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Un sintetico è per sempre… un effetto serra

Un sintetico è per sempre… un effetto serra

Naturale o sintetico? Solo il 20% per cento dei clienti sceglie quello creato in laboratorio. Parliamo di diamanti e il dilemma è antico, ma dallo studio di Format Research per l’Osservatorio Federpreziosi Confcommercio emerge che l’85% dei clienti ha appreso di quelli sintetici da gioiellieri ed esperti (42,2%) oppure on line (38,5%), ma alla fine la scelta si orienta per l’80% su quello naturali. «Il consumatore non è in grado di distinguere tra diamante sintetico e naturale», sottolinea Pierluigi Ascani di Format Research: «A fare la differenza possono essere solo la professionalità, l’etica e la capacità di racconto del gioielliere».

«Leggendo i dati», puntualizza Stefano Andreis, presidente nazionale Federpreziosi, «risulta che solo il “professionista gioielliere” possa essere punto di riferimento per il cliente, non solo perché in grado di raccontare il gioiello trasmettendo emozione, ma soprattutto perché è l’unica figura che può assicurare una corretta informazione e comunicazione sul valore aggiunto delle creazioni». «Il cliente oggi è piuttosto informato», aggiunge Steven Tranquilli, direttore generale di Federprezosi ConfCommercio «ma con dei limiti. Questo è evidente anche quando si parla di sostenibilità, dal momento che il tema è complesso e raffinate operazioni di marketing spesso non aiutano a fare chiarezza. Chi è pronto ad acquistare un diamante, tuttavia, ha in genere fatto la sua scelta etica».

Tra scienza e storia, il gioielliere deve riuscire anche a spiegare la differenza che c’è anche tra il diamante “artificiale” e quello “sintetico”. «I primi cristalli di diamante sintetico», spiega la  gemmologa Loredana Prosperi, «furono prodotti nel 1953 dall’azienda elettrica Asea, ma la notizia venne riportata solo nel bollettino interno aziendale. Nel 1954 la General Electric produsse un cristallo di diamante sintetico di dimensioni millimetriche. Ne venne data comunicazione nel febbraio 1955 dal New York Times. E nel 1970 sempre la General Electric produsse il primo diamante sintetico di qualità gemma». I due prodotti hanno caratteristiche fisiche principali identiche. Ma da una parte c’è una gemma unica, irripetibile, preziosa, che può esaurirsi. Dall’altra, un prodotto di fabbrica, ripetibile e in disponibilità illimitata. Da una parte prezzi in aumento, dall’altra prezzi in diminuzione grazie alla crescente ottimizzazione dei processi di produzione.

Nel caso del diamante sintetico si punta sulla sua sostenibilità, ma quanto sono sostenibili i diamanti sintetici? «Se i diamanti naturali si formano in milioni di anni, talvolta miliardi, ad una profondità di almeno 120 km e fino a 780 km, per creare i sintetitici» fa sapere Federopreziosi «è necessario mantenere i macchinari a una temperatura costante di circa 1600 gradi per vari giorni, con una pressione che varia da un minimo di 45 a un massimo di 70 Kbar e un dispendio enorme di energia. Inoltre, gran parte dei diamanti sintetici viene prodotta in Asia, in Paesi come Cina e India, dove si impiegano ancora energie fossili. L’emissione nell’atmosfera di CO2 è consistente». Secondo una recente ricerca effettuata dall’agenzia indipendente TruCost per conto della Diamond Producers Association è superiore a quella necessaria per l’estrazione di diamanti naturali: per ogni carato di diamante naturale corrispondono a 160 kg di CO2, ma per produrre un carato di diamante sintetico se ne emettono 511 kg di CO2. Quindi attenzione al “sintetico uguale sostenibile”. «Resta, e non è poco, lo storytelling di una gemma che può indietreggiare solo se si fa un discorso di prezzi», sottolinea Federpreziosi: «il diamante sintetico può arrivare a costare l’80 per cento in meno».




Crisi Esg, negli Stati Uniti c’è chi vuol fare diventare reato l’investimento green

Crisi Esg, negli Stati Uniti c’è chi vuol fare diventare reato l’investimento green

Investire con criteri Esg diventerà un reato penale? Se ne discute da inizio gennaio nello Stato Usa del New Hampshire. Ad avanzare la proposta di legge sono stati i Repubblicani locali guidati da Mike Belcher. La nuova normativa vieterà ai fondi pensione dello Stato di investire con i criteri della sostenibilità. Motivo? I fondi pensione non devono tradire il mandato fiduciario e dunque hanno l’obbligo di perseguire il più alto ritorno sugli investimenti per i proprio aderenti. E chi violerà questa legge rischierà una pena non inferiore a un anno e non superiore ai 20.

Crisi delle alleanze per il clima

La proposta non è stata ancora messa ai voti dall’assemblea del piccolo Stato della costa nordorientale Usa; New Hampshire che sembra voler superare in durezza il Texas, altro Stato che per primo ha vietato ai suoi fondi pensione e al proprio ministero del Tesoro di investire in maniera Esg.

«Se Donald Trump vincerà la corsa alla presidenza degli Stati Uniti penso che potrebbe fare un passo deciso nel divieto a investire in modalità Esg – afferma Gianfranco Gianfrate, docente di finanza all’Edhec Business School in Francia –. Alcune grandi società di asset management hanno annusato l’aria e hanno deciso di riposizionarsi». Si spiega così la fuga dalle alleanze contro il climate change di alcuni grandi gruppi finanziari. Decisioni che hanno mandato in frantumi, in particolare, la Net Zero Insurance Alliance, passata da 30 a 11 componenti. La stessa ClimateAction100+ sta perdendo pezzi. Non sembra, per ora, mostrare segni di crisi la Nzba, l’alleanza per il Net-Zero creata dagli istituti bancari.

GLI ADERENTI ITALIANI AL GRUPPO CLIMATE ACTION 100+
BancoPosta Fondi Sgr*
Enpap (Cassa di previdenza psicologi) 
Eurizon Capital Sgr Spa*
Fideuram Intesa Sanpaolo Private Banking Am Sgr Spa*
Fondo di Previdenza Cr Firenze
Fondo Pensione a contribuzione definita gruppo Intesa Sanpaolo
Fondo Pensione a prestazione definita Gruppo Intesa Sanpaolo
Fondo pensione Cometa (metalmeccanici)*
Generali Insurance Asset Management*
Gruppo Generali*
Inarcassa (Cassa di previdenza ingegneri)
Pegaso Fondo Pensione
Poste Vita Spa
Quaestio Capital Sgr Spa*
UnipolSai
Tabella con 1 colonne e 15 righe. Ordine crescente per colonna “X.1”

Nota: l’asterisco indica i firmatari che partecipano direttamente agli impegni con le aziende target. Gli altri sono investitori sostenitori, firmatari dell’iniziativa ma non partecipano direttamente agli impegni con le aziende target.
Fonte: database ClimateAction100+Creato con Datawrapper

BlackRock abbandona l’Esg

Il pressing dei Repubblicani pare dunque aver avuto effetto negli Usa. Sui criteri Esg sta facendo marcia indietro perfino Larry Fink, il numero uno di BlackRock, la più grande società di gestione del risparmio al mondo (10mila miliardi di dollari in gestione), tra i primi a spingere sulla sostenibilità. «L’Esg è una categoria misteriosa per molti clienti. Il transition investing è concreto»: a rilasciare questa dichiarazione al Wall Street Journal è stato Mark Wiedman, responsabile della divisione Global Client Business di BlackRock. Dichiarazione che ha sancito l’abbandono della categoria Esg da parte di BlackRock per la più concreta (?) “transition investing”. A conferma, forse, che i grandi asset manager degli Stati Uniti si stanno preparando a un possibile cambio della guardia alla Casa Bianca.

Una sigla creata a tavolino?

«A mio avviso c’è un peccato originale nei criteri Esg – aggiunge Gianfrate – . I tre elementi E, S e G sono stati messi insieme forzatamente a tavolino da Unpri (la rete internazionale di istituzioni finanziarie, supportata dall’Onu, per gli investimento responsabile, ndr). Risultato? Analisti impreparati e fondi di investimento che fanno box-ticking. Non si può essere esperti allo stesso tempo, per esempio, dei codici di corporate governance, di misurazioni dei diversi gas serra e delle problematiche del lavoro minorile nei Paesi emergenti. Un errore fatto sicuramente in buona fede ma che ha avuto effetti importanti nel settore finanziario».

È proprio così? Sulla crisi dei criteri Esg abbiamo chiesto un commento proprio alla struttura di Unpri. A risponderci è stato un portavoce di ClimateAction100+, il network creato da sei associazioni di investitori tra cui appunto Unpri: «Il rischio climatico è un rischio finanziario. Gli investitori prudenti lo capiscono e hanno investito molto nello sviluppo delle proprie capacità interne per garantire di avere accesso alle competenze necessarie per identificare al meglio dove si trovano questi rischi e come affrontarli». E ha aggiunto: «Questa competenza si trova spesso all’intersezione tra governance, questioni climatiche e altri campi tecnici. Ruoli di questo tipo si sono moltiplicati in tutto il settore e sono sempre più comuni».

Nessun commento invece da Unpri sulla crisi delle alleanze per il Net-Zero e per le posizioni estreme di Donald Trump sugli investimenti green. Intanto nel New Hampshire, l’assemblea dei rappresentanti voterà sulle sanzioni penali per chi investe rispettando i criteri Esg. Il verde nell’orizzonte americano sembra più stinto che mai.




Quando la percezione conta più della realtà

Quando la percezione conta più della realtà

Reputazione aziendale: oggi serve più di una buona mossa social per crearla e mantenerla. Citofonare a Ferrero, che ha scalato tutti i gradini, arrivando al top. Warren Buffet, tra i più grandi investitori finanziari mondiali di tutti i tempi, pare abbia detto: «Ci vogliono venti anni per costruirla, bastano cinque minuti per rovinarla».

è sempre stata fondamentale. «Sono migliaia di anni – spiega Luca Poma, professore in Reputation management alla Lumsa di Roma – che si guarda alla reputazione come a un bene prezioso. Ne parlavano i grandi classici latini, ma anche San Tommaso d’Aquino, con la frase Honor est praemium virtutis nella Summa Theologiae. In ogni caso la reputazione non si costruisce a chiacchere, ma con la virtù concreta, con i fatti. Per questo oggi non si può confonderla con l’immagine sociale, aspetto desueto, esteriore spesso inautentico, costruito con le campagne di marketing e pubblicità».

È dunque qualcosa di più strutturato che ha bisogno di un lavoro più solido. Secondo il professore, «ci sono precise e complesse strategie per costruire una buona reputazione e, soprattutto, mantenerla nel tempo. Tutti i pubblici vanno innanzitutto ascoltati. Pochissimi lo fanno davvero. Il dialogo va rafforzato non solo in quantità, ma soprattutto in qualità, e gli scenari di possibile crisi reputazionale vanno immaginati in anticipo. Occorre prepararsi prima. In Italia, invece, vale la sciagurata regola del “se mi capiterà, vedrò come gestire”. Il nemico numero uno della buona reputazione è l’assenza di autenticità. Per recuperarla, occorre quindi non polemizzare né chiudersi in difesa o nel silenzio, prendersi responsabilità dei danni eventualmente causati, saper chiedere scusa con sincerità, e costruire un buon piano di recovery».

Anche perché gli effetti sono a cascata. «È indubbio – ancora Poma – che la responsabilità di una cattiva reputazione ricada su tutti: imprenditore, manager, dipendenti. Anche i pubblici, esterni, vengono danneggiati quando c’è crisi di reputazione. Si pensi solo ai fornitori che vedono ridursi gli ordini a causa della crisi dell’azienda o alle banche che faticano a recuperare i propri crediti». Secondo Poma, Ferrero è il miglior esempio da seguire perché «non guarda solo alle trimestrali di bilancio, ma getta lo sguardo molto più in là».

Qualcosa è cambiato?

«Con l’avvento di Internet – ci dice Andrea Baggio, Ceo di ReputationUp – l’impatto delle percezioni online si è moltiplicato. E se prima della rete il buon nome di un’azienda dipendeva da interazioni dirette e passaparola, ora, con la digitalizzazione, ogni aspetto positivo o negativo viene amplificato e può influenzare rapidamente l’opinione pubblica. Una famosissima azienda di moda italiana in tre secondi ha bruciato 400 milioni di euro, a causa di un video diventato virale, massacrato sui social».

E allora, come si mantiene la faccia? Sempre per Baggio, la cui azienda utilizza uno strumento chiamato RepUP Monitoring Tool (capace di intercettare in tempo reale qualsiasi contenuto positivo, negativo e neutro pubblicato su Surface Web, Deep Web e Dark Web e un sofisticato algoritmo di IA per calcolare il sentiment di un brand aziendale o personale), conservando «la qualità del prodotto/servizio, l’etica lavorativa, la responsabilità sociale, e il rapporto con clienti, fornitori e comunità. Non esiste una formula percentuale fissa, ma trasparenza e coerenza del messaggio sono cruciali».

Spesso c’è uno scarto tra percezione e realtà. «Un’azienda – continua Baggio – può avere pratiche eccellenti, ma una cattiva reputazione a causa di comunicazioni errate o incidenti isolati. Al contrario, una buona campagna di comunicazione può migliorare la percezione di un’azienda che altrimenti sarebbe mediocre. Però bisogna sottolineare che oggi quella che io chiamo la verità percepita sta diventando quasi più importante della verità vera. Quanto a Ferrero è merito di prodotti di qualità, impegno per la sostenibilità, buone pratiche lavorative e una comunicazione efficace. La loro strategia non si limita alla sola comunicazione, ma include azioni concrete e totali che rispecchiano i loro valori aziendali».

A sentire Isabella Corradini, psicologa sociale e del lavoro, responsabile scientifico della rivista digitale Reputation Today, oltreché curatrice di tre libri sull’argomento, per una buona reputazione «fondamentali sono: la qualità dei prodotti e dei servizi, la capacità dell’organizzazione di trasmettere fiducia e sentimenti positivi ai clienti. Ma anche promuovere luoghi di lavoro sani e partecipativi e far crescere le competenze perché il personale stia bene e lavori bene. Data la centralità dei temi etici e della sostenibilità, è importante anche il modo in cui l’azienda si rapporta al suo esterno, verso l’ambiente e le comunità. Poi non escluderei l’attenzione ai temi del digitale ed in particolare alla protezione dei dati di tutti coloro che interagiscono con l’organizzazione».

La psicologa ci fa sapere che esistono strumenti gratuiti e a pagamento capaci di analizzare il sentimento – la cosiddetta sentiment analysis – per ascoltare cosa dice la rete. «Ritengo però – avverte- che questo possa andare bene nell’ottica del marketing, ma misurare la reputazione aziendale richiede un lavoro di analisi a più livelli».

Non si discosta molto la posizione di Amelia Cuomo, imprenditrice (dirige il Museo della Pasta Cuomo, azienda storica bicentenaria di Gragnano: «La buona reputazione dipende dal rispetto degli accordi, dalla qualità effettiva e percepita dei prodotti. Ma sono importanti anche le buone pratiche adottate all’interno dell’azienda nei confronti dei lavoratori».

Per l’imprenditrice della pasta, in caso di errori, «è necessario cambiare i vertici che rappresentano l’azienda e comunicare bene questi cambiamenti. Ferrero all’apice? È perché in azienda hanno cura ed attenzione non solo nei confronti del processo produttivo, ma anche verso i dipendenti, stimolando politiche incentivanti dal punto di vista economico (stock options ed Mbo per la dirigenza, scatti di carriera ed aumenti di stipendio per gli altri dipendenti), rispettando le norme di legge e attuando una corretta politica di sostenibilità ambientale, sociale ed economica».




Titolo: Approvato il nuovo Regolamento UE sui imballaggi e packaging sostenibili

Titolo: Approvato il nuovo Regolamento UE sui imballaggi e packaging sostenibili

I Ventisette Stati membri dell’Unione europea hanno approvato oggi il Regolamento sugli imballaggi e rifiuti di imballaggi e la Direttiva sul dovere di diligenza delle imprese ai fini della sostenibilità. La decisione è stata adottata a livello di Ambasciatori nel Comitato dei Rappresentanti Permanenti Aggiunti presso l’Unione Europea (Coreper I). Si tratta dell’ultimo passo per l’adozione dei due provvedimenti dopo i negoziati con il Parlamento Europeo e sarà poi formalizzata da quest’ultimo e dai Ministri dei Ventisette.

La decisione segue a complessi negoziati in cui l’Italia ha svolto un ruolo cruciale fornendo un contributo di primo piano affinché si trovasse il giusto equilibrio tra obiettivi ambientali e competitività delle imprese e tra armonizzazione e valorizzazione delle esperienze nazionali di successo.
Dopo il decisivo passo di oggi, con l’accordo tra i Ventisette i testi approvati verranno adesso trasmessi al Parlamento europeo e quindi al Consiglio per l’adozione finale.

Il Regolamento sugli imballaggi e i rifiuti di imballaggio accrescerà la sostenibilità del settore, promuovendo una maggiore riciclabilità degli imballaggi, nonché contribuirà a ridurre alcune barriere al funzionamento del mercato interno, introducendo norme comuni sull’etichettatura e sulla gestione dei rifiuti. Il provvedimento impegnerà inoltre gli Stati membri a ridurre i rifiuti, lasciando, come da noi auspicato, flessibilità agli Stati ed agli operatori nella scelta delle misure per raggiungere l’obiettivo, in particolare tra imballaggi riutilizzabili e quelli monouso riciclabili, laddove questi ultimi, come nel caso del settore della ristorazione, rappresentano ancora l’opzione che offre il risultato ambientalmente migliore e per la conservazione dei prodotti agricoli e alimentari. Gli emendamenti approvati incentivano tecnologie in cui stiamo investendo, come il riciclo chimico. Salvaguardano inoltre settori in cui le nostre aziende hanno accresciuto la riciclabilità degli imballaggi, in cui siamo all’avanguardia, come quello delle plastiche compostabili, o in cui esportiamo prodotti di eccellenza, come vini, spumanti, vermouth e distillati. Nella gestione dei rifiuti, libertà di scelta è concessa tra l’adozione del deposito cauzionale e il mantenimento di modelli virtuosi di raccolta separata, come quello italiano.

La Direttiva sul dovere di diligenza delle imprese ai fini della sostenibilità contribuirà ad assicurare che le catene di approvvigionamento delle principali imprese europee siano il più possibile rispettose dei diritti umani e della sostenibilità ambientale. L’Italia ha svolto un ruolo chiave nel raggiungimento di un testo equilibrato ed efficace, che concentra gli oneri sulle società di grandi dimensioni (oltre 1.000 dipendenti e 450 milioni di fatturato globale) meglio in grado di monitorare le proprie catene di approvvigionamento e di contribuire alla mitigazione degli effetti delle attività economiche sui cambiamenti climatici, nonché alla tutela dei diritti umani delle persone interessate dall’attività d’impresa.

I risultati raggiunti sono il frutto di uno sforzo corale di tutti gli attori del “sistema Italia.

“Abbiamo dimostrato che oggi a Bruxelles c’è un’Italia che non si arrende a soluzioni che penalizzano la nostra industria, ma che è capace di continuare a negoziare fino alla fine in maniera decisa, facendo valere la bontà dei propri argomenti, valorizzando le nostre eccellenze e riuscendo a modificare sostanzialmente il risultato finale”, dichiara il precedente del Consiglio, Giorgia Meloni. “Il merito di questi successi va attribuito all’azione di impulso assicurata dai Ministeri coinvolti, in stretto coordinamento con Palazzo Chigi, all’attività negoziale condotta dai nostri rappresentanti diplomatici a Bruxelles, ma anche al cruciale lavoro di squadra svolto dai nostri europarlamentari, che hanno saputo travalicare gli schieramenti politici. In questo senso, un ringraziamento particolare va all’On. Massimiliano Salini e all’On. Patrizia Toia, che hanno svolto un lavoro decisivo durante il trilogo nella costruzione del consenso a sostegno delle posizioni nazionali sul dossier packaging. Abbiamo dimostrato come un’Italia coesa e determinata possa davvero spostare gli equilibri a Bruxelles e giocare un ruolo da protagonista”, conclude il presidente Meloni.




Roberto Scano: aziende, l’accessibilità digitale non è un obbligo ma un valore per tutti 

Roberto Scano: aziende, l’accessibilità digitale non è un obbligo ma un valore per tutti

Sabato 28 giugno 2025 sarà una data importante per la tecnologia solidale in Italia. Perché? Perché da quel giorno in poi tutte le aziende, tranne le microimprese (che avranno comunque obblighi similari), dovranno rendere accessibile la loro presenza digitale, i loro prodotti e i servizi online. Quel giorno entrerà definitivamente in vigore operativa la direttiva Ue 2019/882, che disciplina i requisiti di accessibilità dei prodotti digitali.

Accessibilità digitale, una norma in vigore dal 2005 

Sabato 28 giugno 2025 sarà una data importante per la tecnologia solidale in Italia. Perché? Perché da quel giorno in poi tutte le aziende, tranne le microimprese (che avranno comunque obblighi similari), dovranno rendere accessibile la loro presenza digitale, i loro prodotti e i servizi online. Quel giorno entrerà definitivamente in vigore operativa la direttiva Ue 2019/882, che disciplina i requisiti di accessibilità dei prodotti digitali.

“Perché dal 2005 la norma è in vigore per le pubbliche amministrazioni e dal 2022 per le imprese con fatturato medio superiore a 500 milioni di euro nell’ultimo triennio”

Quindi stiamo ricordando che realtà come banche, GDO, grandi gruppi che erogano servizi devono già essere accessibili…

“Esattamente. In poche parole i principali soggetti con cui interagiamo quotidianamente devono già essere accessibili. Tra poco più di un anno, ma in realtà è come se fosse domani, tocca a tutte le altre, siano esse imprese pubbliche o private.”

Per la tua esperienza, come possono organizzarsi le imprese? Credo che il primo passo sia essere consapevoli della scadenza e il secondo non far finta di niente…

“Guarda è davvero così. Questo è il presupposto per fare poi il conseguente scatto di mentalità…”

Vale a dire?

“…vale a dire capire che l’accessibilità oggi è un principio di qualità, un aspetto essenziale della progettazione di un prodotto o di un servizio digitale e che deve essere parte integrante di ogni iniziativa, dalla progettazione alla realizzazione finale e di continua manutenzione in caso di aggiornamenti. E capire che in questo percorso bisogna dialogare con il proprio pubblico, per migliorare continuamente i prodotti digitali.”

Accessibilità digitale, la situazione nelle aziende

Questo è un aspetto molto importante dell’accessibilità. Purtroppo i dati pubblicati il 1 febbraio della ricerca “Dichiarazioni di accessibilità dei privati: qual è la situazione?”, condotta da Ergoproject e da altri partner sulle aziende che già hanno l’obbligo dell’accessibilità dicono che ancora le aziende faticano…

“Abbiamo analizzato la “Dichiarazione di accessibilità”, documento che le aziende devono compilare una volta l’anno, entro il 23 settembre, per rendere pubblico come applicano l’accessibilità e che deve contenere la descrizione del meccanismo di feedback. La ricerca ha riguardato 74 aziende con un fatturato superiore ai 500 milioni e 293 touchpoint.”

Cosa sono i touchpoint?

“Sono i punti di connessione tra azienda e cliente. I dati emersi non sono confortanti. Il 32% dei touchpoint presi in considerazione non possiede una dichiarazione di accessibilità, il che significa che gli uffici compliance delle grandi aziende o non hanno percepito questo adempimento oppure l’hanno sottovalutato, visto che la dichiarazione di accessibilità è la fine di un percorso di analisi e l’inizio di un percorso di miglioramento continuo dell’accessibilità.

Nel 49% dei casi la dichiarazione è disponibile in HTML e il 51% in PDF, in entrambi i casi, per lo più non accessibile: ad esempio, delle dichiarazioni in PDF solo il 29% era accessibile.”

E il rapporto con le persone che usano questi strumenti di contatto com’è?

“Per quanto riguarda il meccanismo di feedback, ossia la modalità obbligatoria di contatto tra utenti ed aziende da inserire nella dichiarazione, la situazione è meno critica: solo il 5% delle aziende interpellate non lo usa o non lo ha inserito nella dichiarazione: per il resto l’80% lo fa via email e il 15% via form digitale.”

Accessibility overlay, un tampone che non garantisce l’accessibilità

Infine, nella ricerca parlavate degli accessibility overlay. Che cosa sono? Funzionano?

“L’accessibility overlay inserisce porzioni di codice correttivo “esterno”. Però è un “tampone” che non solo non garantisce l’accessibilità, ma spesso crea ulteriori problemi, come segnalato dalla Commissione Europea a fine 2023AgID nonché da una lettera congiunta di European Disability Forum and International Association of Accessibility Professionals.

Perché questa soluzione non funziona?

“Si tratta di soluzioni “rapide”, una sorta di cerotto sopra una frattura. Il fatto che il 22% dei touchpoint analizzati presenti l’uso di questi strumenti sta a significare che si è cercata una soluzione tampone invece di intervenire sul funzionamento effettivo. La mia speranza è che questa sia visto come un rimedio per prendere il tempo utile per lavorare e migliorare i servizi e non sia visto come la risoluzione della questione. In altri paesi, come gli USA, i siti che utilizzano tali strategie sono bersaglio di contenziosi legali da parte di associazioni e persone con disabilità.”

Insomma, come ci siamo detti il 9 gennaio nel corso del convegno che IWA e Fondazione Pensiero Solido hanno organizzato per i vent’anni della Legge Stanca sull’accessibilità digitale, abbiamo ancora molta strada da percorrere…

“Sì, anche se le cose migliorano, non alla velocità che ci piacerebbe, ma migliorano. Serve più informazione per creare più consapevolezza su quanto prevede la legge, per fare in modo che i servizi digitali siano di qualità e che il mondo digitale non sia veicolo di discriminazione.”

Il giubileo dell’accessibilità verso la scadenza del giugno 2025

Per questo sempre il 9 gennaio abbiamo lanciato il “giubileo dell’accessibilità” – rigorosamente con la g minuscola per non confonderlo con quello vero, che ci sarà nel 2025 a Roma – un insieme di appuntamenti pubblici in vista dell’obbligo che scatterà per tutte le aziende il 28 giugno del prossimo anno…

“Dobbiamo far capire a quante più persone possibile che sviluppare un prodotto o un servizio digitale a scopo di vendita o di divulgazione di informazioni ed escludere dalla fruizione una parte di potenziali clienti è sbagliato moralmente e anche praticamente: perdi clienti e rischi che coloro che si sentono esclusi rendano nota pubblicamente questa discriminazione, con il relativo danno reputazionale.”

La sfida è dunque quella di adeguare tempestivamente i prodotti esistenti…

“Invece di accettarla, in molti casi in troppi fanno orecchie da mercante e stanno attendendo passivamente la scadenza del 2025. Tra l’altro non pensano al fatto che un utente discriminato già oggi può fare causa, ai sensi della legge 67/2006, norma che già nel titolo dice tutto: Misure per la tutela giudiziaria delle persone con disabilità vittime di discriminazioni”, e similmente può fare un dipendente che si ritrova discriminato perché la sua postazione di lavoro e l’interazione lavorativa non è accessibile: in questo caso non solo la legge Stanca (art. 4 comma 4) ma anche il Dlgs. 216/2003 consentono di tutelare il dipendente, anche in sede giudiziaria, per rimuovere le discriminazioni.”

Noi però continuiamo a operare perché si capisca che la data del 28 giugno 2025 non è solo una scadenza, un obbligo, ma un’opportunità…

“Assolutamente. L’opportunità di fare meglio, sotto ogni punto di vista, il proprio business e la propria attività. Con soddisfazione per tutti i clienti, che in questo caso possono pure incrementare, e per le imprese.”.

Come sempre nella vita, il bene è conveniente. Di conseguenza l’accessibilità è cosa buona, giusta, utile. Per tutti.