crisi dell’offerta (si pensi alle fasi in cui il prezzo dei servizi schizza periodicamente alle stelle per via di un balzo nel costo del petrolio) o a crisi finanziarie (ad esempio la crisi scaturita nel 2008 dal default di Lehman Brothers). Ciò che però nessuno di noi aveva mai vissuto è uno shock simultaneo di tutti e tre questi ambiti, per di più sommato a tutte quelle criticità operative che moltissime aziende stavano affrontando per adeguarsi al nuovo paradigma digitale. La tempesta perfetta appunto.

La sensazione è che l’entità dell’evento che abbiamo vissuto negli ultimi 5 mesi sia stata tale da aver causato un cambiamento climatico permanente; perlomeno in alcuni ambiti. Abbiamo dunque voluto approfondire il tema con coloro che per ruolo e responsabilità sono stati chiamati a governare le rispettive navi in questa delicata transizione. Dagli interessantissimi confronti con gli oltre 50 top manager con cui abbiamo avuto il privilegio di discutere questo tema, emerge con una certa chiarezza che il periodo richieda una fortissima dose di “leadership” piuttosto che di “management”. Ovvero che questo sia il tempo in cui far emergere la capacità di esprimere una visione nuova del proprio business e del proprio modello operativo, per almeno alcuni versi diversa dalla precedente, che consenta alle aziende di tornare a mettere radici nel cosiddetto new normal, qualunque esso sia. 

Nello specifico sono emersi almeno 5 temi ricorrenti, che abbiamo voluto sintetizzare in altrettanti princìpi. Ve li proponiamo in un’accezione che vuole essere al contempo un auspicio, un’esortazione e un’indicazione della rotta da seguire. Vogliate dunque leggere i nostri BE come l’equivalente italiano di “siate”. 

BE PHYGITAL

In Italia, in tempi “normali”, acquistano on line per la prima volta tra le 800 e le 900 mila persone all’anno. Nei 100 giorni del lockdown oltre 2,1 milioni di persone hanno optato per soluzioni di commercio digitale. Questo significa aver superato una serie di barriere psicologiche che inevitabilmente genereranno cambiamenti in altri settori. Questi novelli consumatori phygital, che hanno sperimentato per la prima volta la convenienza (nell’accezione più ampia del termine) delle soluzioni offerte dal digitale, impareranno rapidamente a utilizzare la funzione di digital wallet nativa del proprio smartphone e a scannerizzare codici per pagamenti smart, opteranno con maggiore regolarità per le casse automatiche laddove disponibili, apprezzeranno opzioni on-demand nei diversi servizi di cui fruiscono, etc.

Già da tempo, per descrivere l’ibridazione tra digitale e fisico, molti studiosi e analisti hanno fatto ricorso alla metafora della mangrovia, capace di prosperare nelle acque salmastre, al crocevia di mari e fiumi. Ebbene, la sensazione è che questo processo di contaminazione e ibridazione abbia vissuto una piena tale da aver cancellato del tutto, per molti di noi, la percezione dicotomica dell’acqua dolce e dell’acqua salata. Un gran numero di immigranti dell’era digitale, facendo di necessità virtù, ha imparato a mettere radici nelle acque salmastre. E questo è un processo irreversibile, come ha sostenuto con forza l’amministratore delegato di uno dei principali attori della GDO nazionale.

BE AGILE

Lo smart working è possibile e ha indubbi benefici, ma bisogna costruire “use case” che bilancino la presenza in ufficio e il lavoro da remoto, in modo da mitigare gli inevitabili effetti collaterali connessi con l’impossibilità di confrontarsi di persona con i colleghi. La maggior parte dei top manager ha sottolineato come l’assenza di un manuale delle istruzioni e l’impossibilità di replicare soluzioni altrui o schemi pregressi, debba indurre i leader d’azienda ad abbracciare una pianificazione agile e flessibile. L’approccio, ci ha detto l’amministratore delegato di una multinazionale nell’ambito dei servizi, deve essere quello tipico delle startup che, con umiltà, determinazione e perseveranza perseguono il giusto modello organizzativo e scolpiscono la propria value proposition giorno dopo giorno, mettendola costantemente in discussione. Chiaramente la criticità principale è rappresentata dal dover incedere tenendo conto delle radici che hanno consentito all’azienda una crescita rigogliosa nel precedente contesto. Il direttore generale di una multinazionale del Food&Beverage ha sottolineato come i processi di apprendimento delle mansioni, le dinamiche relazionali e i rapporti gerarchici cui siamo abituati sul posto di lavoro dovranno essere ripensati.

BE ANTIFRAGILE

Coerentemente con quanto sostenuto da Nassim Nicholas Taleb, ci sono congiunture in cui la resilienza (capacità di mantenere l’operatività del sistema a fronte di uno shock) non è sufficiente, occorre puntare all’antifragilità (la capacità di prosperare nel caos, arrivando a creare un vantaggio competitivo). Caos, ricordiamolo, è una parola greca che esprime la risultante di velocità e incertezza. Il CEO di una multinazionale del largo consumo, il Presidente di un colosso dell’automotive e il CEO di una utility company ci hanno raccontato di aver costituito, nel pieno della crisi legata al Covid-19, task force dedicate alla definizione di diversi scenari per il post lock-down. L’ambizione di queste aziende è stata appunto di ricercare una sorta di inerzia dinamica, in grado di accelerare la ripartenza non appena le condizioni lo avessero consentito.

BE EXPONENTIAL

La velocità del cambiamento, reso vorticoso da questa ennesima accelerazione, è tale che le aziende non possono contare solo sulle proprie forze per innovare. L’amministratore delegato di un’azienda di servizi alla mobilità ci ha ricordato quanto sia cruciale in questa fase costruire eco-sistemi, rifuggendo la tentazione tipicamente italiana di ridurli a ego-sistemi. Dobbiamo collaborare con terze parti – siano esse università, centri di ricerca, Startup, altre aziende – alla costruzione di sistemi in cui le singole parti si consorziano più o meno stabilmente per erogare servizi ad alto valore aggiunto per il cliente finale. Due leader del segmento automotive ci hanno ricordato che in alcuni casi questo può voler dire ricorrere alla cosiddetta co-optation ovvero alla cooperazione temporanea con uno o più concorrenti, unendo le forze per il bene comune. Crediamo che questo debba essere un momento di costruzione e solo in parte di ricostruzione. Un momento in cui c’è poco spazio e poco apprezzamento per l’individualismo. Le aziende e le istituzioni devono concepirsi come piattaforme fluide, in grado di esprimere una value proposition esponenzialmente più grande di quella che potremmo proporre singolarmente. 

BE CURIOUS

Secondo la totalità dei professionisti intervistati, la capacità di abbracciare il cambiamento, l’attitudine a vivere l’incertezza in modo costruttivo anziché ansioso e la passione per il proprio lavoro sono elementi chiave, in questo frangente più che mai. In particolare, due amministratori delegati del mondo FMCG hanno sottolineato come anche in questo caso l’ibridazione sarà cruciale. Una miscela di soft e hard skills. La fusione di intuito, passione, imprenditorialità, creatività, dati e tecnologia. Una parola su tutte è emersa con straordinaria costanza in tutti i confronti: curiosità. 

Questi cambiamenti epocali ci spingono a riscrivere completamente la grammatica dei modelli di leadership. I nuovi leader dovranno agire perseguendo un modello che definiremo 5C: CARE (attenzione alle persone); CAUSE (un purpose che vada al di là dei risultati finanziari di breve periodo); COLLABORATION (all’interno e all’esterno dell’azienda, includendo le parti sociali, le Istituzioni, i concorrenti); CREATIVITÀ (il periodo richiede una certa dose di ‘improvvisazione’, l’applicazione della creatività nell’accezione più ampia possibile); CORAGGIO (agire, mettendo in discussione le proprie certezze, anche senza avere la possibilità di calcolare tutti i rischi e senza poter disporre di tutte le variabili).

Il grand reset, la grande ripartenza, sarà possibile solo se affronteremo la sfida che ci troviamo di fronte pensando a un futuro in cui le aziende e le istituzioni coniugheranno il perseguimento dei propri fini con la generazione di valore condiviso. I leader di oggi devono agire con l’ambizione di offrire a chi verrà dopo di noi una prospettiva di prosperità che al momento è purtroppo un privilegio per pochi. Abbiamo vissuto per oltre cento giorni un presente sospeso, in cui il nostro pianeta di ha ricordato quanto la globalizzazione debba essere vissuta in modo olistico, esaltandone i benefici ma senza dimenticarsi delle responsabilità che siamo chiamati ad assumerci. Pablo Neruda ha scritto: “Nascere non basta. È per rinascere che siamo nati”. Ora tocca a noi. Non abbiamo scuse.

NB
Le riflessioni contenute in questo articolo sono il frutto di una serie di conversazioni con oltre 50 amministratori delegati e direttori generali internazionali che operano in diversi settori. 

Paolo Gallo è autore, Executive Coach & Keynote Speaker.
Giuseppe Stigliano è CEO di Wunderman Thompson Italy (WPP Group).




L’ex-silenzio di Mario Draghi

Non mi è passata nemmeno per l’anticamera del cervello l’idea di influenzare con un articoletto il presidente del Consiglio dei Ministri (che non mi è venuta nemmeno ai tempi in cui prendevo uno stipendio dallo Stato per farlo).

Mi riferisco all’1 marzo con un titolo su queste colonne (Comunicazione istituzionale. Il presidente Draghi non ha più parlato agli italiani dal 17 febbraio. Sia permesso un colpo di tosse) che, pur se per primo, si incrociava con un pensiero altrettanto prudente di altri e, nel mio caso, con la riflessione che la “domanda di istituzione e di spiegazione” che il Paese esprime dall’inizio della pandemia non poteva attendere il “fare tutte le cose” attorno a cui il premier aveva dichiarato di considerare legittima la comunicazione.

Evidentemente il premier aveva valutato che una certa discontinuità era necessaria per inquadrare anche il “relazionale pubblico” con le varianti imposte dalla crisi di governo. Due varianti mi sembrano ora ancora più chiare. Una: non contro la politica, ma senza i riti dell’annuncismo e della rissosità. Due: non per eterne rassicurazioni, ma anche per responsabilizzare nei rischi collettivi.

E così il 18 e il 19 marzo un “uno-due” in grande stile.

A Bergamo il 18 marzo in quelle difficilissime circostanze che sono le liturgie civili.

A Roma il 19 marzo per rompere il ghiaccio con chi avanzava il sospetto del suo sfuggire alle domande dei giornalisti.

Passando in rassegna le opinioni anche di chi non si è limitato al nostro cauto “colpo di tosse”, politici, giornalisti, operatori socio-sanitari hanno in larghissima maggioranza derubricato l’idea che Draghi non voglia o non sappia parlare.

Persino Marco Travaglio che mantiene il suo posizionamento di vedova insofferente (del governo Conte), fino a sostenere che Conte e Draghi dicono le stesse cose e fanno le stesse cose (mah…), almeno sulla capacità retorica non mantiene ombre. “L’ho sempre detto che Draghi parla e parla anche molto bene”.

La leader dell’unica opposizione, Giorgia Meloni, ha l’intelligenza di togliere l’argomento dalla lista dei dissensi, per avere mano libera su ciò che realmente costituisce dissenso.

Insomma, incassiamo una soddisfazione morale ma solo per lo scopo di poter riprendere l’argomento generale della linea sostanziale della comunicazione istituzionale del governo Draghi in rapporto ai predecessori.

A Bergamo Draghi ha fatto qualcosa in più che segnalare una discontinuità formale. Ha detto: “Siamo qui per promettere ai nostri anziani che non accadrà più che le persone fragili non vengano adeguatamente assistite e protette. Solo così rispetteremo la dignità di coloro che ci hanno lasciato”.

In conferenza stampa a Roma – chiamando con il suo nome il “condono” ma contenendolo all’interno di un basso tetto di reddito – ha aperto un fronte di discontinuità anche nei confronti di componenti non efficaci della amministrazione: “Questo azzeramento delle cartelle da un lato permette di perseguire la lotta all’evasione con più efficienza. Ma è ovvio che in questo caso lo stato non ha funzionato, accumulando milioni e milioni di cartelle. Per questo ci vuole una riforma delle modalità di riscossione delle cartelle. Il vero sollievo è una riforma del meccanismo”.

Ancora due annotazioni.

Pochissime parole per togliere la questione del Mes da un dibattito formale di schieramenti: “Con gli attuali tassi di interesse non è una priorità“.

Altrettanto chiara e secca la rivendicazione di autonomia pur correlata al suo noto europeismo: “Siamo un paese fondato su europeismo e atlantismo, i nostri rapporti internazionali non sono in discussione. Se ordineremo vaccini per conto proprio? Vediamo. Se il coordinamento europeo non funziona dobbiamo essere pronti. È quello che ha detto la Merkel ed è quello che dico anch’io“.

Poi ci sono le annotazioni di stile, l’impeccabile assenza di accenti, la misura dell’andare a braccio ma su piste meditate, la leggera ironia, le piccole sdrammatizzazioni che risvegliano (questioni generazionali) i tocchi di classe dell’Avvocato. Ma questa è un’altra storia.

Per la sostanza politica del difficile momento che attraversiamo siamo lieti del titolo di oggi: l’ex-silenzio di Mario Draghi. Non ci frena il meraviglioso articolo di Giuliano Ferrara Il silenzio di Draghi inizia ora (Il Foglio 20-21 marzo) che ragiona di filosofia dell’agire e quindi di filosofia del potere sulla trama del “dire e non dire” in cui ipotizza il futuro comunicativo prossimo del premier da intendersi come una “dissimulazione onesta”.

E’ un bel terreno, quello dell’editoriale di Ferrara. Ma è anche un’altra partita. Ora il tratto pericolosamente elitario, rispetto a un quadro di solitudini che la non rammendata politica italiana non riesce nemmeno a intercettare, il punto di “accompagnamento” è un punto fermo. Sul sottile terreno di analisi a cui Ferrara invita, ci sta Draghi come qualunque leader contemporaneo di livello. Figuriamoci un banchiere formato dai gesuiti.