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Fuga dagli ESG o fine dell’ideologia? Come cambia la sostenibilità delle aziende

Fuga dagli ESG o fine dell’ideologia? Come cambia la sostenibilità delle aziende

Negli ultimi anni, i criteri ESG (Environmental, Social, Governance) hanno acquisito un ruolo sempre più centrale nel panorama economico globale. Tuttavia, le recenti iniziative “controcorrente” di importanti società e istituzioni finanziarie stanno sollevando interrogativi sulla reale profondità con cui questi principi sono stati finora integrati nelle strategie aziendali.

È necessario fare ordine e, per comprendere meglio le dinamiche in atto e le possibili evoluzioni, diviene fondamentale analizzare il contesto con uno sguardo critico, lungimirante e al tempo stesso propositivo.

 Le aziende “in fuga”

Come sappiamo, negli ultimi mesi alcune grandi aziende hanno preso decisioni che sembrano segnare un ridimensionamento dei loro impegni in ambito ESG.

Un caso emblematico è quello di Meta, che ha sospeso le proprie politiche di Diversity & Inclusion seguendo l’esempio di altre imprese come Harley Davidson, McDonald’s, Walmart, Boeing, Ford e Jack Daniels: un fenomeno che si inserisce in un contesto più ampio di controversie legali, dove le politiche di inclusione sono state talvolta accusate di generare discriminazioni inverse (si veda la sentenza della Corte Suprema degli Stati Uniti, Students for Fair Admissions v. Harvard), inducendo differenti realtà aziendali a rivedere i propri approcci sul tema.

Un altro caso significativo è rappresentato da BlackRock, il maggiore gestore di patrimoni finanziari al mondo che nelle scorse settimane ha scelto di uscire dalla Net Zero Asset Managers Initiative, l’alleanza che riunisce oltre 325 gestori di fondi impegnati a ridurre le emissioni di gas serra entro il 2050. Anche Unilever ha riconsiderato il proprio modello di sostenibilità: con l’arrivo del nuovo CEO Hein Schumacher, il Sustainable Living Plan è stato sostituito dal Growth Action Plan, che – come suggerisce il nome – pone maggiore enfasi sulla crescita e meno sugli obiettivi ESG.

Una fase di assestamento

Seppur a un primo sguardo queste iniziative possano essere lette come un allontanamento delle realtà coinvolte dai concetti di sostenibilità e responsabilità sociale d’impresa, una lettura più approfondita fa in realtà emergere uno scenario di “assestamento” del mondo imprenditoriale nei confronti di queste tematiche e l’inizio di una nuova fase.

Negli anni, infatti, molte società hanno adottato i criteri ESG più per conformarsi a pressioni normative e di mercato che per una reale convinzione interna: un atteggiamento che ha generato un divario tra dichiarazioni e azioni concrete, portando a una “selezione naturale” tra chi ha realmente integrato gli ESG nel proprio modello di business e chi, invece, li ha considerati solo come un obbligo formale.

L’attuale contesto politico influisce significativamente su queste dinamiche. L’elezione di Trump e l’ascesa di governi più conservatori hanno portato, in molti casi, a una revisione delle politiche di incentivazione degli investimenti sostenibili, spingendo alcune aziende a riconsiderare la rilevanza strategica degli ESG. Tuttavia, questa evoluzione non implica necessariamente una perdita di valore di queste tematiche, ma piuttosto una sua trasformazione verso un’integrazione più concreta e meno ideologica all’interno delle strategie aziendali.

Il ruolo del Purpose

In questo scenario, i criteri ESG non possono più essere percepiti come un elemento accessorio, ma devono diventare un motore di innovazione capace di produrre esternalità positive e benefici concreti nella e per la società nel suo insieme.

Le imprese che interpretano il loro Purpose in modo autentico e trasparente non si limitano ad adottare le politiche ESG per ottenere certificazioni o consensi, ma integrano realmente questi principi nella propria missione, facendoli diventare i pilastri dei processi decisionali, e valorizzandoli al meglio.

Un esempio significativo di questa visione è ben rappresentato dalla decisione di Stewart Investors di rimuovere il termine “sostenibilità” dai propri fondi. Questa scelta, come ha evidenziato giustamente anche il Professor Alex Edmans della London Business School, non deve essere letta come un disimpegno, bensì come un tentativo di rafforzare l’idea che la sostenibilità debba essere parte integrante del processo di investimento e non una semplice etichetta di marketing. Un approccio autentico alla sostenibilità, infatti, non dovrebbe dipendere da definizioni imposte, ma piuttosto dalla capacità di integrare i principi ESG in una logica di creazione di valore a lungo termine. Analogamente, BlackRock non ha abbandonato i propri investimenti sostenibili, ma ha scelto di proseguire con un profilo più discreto ma concreto, evitando di legarsi a iniziative collettive che potrebbero essere percepite come operazioni di immagine.

Le opportunità per il futuro

Ci troviamo di fronte a nuova fase che pone sfide significative per le aziende che intendono mantenere un impegno reale sui temi ESG, evitando il rischio del “washing” e assicurandosi che questi criteri siano parte integrante delle loro strategie aziendali e non un semplice strumento di comunicazione.

Queste aziende saranno chiamate ad adattarsi a un quadro normativo in evoluzione e a dimostrare concretamente l’efficacia delle proprie iniziative, indipendentemente dal dibattito politico e senza basarsi esclusivamente su certificazioni e riconoscimenti formali.

La sostenibilità e la responsabilità sociale d’impresa, oggi più che mai, devono essere viste non come un vincolo, ma come un’opportunità per rafforzare la competitività aziendale e costruire un modello di crescita più resiliente e responsabile.

La recente ridefinizione delle strategie ESG di importanti società a livello globale può rappresentare un momento di chiarimento e di distinzione tra le aziende che credono realmente in questi principi, da un lato, da quelle che li hanno adottati per convenienza, dall’altro.

Coloro che sapranno cogliere questa occasione per integrare in modo autentico la sostenibilità nei loro processi avranno l’opportunità di costruire un vantaggio competitivo solido e duraturo, guadagnando la fiducia degli stakeholder e consolidando la propria posizione in un mercato sempre più orientato verso la creazione di valore sostenibile, per tutti e per tutte.

*Federico Frattini è Dean di POLIMI Graduate School of Management




Le attivazioni artistiche e altre strategie attuate dai brand di moda nel 2024 

Le attivazioni artistiche e altre strategie attuate dai brand di moda nel 2024

Le attivazioni artistiche sono tra le strade che i brand moda hanno perseguito con maggiore intensità nel 2024. Qualche dubbio sul possibile scollamento tra il volo alto di molte di queste e la realtà commerciale con cui inevitabilmente i brand devono fare i conti è lecito. Resta tuttavia positiva l’osservazione delle scelte effettuate. La dinamica poi appare evidente: se la “moda” rincorre l’”arte” di certo questa fa di tutto per (non) sfuggirgli. Arti figurative, cinema persino letteratura: nessuno di questi settori è rimasto immune dal corteggiamento prima poi da fidanzamenti di breve, media e ora anche lunga durata. 

Locandina di Parthenope di Paolo Sorrentino
Locandina di Parthenope di Paolo Sorrentino

La moda e il cinema 

I costumi di Queer, l’ultimo film di Luca Guadagnino, li ha disegnati uno tra i più talentuosi fashion designer del momento, lo stesso J.W Anderson che lo aveva già fatto per Challengers. Anderson è dal 2013 il direttore creativo di Loewe (gruppo LMH) lo stesso che lo scorso febbraio annunciava la nascita di 22 Montaigne Entertainiment, casa di produzione cinematografica i cui programmi restano per il momento misteriosi. Solo nel secondo semestre del 2024 sono poi arrivate tre produzioni firmate Saint Laurent Production: Parthenope di Paolo SorrentinoThe shrouds di David Cronenberg ed Emilia Pèrez di Jacques Audiard, presentate all’unisono allo scorso Festival di Cannes. Del 2024 è pure, meno nota ma non per questo meno valida, La passion selon Beatrice di Fabrice Du Welzpellicola in bianco e nero dedicata alla figura di Pier Paolo Pasolini. Il direttore creativo del brand St Laurent dal 2015 è Anthony Vaccarello: nei titoli di coda di ognuno di questi film compare come direttamente implicato nella creazione dei costumi di scena. Il grande couturier da cui il brand deriva il nome a suo tempo aveva disegnato per Belle de Jour e La Chamade intrepretati da Catherine Deneuve e non si era fatto mancare il teatro. Ma sarebbe stato inconcepibile allora produrre direttamente un film. La Saint Laurent Production proprietà Kering (il secondo gruppo del lusso al mondo) ha difatti iniziato la sua attività nell’aprile del 2023 con pellicole dirette da Pedro Almodovar e Jean-Luc Godard. Vaccarello aveva già ha stretto una forte liason con il cinema attraverso il progetto Self , lavorando fianco a fianco di Abel Ferrara nel 2020, Wong Kar-wai e Gaspar Noè nel 2018. O con lo scrittore/sceneggiatore americano Bret Easton Ellis con cui ha realizzato The Arrangement, presentato al Tribeca Film Festival nel 2019. Tutti cortometraggi in cui è stato chiesto ai realizzatori di interpretare lo spirito della maison. Nel 2024 il salto di qualità è stato definitivo: quanto presentato a Cannes è cinema di qualità, ma destinato alla grande distribuzione.




GF, Shaila Gatta al vetriolo contro Esselunga. Ecco la geniale risposta dell’azienda

GF, Shaila Gatta al vetriolo contro Esselunga. Ecco la geniale risposta dell'azienda

Un momento di televisione apparentemente innocuo si è trasformato in un caso mediatico quando, durante una conversazione al Grande Fratello, Maxime Mbanda ha posto a Shaila Gatta una domanda sui suoi luoghi preferiti per fare la spesa. La risposta della Gatta, parzialmente censurata dalla regia ma chiaramente critica verso Esselunga, ha immediatamente scatenato un’ondata di reazioni sui social media. La clip, diventata virale in poche ore, ha mostrato la ex velina di Striscia la Notizia esprimere un giudizio poco lusinghiero sui clienti della nota catena di supermercati.

L’escalation sui social media

La controversia ha rapidamente guadagnato terreno su diverse piattaforme social, con Twitter in particolare che ha visto Esselunga scalare le tendenze nazionali. Mentre i sostenitori della Gatta tentavano di minimizzare l’accaduto, i critici hanno amplificato la polemica, trasformando un commento improvvido in un vero e proprio caso mediatico. Le speculazioni si sono moltiplicate, con alcuni che ipotizzavano possibili azioni legali da parte della catena di supermercati.

La magistrale risposta di Esselunga

esselunga

In risposta alla situazione creatasi al GFEsselunga ha dimostrato una notevole abilità nella gestione della comunicazione di crisi. Anziché alimentare la polemica, l’azienda ha scelto la via dell’ironia intelligente, pubblicando sul proprio profilo Instagram l’immagine di un gatto dal’espressione sorpresa, accompagnata dalla caption “Quando scopri di essere in trend… ‘Qui gatta ci cova’”. Questa risposta arguta ha conquistato il pubblico, trasformando una potenziale crisi d’immagine in un’opportunità di engagement positivo.

La reazione del pubblico

La strategia comunicativa di Esselunga ha riscosso un immediato successo, con numerosi utenti che hanno apprezzato l’approccio spiritoso e professionale dell’azienda. La community online ha risposto con entusiasmo, elogiando la creatività del social media team e la capacità di gestire la situazione con eleganza e humor.




Le cause legali tra Blake Lively e Justin Baldoni, spiegate

Le cause legali tra Blake Lively e Justin Baldoni, spiegate

Martedì Justin Baldoni, regista, produttore e protagonista maschile del film It Ends With Us, ha fatto causa al New York Times per un’inchiesta su una presunta campagna di diffamazione che avrebbe messo in atto contro l’attrice Blake Lively, a sua volta produttrice e protagonista del film. Delle controversie tra i due attori si era cominciato a parlare ad agosto, durante la promozione del film negli Stati Uniti, perché i due non erano mai comparsi insieme. Sui giornali di gossip erano circolate voci sul fatto che Baldoni avesse avuto comportamenti poco appropriati sul set e poco dopo l’attore aveva assunto Melissa Nathan, nota esperta nella gestione di crisi reputazionali e pubbliche relazioni.

Dopo mesi di silenzio sulla questione da entrambe le parti, il 21 dicembre Lively ha presentato un reclamo formale – che da martedì è diventata una causa legale – contro Baldoni, in cui lo accusa di molestie sessuali e di aver organizzato una campagna con altre persone per rovinare la sua reputazione. L’articolo del New York Times è uscito lo stesso giorno, perché tre giornalisti hanno avuto accesso alle migliaia di messaggi e mail raccolte da Lively che sosterrebbero la sua versione. La storia è stata molto ripresa in questi giorni sui media internazionali, oltre che per la fama dei suoi protagonisti anche perché racconta molto bene come possano essere usati i social network per manipolare l’attenzione dell’opinione pubblica.

It Ends With Us di Colleen Hoover è stato uno dei romanzi rosa di maggior successo degli ultimi anni, e da quando è uscito nel 2016 ha venduto milioni di copie in tutto il mondo. Racconta l’innamoramento tra Lily (Lively), una giovane fioraia, e Ryle (Baldoni), un uomo più grande con una brillante carriera, che prende una piega drammatica quando emerge il tema della violenza domestica. Baldoni aveva acquisito i diritti per fare il film nel 2019 – quindi prima dell’enorme successo del libro, iniziato nel 2020 – con la sua società di produzione Wayfarer Studios. Nel 2023 era stato annunciato che il film avrebbe avuto come attrice protagonista Blake Lively, famosa (molto più di lui) tra le altre cose per essere stata la protagonista della serie Gossip Girl. Anche il film come il libro è stato un grosso successo commerciale, con 350 milioni di dollari di incassi.

La denuncia di Lively coinvolge, oltre a Baldoni, anche la Wayfarer e il suo altro fondatore, il miliardario Steve Sarowitz, il coproduttore del film Jamey Heath, Melissa Nathan, e altri due esperti di pubbliche relazioni: Jed Wallace e Jennifer Abel.

Jamey Heath e Justin Baldoni nel 2021 (Arnold Turner/Getty Images for Wayfarer Studios)

Secondo la ricostruzione del New York Times Lively formalizzò per la prima volta le proprie lamentele – le stesse contenute nella sua causa legale – a Baldoni e Heath in una lettera a novembre del 2023, quando le riprese del film ricominciarono dopo una pausa dovuta agli scioperi di Hollywood, e poi in una riunione a gennaio. Tra le varie cose criticò il fatto che Baldoni l’avesse baciata in modo improvvisato durante le riprese, che le avesse parlato della propria vita sessuale, che Heath le avesse mostrato una foto della moglie nuda e che entrambi fossero entrati senza permesso nella roulotte dove si stava preparando mentre era svestita e mentre allattava. Dopo quella riunione le furono garantite maggiori tutele, e fu assunto un intimacy coordinator, ossia un professionista che dovrebbe garantire che gli attori siano a loro agio mentre girano scene di sesso. In primavera Lively aveva detto che i comportamenti di Baldoni e Heath erano migliorati.

@nytimes

As the movie “It Ends With Us” became a box office success, online criticism of Blake Lively skyrocketed. A New York Times review of private messages and documents shows what happened after she accused Justin Baldoni, her co-star and the director, and Jamey Heath, the lead producer, of misconduct on set. Megan Twohey, our investigative reporter, explains the inner workings of an alleged Hollywood smear campaign that followed. Read the full investigation at the link in our bio. Video by Megan Twohey, Gabriel Blanco, Laura Salaberry, Rebecca Suner and Claire Hogan / The New York Times #BlakeLively #JustinBaldoni #ItEndsWithUs #IEWU #ItEndsWithUsMovie #Hollywood

♬ original sound – The New York Times

Sempre secondo la ricostruzione del New York Times, a maggio Baldoni si accorse che Reynolds, il marito di Lively e attore famosissimo per il personaggio di Deadpool nei film della Marvel, aveva smesso di seguirlo su Instagram. Intanto Lively aveva chiesto alla Wayfarer e alla Sony, la società di distribuzione del film, di non comparire in nessuna occasione accanto a Baldoni, e lo stesso aveva fatto l’autrice dei libri, Coleen Hoover, i cui rapporti con lui e con Heath erano peggiorati quando era venuta a sapere delle lamentele di Lively.

Blake Lively e Ryan Reynolds alla presentazione del film a New York (Cindy Ord/Getty Images)

Temendo che tutte queste cose potessero diventare pubbliche, in agosto Baldoni aveva assunto Nathan, che aveva già assistito tra gli altri Johnny Depp durante il processo contro la ex moglie Amber Heard, la cui reputazione uscì fortemente compromessa. Tra i messaggi citati nella causa di Lively c’è uno scambio in cui un collaboratore di Baldoni parla di «seppellire» Lively (riferendosi alla sua reputazione) e Nathan gli risponde: «sai che possiamo seppellire chiunque». Baldoni, Abel e Nathan si scambiarono allora diversi messaggi in cui parlarono esplicitamente di mettere in atto il loro piano per creare un’immagine negativa di Lively. Fu assunto Jed Wallace, definito dal New York Times una figura «enigmatica» e proprietario di una società di pubbliche relazioni e «opachi servizi di crisis management», che si sarebbe occupato soprattutto dei social network.

Ad agosto in effetti il racconto mediatico delle controversie tra Lively e Baldoni si spostò molto in fretta dalle presunte molestie di lui (di cui aveva scritto Page Six citando fonti anonime ma che non furono molto riprese dai giornali) alle uscite inappropriate di lei. Fu per esempio molto criticata per il fatto di non essersi espressa sul tema della violenza domestica e per aver usato una propria linea di prodotti come sponsor del film, due cose che il New York Times dice erano state previste e concordate dalla società di distribuzione. Si parlò anche negativamente del fatto che Lively avesse detto di aver coinvolto il marito nella scrittura di alcune scene del film, aggirando di fatto lo sciopero degli sceneggiatori, e online cominciarono a girare spezzoni di sue interviste e dichiarazioni che la misero in cattiva luce.

Il New York Times ha scritto che «è impossibile sapere quanto di questa cattiva pubblicità fu seminato da Nathan, da Wallace e dai loro collaboratori e quanto sia solo stato intercettato e amplificato». Dai messaggi citati dal New York Times comunque loro se ne attribuiscono la responsabilità: in alcuni Baldoni appare più spudorato, in altri sembra farsi qualche scrupolo. Il 16 agosto il Daily Mail pubblicò un articolo intitolato “Blake Lively verrà cancellata?” e Nathan lo commentò così: «è questo il motivo per cui mi avete assunta no? Sono la migliore». Dopo l’uscita dell’articolo del New York Times Lively ha ricevuto dichiarazioni di sostegno e vicinanza da molte celebrità di Hollywood, tra cui Coleen Hoover e Amber Heard.

L’immagine di Baldoni è invece rimasta per mesi piuttosto immacolata, almeno fino alla pubblicazione dell’articolo del New York Times. Recentemente ha vinto un premio dedicato agli uomini che «sostengono le donne, combattono la violenza di genere e promuovono al parità di genere in tutto il mondo». Insieme a Heath, Baldoni ha da anni un podcast, Man Enough, in cui parla con vari ospiti dei danni della mascolinità tossica e della promozione di modelli maschili positivi, argomento su cui ha scritto libri e tenuto conferenze, e su cui ha insistito molto nella fase di promozione del film. Sia Baldoni che Heath, insieme a Sarowitz, sono di religione baha’i, che è nata in Iran nel diciannovesimo secolo e si basa tra le altre cose anche sulla parità di genere.

La casa di produzione Wayfarer ha detto al New York Times di non aver fatto «niente di proattivo o ritorsivo» contro Lively. La sua versione dei fatti è che l’attrice abbia inventato tutto per infamare Baldoni e Heath, e che è stato per questo che loro hanno deciso di assumere una professionista di pubbliche relazioni.




I rischi reputazionali della condivisione di fake news

I rischi reputazionali della condivisione di fake news

Tradotto da Creatoridifuturo.it dal’originale “The Reputation Risks of Sharing Fake News”

Mentre il vetriolo partigiano dilaga nell’ultimo mese prima delle elezioni presidenziali statunitensi, un nuovo studio offre spunti di riflessione sul perché le persone condividano disinformazione politica.

Anche quando un articolo di giornale lusingherebbe il proprio partito politico, le persone tendono ad aspettarsi che condividere informazioni vere sui social media giovi alla propria reputazione personale più della diffusione di articoli fuorvianti, come dimostra la ricerca. Inoltre, quando gli articoli politici vengono condivisi su Twitter (ora X), le informazioni accurate tendono a ottenere maggiore consenso, afferma Jillian J. Jordan, professoressa associata di economia aziendale presso la Harvard Business School.

Anche in questo contesto politicizzato e polarizzato in cui si trova il nostro Paese, le persone apprezzano l’accuratezza.

In definitiva, la ricerca di Jordan mette in dubbio l’idea che motivazioni reputazionali, e in particolare il desiderio di essere visti positivamente dai membri del nostro partito politico, spingano le persone a condividere online informazioni false piuttosto che vere.

“Anche in questo ambiente politicizzato e polarizzato in cui si trova il nostro Paese, le persone apprezzano l’accuratezza”, afferma Jordan. “Ciò significa che ciò che ti fa apparire al meglio è prestare attenzione all’accuratezza delle informazioni che condividi, e non limitarti a condividere qualsiasi cosa che potrebbe avvantaggiare il tuo partito politico se fosse vera”.

I risultati forniscono una lezione fondamentale per le aziende che pubblicizzano e condividono contenuti sui social media per ottenere un seguito: condividere informazioni accurate e di alta qualità probabilmente si rifletterà positivamente sulla tua reputazione.

Lo studio, “Partisans Neither Expect Nor Receive Reputation Rewards for Sharing Falsehoods Over Truth Online”, è stato condotto da Isaias Ghezae, dottorando in psicologia sociale presso l’Università di Harvard, co-diretto da Jordan e co-autore di Izzy Gainsburg, direttore associato del Polarization and Social Change Lab presso l’Università di Stanford; Robb Willer, professore di sociologia presso l’Università di Stanford; Mohsen Mosleh, professore associato presso l’Università di Oxford; Gordon Pennycook, professore associato presso la Cornell University; e David Rand, professore di management alla MIT Sloan School of Management.

Contestare una proposta preoccupante

Jordan studia come individui e organizzazioni gestiscono la propria reputazione. In questa ricerca si è chiesta se il desiderio di apparire bene agli occhi degli altri possa motivare le persone a condividere indiscriminatamente sui social media notizie favorevoli al proprio partito politico, indipendentemente dal fatto che siano vere o addirittura false.

La teoria è che il modo migliore per segnalare la propria lealtà al proprio partito politico sia dimostrare di essere disposti ad assumere posizioni stravaganti che lo marchino come sostenitore.

Il team di ricerca è stato ispirato a porsi questa domanda in parte perché studiosi di campi come la filosofia e la psicologia evoluzionistica hanno avanzato una proposta preoccupante: che le persone potrebbero condividere disinformazione politicizzata per dimostrare la propria fedeltà al proprio partito politico.

“La teoria è che il modo migliore per segnalare la propria lealtà al proprio partito politico è dimostrare di essere disposti ad assumere posizioni stravaganti che ti marchieranno come sostenitore”, spiega Jordan.

La logica di ciò che gli accademici chiamano “segnalazione costosa” potrebbe creare un incentivo perverso alla diffusione di fake news, si sono chiesti Jordan e i suoi colleghi? “Eravamo interessati a testare l’idea che le motivazioni legate alla reputazione incoraggino le persone a essere poco attente alle informazioni che condividono”, spiega.

Questi interrogativi hanno portato Jordan e i suoi coautori a elaborare un’indagine in due parti, in cui hanno prima condotto una serie di sondaggi e poi analizzato le reazioni ai post di Twitter.

Condivideresti questo titolo?

Sia nel 2021 che nel 2022, Jordan e colleghi hanno intervistato più di 3.000 partecipanti per valutare le loro reazioni a 588 titoli. L’elenco includeva titoli falsi come “Donna ispanica afferma di aver avuto un figlio illegittimo da Trump” e titoli veri come “Biden potrebbe mantenere alcune politiche di Trump sul commercio”.

I ricercatori hanno chiesto ai partecipanti quali ritenevano sarebbero state le conseguenze per la loro reputazione all’interno delle proprie cerchie sociali se avessero condiviso questi titoli. I partecipanti hanno anche valutato l’accuratezza dei titoli e quanto un titolo avrebbe fatto apparire il loro partito politico come positivo se fosse stato vero.

I partecipanti allo studio si aspettavano di migliorare la propria reputazione condividendo informazioni:

  • Considerato accurato. I partecipanti si aspettavano che condividere titoli veri li facesse apparire migliori rispetto a condividere titoli falsi o fuorvianti.
  • Favorevole al loro partito politico preferito. I partecipanti si aspettavano che condividere titoli favorevoli al loro partito politico preferito li facesse apparire migliori rispetto a condividere informazioni politicamente meno favorevoli.
  • Questo è sia accurato che positivo. Fondamentalmente, afferma Jordan, i partecipanti si aspettavano i maggiori benefici reputazionali dalla condivisione di titoli veri e politicamente favorevoli. “Il fatto che un’affermazione sia politicamente favorevole non significa che sia meno importante che sia vera, in termini di valore reputazionale atteso dalla sua condivisione”, afferma Jordan.

Approfondiamo Twitter

In seguito, i ricercatori hanno esaminato le reazioni degli utenti a 26.000 post di Twitter tra il 2016 e il 2022 che condividevano gli stessi titoli presentati nei sondaggi. Il team ha utilizzato il rapporto tra “Mi piace” e “Retweet” ricevuti da un post come indice dell’approvazione ottenuta. Più un post veniva ritwittato, più appariva nei feed degli utenti, offrendo loro l’opportunità di mettere “Mi piace”. Rapporti più elevati tra “Mi piace” e “Retweet” suggeriscono che gli utenti hanno colto questa opportunità per mettere “Mi piace” al post più spesso, il che suggerisce una maggiore approvazione.

Il team di ricerca ha scoperto che:

  • Le informazioni accurate suscitano maggiore approvazione rispetto a quelle inaccurate. “I titoli oggettivamente accurati tendevano a ricevere più approvazione rispetto ai titoli falsi”, spiega Jordan.
  • Anche i titoli politicamente favorevoli condivisi su Twitter tendono a suscitare maggiore approvazione se sono accurati. “Il modello secondo cui i titoli accurati ricevono più consensi regge e non si indebolisce nel caso di notizie politicamente favorevoli”, afferma Jordan.

La verità conta

Jordan afferma che i risultati hanno implicazioni per gli utenti dei social media, comprese le aziende:

La verità ha un valore sociale maggiore rispetto alle notizie fuorvianti. I risultati possono essere considerati rassicuranti, soprattutto in un anno elettorale controverso, afferma Jordan. “Si teme che quando gli utenti delle piattaforme dei social media sono motivati ​​a mostrare la propria virtù, ciò li porti a comportarsi male”, afferma. Eppure i suoi risultati suggeriscono che le persone si aspettano maggiori ricompense sociali per aver diffuso la verità.

I nostri risultati suggeriscono che condividere informazioni che vengono etichettate come inaccurate rischia di far apparire gli utenti peggiori rispetto alla condivisione di informazioni accurate.

Come le piattaforme dei social media possono contribuire a sradicare la disinformazione. Lo studio fornisce alcune indicazioni su come le piattaforme dei social media possano scoraggiare la condivisione di informazioni fuorvianti. Jordan indica la funzione “Note della community” di X, dove gli utenti possono aggiungere contesto o spiegare perché un post potrebbe essere fuorviante. Tali funzionalità, a suo avviso, possono contribuire in modo costruttivo ad amplificare i costi reputazionali della condivisione di disinformazione. “I nostri risultati suggeriscono che condividere informazioni contrassegnate come inaccurate rischia di far fare una brutta figura agli utenti rispetto alla condivisione di informazioni accurate”, afferma Jordan.