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Controllare i lavoratori a distanza: crescono le “sentinelle degli smart workers”

Da Microsoft a ActivTrak: secondo uno studio Usa, il settore del monitoraggio crescerà a dismisura

Sono le “sentinelle dello smart worker”, quelle che controllano – col fucile spianato dall’altra parte dello schermo – che il lavoratore da remoto sia costantemente produttivo. Si tratta delle app per il controllo a distanza dei dipendenti e negli Stati Uniti sono sempre di più: si va da quelle che comunicano ai capi dati sui siti web consultati a quelle che fanno gli screenshot delle schermate. E ora ci si mette anche Microsoft: un nuovo tool, chiamato Productivity Score, annunciato durante la conferenza annuale degli sviluppatori, mostra ai datori di lavoro come i propri dipendenti utilizzano i servizi di Microsoft 365 come Outlook, Teams, SharePoint e OneDrive. Ma può esistere uno smart working senza controllo sulla vita delle persone? Secondo Michel Martone, giurista e accademico, autore del libro “Il lavoro da remoto – Per una riforma dello smart working oltre l’emergenza”, sì: “Il datore di lavoro ha bisogno di controllare – spiega ad HuffPost – ma dovrebbe controllare i risultati del lavoro, non la persona”.

Secondo un’analisi di Market Research Future, il settore del monitoraggio del posto di lavoro dovrebbe crescere fino a raggiungere un mercato da 3,84 miliardi di dollari entro il 2023. Le aziende, sentendo il bisogno di garantire che la produttività non diminuisca durante il lavoro da casa, si rivolgono a società come ActivTrak , Hubstaff e InterGuard, che acquisiscono schermate dei computer dei lavoratori e catalogano per quanto tempo i dipendenti utilizzano determinati programmi. Alcuni di questi programmi, come Teramind, consentono ai datori di lavoro addirittura di guardare in tempo reale cosa fanno i lavoratori sui loro schermi, comprese le loro pubblicazioni sui social.

L’ultima polemica riguarda l’introduzione del tool di Microsoft, che apre una finestra sul mondo privato del dipendente: consente ai capi delle aziende che abilitano lo strumento, di scoprire, ad esempio, il numero di ore che un dipendente ha trascorso in riunioni su Microsoft Teams negli ultimi 28 giorni o di conoscere il numero di giorni in cui una persona è stata attiva su Microsoft Word, Outlook, Excel, PowerPoint, Skype e Teams nell’ultimo mese e su quale tipo di dispositivo. I datori di lavoro possono persino vedere il numero di giorni in cui una persona specifica ha inviato un’e-mail contenente una menzione @ o il numero di volte in cui la videocamera è stata accesa nelle riunioni. Microsoft nega che lo strumento serva per controllare i dipendenti ma la sua introduzione ha comunque scatenato un dibattito sulla privacy e sulla legittimità dell’esistenza di un simile riflettore sulle abitudini dei lavoratori.

Il dibattito smart working – controllo è infuocato. Un articolo pubblicato dal Wall Street Journal e intitolato “Three Hours of Work a Day? You’re Not Fooling Anyone” (“Tre ore di lavoro al giorno? Non stai prendendo in giro nessuno”) racconta i risultati che hanno ottenuto le aziende con l’utilizzo di uno di questi software di controllo dei dipendenti: ActivTrak. Tra i dati che raccoglie ActivTrak per misurare l’attività lavorativa dei dipendenti ci sono nomi utente, barre del titolo dell’applicazione, URL del sito Web consultato, durata dell’attività, schermate, tempo di inattività e attività USB. Brian Dauer, direttore della Ship Sticks, a West Palm Beach, in Florida, compagnia che trasporta equipaggiamenti sportivi e altri bagagli, ammette al Wall Street Journal di iniziare ogni giornata leggendo il report sui suoi dipendenti: “Se qualcuno sta navigando su ESPN.com per cinque minuti, lo vedremo. Il software tiene traccia di ogni piccola cosa che accade sul computer”, ha affermato. Ma quali risultati ha dato questa pratica del monitoraggio? Risultati ottimi, a quanto pare, perché Ship Sticks ha avuto una crescita costante, oggi conta circa 80 dipendenti, e tutto ciò, secondo il suo direttore, è dovuto al controllo perenne del lavoro degli impiegati. Anche Sagar Gupta, vicepresidente esecutivo di Biorev, una società di visualizzazione 3D con sede a Dallas, è della stessa opinione: nel 2016 si è affidato a ActivTrak e ha scoperto che i suoi dipendenti lavoravano solo tre ore al giorno. Il controllo, in qualche modo, è stata la sua salvezza.

“Dall’inizio della pandemia, la richiesta per le nostre tecnologie è triplicata”, ha affermato Brad Miller, CEO di Awareness Technologies, a NPR, all’interno di un articolo intitolato “Your Boss Is Watching You: Work-From-Home Boom Leads To More Surveillance” (“Il tuo capo ti sta guardando: il boom del lavoro da casa ha portato ad una maggiore sorveglianza”). Il loro software InterGuard permette di monitorare tutte le attività che vengono svolte su un pc, assegnando poi a ogni impiegato un “punteggio di produttività”. Va peggio – per i dipendenti – con un altro software di punta, Time Doctor, che invia “alert di distrazione” se l’utente risulta inattivo oppure passa troppo tempo su siti considerati poco produttivi quali Youtube, Facebook o Netflix. Il software può anche scattare e condividere screenshot dello schermo, per controllare l’attività del dipendente in ogni momento.

Dalla raccolta dei dati sui clienti, insomma, le aziende stanno passando alla raccolta dei dati sui lavoratori. Già nel 2019 il Wall Street Journal denunciava il fenomeno, riportando un sondaggio della società Gartner: “Di aziende con sede negli Stati Uniti, in Europa e in Canada, il 22% dei datori di lavoro intervistati dichiara di raccogliere dati sui movimenti dei dipendenti, il 17% raccoglie dati sull’utilizzo del computer di lavoro, il 13% raccoglie dati sull’addestramento dei dipendenti e il 7% tiene sotto controllo le e-mail degli impiegati”. Oggi, con la pandemia e il lavoro da remoto sempre più diffuso, la pratica del controllo stretto e costante è in crescita.

Ma qual è la situazione in Italia? Come spiega Michel Martone, il controllo da parte del datore di lavoro nel nostro Paese è tollerabile fin quando non è lesivo delle prerogative della persona. L’uso di questi software, che fanno screenshot delle interazioni sui social o delle schermate del computer, non è consentito. Tuttavia è necessario disciplinarne l’uso: “Ci troviamo nel solco di una nuova frontiera – afferma -. Le vecchie leggi funzionano male, abbiamo bisogno di nuovi sistemi di tutela sia per i dipendenti sia per i lavoratori. Il lavoro da remoto può essere più produttivo, ma occorre disciplinarlo. E disciplinare anche il diritto alla disconnessione”.




Amazon ha spiato per anni i suoi lavoratori europei più attivi politicamente

Amazon ha spiato per anni i suoi lavoratori europei più attivi politicamente

Stando a rapporti ottenuti da Motherboard, la divisione di intelligence dell’azienda segue molto da vicino i dipendenti impegnati in cause ambientali o sindacali: è una violazione dei diritti dei lavoratori?

I lavoratori di Amazon iscritti ai sindacati, a Fridays for Future o ad altri movimenti organizzati vengono ossessivamente monitorati da Amazon perché ritenuti pericolosi per l’integrità e l’efficienza dell’azienda. Stando infatti a centinaia di rapporti ottenuti da Motherboard, ma non ancora diffusi, gli analisti del Global Security Operations Centre – la divisione dell’azienda incaricata di proteggere dipendenti, fornitori e risorse – hanno monitorato per anni la vita privata di centinaia di migliaia di dipendenti perché ritenuti una minaccia. 

Le email interne hanno rivelato come tutti i membri della divisione di intelligence di Amazon ricevono aggiornamenti continui sulle attività di organizzazione dei lavoratori nei magazzini. Utilizzando i social network l’azienda monitora i dipendenti che aderiscono ai movimenti ambientalisti in Europa perché percepisce questi gruppi come una minaccia alle sue operazioni. Gli analisti infatti prendono nota della data, dell’ora, del luogo esatto, del numero di partecipanti a un evento e in alcuni casi anche del tasso di affluenza previsto per un determinato evento organizzato dai lavoratori dell’azienda, come, ad esempio, uno sciopero o la distribuzione di volantini. 

In generale i documenti offrono uno punto di vista privilegiato sull’apparato di sorveglianza interno dell’azienda, che ha più volte cercato di reprimere il dissenso dei dipendenti cercando, ad esempio, di diffamare i lavoratori che cercavano di organizzarsi con i loro colleghi. Il tutto, come riporta Motherboard, sembra essere motivato col fine di prevenire eventuali interruzioni nelle consegna e nello smistamento degli ordini ricevuti dalla piattaforma. Come si legge nei documenti infatti l’azienda deve “evidenziare potenziali rischi e pericoli che possono influire sulle operazioni di Amazon, al fine di soddisfare le aspettative dei clienti”.https://imasdk.googleapis.com/js/core/bridge3.431.0_it.html#goog_1480612127https://imasdk.googleapis.com/js/core/bridge3.431.0_it.html#goog_1236638189

Secondo poi quanto emerge dai documenti l’azienda avrebbe ingaggiato l’agenzia investigativa Pinkerton, diventata famosa a cavallo tra l’Ottocento e Novecento in America perché forniva personale per infiltrarsi nelle organizzazioni sindacali e intimidire i lavoratori. Accuse negate da Amazon che ha risposto, così: “Abbiamo collaborazioni commerciali con aziende specializzate per i motivi più disparati, ma non utilizziamo i nostri partner per raccogliere informazioni sul personale. Tutte le attività che intraprendiamo sono pienamente in linea con le leggi locali sono condotte con il supporto delle autorità locali”

Fino a poco tempo fa si sapeva poco sulle strategie di Amazon per contrastare l’azione sindacale, nonostante ci fossero da anni rapporti che ne parlavano esplicitamente. Tuttavia sembra che l’argomento sia diventato più popolare, soprattutto quando dopo una protesta pubblica, l’azienda ha rimosso due offerte di lavoro per analisti dell’intelligence, il cui compiti era monitorare le “minacce sindacali”. 

Per quanto riguarda l’Italia invece, nei rapporti supervisionati da Motherboard e risalenti al 2019, si legge come due siti italiani, uno in costruzione alla periferia di Milano e uno in Sardegna – non viene specificato il nome – rappresentassero un rischio “moderato” per Amazon. Il rischio derivava dal semplice fatto che Cgil e Uiltrasporti avessero in precedenza già tenuto delle proteste in altri magazzini italiani. 

In risposta alle accuse, il portavoce di Amazon Lisa Levandowski ha dichiarato: “Come ogni altra azienda responsabile, manteniamo un livello di sicurezza all’interno delle nostre operazioni per aiutare a mantenere al sicuro i nostri dipendenti, edifici e inventario. Qualsiasi tentativo di sensazionalizzare queste attività o suggerire di fare qualcosa di insolito o sbagliato è irresponsabile e scorretto”.

Alla luce di quanto è emerso, Stefan Clauwaert, consulente legale per i diritti umani presso la Confederazioni europea dei sindacati, ha dichiarato che le attività di intelligence di Amazon potrebbero potenzialmente violare le convenzioni e gli standard del lavoro del Comitato europeo. In quanto garantisce ai lavoratori la libertà di associarsi ai sindacati, il diritto di organizzarsi e contrattare collettivamente per maggiori diritti. Inoltre potrebbero pure esserci problemi di privacy, dal momento che il Gdpr richiede alle aziende di divulgare quali dati personali raccoglie e perché. “Anche se possiamo avere l’impressione che tutto ciò che scriviamo su Amazon sia almeno salvato da qualche parte per la revisione, è importante che sappiate che venite esplicitamente osservati” si leggeva già a settembre in una mail trapelata da Amazon e in possesso di Motherboard

Già sotto i riflettori dell’antitrust europeo, a ottobre Amazon ha ricevuto una lettera aperta firmata dalla parlamentare europea Leila Chaibi e da altri 37 parlamentari, fra cui l’italiano Brando Benifei. Nella lettera si legge “l’esponenziale crescita dei profitti di Amazon dall’inizio della pandemia non lo esonera dal rispettare i fondamentali principi legali dei lavoratori”.




Un vocabolario inquinato

Un vocabolario inquinato

Più di 1.200 dipendenti di Google hanno firmato una petizione in favore di Timnit Gebru, e altri 1.500 ricercatori e scienziati del settore le hanno espresso la propria solidarietà. Il suo licenziamento? Per aver scoperto come si alterano i bot nella rete.

“Ma ci ritroviamo con un ecosistema che forse ha incentivi che non sono i migliori per il progresso della scienza per il mondo”. È il commento di Emily M. Bender, professore di linguistica computazionale all’Università di Washington. Il docente ha collaborato con Timnit Gebru, fino a qualche giorno fa responsabile della sezione etica di Google, a un report sulla struttura e gli effetti dei grandi database semantici, in sostanza quei vocabolari digitali che permettono ai bot di parlare e di scrivere sostituendosi agli umani in svariate attività, fra cui anche il giornalismo.

Una ricerca molto delicata che tocca uno dei principali componenti del fatturato del principale motore di ricerca del mondo. Talmente delicata che è costata il posto alla Gebru.

Come sempre l’estromissione di un dirigente di primo livello, quale era la responsabile etica di tutto Google, dal Big Tech, sempre ossessionato dal segreto, è sempre avvolta dal mistero e dal tentativo di delegittimare il dipendente. 

Queste confraternite digitali, che reclamano trasparenza all’esterno ma che al loro interno si comportano con le ritualità da setta di templari, come ha descritto il libro di Dave Eggers Il Cerchio e come ha aggiornato proprio in questi giorni il nuovo reportage sul clima della Silicon Valley di Anna Wiener La valle oscura, non permettono alcuna circolazione di informazioni su quanto stanno preparando e soprattutto sulle relazioni interne fra i vari comparti. 

Timnit Gebru, una giovanissima scienziata della rete, meno di quarant’anni, di origine eritrea, esperta di bias del data mining, in sostanza delle forme di discriminazione indotte dall’uso dei dati nelle bolle di Internet, è giunta a Google già con l’aura del talento per i suoi studi sulle forme d’uso sociale discriminatorio insite nelle tecniche del riconoscimento facciale. 

Messa a capo del comitato etico, doveva integrare, e garantire, che le produzioni di intelligenza artificiale, applicate ormai ordinariamente al linguaggio automatico, non contenessero appunto contenuti o modalità che potesse colpire questa o quella classe socioculturale. 

Improvvisamente, la tempesta. Lo scorso 2 dicembre, dopo un fitto scambio di tweet, durato almeno due settimane, con Jeff Dean, il potentissimo capo dell’intelligenza artificiale della conglomerata di Mountain View, la stessa Gebru annuncia di essere stata licenziata. 

Una procedura assolutamente inconsueta a quei livelli, siamo nel cerchio più prossimo agli dei di Google, i due dioscuri che hanno fondato l’impero: Larry Page e Sergey Brin.

Stiamo parlando di trattamenti economici a sei zeri in dollari, con valigiate di stock options.

Timnit Gebru da MIT Technology Review

Di solito si trovano modalità più consensuali, per accompagnare all’uscita l’indesiderato. Con la Gebru si è tornati alle tecniche del padrone delle ferriere. La causa è stata svelata dalla MIT Technology Review, un altro gigante del settore, edito dal mitico centro universitario di Boston, che ha pubblicato il documento su cui la Gebru insieme ad altri ricercatori stava lavorando. Si tratta, come ha confermato proprio il professor Bender di Washigton, di una ricerca estremamente circostanziata sui robot del linguaggio, quelli che fanno parlare gli assistenti come Alexa o Siri, e cominciano a sostituire funzioni professionali come i giornalisti e gli stessi medici.

Per far parlare automaticamente questi software come se fossero umani bisogna processare quantità poderose di dati e elaborare algoritmi complessissimi. In questo ginepraio di intelligenza artificiale, aveva svelato la Gebru con il suo team di ricercatori, si annidano trappole pericolosissime per la convivenza sociale, come bias confermative, che incoraggiano radicalizzazioni estreme delle opinioni, o discriminazioni valoriali sia di natura etnica che sessuale. Sono sottilissimi meccanismi che agiscono alla base di queste infinite piramidi cognitive che elaborano e imparano linguaggi e ragionamenti. Se all’origine di un meccanismo automatico, che agisce per sviluppi esponenziali, quale è appunto un agente intelligente, si alterano le matrici dei valori di base, ad esempio il concetto di buono o di grande, viene stravolto a valle l’intero risultato operativo. La Gebru ha documentato e ricostruito il motore di questa manipolazione, intendendola in una prima fase solo come un rischio, e per tanto segnalandola alla comunità dei programmatori come cautela e richiamo per una corretta realizzazione dei dispositivi.

Ma evidentemente Google intendeva il concetto di rischio non come eventualità di un errore dei propri data base semantici, ma come minaccia al proprio fatturato. Infatti il responsabile del comparto di Intelligenza artificiale del gruppo, Dean, che dipende direttamente dal capo operativo assoluto che è l’indiano, esperto appunto di intelligenza artificiale, Sundar Pichai, non ha perso tempo e ha cominciato a bombardare la Gebru di email e messaggi per ingiungerle di ritirare prima il documento e poi almeno la sua firma. Un ordine che, se eseguito, avrebbe distrutto l’immagine e la reputazione di una scienziata che basa la sua identità sulla trasparenza scientifica e sull’etica gestionale. E infatti la Gebru ha resistito fino al licenziamento.

Più di 1.200 dipendenti di Google di ogni ordine e grado hanno firmato una petizione in favore della Gebru, e altri 1.500 ricercatori e scienziati del settore le hanno espresso la propria solidarietà. Il nodo non è certo di poco conto, soprattutto in un momento in cui Google, sia negli USA sia in Europa, è sotto tiro per la sua azione di distorsione del mercato e di manipolazione dei dati. Ma in ballo c’è qualcosa di più grande. Anche grazie alla pandemia, siamo alla vigilia di un nuovo salto acrobatico del sistema digitale, dove connettività e potenza di calcolo stanno impennandosi per portare forme di intelligenza non umana a sostituire in funzioni discrezionali l’attività umana. È evidente che se tutto questo si basa su un’artigianale e meccanica selezione di valori e contenuti che rispecchiano la volontà di un proprietario o anche solo di un programmatore cade tutta l’impalcatura che sostiene il processo di digitalizzazione della nostra vita, e conseguentemente le incalcolabili fortune economiche che si stanno accumulando.

Tanto più che, ad esempio, l’Unione europea sta elaborando un nuovo Digital Act che mira a mutare il modello industriale basato sull’intensità innovativa di singole aziende e a favorire la circolarità e la trasparenza di algoritmi e database. Lo stesso si sta proponendo nel cuore di professioni come il giornalismo o la sanità, dove sistemi di intelligenza artificiale si accostano e poi tendono a sostituire i singoli operatori artigiani. Il 64 per cento delle testate europee, ha documentato una ricerca dell’Ordine nazionale dei giornalisti, condotta con l’Università Federico II, che io stesso ho coordinato, sta investendo in sostituzione di redattori con bot. Il caso Gebru ci dice come sia oggi possibile e necessario intervenire direttamente nel controllo e riprogrammazione dei sistemi di calcolo, aprendo finalmente le scatole nere che confiscano dati e informazioni preziosissime perfino per la stessa strategia di contrasto al virus.

Timnit Gebru per Google, così come fece Christopher Wylie per Cambridge Analytica, e prima di loro Eduard Snowden per la trasparenza dei dati pubblici, ha aperto una strada che non potrà rimanere deserta se vogliamo davvero civilizzare il mondo tecnologico e arrivare a non avere più bisogno di eroi o di vittime sacrificali della libertà nella rete.




Pinkwashing: tra aziende che ci credono e furbi lavaggi di coscienza

Pinkwashing: tra aziende che ci credono e furbi lavaggi di coscienza

Qualcuno di voi potrebbe aver sentito parlare del pinkwashing, in riferimento a strategie di marketing ma anche di politica, pur non avendo le idee chiarissime su cosa il concetto indichi o significhi.

Proviamo a fare ordine, cercando anche di comprendere perché spesso se ne parli come di un tentativo, per alcuni, di “lavarsi la coscienza”.

Pinkwashing, cosa significa?

Nata dalla crasi tra pink“, rosa, e “whitewashing“, ovvero imbiancare o nascondere, questa parola è stata inizialmente usata per scopi nobili, da un’associazione per la lotta contro il cancro al seno, al fine di identificare e smascherare la aziende che lucravano sulla malattia, fingendo di dar sostegno alle malate per trarre profitto.

Da lì ha finito con il comprendere, in un senso più ampio, la promozione di un prodotto o di un ente con un atteggiamento di apparente apertura nei confronti di alcuni temi o campagne, come quella dell’emancipazione femminile o del mondo gay; per questo motivo una simile tecnica è spesso identificata anche con un termine più specifico, rainbow washing.

Storia del pinkwashing

Impossibile non notare le somiglianze tra il pinkwashing e il greenwashing, da cui ha preso dinamiche e tecniche, e con cui condivide le critiche; il greenwashing , infatti, è la medesima tecnica di comunicazione finalizzata alla costruzione di un’immagine ingannevolmente positiva di sé e della propria mission, stavolta sotto il profilo dell’impatto ambientale.Continua a leggere dopo la pubblicità

Anche il pinkwashing, utilizzato come detto per sbugiardare campagne pubblicitarie che usavano la lotta contro il cancro al seno per i propri guadagni, proponendo i prodotti contrassegnati dal fiocchetto rosa, è nato, come l’omologo “green”, come critica, per cercare di far comprendere quanto le azioni di queste aziende non fossero mosse da effettivi interessi scientifici ma unicamente allo scopo di catturare l’attenzione di un determinato target, sensibile al tema, il quale, naturalmente, finiva, al momento dell’acquisto, con il preferire i prodotti di quel particolare brand, percependolo appunto impegnato in un’attività lodevole.

In particolare, il termine è stato coniato nei primi anni Duemila dall’associazione Breast Cancer Association, la cui principale attivista, Barbara Brenner, è morta nel 2013, non senza aver condotto una battaglia serrata contro la mercificazione della malattia; proprio lei, a San Francisco, fu l’ideatrice del progetto Think Before You Pink, proprio per rispondere al sempre maggior numero di prodotti contrassegnati con il nastro rosa, venduti appunto con la promessa di raccogliere fondi e sensibilizzare sul tumore al seno.

Molti brand statunitensi, soprattutto nell’ambito della cosmesi, infatti, avevano approfittato della particolare sensibilità al problema per tacere il fatto che alcuni degli ingredienti dei loro prodotti contenessero sostanze chimiche spesso associate all’insorgenza del cancro, regalando prodotti di make-up alle malate oncologiche per mostrare la propria magnanimità e vicinanza.

Oggi il pinkwashing trova un ulteriore prolungamento, stavolta sul versante femminista, nel commodity feminism, per cui le cause tipiche del femminismo vengono fatte proprie da aziende che le svuotano del loro significato mercificandole, non facendo in realtà altro che confermare stereotipi di genere e standard di bellezza che, all’apparenza, affermano di voler combattere. Il concetto è ben spiegato in questo post di lotta.femminista.

 

 
 
 
 
 
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Esempi di pinkwashing nel marketing

Sono molte le aziende che credono nella tecnica del washing, sia esso pink, rainbow, purple o green che dir si voglia; in generale, sembra che la strategia usata da molte di loro vada di pari passo con quelle che sono le tematiche di più stretta attualità, ed è per questo che, negli anni, abbiamo assistito alle varie “colorazione” del washing.Continua a leggere dopo la pubblicità

Un esempio su tutti, quantomai recente, riguarda la questione LGBT, con sempre più brand che, in occasione ad esempio dei Gay Pride, “rivestono” le confezioni dei propri prodotti con l’arcobaleno simbolo della comunità, per mostrare il proprio lato gay friendly e la vicinanza ideale alle lotte antidiscriminazione da essa portate avanti.

Quanto ci sia di strategia e quanto di reale coinvolgimento nella causa, ovviamente, non ci è dato saperlo; possiamo però affermare, senza alcun dubbio, la lontananza da una volontà di fare rainbow washing di Guido Barilla quando, nel 2013, affermò

Non faremo pubblicità con omosessuali perché a noi piace la famiglia tradizionale. Se i gay non sono d’accordo, possono sempre mangiare la pasta di un’altra marca.

Sancendo, in questo modo, una presa di posizione di distanza netta dalla questione, con tutte le accuse e le critiche del caso che piovvero su di lui e sull’azienda italiana; presa di posizione poi (opportunamente) rivista, non si sa se per un improvviso cambio di opinione in merito, o se per una strategia acclarata di pinkwashing. Fatto sta che oggi Barilla è addirittura ai primi posti nella classifica della Human Right Campaign, associazione per i diritti degli omosessuali che stila ogni anno il Corporate equality index.Continua a leggere dopo la pubblicità

Ma un altro esempio celebre di pinkwashing è quello attuato dal colosso di moda low cost Primark, che nella primavera del 2018, a pochi mesi dal Pride, ha lanciato una collezione chiamata proprio “Pride“, destinata al mercato europeo e statunitense, dichiarando che il 20% dei proventi sarebbe stato destinato a Stonewall, l’associazione di beneficenza britannica per i diritti LGBT che prende il nome dai famosi moti del 1969 che sancirono l’inizio delle rivendicazioni LGBT.

Ignorando volutamente di considerare che i capi della collezione erano prodotti in Turchia e Myanmar, Paesi in cui i diritti delle persone LGBT sono a dir poco sottovalutati, l’iniziativa di Primark fu aspramente criticata dalla comunità perché proprio Stonewall non solo non figurava tra gli organizzatori dei Pride di quell’anno, ma aveva anche fatto sapere che non avrebbe partecipato al Pride di Londra.

In sostanza, i detrattori sostennero che Primark, al solo scopo di farsi pubblicità, aveva usato il nome di Stonewall in quanto più conosciuto, quando invece, se davvero avesse voluto fare qualcosa di concreto per il mondo LGBT, avrebbe potuto destinare la percentuale dei proventi ad altre associazioni locali, meno note ma più coinvolte in prima linea nell’organizzazione del Pride.

Pinkwashing e politica: la contraddizione di Israele

pinkwashing

Il pinkwashing non è una strategia sconosciuta neppure in ambito politico, con alcuni esempi davvero eclatanti come, ad esempio, quello dello Stato di Israele, Paese estremamente gay friendly e, in quanto tale, considerato una vera e propria eccezione nel Medio Oriente, generalmente chiuso nei confronti dell’omo o transessualità, ma lacerato da una profonda contraddizione interna di cui andremo a parlare.

La svolta pro LGBT, per Israele, arriva nel 1993, quando lo Stato permette per la prima volta alle persone facenti parte di questa comunità di iscriversi al servizio militare, e prosegue poi con l‘eliminazione della legge sulla sodomia, cinque anni più tardi.

Nel medesimo anno, il 1998, la Corte Suprema israeliana stabilisce che settore pubblico e privato debbano garantire io medesimi benefici sociali ai coniugi dello stesso sesso, mentre nel 2005 è tra i primi Paesi a riconoscere tutti i matrimoni omosessuali celebrati all’estero.

Come si è giunti a determinati traguardi? Molto dipende da alcuni episodi accaduti proprio nello Stato, come l’accoltellamento delle sei persone al Pride di Gerusalemme del 2005, da parte di un ultraortodosso, o dell’invito, un anno dopo, da parte di un attivista di estrema destra a cominciare una “guerra santa” contro le persone queer.

È però l’uccisione, nel 2009, di due adolescenti partecipanti al Gay Pride a stabilire un vero giro di boa, con Simon Peres, ai tempi presidente di Israele, e Benjamin Netanyahu, allora ministro per la strategia economica e l’uguaglianza sociale, che parlarono di “national loss”, perdita nazionale, e diedero il la alla campagna Brand Israel, trasformando di fatto il Paese in un posto ideale in cui si combatte per i diritti di tutti, in una cultura cosmopolita e accogliente. Ma il marchio servì soprattutto per liberarsi dall’immagine di Paese guerrafondaio, reputazione ricevuta soprattutto dopo l’intervento militare in Libano del 2006, che ne lese l’immagine fuori dai confini nazionali.

In questa rinnovata veste, Brand Israel ha incluso quindi il turismo gay friendly, con il lancio della campagna Tel Aviv Gay Vibe nel 2010, che offre viaggi scontati e attività gratuite ai turisti LGBT.

In una regione in cui le donne vengono lapidate, i gay vengono impiccati e i cristiani perseguitati, Israele si distingue. È diverso.

Dichiarò Netanyahu nel 2011, di fronte al Congresso degli Stati Uniti. Peccato che la profonda contraddizione che riguarda Israele e il grande rispetto per i diritti di tutti riguardi soprattutto i palestinesi, la cui tutela viene sistematicamente ignorata, indipendentemente dall’orientamento sessuale. Se i palestinesi LGBT lottano contro l’omofobia, al contempo devono farlo anche contro l’occupazione e la discriminazione da parte dello Stato israeliano, che non lo riconosce, e con cui ha un conflitto aperto da più di settant’anni.Continua a leggere dopo la pubblicità

Il pinkwashing israeliano cerca quindi di mascherare gli sfollamenti, le espropriazioni e la privazione dei diritti ai palestinesi, che gli hanno anche consentito di poter costruire quel “paradiso gay” che è diventata negli anni.

Altre tecniche politiche sono quelle che la professoressa di studi di genere Jasbir Puar ha descritto nel libro Terrorist Assemblages: Homonationalism in Queer Times (Assemblaggi terroristici: l’omonazionalismo in tempi queer) utilizzando il termine omonazionalismo, con cui intende la strategia, applicata negli USA, di tutelare i diritti delle persone LGBT, sottolineandone accettazione e tolleranza, al fine di inglobare le minoranze sessuali in un nazionalismo in cui il Paese di appartenenza finisce con l’essere visto come il solo in grado di dare difesa dei diritti e libertà.

Allo stesso tempo, i cittadini musulmani vengono rappresentati come “gli altri”: intolleranti, arretrati, incapaci di integrarsi nella società liberale e ultimamente una minaccia per la cultura democratica. Forti del sostegno al matrimonio gay e alla partecipazione dei cittadini LGBTQIA alle forze armate, questi stessi cittadini si percepiscono come legittimati dallo stato e ciò facilita ciò che Puar definisce “eccezionalismo”, ovvero un senso di superiorità e singolarità che nasce dal vedersi come tutori della democrazia e dei diritti umani.

Pinkwashing e rainbow washing

Come abbiamo visto, gran parte della strategia di pinkwashing attuale finisce con il focalizzarsi sul tema omofobia, cercando di accattivarsi il target LGBT. Proprio in questo senso, l’operazione di promozione di un prodotto in chiave gay friendly, indirizzato a consumatori open-minded, viene spesso indicata col termine più specifico di rainbow washing, e in questo senso il pinkwashing viene riservato esclusivamente alla dinamica dell’emancipazione femminile.

Poiché è la stessa comunità LGBT a farne uso, si può tuttavia dire che il termine pinkwashing sia sinonimo di rainbow washing.

L’ultima domanda che ci poniamo è questa: è davvero tutto sbagliato? In fondo, secondo la logica del “bene o male, purché se ne parli” e del fatto che se non sei rappresentato, allora non esisti (neppure in pubblicità) si potrebbe comunque considerare il pinkwashing come un mezzo per porre l’accento su tematiche che, altrimenti, finirebbero irrimediabilmente con l’essere ignorate. Vi proponiamo la riflessione conclusiva di Elisa Ghidini in un articolo per Ultimavoce:

[…] Se negli anni Novanta la pubblicità rappresentava essenzialmente uomini bianchi di mezza età e in camicia, con una moglie giovane e avvenente in cucina e bambini sorridenti con i boccoli biondi, oggi le cose stanno gradualmente cambiando. La realtà è questa: se non sei rappresentato, è come se non esistessi. Anche nella pubblicità, sia essa pinkwashing o meno.

Si può fare buon uso quindi anche di uno strumento come il marketing, con la consapevolezza che si rimane comunque all’interno di logiche capitalistiche. Magari un minimo di quel messaggio positivo verrà assorbito anche da chi guarda e non compra . Se poi si tradurrà invece in acquisto, quel messaggio sarà stato funzionale al capitalismo stesso. Ma, forse, con maggiore consapevolezza. C’est la vie.




L’anima di una start-up

L’anima di una start-up

C’è qualcosa di essenziale e di intangibile nelle start-up – un’energia, un’anima. I fondatori delle aziende ne avvertono la presenza. L’avvertono anche i dipendenti e i clienti. Quel qualcosa induce le persone a metterci il loro talento, i loro soldi e il loro entusiasmo, e promuove un senso di profonda connessione e di finalità comune. Finché questo spirito permane, il coinvolgimento è elevato e le start-up rimangono agili e innovative, a tutto beneficio della crescita. Ma quando scompare, le iniziative imprenditoriali possono perdere slancio, e tutti percepiscono la perdita – nel senso che è venuto meno qualcosa di speciale. La prima persona che ho sentito parlare dello “spirito di una start-up” era il CEO di un’azienda della classifica Fortune 500, che stava cercando di ricostruirlo nella sua organizzazione. Molte grandi aziende intraprendono iniziative di “ricerca e recupero” come questa, che riflettono una verità spiacevole: man mano che un’azienda matura, è difficile che tenga vivo il suo spirito originario. Fondatori e dipendenti confondono spesso l’anima con la cultura, e in particolare con l’etica libertaria di gente che lavora tutta la notte, job description flessibili, magliette, pizza, bibite gratis e un ambiente familiare. Notano quello spirito particolare e ne parlano in tono nostalgico solo quando non c’è più. A volte gli investitori calpestano la base psicologica di un’azienda, spingendola a “professionalizzarsi” e a snaturarsi per rispondere alle esigenze del mercato. E le organizzazioni che tentano di ricostruire una “mentalità imprenditoriale” tendono ad adottare un approccio superficiale, che affronta le norme comportamentali ma non va a incidere su ciò che conta veramente.

Nel decennio scorso ho studiato più di una dozzina di aziende in rapida crescita, effettuando più di 200 interviste con i loro fondatori e con i loro dirigenti, nel tentativo di capire meglio questo problema e come si può superare. Ho scoperto che mentre molte aziende faticano a mantenere lo spirito originario, la creatività, l’innovatività e lo slancio iniziale, alcune sono riuscite a farlo molto efficacemente, mantenendo così solide relazioni con gli stakeholder e assicurando la continuità e il successo delle loro iniziative imprenditoriali. Di conseguenza imprenditori, consulenti e studiosi come me enfatizzano spesso l’esigenza di implementare strutture e sistemi man mano che cresce l’azienda, relegando in secondo piano la necessità di conservarne lo spirito. Possiamo e dobbiamo concentrarci su entrambi gli aspetti. Con impegno e determinazione, i leader possono sostentare e proteggere la vera essenza delle loro organizzazioni.

Alla ricerca dello spirito organizzativo

Come si poteva immaginare, investitori e fondatori sembrano avere idee diverse sull’anima delle start-up. Nella mia ricerca ho scoperto che alcuni executive di società di VC e di private equity tendevano a considerarla un concetto illusorio o irrilevante. Si concentravano invece sull’applicazione del management professionale e della disciplina di processo alle aziende che avevano in portafoglio.

Quasi tutti i fondatori, per contro, erano convinti che le loro start-up andassero un po’ al di là delle missioni, dei modelli di business e del talento, anche se non erano in grado di dire esattamente in cosa consistesse quel “di più”. Per esempio, nel suo libro Onward, Howard Schultz descriveva lo spirito di Starbucks in questi termini: “I nostri punti vendita e i nostri partner [i dipendenti] danno il meglio di sé quando mettono a disposizione un’oasi, ossia creano un senso edificante di benessere e di connessione, e mostrano un profondo rispetto per il caffè e per le comunità che serviamo”. Ho intervistato un altro fondatore che identificava nella “lealtà verso i clienti e verso l’azienda l’essenza principale” di ciò che rendeva eccellente la sua azienda. Un terzo neoimprenditore definiva quell’essenza “una finalità condivisa, costruita intorno a un obiettivo audace e a una serie di valori comuni”. I primi dipendenti mi hanno detto di identificarsi profondamente nelle imprese per cui lavoravano: provavano ciò che Sebastian Junger, nel suo libro Tribe, chiama “lealtà, senso di appartenenza e l’eterna ricerca di significato che caratterizza gli esseri umani”.

Mi sono convinto perciò che queste persone, che conoscevano le proprie aziende meglio di chiunque altro, avessero scoperto davvero qualcosa. In tutte le tradizioni spirituali, l’anima umana viene definita spesso “il vero sé”. Per gli indù è l’atman. Per gli ebrei è la neshama. Mentre i teologi cristiani e i filosofi occidentali hanno dibattuto a lungo sull’esistenza e sulla natura dell’anima, molti credono che esista veramente e che sia eterna. Le decine di fondatori e dipendenti di start-up che ho intervistato la pensavano nello stesso modo, certi com’erano che le loro organizzazioni avessero un “vero” sé in cui si intrecciavano tutti gli stakeholder.

Dimensioni dell’anima

Ho iniziato a domandarmi se non si potessero catalogare gli elementi specifici di quest’anima che coinvolgevano gli stakeholder e favorivano il successo di un’iniziativa imprenditoriale. Mi chiedevo, in altre parole, quali aspetti di una start-up devono veramente preservare i leader man mano che cresce l’azienda.

Le mie indagini si sono appuntate su tre elementi che si combinano per creare un contesto lavorativo unico e stimolante: business intent, connessione con i clienti ed esperienza offerta ai dipendenti. Non sono semplicemente norme culturali finalizzate a influenzare il comportamento. I loro effetti scendono più in profondità, e innescano un tipo diverso, più intenso, di impegno e di performance. Danno significato al lavoro, rendendolo relazionale anziché meramente transazionale. I dipendenti si appassionano a un’idea galvanizzante, al concetto di servizio agli utilizzatori finali e alle gratificazioni distintive e intrinseche della vita lavorativa. Le persone sviluppano legami emotivi con l’azienda, e quei legami infondono energia nell’organizzazione.

Business intent. Tutte le aziende imprenditoriali che ho studiato avevano una finalità che le animava. Questo business intent nasceva di solito dall’imprenditore, che lo comunicava ai dipendenti per convincerli ad accettare posti sicuri in cambio di orari prolungati e di una paga relativamente bassa. Anche se tanti fattori – inclusa la prospettiva di un lauto guadagno con la rivalutazione delle azioni – avevano indotto le persone che ho intervistato ad andare a lavorare in quelle aziende, manifestavano tutte un desiderio più nobile di “fare la storia” in qualche modo, di partecipare a qualcosa di più grande. Volevano costruire imprese che migliorassero la vita della gente cambiando il modo in cui prodotti o servizi venivano creati, distribuiti o consumati. Molte aziende definiscono la propria missione o il loro perimetro di attività, ma l’intento che ho scoperto andava oltre, e veniva ad assumere un significato quasi esistenziale – una vera e propria ragion d’essere.

Considerate Study Sapuri, un’impresa giapponese nata nel 2011 all’interno del colosso multimiliardario di servizi integrati per la gestione delle risorse umane Recruit Holdings. Nel tentativo di rilanciare il business declinante della formazione, Fumihiro Yamaguchi, all’epoca un dipendente assunto da poco, ha ideato un sito web che avrebbe dovuto aiutare gli studenti dando loro libero accesso allo studio di guide per gli esami universitari. Quando ha presentato il progetto a un gruppo interno incaricato di lanciare nuove iniziative, ha spiegato che il sito avrebbe affrontato il problema dell’ineguaglianza educativa in Giappone consentendo a un maggior numero di persone di accedere a materiali di apprendimento – un intento che si armonizzava bene con la missione storica di Recruit Holdings: creare nuovo valore per la società.

Da quando è nata, Study Sapuri ha continuato a evolversi, ma sempre nel rispetto del suo intento originario. Ha commercializzato i suoi servizi, tra l’altro, come corsi di preparazione al college e come strumento per i corsi di recupero dei licei, e ne ha ampliato i contenuti fino a includere materiali didattici per le scuole elementari e medie. Nell’aprile 2015, tramite la casa madre, ha acquisito Quipper, che offriva servizi analoghi principalmente nei mercati del sudest asiatico. Il fondatore di Quipper, Masayuki Watanabe, ha detto di apprezzare l’operazione anche per l’intento di Study Sapuri: «Noi eravamo convinti che l’apprendimento sia un diritto e non un privilegio. Condividevamo la stessa visione». I migliori talenti la pensavano allo stesso modo. «Mi attirava l’idea di risolvere questi problemi», mi ha detto un dipendente. «Volevo venire a lavorare qui per offrire del valore effettivo ai clienti; gli utenti e i loro genitori possono rendersi veramente conto che la loro preparazione accademica sta migliorando». All’inizio del 2019, Study Sapuri era ormai un brand primario del business educativo di Recruit, con 598.000 abbonati.

Connessione con i clienti. Anche uno stretto legame con i clienti aveva un ruolo di primo piano nelle aziende di successo che ho studiato. Fondatori e dipendenti capivano perfettamente i punti di vista e i bisogni delle persone a cui si rivolgevano i loro prodotti e i loro servizi, e si sentivano personalmente connessi a loro, in un modo che ne liberava l’energia e la creatività. All’inizio, Nike mandava i suoi venditori – soprannominati Ekin perché dovevano conoscere i prodotti dell’azienda dall’A alla Z – in giro per gli Stati Uniti, non solo per presentare i modelli agli acquirenti, ma anche per raccogliere indicazioni da essi e riportare quelle informazioni al quartier generale. Molti Ekin, incluso il fondatore e allora CEO Phil Knight, erano così attaccati al brand da farsi tatuare sui piedi o sulle gambe il suo ormai iconico swoosh.

Nel colosso globale dell’asset management BlackRock, la missione è sempre stata migliorare la vita finanziaria dei clienti prevedendo flessibilmente i trend di mercato e minimizzando il rischio per mezzo di una piattaforma operativa computerizzata. E il cofondatore e CEO Larry Fink sottolinea ripetutamente la relazione insolitamente stretta che l’azienda intrattiene con i suoi clienti. Una tipica espressione di questo impegno è la decisione che prese fin da subito impegnando BlackRock a non fare trading in proprio. Altri fondi fanno questo tipo di trading, che è spesso estremamente redditizio, ma può determinare un conflitto di interessi. «La tentazione è fortissima», ha spiegato Fink. «Ma poi non possiamo più dire di essere fiduciari dei clienti».

La focalizzazione di Black Rock sui clienti ha conferito all’azienda un vantaggio competitivo, permettendole di attrarre più asset, oltre a diventare un urlo di guerra per il personale. «Non possiamo avere una conversazione senza parlare di clienti, perché sono l’unica cosa che conta», ha detto un dipendente. Un altro collaboratore di BlackRock ne ha messo in luce l’empatia: «Nel momento in cui capiamo veramente cosa vogliono e di cosa hanno bisogno i clienti, allora possiamo applicare la nostra expertise». Un terzo ha accennato all’idea «veramente semplice e chiara» di «aiutare persone reali … a costruire un futuro finanziario migliore». E un’indagine recente sul clima interno, più dell’80% dei dipendenti di BlackRock hanno detto di voler andare al di là dei requisiti-base delle proprie mansioni.

Esperienza offerta ai dipendenti. La mia ricerca ha fatto emergere una terza dimensione dell’essenza intangibile della start-up, una dimensione che concerne l’esperienza lavorativa in quanto tale. Ciò che distingueva le giovani imprese di successo non era una cultura “divertente” o “stravagante”, come vorrebbe lo stereotipo, ma piuttosto la creatività e l’autonomia inusuali che i dipendenti incontravano nel lavoro, che promuovevano un maggior coinvolgimento e risultati migliori. Dopo aver esplicitato il proprio business intent ed enfatizzato la connessione con i clienti, i leader lasciavano alle persone quella che ho chiamato “libertà all’interno di uno schema di riferimento” – la libertà di operare entro confini ben delimitati – e la possibilità di influenzare decisioni critiche, come quelle sulle strategie da perseguire o sui prodotti da sviluppare. Avendo sia “voce in capitolo” sia “libertà di scelta”, i dipendenti apprezzavano maggiormente il proprio lavoro e si sentivano più legati ai colleghi e all’azienda.

La catena di negozi di occhiali Warby Parker enfatizza l’esperienza offerta al personale fin dalla sua fondazione, avvenuta nel 2011. I collaboratori dovrebbero pensare con la propria testa, e l’azienda cerca persone capaci di autogestirsi. Nessuno ha bisogno di «incontrare ogni giorno un capo» per fare il suo lavoro, mi ha detto un dirigente. Autoespressione e input creativo sono apprezzati; i lavoratori non sentono il bisogno di autocensurarsi. Il cofondatore Neil Blumenthal ha creato anche un sistema di “iniziative” in cui i dipendenti presentano le loro idee tecnologiche su base trimestrale, e un premio assegnato trimestralmente – il Blue-Footed Booby Award – celebra quelli che esemplificano con il proprio comportamento i valori a cui si ispira l’azienda.

Ho scoperto che molte altre aziende hanno programmi strutturati per dare ai dipendenti voce in capitolo e libertà di scelta. I fondatori di un’azienda imprenditoriale, che aveva oltre 500 addetti e cresceva rapidamente, assegnavano tutti i nuovi assunti a team di cinque persone e chiedevano a ogni team di dedicare tre mesi a costruire un business potenzialmente in grado di distruggere uno dei business preesistenti. Poi i partecipanti potevano decidere se continuare a lavorare su quell’idea o assumere un’altra posizione all’interno dell’organizzazione. Molti dei nuovi business lanciati dall’azienda erano frutto di questo programma.

Come muore l’anima dell’organizzazione

In alcune imprese che ho studiato, lo spirito della start-up si è eroso nel tempo per gli interventi degli investitori e/o per le azioni dei leader – che o non capivano bene di cosa si trattava, o non ne apprezzavano l’utilità man mano che perseguivano la crescita. Li mettevano su questa strada pericolosa prima l’esigenza di sopravvivere e poi le pressioni per far crescere il business.

Le aziende giovani entrano spesso in una fase di espansione incontrollata. I loro leader possono diventare estremamente tattici e cambiare rapidamente e ripetutamente direzione, il che va benissimo se il business intent sottostante rimane invariato e continua a essere comunicato. Ma al di fuori di questa ipotesi, la continua rifocalizzazione dei leader potrebbe essere problematica. Possono innamorarsi talmente dei loro prodotti e dei loro servizi, e lasciarsi ossessionare così tanto dall’obiettivo di generare liquidità, da smettere di ascoltare clienti e dipendenti, e di restare in sintonia con loro.

Le start-up tendono effettivamente a fallire se non instillano disciplina e ordine nel proprio modo di operare man mano che crescono. Come hanno dimostrato la mia ricerca e quelle di altri, devono introdurre sistemi e processi formali, e assumere manager professionali. Questi cambiamenti possono essere enormemente produttivi se vengono messi in atti ponderatamente, con l’input di tutti gli stakeholder iniziali, la piena esplicitazione del business intent, e ferme restando la connessione con i clienti e l’esperienza offerta ai dipendenti. Ma c’è il pericolo che la maggior burocrazia e il “sangue nuovo” creino nei dipendenti un senso di soffocamento, indispongano i clienti e facciano venir meno lo spirito imprenditoriale. Ho intervistato parecchi CEO di lungo corso, “esperti nella gestione della fase di crescita”, che erano stati chiamati a sostituire i fondatori di aziende, e pur con le migliori intenzioni, avevano soppresso rapidamente lo spirito originario di quelle imprese.

Nell’azienda indiana di telefonia mobile Micromax, per esempio, nel 2011 i quattro fondatori hanno ceduto il controllo a un gruppo di dirigenti più esperti che hanno professionalizzato la pianificazione strategica, la gestione della supply chain, il management delle risorse umane e altre funzioni. A parere di quasi tutti, quei cambiamenti erano necessari ed efficaci al tempo stesso, visto che hanno prodotto numerosi miglioramenti a livello di performance. Ma c’era uno prezzo da pagare. Molti dipendenti pensavano di aver perso l’accesso ai leader, oltre al contatto diretto con i clienti e a una finalità chiara e ispiratrice – pensavano, in altre parole, che Micromax avesse perso la sua anima. Anche i fondatori si sentivano sempre più a disagio per quei cambiamenti, e nel 2013, quando le tensioni sono esplose, hanno deciso di riprendere in mano le redini dell’azienda. Successivamente hanno trasferito il controllo a un nuovo team di manager esterni – solo per ritrovarsi nella stessa situazione.

Ci vuole spesso una crisi per far notare alla gente che l’anima di un’azienda sta sparendo o è già sparita. Recentemente, sia Facebook sia Uber si sono scusate pubblicamente con i clienti per aver smarrito il proprio spirito iniziale. Nel 2018 centinaia di dipendenti di Google hanno chiesto all’azienda di accantonare il progetto per un motore di ricerca che avrebbe facilitato la repressione dei dissidenti in Cina. “Molti di noi hanno accettato il posto in Google pensando ai suoi valori”, scrivevano in una lettera inviata alla direzione, “incluso l’impegno a mettere i valori al di sopra dei profitti”.

Preservare l’anima

Si può trovare un punto di equilibrio in cui aziende dinamiche ad alta crescita aggiungono al proprio mix di fattori struttura e disciplina pur conservando i tre elementi critici che forniscono significato.

Mentre progettava il passaggio dalla spedizione per posta di DVD al modello di business successivo, Netflix è passata dalla distribuzione di video alla produzione di film e di serie televisive, esportando il nuovo modello dagli Stati Uniti ai recessi più remoti del mondo. È difficile immaginare che un’organizzazione possa mantenere la propria essenza originaria attraversando dei cambiamenti così profondi. Ma Netflix l’ha fatto, anche perché quelle mosse erano in linea con il suo intento strategico di diventare il miglior distributore globale di intrattenimento e aiutare i creatori di contenuti di tutto il mondo a trovare un pubblico. Ha mantenuto anche la sua promessa di marca – fornire ai clienti un servizio di qualità eccellente, ai fornitori un partner prezioso, agli investitori una crescita profittevole protratta nel tempo, e ai dipendenti la possibilità di avere un grandissimo impatto.

L’azienda ha creato nuove offerte innovative, inclusi contenuti originali di grandissimo successo, pensando costantemente alla sua audience. E ha continuato a offrire ai dipendenti un’esperienza in cui i manager disegnano un contesto organizzativo e operativo molto preciso, e poi lasciano i dipendenti liberi di prendere decisioni informate. Il messaggio è “Noi pensiamo che sappiate fare veramente bene il vostro lavoro”, spiega la chief talent officer Jessica Neal. “Non staremo a dirvi come svolgerlo, ma ci fideremo di voi e vi metteremo in condizione di farlo al meglio”. I selezionatori interni cercano dipendenti adatti a questa cultura e li addestrano a muoversi agilmente al suo interno. E il CEO Reed Hastings e altri leader hanno implementato tutta una serie di politiche, intese a dare ai collaboratori dell’azienda più voce in capitolo e più libertà di scelta. Hanno abolito i limiti alle ferie, sostituito regole formali di gestione del personale con direttive di normale buon senso, incoraggiato il feedback sincero e democratizzato il processo decisionale. «Le idee vengono presentate in conversazioni con tutti», mi ha detto la Neal.

Come altre start-up di successo in rapida crescita, anche Netflix è rimasta ostinata e flessibile al tempo stesso nella fase di crescita. In alcune aree ha praticato un agnosticismo radicale, abbandonando o modificando i suoi piani se necessario. Ma quanto a business intent, connessione con i clienti ed esperienza offerta ai dipendenti, ha adottato una linea senza compromessi, rafforzando e proteggendo questi elementi fondamentali nel corso del tempo. Ha cercato di proteggere preventivamente la propria anima.

Anche se uno dei tre elementi-chiave dell’anima di una start-up si è sgretolato, le aziende possono risolvere ugualmente il problema. Vediamo più in dettaglio il programma delle iniziative di Warby Parker. Mentre la catena incrementava gli organici e aggiungeva nuovi livelli di management, i suoi leader parlavano di “mantenere uno spirito da piccola impresa”. Ma gli ingegneri informatici dell’azienda, che a suo tempo avevano contribuito alla scelta dei programmi a cui dare la priorità, adesso si limitavano a eseguire i compiti loro assegnati. Per risolvere il problema e ricreare la vecchia esperienza offerta ai dipendenti, l’azienda ha messo a punto il programma “Warbles”, che permette agli ingegneri di suggerire e sostenere nuove iniziative tecnologiche, come modificare pagine web e migliorare l’iter di processazione degli ordini, che vengono poi esaminate e votate dal senior management. Il programma enfatizza anche l’intento strategico. «Per ogni iniziativa che viene proposta, chiediamo alle persone di stabilire dei parametri di misurazione coerenti con i nostri obiettivi strategici», mi ha detto il cofondatore Dave Gilboa. E benché i progetti vengano classificati in base al numero di voti ricevuti, gli ingegneri possono decidere di perseguirne uno qualunque tra quelli in elenco se pensano che sia in linea con le loro priorità e pensano che possa generare il massimo valore. «Se è un nuovo lavoro che vogliono imparare o una nuova tecnologia, noi gli lasciamo quella libertà», ha chiarito Gilboa. Adam Szatrowski, principal software engineer, ha aggiunto: «È qui che rifulge l’autonomia».

Quando il danno all’anima dell’azienda è particolarmente grave, a volte i fondatori tornano in scena per ricostituirla. Nel 2008, Howard Schulz è tornato a ricoprire il ruolo di CEO in Starbucks perché, come ha spiegato nel suo libro, “aveva la sensazione che mancasse qualcosa di intrinseco al brand Starbucks”. Nei mesi successivi, ha adottato diverse misure per rilanciare lo spirito originario dell’azienda. In particolare, ha organizzato una sessione residenziale in cui i leader hanno riflettuto a tutto campo sul brand e si sono concentrati specificamente sulle relazioni con i clienti. Come ha detto ai suoi più stretti collaboratori, «Gli unici filtri al nostro pensiero dovrebbero essere i seguenti: [l’iniziativa] renderà orgogliosi i nostri dipendenti? Migliorerà l’esperienza dei clienti? Rafforzerà l’immagine di Starbucks nella mente e nel cuore dei nostri clienti?» Settimane dopo, quando ha presentato un piano di trasformazione agli investitori, Schulz ha invocato un ritorno al business intent originario dell’azienda, dicendo: «Ci sono persone tra voi … che hanno creduto nel sogno di un giovane imprenditore – creare un brand nazionale intorno al caffè, e costruire un tipo di azienda con una coscienza sociale … È ora di convincere voi e tante altre persone … a tornare a credere in Starbucks».

SALVAGUARDARE L’ANIMA di un’organizzazione è una parte critica, ancorché poco apprezzata, del lavoro dei fondatori, al pari di aree decisionali non meno critiche come il modello di governance e i frazionamenti azionari. Netflix, Nike, BlackRock, Warby Parker, Study Sapuri e Starbucks hanno prosperato tutte come start-up di successo grazie agli sforzi messi in atto deliberatamente dai loro fondatori per preservare l’alchimia che ne aveva fatto delle grandi aziende imprenditoriali fin dall’inizio. A lungo andare, un’anima forte e ben caratterizzata conquisterà e appassionerà vari stakeholder. Anche quando creano processi formalizzati, disciplina e professionalizzazione, le imprese dovrebbero cercare di preservare la trinità spirituale del business intent, della connessione con i clienti e dell’esperienza offerta ai dipendenti. È il segreto non solo della crescita, ma anche della grandezza.