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Dall’intelligenza artificiale ologrammi 3D in tempo reale

Dall'intelligenza artificiale ologrammi 3D in tempo reale

Creare ologrammi tridimensionali in tempo reale, perfino sullo smartphone: è quanto consente di fare il nuovo sistema di intelligenza artificiale sviluppato nel Massachusetts Institute of Technology (MIT). Pubblicato sulla rivista Nature, potrebbe rendere più veloce e precisa la stampa 3D, oltre che migliorare i visori di realtà virtuale offrendo immagini più realistiche senza stress per gli occhi o senso di nausea.

Gli ologrammi, infatti, offrono una prospettiva variabile in base alla posizione dello spettatore e permettono all’occhio di focalizzarsi alternativamente su ciò che si trova in primo piano o sullo sfondo. I ricercatori provano da anni a generare ologrammi con il computer, ma il processo è talmente lungo e complesso da richiedere dei supercomputer. Sono stati fatti diversi tentativi per cercare di ottenere risultati simili con macchine meno potenti, ma questo è spesso andato a scapito della qualità delle immagini.

Per superare questa difficoltà, i ricercatori del MIT hanno pensato di sfruttare una rete neurale che mima il modo in cui il cervello umano processa le informazioni visive: l’hanno poi addestrata con oltre 4.000 immagini create al computer (con informazioni su colore e profondità per ogni singolo pixel) insieme ai corrispettivi ologrammi. Studiando questi dati, la rete neurale ha imparato a calcolare il modo migliore per generare gli ologrammi: riesce così a produrli nel giro di pochi millisecondi usando meno di un megabyte di memoria, un’inezia rispetto alle decine e centinaia di gigabyte disponibili sugli ultimi smartphone arrivati in commercio.




Facebook è sotto accusa per aver “bypassato” il Gdpr

Facebook è sotto accusa per aver "bypassato" il Gdpr

Facebook è di nuovo sotto accusa per una violazione del Regolamento generale per la protezione dei dati personali dell’Unione europea (Gdpr). Max Schrems, che ha portato avanti due più grandi cause sul trattamento dei dati personali in Unione europea, i cosiddetti casi Schrems I e II, con la sua associazione per i diritti digitali Noyb ha fatto ricorso in appello contro Facebook per aver aggirato il Gdpr, dopo che una Corte regionale di Vienna si era espressa a favore del social network. Il caso, che sarà esaminato dalla Corte suprema austriaca, sarà sottoposto anche alla Corte di giustizia dell’Unione europea per ulteriori verifiche.

Il regolamento, approvato nel 2018, stabilisce, tra le altre cose, che l’utilizzo dei dati personali sia permesso solo tramite l’esplicito consenso degli utenti e che le richieste di consenso debbano essere chiare. Il ricorso tuttavia sostiene che Facebook starebbe aggirando questo obbligo inserendo il trattamento dei dati per le pubblicità personalizzate all’interno delle condizioni di servizio contrattuali, che gli utenti non possono rifiutare per poter accedere alla piattaforma.

Oltre all’esplicito consenso, il Gdpr prevede cinque situazioni in cui le aziende possano trattare i dati. Una di queste è che il trattamento sia “necessario per l’esecuzione di un contratto”. Così, il giorno dell’entrata in vigore del Gdpr, Facebook ha inserito gli annunci personalizzati all’interno dei suoi termini e condizioni contrattuali, sostenendo di avere il “dovere di fornire pubblicità personalizzata” agli utenti. In questo modo, per Schrems, la compagnia di Mark Zuckerberg ha evitato di chiedere il consenso del trattamento dei dati, forniti a terzi per la creazione degli annunci.

Secondo il Regolamento, gli utenti devono essere pienamente informati e avere libera scelta su ogni tipo di trattamento specifico dei propri dati. Inoltre gli utenti devono essere liberi di poter revocare il consenso in qualunque momento e senza costi. Questi diritti non valgono invece nel caso dei contratti che, in quanto sottoposti alle leggi nazionali, non hanno un’uniformità giuridica, non devono obbligatoriamente essere chiari e possono presentare dettagli nascosti.

Secondo l’eurodeputata olandese Sofie In’t Veld, che ha partecipato ai lavori del Gdpr, “l’obbligo di chiedere il consenso deve restare fermo. I termini contrattuali non possono essere utilizzati come una clausola di evasione di questo requisito, o per qualsiasi altra base giuridica che riguardi il trattamento dei dati. Il Gdpr è progettato per dare agli utenti il controllo sui propri dati. Non si deve permettere a Facebook di truffare gli utenti in questo modo”.

In un sondaggio affidato all’istituto Gallup, mille utenti austriaci sono stati interrogati sulla loro comprensione dei termini contrattuali di Facebook. Due terzi hanno interpretato la pagina in questione come una richiesta di consenso da parte di Facebook, solo il 10% come un contratto e solo 16 su 1000 hanno capito che comportava l’obbligo di cedere i propri dati personali per ricevere annunci personalizzati. Il social network si dichiara pienamente conforme al regolamento. La palla ora passa ai giudici.




I cervelli artificiali hanno iniziato a pensarsi?

I cervelli artificiali hanno iniziato a pensarsi?

È come estrarre petrolio in un mondo che non ha inventato la combustione interna. Troppo materiale grezzo. Nessuno dei miei competitor saprebbe che farne. Vedi, i miei competitor si intestardivano a utilizzare i motori di ricerca per monetizzare shopping e social media. Pensavano che fosse una mappa di cosa pensava la gente, ma erano una mappa di come pensava la gente. Impulso, risposta. Fluido. Imperfetto. Strutturato. Caotico.

Ex Machina di Alex Garland è il film che meglio di ogni altro è riuscito, a oggi, nel difficile tentativo di raccontare la complessità della ricerca sull’Intelligenza Artificiale e il modo in cui essa si intreccia con i dati estratti 24/7 dalle piattaforme digitali. Nel monologo che è il cuore del film, Nathan, l’amministratore delegato di BlueBook, una piattaforma che sin dal nome evoca il social network più utilizzato del mondo, spiega a Caleb, il programmatore scelto come elemento umano del test di Turing, come l’intelligenza del robot umanoide con il quale il giovane si sta relazionando, Ava, sia il frutto dell’intelligenza collettiva costituita dai dati. La linea che separa ciò che pensiamo da come lo pensiamo è molto più ampia di quanto si possa credere, è un confine che chiama in causa biologia e filosofia, antropologia e neuroscienze, psicologia e genetica. Durante lo stesso incontro, Nathan spiega a Caleb di avere creato un hardware capace di operare sintetizzando la staticità dei ricordi e la dinamicità dei pensieri e di avere utilizzato i dati estratti dal social network per creare un software capace di dare forma all’intelligenza artificiale.

Durante il loro primo incontro, Nathan spiega a Caleb di averlo scelto per cercare di capire se, al cospetto di Ava, un essere umano possa dimenticarsi di trovarsi di fronte a una macchina. In tal caso, per Ava vorrebbe dire avere superato il test di Turing. A quel punto Caleb obietta che il test sarebbe più efficace se lui non avesse compreso di doversi relazionare a una macchina. Nathan lo prende in contropiede: la vera sfida è mostrarlo come un robot e capire se, nonostante ciò, continua a essere percepito come tale. Ma attenzione, ciò che realmente interessa a Nathan e che trasforma Caleb da soggetto a oggetto del test è comprendere se la sua creatura artificiale possieda una coscienza, una consapevolezza di sé.

Nel saggio Artificial you. L’intelligenza artificiale e il futuro della tua mente di Susan Schneider, pubblicato di recente da Il Saggiatore nella traduzione di Giovanni Malafarina, il tema della coscienza delle macchine e delle sue possibili conseguenze è centrale. L’era della singolarità prefigurata da Ray Kurzweil è, per parafrasare il titolo del suo libro più noto, sempre più vicina. Il momento in cui l’IA supererà l’intelligenza umana ci pone di fronte a domande alle quali la sola scienza non è in grado di rispondere. Una IA potrà avere una coscienza? In quale modo potremo sapere se si tratta di una reale consapevolezza di sé o di una simulazione frutto di una risposta a un impulso fornito da input umani? Qualora questa IA avesse caratteristiche simili a quelle di un essere cosciente, come potremmo affidarle mansioni e ordini senza che ciò si configuri come una forma di sfruttamento e schiavitù?

Attualmente il dibattito riguardante la coscienza dell’IA è dominato da due fazioni opposte: quella del naturalismo biologico e quella del tecnottimismo. Per i naturalisti biologici solamente gli organismi biologici sono in grado di essere coscienti e la possibilità di possedere un’esperienza interiore è da escludere per qualsiasi macchina, anche la più sofisticata. Al contrario, per i tecnottimisti la coscienza è totalmente computazionale e, pertanto, un sistema computazionale particolarmente sofisticato potrà essere in grado di avere un’esperienza interiore. Per i naturalisti biologici la coscienza è strettamente connessa alla chimica dei sistemi biologici e questa è una caratteristica che appartiene agli esseri viventi, non alle macchine.

Uno dei pilastri a sostegno del partito che ritiene impossibile parlare di coscienza delle macchine è l’esperimento concettuale del filosofo John Searle noto come “la stanza cinese”. Searle immagina di essere chiuso in una stanza e di ricevere attraverso un’apertura dei fogli contenenti stringhe di ideogrammi che non è in grado di comprendere, non conoscendo la lingua cinese. Searle dispone però di un libro di regole (in inglese) che gli permette, una volta ottenuta una particolare stringa, di scrivere qualche altra stringa in risposta. Ricevuta una serie di ideogrammi da quella che è l’apertura degli input, Searle scrive le sue risposte e le passa verso l’esterno dalla feritoia degli output. Il nostro protagonista non capisce il significato di ciò che ha scritto, ma ha semplicemente manipolato dei simboli formali dopo avere ricevuto degli input. Chi si trova all’esterno, invece, riceve degli ideogrammi che sono indistinguibili da quelli che potrebbe scrivere un madrelingua cinese. La stanza con le due feritoie, le carte che entrano ed escono e Searle rappresentano un sistema di elaborazione delle informazioni, ma Searle non conosce il cinese e quindi non comprende il messaggio che ha veicolato. Alla luce di questo esperimento concettuale, Searle sostiene che, per quanto possa sembrare intelligente, un computer non pensa e non capisce, ma opera manipolando simboli senza una reale comprensione della propria attività. Ciò che ne consegue è, evidentemente, l’impossibilità di maturare quel raffinato tipo di comprensione che chiamiamo coscienza.

Murale dedicato a Alan Turing, Manchester, UK.

Murale dedicato a Alan Turing, Manchester, UK. | Dunk / Flickr

In Ex Machina, l’esperimento concettuale della stanza cinese viene semplificato nella storia di Mary nella stanza in bianco e nero. A spiegarlo all’umanoide Ava è Caleb, l’elemento umano nel test di Turing monitorato dal “demiurgo” Nathan:

Mary è una scienziata e la sua specializzazione sono i colori, sui quali sa tutto quello che c’è da sapere. La lunghezza d’onda, gli effetti neurologici, ogni possibile proprietà che i colori hanno. Ma lei vive in una stanza in bianco e nero. C’è nata e cresciuta e può osservare il mondo esterno solo da un monitor in bianco e nero. Finché qualcuno un giorno apre la porta e lei esce. Vede un cielo azzurro e in quel momento impara una cosa che tutti i suoi studi non potevano insegnarle. Impara che cosa si prova a vedere i colori. Questo esperimento mostra agli studenti la differenza fra un computer e la mente umana. Il computer era Mary nella stanza in bianco e nero, l’umana è lei quando esce.

Mary vede i colori e attraverso quell’esperienza matura una sorta di coscienza cromatica.

Come spiega Nathan alla fine del monologo citato in apertura, a ogni impulso corrisponde una risposta. L’informazione è una materia fluida, in continuo mutamento, ordinata in un sistema strutturato, ma imperfetta e caotica. In questa dialettica di impulsi e risposte può esserci spazio per la coscienza?

I tecnottimisti sostengono che, una volta elaborata un’IA altamente sofisticata, la vita mentale da essa prodotta potrebbe essere ancora più ricca di sfumature di quella umana e, di conseguenza, cosciente. La posizione dei tecnottimisti è ispirata alle scienze cognitive, un campo interdisciplinare che sembra privilegiare un approccio empirico secondo il quale il cervello è un motore di elaborazione delle informazioni e le funzioni mentali sono rappresentate da calcoli. La posizione computazionalista è diventata paradigmatica nella ricerca delle scienze cognitive e viene utilizzata per spiegare abilità cognitive e percettive come l’attenzione e la memoria. Se ogni attività cerebrale è frutto di un calcolo allora lo è anche la coscienza e, di conseguenza, quando l’evoluzione dei materiali artificiali permetterà di replicare le funzioni neuronali si potrà arrivare a un’IA cosciente.

Il nodo della questione è capire se materiali inorganici potranno riprodurre la qualità percepita della nostra esperienza mentale. Come spiega Schneider, “potremmo venire a saperlo a breve, quando i dottori inizieranno a utilizzare impianti medici basati sull’intelligenza artificiale in parti del cervello che sostengono l’esperienza cosciente”.

Schneider espone le due tesi ma sembra volersi mantenere equidistante, sottolineandone tanto gli enunciati, quanto i punti deboli. Se da una parte “la stanza cinese non riesce a fornire un supporto argomentativo al naturalismo biologico”, dall’altra non fornisce neppure “un’argomentazione definitiva contro di esso”. E, sull’altro fronte, “l’ottimismo dei tecno-ottimisti sulla coscienza sintetica si basa su una linea di ragionamento imperfetto. Sono ottimisti sulla possibilità che le macchine diventino coscienti perché sappiamo che il cervello è cosciente e che potremmo costruirne una copia isomorfa. In realtà, però, non sappiamo se possiamo effettivamente realizzare tale copia, o addirittura se ci converrebbe provarci”.

Quello della convenienza è un tema da non trascurare. Gli esiti dell’impatto della coscienza sul comportamento etico dell’IA sono assolutamente imprevedibili: la macchina potrebbe diventare più compassionevole, ma potrebbe essere anche più instabile. Per evitare gli effetti negativi di questa possibile instabilità è necessario progettare un apprendimento delle norme etiche che dia alla coscienza artificiale una bussola morale. Come spiega Schneider, “le IA di interesse dovrebbero essere esaminate in ambienti limitati e controllati, alla ricerca di segni di coscienza”.

Un po’ come accade in Ex Machina, dove, in un ambiente totalmente isolato, il demiurgo scruta da uno schermo l’interazione fra l’uomo e la macchina. Nella finzione cinematografica il gioco si ribalta: è già stato detto di come Nathan trasformi Caleb da soggetto a oggetto del test, ma non di come anche Ava strumentalizzi il suo tester per trovare una via di fuga dal bunker-laboratorio in cui viene messa sotto esame. In quella che James Barrat reputa essere la nostra invenzione finale ci sono due elementi che accompagnano ogni tecnogenesi dall’alba dei tempi: imprevedibilità degli esiti ed eterogenesi dei fini. Osservare (come Nathan) e dialogare (come Caleb) può metterci al livello della macchina, ma abbiamo ancora un vantaggio che potrebbe essere utile mantenere come tale: quello di sentire e di sentirci.




Clima, anche l’acquario di Genova contro il riscaldamento globale

Clima, anche l'acquario di Genova contro il riscaldamento globale

GENOVA – Ha aderito anche l’Acquario di Genova a Stop Global Warming EU, l’iniziativa promossa dal movimento dei Cittadini europei per spingere la Commissione europea ad abbassare le tasse sul lavoro e ad aumentarle a chi produce emissioni di Co2: con un milione di firme entro il 22 luglio 2021, obbligherà la Commissione Europea a discutere la proposta di tassare le emissioni di CO2 sostenuta da 27 premi Nobel. 

Il più grande Acquario d’Europa e la sua Fondazione hanno deciso di sostenere l’iniziativa con una serie di eventi che andranno a coinvolgere anche personalità del mondo scientifico e dello spettacolo. Questo offre un’occasione per sensibilizzare il pubblico su una tematica importante per l’Acquario di Genova: la conservazione della biodiversità, marina e non solo, minacciata da inquinamento e cambiamenti climatici.

Stopglobalwarming.eu ad oggi ha ottenuto l’adesione di oltre 50 mila cittadini europei. Tra questi anche Mogens Lykketoft, presidente dell’Assemblea Onu ai tempi degli Accordi di Parigi, Navanethem Pillay, Alto Commissario ONU per i Diritti Umani dal 2008 al 20914, 3 ex commissari europei (Emma Bonino, Violetta Bulc, Vytenis Povilas Andriukaitis), del comitato di EarthDay (gli organizzatori della Giornata Mondiale della Terra), una rete di oltre 60 sindaci italiani ed europee e tante tante personalità del mondo della scienza, della cultura e dello spettacolo (da Fedez, Elisa, Nina Zilli, Sergio Cammariere, Biagio Antonacci, Edoardo Bennato e tantissimi altri). Tutti i cittadini europei maggiorenni sono invitati a firmare la proposta sul sito www.stopglobalwarming.eu e a sostenere l’unica iniziativa formale e istituzionale che al raggiungimento del milione di firme, porterà la proposta di un carbon pricing (un prezzo sulle emissioni di CO2) alla Commissione Europea che dovrà poi discuterne pubblicamente all’interno delle istituzioni. Per raccogliere le firme c’è tempo fino al 22 luglio.

E all’interno delle vasche degli squali, dei pinguini e dei coralli sono stati collocati dei messaggi dal forte impatto grafico con scritto “CI SALVI CHI PUÒ: FIRMA SU STOPGLOBALWARMING.EU”. Al momento della riapertura al pubblico, i visitatori troveranno anche dei messaggi esterni alle vasche che spiegheranno come firmare sul sito StopGlobalWarming.eu. Seguiranno altre emozionanti attività, dalle vasche dell’Acquario fino al mare aperto, volte a sensibilizzare i cittadini italiani ed europei sulle conseguenze del riscaldamento globale per la vita sulla Terra e nei mari.

“Il mare è una risorsa vitale per il pianeta terra. L’aggressione in corso all’ecosistema dei mari non è meno violenta di quanto accade sulla terraferma: le emissioni di CO2 acidificano gli Oceani e distruggono la biodiversità a ritmi già insostenibili”, ha dichiarato Marco Cappato, promotore di StopGlobalWarming.eu, “Come promotori dell’Iniziativa dei Cittadini Europei StopGlobalWarming.Eu siamo onorati di potere lavorare assieme all’Acquario di Genova per sensibilizzare -grazie anche alla loro esperienza nel divulgare la cultura dell’ecosistema marino- le cittadine e i cittadini sull’importanza di firmare la proposta indirizzata all’Unione europea di combattere le emissioni di CO2 spostando le tasse dal lavoro alle emissioni”

“Il sostegno dell’Acquario di Genova e della sua Fondazione alla campagna stopglobalwarming.eu rientra appieno nella mission di educazione ambientale che da sempre guida la struttura – dichiara Simona Bondanza, Sustainability Manager di Acquario di Genova-Costa Edutainment – e ci offre l’occasione per sensibilizzare il pubblico una volta ancora su temi che ci stanno particolarmente a cuore: la conservazione della biodiversità, marina e non solo, minacciata da inquinamento e cambiamenti climatici.

Fin dai suoi primi anni di attività, l’Acquario di Genova ha promosso e sviluppato progetti di ricerca e salvaguardia della biodiversità e delle specie acquatiche in pericolo, collaborando con Enti, Istituzioni e Università nazionali ed internazionali. La ricerca scientifica, sia in natura sia in ambiente controllato, è la base dell’attività di divulgazione che l’Acquario rivolge al proprio pubblico.

La ricerca e la gestione sostenibile delle risorse, le operazioni di salvaguardia attiva di ecosistemi acquatici minacciati in varie parti del mondo, le azioni di sensibilizzazione nei confronti delle Istituzioni e di enti pubblici e privati, l’attività di divulgazione ed educazione: ogni sforzo è rivolto a costruire un rapporto più responsabile con l’ambiente naturale e a stimolare iniziative di salvaguardia attiva e consapevolezza. Da sempre attento al tema della riduzione dei consumi e degli sprechi, l’Acquario di Genova si è dotato di un impianto di trigenerazione che ha permesso una significativa diminuzione delle emissioni, in linea con i propri obiettivi di riduzione dell’impatto ambientale.”




La donna che fa cantare il legno

La donna che fa cantare il legno

Nel febbraio del 1961, il prestigioso settimanale Epoca pubblica, a firma di Giuseppe Grazzini, un inserto dal titolo “I tesori dell’artigianato”, un viaggio alla scoperta delle più caratteristiche e pregiate botteghe italiane:  all’interno due pagine riccamente illustrate sono dedicate all’ “antica bottega del legno che suona”, un laboratorio di liuteria che da oltre due secoli ha sede nel rione Giudecca di Bisignano, piccolo paese alle pendici della Sila greca le cui origini sono talmente antiche che storia e leggenda si sovrappongono al punto da essere inestricabili. Un grumo di case arroccate che domina la valle del Crati, così detta dal nome del fiume, il più lungo della Calabria, che irriga una flora eterogenea: i quartieri del centro storico risalgono al secolo XII, e sussurrano ancora quella malinconica e dolente fierezza tipica di questi paesi, dove tutto sembra essere sul punto di cedere nello stesso momento in cui resiste agli urti di una Storia che lascia la sua firma stratificata nei secoli.

C’era una volta un Principe in questi luoghi, anzi una dinastia di Principi, esponenti della famiglia Sanseverino, una delle più illustri e potenti del Regno di Napoli: pare siano stati loro nel Settecento a chiamare a corte due liutai, i primi De Bonis, che decisero di stanziarsi nell’antichissima cittadina calabrese, sede arcivescovile sin dai primi secoli cristiani, per creare quegli strumenti musicali che, con la loro voce, erano la panacea ideale per alleviare il languore noioso della vita a corte. Ha inizio così la storia di un’altra dinastia, parallela a quella dei Principi, e come questa talmente tenace nell’arrampicarsi lungo i secoli da stupire il giornalista di Epoca, che basandosi sulle dettagliate ‘voci’ presenti nel Dictionnaire Universel de Luthiers di René Vannes, edito a Bruxelles nel 1951, così scrive: “C’è un Francesco I, un Francesco II, un terzo, un quarto, come ci sono i Giacinto, i Michele, i Nicola, i Vincenzo, variamente alternati come i rami di un albero genealogico imperiale. Sono secoli di storia, la storia di una Calabria segreta e inattesa, quella della musica.  La storia di una bottega dove con gli stessi scalpelli, le stesse forme, gli stessi legni e soprattutto con lo stesso amore qualcuno ripete ogni giorno il miracolo di creare uno strumento vivo”. Quel qualcuno era sempre un De Bonis, un nipote che diventava padre e poi nonno, depositario di una sapienza manuale tramandata nel silenzio, con gesti lenti e ripetuti più che con le parole, superflue quando si tratta di piegare i materiali col fuoco e di dare al legno la forma di un corpo che canta.

In una apparente sospensione del tempo, la liuteria De Bonis non si perde negli ostacoli della Storia, resiste adattandosi ai mutamenti sociali ed economici che stigmatizzano la regione come una delle più povere del Mezzogiorno d’Italia: e così nell’Ottocento la liuteria nata nella corte del Principe “diventa povera, una liuteria per contadini”.

La definizione è di Rosalba, l’ultima erede, prima donna della famiglia De Bonis ad aver testardamente voluto proseguire l’arte di suo padre, degli zii, dei nonni, l’arte di trentadue liutai dal Settecento a oggi, “io sono la trentatreesima” mi dice con orgoglio. Non è stato semplice per lei convincere lo zio Vincenzo a consegnarle il testimone di questo bagaglio prezioso di conoscenze tramandate solo da padre in figlio e di cui lui ormai, figlio di Giacinto, l’uomo che aveva traghettato la liuteria tra il 19° e il 20° secolo, era l’ultimo esponente, come già dichiarava la stampa.

Vissuto da solo tutta la vita, curvo nella sua bottega a dar forma alle chitarre e ai mandolini, zio Vincenzo non poteva accettare che sua nipote, donna, potesse continuare quel lavoro tanto faticoso per la manualità richiesta, e inconciliabile con la vita privata, con una eventuale famiglia. Perché per i De Bonis la liuteria è sempre stata una missione, un’ascesi: lo era per il “nonno Giacinto, che nella Calabria poverissima dei primi del Novecento andava a piedi per vendere chitarre nelle fiere dei paesi”, indifferente ai riconoscimenti ufficiali “pour ses mandolines artistiquement travaillées” come puntualizza l’autorevole Dizionario belga; lo era per tante altre donne ‘speciali’, figure poco considerate di una Calabria storicamente retrograda e maschilista, “tutte le mogli dei liutai erano parte della produzione, addette a realizzare gli intarsi e le decorazioni”, mi dice Rosalba; lo è oggi lei stessa, che ai rimbrotti dello zio rispondeva apprendendo in silenzio il linguaggio dei suoi gesti, “per due anni l’ho solo osservato”; lo era, in misura forse ancora maggiore, per Nicola, fratello maggiore di Vincenzo e primogenito del nonno Giacinto.

Nato nel 1918, in uno dei periodi più bui per l’economia familiare, Nicola è uno di quei regali che a volte il destino riserva alle famiglie: “asceta della chitarra” lo definisce lo studioso e musicista Angelo Gilardino, e scrittori di storia locale che hanno avuto modo di conoscerlo sottolineano analogamente il suo rapimento febbrile e quasi religioso nell’apprendere quanto più possibile i segreti della costruzione degli strumenti a plettro e ad arco, per riportare la liuteria di famiglia alla sua originaria estrazione colta. Non essendo contemplata all’epoca la disobbedienza al volere paterno, Nicola di giorno costruiva chitarre battenti – strumento popolare fortemente radicato in Calabria, dal fondo bombato e così detta per la tecnica esecutiva percossa e non pizzicata- di notte elaborava nuove forme e modelli, creava chitarre classiche, si cimentava nella creazione di nuovi strumenti, come il mandolino-arpa. Nel tentativo di colmare il divario con la liuteria del Nord, viaggiava in lungo e in largo per l’Italia, a collezionare premi conferitigli per i suoi strumenti dal suono di incomparabile dolcezza: “anche la più disadorna delle sue chitarre” – scrive di lui il maestro Gilardino – “mostra la maestrìa che stupisce persino i più abili liutai di oggi”.

Doveva avere certo qualcosa di magico quel suono, se persino alcuni musicisti ebrei, deportati nel campo di internamento di Ferramonti (Cosenza), gli fecero pervenire richieste di chitarre e di violini, come testimoniato dalle lettere conservate nell’archivio di famiglia. Sono tracce di una fame del Bello che trova sempre e in ogni circostanza un modo per esprimersi, per far sì che l’uomo resti tale anche nelle condizioni più disperate.

Con incredulità e commozione, Rosalba parla di questo scrigno epistolare: “c’è corrispondenza da tutte le parti del mondo: persone che ringraziano, entusiaste per gli strumenti ricevuti, scrivono da Chicago, da Monaco di Baviera, dalla Russia, dal Sudafrica, dal Giappone”.

Negli anni ’50, durante uno dei suoi viaggi in treno per il ritiro di uno dei tanti premi, Nicola regala una chitarra a un giovane Domenico Modugno: il cantante resta così affascinato dallo strumento da stringerlo a sé nella foto di copertina che gli dedica un rotocalco dell’epoca. Da lì in avanti la piccola bottega di Bisignano diviene tappa obbligata per vari musicisti, e lì c’era sempre “un De Bonis a dire di sì, che avrebbe fatto del suo meglio per accontentare quel cliente così illustre. Con la stessa modestia, virtù così rara, ieri come oggi” (G. Grazzini, Epoca, 1961).

La modestia e la tenacia devono essere qualcosa che si ereditano insieme col metodo, nella famiglia De Bonis: “nella nostra famiglia impariamo il metodo, dopo di che nessuno imita l’altro” mi spiega Rosalba, con riferimento alle due diverse tradizioni, quella popolare e quella colta, che hanno caratterizzato l’attività nella seconda metà del Novecento. Il ‘metodo’ a cui allude non è divulgato in manuali, ed è l’antitesi delle più elementari concezioni di sviluppo della produttività, essendo il più antico esistente, quello in cui è la mano dell’uomo a piegare e a trasformare i materiali, a dargli la forma desiderata, a obbedire ai tempi necessari alle varie fasi di lavoro, dalla piallatura all’essiccazione delle vernici. “La liuteria di oggi purtroppo è molto meccanizzata, spesso si tratta di officine e non più di botteghe, a volte non c’è neanche il banco da lavoro che per me è tutto”, Rosalba non riesce a spiegarsi questa automazione in un mestiere dove “bisogna dare l’anima”, in cui i lunghi tempi di attesa rendono estremamente lenta la produzione ma sono necessari se si punta ad alti livelli di perizia artistica. Questi per lei non sono un’ipotesi ma un “impegno”, è la legge morale ereditata dagli zii e dal padre: loro hanno raggiunto l’eccellenza nella costruzione della chitarra classica del Novecento, a cui hanno conferito un suono caratteristico e inconfondibile, differente da quello della chitarra spagnola negli anni in cui questa dominava il mercato; lei mira alla realizzazione di una ‘De Bonis’ del 2015, e per farlo non la turbano gli inevitabili momenti difficili, né la miopia delle amministrazioni locali incapaci di gestire l’enorme portato storico di quasi trecento anni di liutai che, pur nelle condizioni più povere, hanno continuato a tirar fuori l’anima dai legni. E pazienza se non si potevano avere i pregiati legni delle foreste tirolesi, oppure se era necessario estrarli dalle travi del Teatro Rendano di Cosenza, bombardato nel 1941: le mani dei De Bonis sapevano che quei legni avrebbero comunque avuto la loro voce, raccontato il loro canto. Magari un canto triste e cupo, come quello dello ‘scuordo’, la quinta corda della chitarra battente, o la dolcezza ineffabile del mandolino: voci antiche che portano l’eco di una famiglia, di un popolo, di una terra, lascito spirituale del valore inestimabile che Rosalba oggi consegna al futuro.