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* INTERNET CI ASCOLTA ::

Quante volte hai avuto l’impressione che Internet ti ascoltasse?
Succede, non solo a me. Si tratta di Attentional Bias o Internet ci ascolta per davvero?

Conversazioni come questa a me ne capitano di frequente.

Vedo un’amica per pranzo, le racconto che mi sono iscritta a un corso di Corporate Strategy, poi lei vede l’adv su Instagram di un corso simile e pensa che sia colpa della nostra conversazione.

Un’altra legge la mia newsletter, in cui racconto la stessa cosa e così via.

Succede: l’anno scorso nei giorni dopo aver letto un post sul Cammino di Santiago su Instagram, ho visto tanti di quei post sponsorizzati in ogni dove che mi invitavano a saperne di più che sembrava quasi io fossi interessata per davvero.

Succede, non solo a me.

Si tratta di Attentional Bias o Internet ci ascolta per davvero?

Quando dico che ho colleghi belli intendo dire che ne sanno a pacchi. Roberta Sanzani è l’Head of Digital Advertising di Webranking: ho deciso che me lo faccio spiegare da lei.

Come funziona la targetizzazione

«È un mix di cose. Per quanto la tecnologia degli assistenti digitali abbia in potenza la capacità di ascoltarci, no, non è così che veniamo targettizzati dalle piattaforme di advertising», mi spiega Roberta. «Ci sono però altri segnali altrettanto potenti che permettono di arrivare allo stesso risultato: la storia di navigazione, le nostre condivisioni, la tecnologia che utilizziamo, gli acquisti, quello che facciamo con le nostre app, i luoghi che frequentiamo, persino gli interessi delle persone nella nostra cerchia di amicizie e così via. Soprattutto sui social (ma non solo), se un mio contatto si è interessato a un programma formativo e io ho con lui diversi punti di similarità — che non si limitano al semplice socio-demo ma coinvolgono comportamenti e interessi — potrei essere considerato dalla piattaforma un “utente simile”, potenzialmente interessato ai medesimi corsi formativi. Se poi ne ho parlato il giorno prima con amici, la mia attenzione su quel contenuto adv sarà maggiore e nella mia mente scatterà il meccanismo causa-effetto».

Scarichiamo i nostri bisogni

Quando ho scaricato l’app per la spesa online del supermercato dietro casa — la pigrizia non è mai troppa — ho scoperto che non era la sola catena a essersi svecchiata e quando ho cercato un’app di dating, quella famosa, ho scoperto che ne esistevano tante altre e l’ho scoperto perché ne vedevo la pubblicità. Le ho installate tutte, disinstallate pure: e ora sono tornata a vedere solo il retargeting di Booking.

Le query sono espressioni di un bisogno, sento dire spesso.
Quindi se i miei dati raccontano quali sono i miei bisogni sarebbe davvero un problema? No, anzi: potrebbe finalmente avverarsi la profezia di una pubblicità non invadente, non inutile.

Internet ci ascolta per davvero? Attentional Bias e adv

In che modo viene misurata la tendenza che la nostra percezione ha di essere influenzata dai pensieri predominanti o ricorrenti?

Quante volte hai avuto l’impressione che Internet ti ascoltasse?Conversazioni come questa a me ne capitano di frequente, dicevo.
E non solo a me.

Io ho anche un’app per segnare il ciclo — ne parlavo qua — piena di contenuti, ma che raccoglie tanti dati.

Giustappunto il Guardian, parlando della crescita del Femtech, mette in evidenza come i dati raccolti vengano usati — evviva evviva — da tutti un po’. Certo, anche nelle pianificazioni pubblicitarie.

Il video per intero (e tradotto da Internazionale) è qua.

Cosa sono questi dati aggregati?

Informazioni. Utili. Utilissime a chi fa pubblicità.
I sistemi di tracciamento web e mobile, tecnicamente quelli su base pixel e ancora di più attraverso le SDK sulle app dove i sistemi di tracking si integrano praticamente nel sistema operativo, raccolgono dati aggregati sugli utenti che consentono agli sviluppatori di mappare la propria audience. Più è grande il network di siti e di app, maggiore è il numero di informazioni che è possibile ottenere. Del resto, chi non approva qualunque cosa quando fa download di un’app? Io ai miei studenti in aula all’università chiedo sempre: chi ha mai letto i TOS, i termini di servizio, di un social media qualsiasi?
La risposta è sempre al 100% nessuno.

Tra i dati raccolti ci sono i dati di utilizzo, come gli utenti usano i loro dispositivi ovvero: quali siti hanno visitato gli utenti (e fin qui nessuna novità), ma anche i livelli di utilizzo di tutte le applicazioni su cui è installata un’app di tracciamento a cui magari senza leggere i TOS si è data autorizzazione, e quali applicazioni sono installate sul dispositivo. Ecco perché scaricata un’app vedevo la pubblicità di tutte le altre simili.

Appunti sul copy: è un’app per il monitoraggio del ciclo, Benvenuto a chi?
Però Accetta tutto in evidenza funziona: “dimmi cosa fare, tanto non leggo”.

Dunque: io cedo indistintamente, e senza interessarmene troppo, l’autorizzazione ai dati personali, approvando tutti i casi d’uso richiesti (sì anche se li approvo senza leggerli vale uguale) e in cambio, cosa ricevo?

«Più sono accurate le informazioni che lascio alle piattaforme, maggiore sarà la probabilità di ricevere in cambio pubblicità interessante. E, perché no, anche utile», continua a spiegarmi Roberta. «Non so se possa essere una devianza professionale, ma ricordo con piacere che quando iniziai a lavorare nel digitale, agli albori di Facebook, vedevo continuamente corsi dedicati al web marketing. Anche grazie a quegli ads ho scoperto tante opportunità e di conseguenza conosciuto tante persone interessanti che mi hanno permesso di costruire il mio percorso. E senza scomodare temi formativi, potremo fare lo stesso esempio con argomenti più leggeri. Con una adv in target, posso scoprire, senza muovermi da casa, nuovi brand di moda che rispecchiano il mio stile senza vagare alla cieca perdendo tempo prezioso!».

Dal mio punto di vista: un vantaggio.
Ottengo pubblicità mirata al segment of one che sono io.

E ci fosse un privacy-geddon?

«Nell’ultimo anno, il legislatore ha dato molta attenzione a questo tema, soprattutto a causa, o grazie, al caso Cambridge Analytica. Ma è probabilmente più sensibile il legislatore al tema privacy di quanto non lo siano gli utenti stessi», continua Roberta.

Uno studio di Ogury pubblicato su Programmatic Italia rivela che il 66% degli italiani non ha ancora consapevolezza di come vengano usati i propri dati e che il 71% dei consumatori a livello mondiale preferisce condividere i propri dati piuttosto che pagare per servizi che può avere gratuitamente.

«Editori e player della pubblicità digitale, in ogni caso, si stanno interrogando sul tema e attrezzando per evitare un nuovo caso à la Cambridge Analytica. Penso alla nascita delle CMP, Consent Management Platform promosse da IAB, e alle iniziative messe in campo dalla Coalition for Better Ads volte a migliorare la qualità dell’adv. Certo, tutto questo non garantisce al mille per cento che non si verifichi un privacy-geddon, ma gli sforzi e gli investimenti ci sono da parte del mercato pubblicitario. Da parte di noi specialisti dell’advertising, non resta che sfruttare al meglio le potenzialità che le piattaforme ci offrono, mettendo in campo fantastiche campagne adv in target con gli utenti a cui sono rivolte e nel rispetto delle preferenze espresse dagli utenti».




Carrefour promuove il corner di prodotti sostenibili

Carrefour promuove il corner di prodotti sostenibili

Le referenze di 19 multinazionali più rispettose dell’ambiente saranno esposte in un’area dedicata nei supermercati di tutta Europa fino all’8 novembre

Parte oggi la prima edizione della “Settimana della Transizione Alimentare” ideata da Carrefour per promuovere il cambiamento nelle abitudini dei consumatori, facilitando l’adozione di pratiche più sostenibili, consapevoli e con una maggiore attenzione all’ambiente. Fino all’8 novembre, pertanto, i clienti troveranno, all’interno di un’area dedicata, una serie di prodotti che sono stati selezionati e promossi in base alle loro caratteristiche sostenibili. «Abbiamo cercato di capire come la grande distribuzione potesse avere un ruolo di influencer non solo verso i produttori della propria marca privata, che già segue questi principi, ma anche verso gli stessi partner commerciali a livello di marca nazionale», specifica Rossana Pastore, direttrice relazioni istituzionali e corporate social responsibility presso Carrefour Italia.

I criteri di selezione indicati sono: packaging sostenibile e con chiare istruzioni sul corretto riciclo degli imballaggi, collaborazione con produttori che operano nel pieno rispetto della natura, incoraggiamento di pratiche agricole sostenibili e sostegno alla biodiversità, produzioni con ridotto impatto sul cambiamento climatico, attraverso pratiche antispreco alimentare, ed informazioni chiare su valori nutrizionali e provenienza delle materie prime. Su questi temi sono state coinvolte 19 multinazionali, con le quali Carrefour ha siglato un “patto di impegno e di responsabilità” sul tema della Transizione Alimentare per tutti. «La finalità – prosegue Pastore – è di estendere il più possibile tra gli attori della grande industria alimentare il concetto di produzione sostenibile nei confronti di tutti i consumatori. E per il prossimo anno contiamo di triplicare o quadruplicare il numero dei prodotti coinvolti».

Iniziativa europea

A questa prima edizione hanno aderito Barilla, Bel, Bonduelle, Colgate, Danone, Essity, Findus, General Mills, Gruppo Sanpellegrino-Nestlé Waters, Henkel, Johnson & Johnson, Kellogg’s, L’Oreal, Mars, McCain, Mondelez, P&G, PepsiCo e Unilever.L’ambizioso progetto, lanciato da Carrefour a livello europeo in altri cinque paesi (Polonia, Romania, Spagna, Belgio e Francia), rientra nel più ampio programma Act for Food avviato dall’insegna nel 2018, con l’obiettivo di diventare leader mondiale nella “Transizione Alimentare” per tutti, impegnandosi per il controllo delle filiere anche attraverso la tecnologia blockchain, maggiore accessibilità al biologico per tutti, difesa dei piccoli produttori locali, servizi efficienti e innovativi e valorizzazione delle eccellenze enogastronomiche di tutto il territorio italiano.

Secondo una ricerca condotta da Ipsos per il Salone della Csr e dell’Innovazione sociale l’85% degli italiani considera, infatti, i prodotti sostenibili più innovativi e qualitativamente superiori, mentre il 77% delle persone basa le sue scelte di acquisto sulla qualità, che significa origine delle materie, sostenibilità del packaging, attenzione alla filiera e alla produzione. In aggiunta alla comunicazione sul volantino nazionale (digitale e cartaceo), l’iniziativa sarà raccontata all’interno di una landing page nella quale verranno esposti, per ogni partner partecipante, i principi della strategia di sostenibilità dietro ad ogni singolo prodotto “testimonial”. All’interno di 24 punti vendita (14 Ipermercati Carrefour e 10 Carrefour Market sull’intero territorio nazionale), inoltre, la “Settimana della Transizione Alimentare” verrà altresì teatralizzata con un’attività di comunicazione in-store e attraverso l’ingaggio dei Superheroes – collaboratrici e collaboratori selezionati come veri e propri ambasciatori della transizione alimentare – che promuoveranno e illustreranno a tutti i clienti l’iniziativa.

I dati della trimestrale: fatturato in calo (-2,5%), vendite a +8,4%

Il gruppo francese Carrefour ha raggiunto nel terzo trimestre del 2020 un fatturato di gruppo pari a 19,7 miliardi di euro, in calo del 2,5% a cambio correnti. Nella sola Francia, suo mercato di riferimento, le vendite si sono attestate a 9,7 miliardi, in calo dello 0,9% rispetto allo stesso periodo del 2020.A parità di punti vendita, escludendo gli effetti di calendario e a tassi di cambio costanti, l’incremento delle vendite è stato dell’8,4%, ovvero la “migliore performance per almeno 20 anni” di Carrefour in questo settore, ha affermato Ceo del gruppo Alexandre Bompard , che ha definito “eccellente la performance del gruppo nel trimestre . La società ha anche confermato di essere in linea con il raggiungimenro dei suoi obiettivi di bilancio a fine anno.




Leadership: «L’intelligenza emotiva è due volte più importante delle competenze tecniche»

Leadership: «L'intelligenza emotiva è due volte più importante delle competenze tecniche»

Daniel Goleman, il padre della teoria della Emotional Intelligence, ospite al World Business Forum di Milano. «Per ottenere il massimo da un team non basta avere skill tecnici eccellenti e un altissimo IQ. Ma neanche essere “solo” simpatici o gentili»

Daniel Goleman è prima di tutto uno psicologo, ma è anche uno degli autori più famosi di management strategico: il suo concetto di intelligenza emotiva (Emotional Intelligence), enunciato nel best seller omonimo nel 1995, ha avuto profondi impatti non solo nel campo della psicologia e dell’insegnamento, ma anche sulle teorie della leadership aziendale.

Goleman ha sistematizzato e tradotto in best practice un concetto semplice, e cioè che per essere un leader di successo non bastano competenze tecniche eccellenti, e neanche un altissimo quoziente d’intelligenza (IQ). Occorre anche una componente irrazionale, detta appunto Emotional Intelligence, o EQ per distinguerla dall’IQ razionale. E cioè un mix di capacità di conoscere e controllare se stessi, e di capire e coinvolgere gli altri, che è innato ma in parte si può migliorare e ottimizzare.

Negli anni Goleman ha sviluppato il concetto di EQ con libri, consulenze e conferenze in tutto il mondo. È stato dichiarato dal Wall Street Journal e dal Financial Times uno dei più influenti business thinker al mondo, e la Harvard Business Review ha definito l’intelligenza emotiva “un’idea rivoluzionaria”, premiando il suo articolo “The Focused Leader” con l’HBR McKinsey Award come miglior articolo dell’anno 2013. Articolo poi sviluppato l’anno dopo in un altro best seller, intitolato “Focus: The Hidden Driver of Excellence”.

Cosa è l’Intelligenza Emotiva (e cosa non è)

Il tema della intelligenza emotiva nella leadership sarà al centro anche dell’intervento che Goleman ha fatto al World Business Forum di Milanoil 30 e 31 ottobre 2018. Lo psicologo americano parlerà delle competenze necessarie per sviluppare il self management e ottenere alte prestazioni, del potere dell’autoconsapevolezza come base per il proprio sviluppo professionale, di come diventare un leader di successo sviluppando profonde relazioni interpersonali. Ma parlerà anche di cosa è esattamente la EQ, e di cosa non è: un tema che Goleman ha affrontato per esempio in un articolo scritto l’anno scorso su Linkedin, dal titolo “Emotional Intelligence Myth vs. Fact”.

«Dopo oltre vent’anni continuo a trovare articoli, anche su testate autorevoli, che dicono che l’intelligenza emotiva è essere simpatici, o gentili, o empatici, o addirittura valorizzare la propria parte femminile». L’ultima cosa è falsa – non è vero che le donne hanno EQ più alta, e non c’è una prevalenza di genere nei top performer – e le altre sono solo una parte della verità, scrive Goleman. Che definisce una volta per tutte la EQ come “la capacità di riconoscere le proprie emozioni, quelle degli altri, gestire le proprie, e interagire in modo costruttivo con gli altri”.

Questa definizione si traduce in un modello che comprende quattro domini, e 12 competenze. Più precisamente, i quattro domini, con relative competenze, sono Self Awareness (emotional self awareness), Self Management (emotional self control, adaptability, achievement orientation, positive outlook), Social Awareness (empathy, organizational awareness), e Relationship Management (influence, coach and mentor, conflict management, teamwork, inspirational leadership).

Gestire se stessi, e sintonizzarsi sugli altri

Semplificando al massimo, secondo Goleman l’EQ determina il successo della leadership attraverso due componenti. La prima riguarda “l’interno”: i leader sono capaci prima di tutto di gestire bene se stessi. Parliamo quindi di “self mastery”, self awareness, capacità di gestire emozioni contrastanti e spiacevoli, di mantenersi focalizzati sugli obiettivi anche durante le crisi, e fortissima adattabilità.

La seconda riguarda l’esterno, e comprende la capacità di sintonizzarsi sulle altre persone del team, creare empatia con loro, capire come stanno, cosa pensano del progetto che si sta affrontando, le loro aspettative, risolvere i contrasti, fargli percepire il proprio interesse per loro. Questo permette al leader di capire come comunicare, influenzare, guidare, coinvolgere al meglio, ottenendo così il massimo dal suo team.

Il CEO di BlackRock e il “competence modeling”

«Recentemente ho incontrato il CEO di BlackRockil più grande fondo d’investimento del mondo, che gestisce migliaia di miliardi – ha racccontato Goleman al World Business Forum 2017 di Sydney -. Mi ha chiesto di spiegargli perché pur assumendo i più brillanti studenti delle migliori business school, le curve di performance nel suo staff rimangono “a campana”, cioè assolutamente nella media. Gli ho risposto che la ricetta giusta non è assumere i “migliori” in assoluto, ma guardare nella propria azienda chi occupa la posizione per cui si sta facendo la ricerca, o l’ha occupata in passato, individuare il 10% di top performer e confrontarli con gli average performer, e scovare le abilità e competenze che i top performer hanno, e gli average performer non hanno».

Goleman definisce questa tecnica “competence modeling”. «Molte aziende la applicano, specialmente per selezionare il top management. Ho avuto accesso ai dati di oltre 200 di questi processi di selezione, e ho riscontrato che, per incarichi di tutti i tipi, gli skill EQ sono due volte più importanti di quelli tecnici o dell’IQ».

«Gli skill tecnici li si può imparare a scuola, li possono avere tutti. Ma più sali in alto nella gerarchia organizzativa, più sarà importante l’intelligenza emotiva. Tra i C-Level, l’85% delle competenze che distinguono i top performer sono di EQ. Sono dati che non ho rilevato io, ma le stesse aziende. Un C-Level non usa più gli skill tecnici. Quello che fa per gran parte del tempo è gestire le persone, oltre che se stesso».

Lo stato di “flow” e il “social brain”

Insomma l’arte della leadership è centrare gli obiettivi attraverso la qualità del lavoro degli altri, precisa lo psicologo americano. «L’arte della leadership consiste nel portare e mantenere le persone nella fascia più alta dei livelli di performance, e questo succede quando le persone sono nel miglior stato di benessere personale. È uno stato ottimale che si chiama Flow, in cui la persona stessa rimane stupita dei risultati che ottiene, e definito attraverso ricerche sui professionisti più diversi, dalle ballerine ai giocatori di scacchi, dai top manager ai militari».

Il Flow ha alcune caratteristiche che si riscontrano regolarmente. «Una è uno stato di attenzione irremovibile sull’obiettivo. Focalizzazione al 100%. Un altro è la totale flessibilità: qualunque cosa succeda, si è in grado di gestirla. Un terzo è che le competenze personali sono messe alla prova al loro massimo livello, a volte anche oltre. Insomma, si dà il massimo quando ci si sente al massimo».

Ma come creare una situazione del genere? «Un modo è stabilire chiare regole e obiettivi, ma lasciare una certa flessibilità sul modo di raggiungerli. Un altro è il feedback immediato, mantenere le persone costantemente aggiornate su quanto bene stanno perseguendo l’obiettivo. La terza è mettere alla prova e far crescere le loro competenze, e cercare di far coincidere quello che le persone sanno fare con i compiti loro assegnati».

Il leader è l’elemento determinante: sia del meglio, sia del peggio

Un aiuto per creare uno scenario adatto al Flow, continua Goleman, è il “social brain”. È una scoperta di una decina d’anni fa, quando si è cominciato lo studio dell’interazione tra i cervelli, oltre che del singolo cervello.

«C’è una zona del cervello che funziona come un “radar neurale”, cerca di capire cosa succede nel cervello dell’altra persona e stabilisce con esso una comunicazione che va al di là della comunicazione verbale. Sono i neuroni specchio, scoperti in Italia, che creano un ponte tra cervello e cervello, un ponte che comunica emozioni, sentimenti, intenzioni. Ecco perché le emozioni sono contagiose, e perché la natura umana porta a dare grande attenzione e importanza a quello che il leader del gruppo fa e dice. Il leader è il determinante: sia del meglio, sia del peggio».

Insomma, il leader deve usare il “social brain” per far rendere al massimo le persone. «È così che otterrete il miglior ritorno d’investimento dai salari che la vostra azienda paga al vostro team. Gestire lo “stato emozionale” delle persone è estremamente importante, dal top management al front end, cioè i punti di contatto tra azienda e mercato. Chiunque nell’azienda sia l’interfaccia con i clienti, infatti, ha il potere di “far stare bene” il cliente. E se il cliente “sta bene” non è ben disposto solo verso la persona che fa da interfaccia: è ben disposto verso la vostra azienda».

L’Intelligenza Emotiva si può anche imparare

«Una delle domande che mi fanno più spesso è se l’intelligenza emotiva si può imparare: la risposta è sì – spiega Daniel Goleman -. Se un leader ha delle deficienze di empatia, o nella gestione delle proprie emozioni, può migliorarsi su questi punti come su qualunque altro skill di intelligenza emotiva».

Deve però essere disposto a investire tempo e impegno, e avere un’idea precisa di come viene percepito dalle persone, cioè dei suoi reali punti di forza e debolezza. «Occorre definire un accurato profilo EQ di partenza, il miglior modo è fare un’indagine anonimizzata tra tutti quelli con cui si lavora quotidianamente. Inoltre deve fare un “contratto” con se stesso: se per esempio la parte da rafforzare è la capacità di ascoltare, deve fare pratica su questo ogni volta che ne ha occasione, mettendo in background tutto il resto e focalizzandosi sull’ascolto. Se fa questa cosa regolarmente, dopo qualche mese diventerà spontanea. Ottenere risultati da soli però è molto difficile, meglio farsi aiutare da un “coach” con un programma personalizzato».

Altra domanda frequente è come rilevare l’intelligenza emotiva di un dipendente o un candidato. «Un modo è improvvisare una “simulazione di lavoro”. Sottoporre un compito o un problema – per esempio ricomporre un litigio tra due persone – e studiare come il candidato lo affronta al momento. Un altro modo è chiedere alla persona durante il colloquio qual è il peggiore errore che ha fatto sul lavoro e come lo ha gestito».




“Ordinate da Mc Donald’s: l’invito di Burger King per salvare il settore del fast food

"Ordinate da Mc Donald's: l'invito di Burger King per salvare il settore del fast food

La campagna lanciata in Gran Bretagna, a poche ore dall’inizio del lockdown. Solo il cibo da asporto e le consegne a domicilio con il lockdown possono salvare migliaia di posti di lavoro, è la filosofia del messaggio pubblicitario

“Non avremmo mai pensato di chiedervi di fare questo. Ordinate da Mc Donald’s”: l’invito, via Twitter, arriva dalla sede britannica di Burger King. L’obiettivo è quello di salvare i posti di tutti i lavoratori del settore, nel momento in cui il Paese decreta il lockdown per via della pandemia. Ordinate online, chiede Burger King, chiedete cibo da asporto: è l’unico modo di mantenere i ristoranti aperti nel momento in cui frequentarli è vietato per legge.

E l’invito non si limita a menzionare il tradizionale rivale: “Non avremmo mai pensato di incoraggiarvi a ordinare da KFC, Subway, Domino’s Pizza, Pizza Hut, Five Guys, Greggs, Taco Bell, Papa John’s, Leon, o altri ristoranti indipendenti, troppo numerosi per essere menzionati qui. In breve, da qualunque delle nostre sorelle delle catene alimentari veloci o non così tanto veloci”.

I ristoranti, prosegue Burger King, “impiegando migliaia di lavoratori hanno bisogno del vostro aiuto”. Naturalmente  “un Whopper è sempre la cosa migliore, ma anche ordinare un Big Mac non è così male”, scherzano gli autori della campagna. Il Whopper è il panino più famoso di Burger King.

La campagna sta ricevendo molti apprezzamenti e retweet, anche qualche critica, da qualcuno che fa notare come bisognerebbe sopratuttto pensare ai piccoli esercenti, non alle grandi catene, che sono economicamente più solide. Ma la replica della Rete è che in questo momento bisogna essere solidali con i lavoratori.




Ferrero dona 4 milioni di dollari per combattere il lavoro minorile nella filiera della nocciola in Turchia

Ferrero dona 4 milioni di dollari per combattere il lavoro minorile nella filiera della nocciola in Turchia

Da Ferrero un finanziamento di 4 milioni di dollari all’Organizzazione Internazionale del Lavoro per combattere il lavoro minorile nella filiera della nocciola in Turchia.

In occasione della Giornata Mondiale dell’Infanzia e del 30° anniversario della Convenzione sui Diritti dell’Infanzia, il colosso dolciario di Alba annuncia che darà vita a una partnership pubblico-privato con l’Agenzia specializzata delle Nazioni Unite sui temi del lavoro e della politica sociale, per contribuire all’eliminazione delle peggiori forme di lavoro minorile nell’agricoltura stagionale della raccolta delle nocciole turche.

Grazie a un contributo di oltre 4 milioni di dollari, Ilo realizzerà un progetto pluriennale attivo in 3 province turche (Trabzon, Zonguldak e ªanliurfa), volto a sostenere l’uscita dei bambini che attualmente lavorano nel settore e ad impedire ad altri di entrarvi. Nell’ambito della collaborazione, il progetto lavorerà con le tre componenti di Ilo (l’Organizzazione Internazionale del Lavoro è un’agenzia tripartita formata da governi, organizzazioni dei lavoratori e dei datori di lavoro) per supportare la condivisione delle conoscenze al fine di fronteggiare il lavoro minorile, in particolare nella filiera delle nocciole, e per massimizzare le opportunità di apprendimento.

Nonostante la tendenza in calo nel numero di bambini coinvolti nell’attività economica, il lavoro minorile è stato documentato come un problema in Turchia. Secondo l’indagine Child Labour Force 2019 Survey, redatto dall’Istituto statistico turco (Turkstat), 720.000 bambini di età compresa tra 5 e 17 anni, ossia il 4,4% della popolazione infantile totale in Turchia, erano impegnati in attività economiche. Di questi, il 30,8% era impegnato in attività del settore agricolo. I bambini lavoratori sono esposti a rischi che possono portare a problemi di salute cronici per tutta la vita. Inoltre, i figli dei lavoratori agricoli stagionali hanno maggiori probabilità di veder interrompersi il loro processo di istruzione e tali interruzioni possono rafforzare il crearsi di una forza lavoro non qualificata, che ha come conseguenza il perpetuare la povertà.

Numan Özcan, direttore dell’Ufficio Ilo per la Turchia, ha dichiarato che grazie a questa partnership, saranno in grado di espandere il loro intervento e coprire tutte le aree di raccolta delle nocciole in Turchia. Ha aggiunto: «Sono sicuro che il progetto sarà un esempio concreto di partnership tra un attore globale del settore privato, Ferrero, e Ilo, che implementa le migliori pratiche in Turchia e condivide conoscenze e le lezioni apprese con impatto globale».

Il progetto si impegna inoltre a istituire e a potenziare meccanismi di intervento diretto per porre fine al lavoro minorile nelle zone di raccolta stagionale delle nocciole, nonché a sensibilizzare sull’importanza dell’eliminazione del lavoro minorile l’opinione pubblica, gli stakeholder nazionali e locali e gli operatori della filiera. «Ferrero, per contrastare il lavoro minorile, crede nel valore e nell’importanza di un approccio costruito sulle partnership – afferma Marco Gonçalves, Ferrero Chief Procurement & Hazelnut Company Officer -.

Ilo, come agenzia specializzata delle Nazioni Unite, ha le competenze e l’esperienza per capire come agire in modo efficace. Questo progetto si basa su quanto svolto già a partire dal 2013 attraverso la nostra partecipazione attiva nella collaborazione pubblico privato tra Ilo e Caobisco e sostiene le azioni che intraprenderemo il prossimo anno verso il nostro obiettivo di essere una forza trainante dell’intera industria della nocciola, creando valore condiviso da tutti».