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Parlamento unito per il libero riuso delle foto, tarda l’ok del Mibact

Parlamento unito per il libero riuso delle foto, tarda l’ok del Mibact

Alla Camera c’è consenso dei partiti sull’introduzione del libero riuso delle immagini di beni culturali nel pubblico dominio, ma il Mibact non si esprime

Nonostante le aziende produttrici di telefoni ci delizino con nuovi modelli di smartphone con fotocamera integrata grandangolare, obiettivi a sette elementi e prestazioni ogni volta superiori per foto e video, il legislatore arranca, non ce la fa a stare al passo con la tecnologia. Una foto in HD scattata al Colosseo, bene pubblico nel pubblico dominio, su cui non sussiste più nessun diritto d’autore, non può essere pubblicata sul libro di fotografia dell’autore in base all’articolo 108 del Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio.

Il passaggio dall’analogico al digitale e l’avvento di Internet hanno rivoluzionato non soltanto i processi di produzione delle immagini, ma anche la diffusione delle fotografie. Oltre al risvolto tecnologico, ne esce mutato il rapporto tra società e immagini. Con blog, Instagram, Facebook, Pinterest, il cittadino da semplice fruitore passivo, è diventato parte attiva del processo di produzione di informazioni. “In questo contesto la fotografia digitale del bene culturale si presta a una infinita gamma di utilizzi, imponendosi come strumento di lavoro ormai indispensabile nelle attività quotidiane di ricerca, tutela e valorizzazione svolte dall’amministrazione, dagli enti di ricerca e dai liberi professionisti; al tempo stesso il digitale ha offerto agli utenti di musei, archivi e biblioteche nuove modalità di fruizione e cognitive, dando vita a forme inedite di interazione tra musei e visitatori, anche grazie ai canali di condivisione offerti dai social network. Cresce dunque l’esigenza di fruizione digitale del nostro patrimonio per le finalità più varie, che vanno talora oltre il mero consumo culturale, mettendo in sempre maggiore evidenza le potenzialità derivanti dallo sfruttamento economico della riproduzione del bene culturale” (Promozione Del Pubblico Dominio e Riuso dell’Immagine del Bene Culturale, Archeologia e Calcolatori 29, 2018, 73-86).

Sulla scia di queste riflessioni, si continua a discutere su come recepire la Direttiva (UE) 2019/790 sul diritto d’autore e sui diritti connessi nel mercato unico. La rete MAB, Musei Archivi Biblioteche, che riunisce AIBANAI ICOM , raccomanda unitariamente che il recepimento della direttiva avvenga in modo tale da assicurare l’efficacia reale delle nuove eccezioni e limitazioni in termini di superamento di ostacoli alla fruizione dovuti al fallimento del mercato delle licenze; armonizzazione piena delle legislazioni degli Stati membri; attuazione dei compiti di servizio pubblico dei nostri istituti. In particolare, le associazioni di categoria ritengono indispensabile, in virtù del disposto dell’articolo 14 della Direttiva volto a promuovere la diffusione e il riuso delle riproduzioni fedeli di opere delle arti visive in pubblico dominio, intervenire non solo sull’art. 87 della legge sul Diritto d’autore, che definisce i diritti connessi sulle fotografie semplici di opere d’arte figurativa, ma anche sugli artt. 107 e 108 del Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio: “liberalizzando il riuso per qualsiasi finalità (quindi anche commerciale) della riproduzione fedele di beni culturali pubblici non protetti da diritto d’autore” come si legge nelle Raccomandazioni . E ancora “La condivisione delle immagini mediante licenze aperte ha già permesso a numerosi musei, archivi e biblioteche in tutto il mondo di porsi al servizio del pubblico in modo più inclusivo ed efficace, assicurando agli istituti culturali anche un ritorno non trascurabile in termini di visibilità e di maggiore attrattività. L’attuazione piena dell’art. 14 è un’occasione per creare davvero innovazione, per trasformare il digitale in una opportunità per tutti, gettando le basi di una effettiva “democrazia della conoscenza” a livello comunitario e dando la possibilità agli istituti di cultura di rispondere in modo più completo alle esigenze più varie della società contemporanea”.

Alla Camera

Grazie alle pressioni di Wikimedia Italia e della rete MAB, il dibattito da qualche settimana è approdato nella Commissione Cultura della Camera dei Deputati . Si discute una Risoluzione presentata dall’on.le Gianluca Vacca, del Movimento5Stelle, ispirata al “giusto equilibrio tra le posizioni giuridiche dei titolari dei diritti e della collettività, quale fruitore della cultura” e dove si chiede, anzitutto di favorire la libera divulgazione di immagini di beni culturali pubblici visibili dalla pubblica via, per qualsiasi finalità, anche commerciale, nel rispetto della normativa sul diritto d’autore. Inoltre si chiede di riconoscere, formalmente, la facoltà dei singoli direttori di istituti centrali e periferici del MiBACT di concedere l’utilizzo di immagini in rete, attraverso licenze di libero riutilizzo commerciale, le quali costituiscono, a tutti gli effetti, l’autorizzazione preventiva all’uso delle stesse già prevista dagli articoli 107 e 108 del Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio. Il 6 ottobre 2020, durante il corso della discussione in Commissione Cultura, Alessandro Fusacchia, di +Europa e rappresentante del Gruppo Misto, ha riconosciuto la centralità del tema in vista del “cambiamento nella domanda di fruizione dei beni culturali”. C’è grande coesione alla Camera, anche Fratelli d’Italia e la Lega con la Risoluzione dell’on.le Daniele Belotti si sono espressi in senso favorevole al libero riuso delle immagini, ma né il PD, né MiBACT e il suo ufficio legislativo sono intervenuti sul punto. Nel corso dell’ultima convocazione del 14 ottobre 2020 è stata prevista invece la possibilità di dare avvio a una serie di audizioni di esperti sul tema che forse aiuteranno il Ministero di Dario Franceschini a prendere finalmente una decisione.




Francia, petizione on line contro Amazon: “A Natale comprate nei negozi locali”. Per ogni posto di lavoro che crea se ne perdono 2,6

Francia, petizione on line contro Amazon: “A Natale comprate nei negozi locali”. Per ogni posto di lavoro che crea se ne perdono 2,6

In Francia si moltiplicano le iniziative per contrastare lo strapotere del colosso dell’e-commerce. Al gruppo si contestano comportamenti concorrenziali e fiscali scorretti. Intermarché offre la sua piattaforma gratis a librerie e piccoli esercizi colpiti dal lockdown

Brutte giornate al quartier generale francese di Amazon, il colosso statunitense dell’e-commerce. Nel paese si moltiplicano le iniziative di disturbo ai danni del gruppo. L’ultima in ordine di tempo è la petizione #NoëlSansAmazon, Natale senza Amazon, in cui i sottoscrittore invitano a non usare la piattaforma di Jeff Bezos per comprare i regali privilegiando invece i negozi locali. La lista dei firmatari è lunga, comprende personalità del mondo della cultura, politici, associazioni. Ci sono, tra gli altri, l’ex membro del partito di Macron Matthieu Orphelin, l’ex ministro dell’Ambiente Delphine Batho, la scrittrice Christine Orban, i sindaci di Parigi, Grenoble e Poitiers, Anne Hidalgo, Eric Piolle e Léonore Moncond’huy, Greenpeace, France Nature Environnement.

Nel documento si esprimono forti preoccupazioni per le conseguenze fiscali, economiche, occupazionali ed ambientali del dilagare di Amazon. L’azienda replica ricordando di aver creato oltre 9mila posti di lavoro nel paese. Ma secondo il documento per ogni posto di lavoro creato da Amazon ne scompaiono almeno 2,6. Inoltre, si legge, Amazon sostiene di aiutare le piccole imprese locali favorendone le vendite ma le aziende francesi presenti sulla piattaforma sono appena il 4,7% del totale e il gruppo preleva una commissione del 15% su ogni vendita. E poi c’è la solita questione fiscale che non riguarda solo la Francia ma tutti i paesi dove opera il colosso.

In sostanza Amazon, come molte altre multinazionali, riesce, grazie ad operazioni infragruppo, a spostare gran parte dei suoi profitti nei paesi con tasse bassissime o inesistenti. Al contrario i costi vengono dirottati nei paesi dove è possibile ottenere i maggiori benefici fiscali. In questo modo la società è riuscita per anni a non pagare un solo dollaro di tasse negli Usa o a versare al fisco dei paesi europei pochi spiccioli. In Francia, sottolinea la petizione, il gruppo realizza ricavi per quasi 8 miliardi di euro ma riesce a pagare poco o nulla.

Nella petizione si chiedono anche interventi legislativi per limitare lo strapotere di Amazon, riprendendo i temi di un dibattito che va avanti da tempo in Francia e che coinvolge librai, editori, sindacati, politici e commercianti. Si chiedono norme che “pongano fine alle concorrenza sleale e all’ingiustizia fiscale”.

Come se non bastasse pochi giorni fa è scattata l’offensiva del gigante francese della grande distribuzione Intermarché che ha messo gratuitamente a disposizione la sua piattaforma di vendite on line alle piccole aziende colpite dalle chiusure dovute al lockdown. L’iniziativa è stata pubblicizzata con il titolo “Sorry Amazon”, sottolineando come il servizio di distribuzione gratis on line riguarderà inizialmente soprattutto le librerie locali per poi estendersi via via ad altri prodotti.

Durante i mesi primaverili i ricavi di Amazon sono cresciuti di circa il 40% anche grazie al boom dell’e-commerce favorito dalle chiusure degli esercizi tradizionali, e il valore di borsa della società nell’ultimo anno è quasi raddoppiato. L’Antitrust europeo ha da poco annunciato l’avvio di un’indagine per comportamenti concorrenziali scorretti dell’azienda di Jeff Bezos. In sostanza il gruppo utilizzerebbe anche i dati delle vendite di soggetti terzi che utilizzano la sua piattaforma per favorire i propri prodotti.




COMUNICAZIONE POLITICA: L’ITALIA A LEZIONE DI STILE… IN NUOVA ZELANDA

Comunicazione politica: Italia Vs. Nuova Zelanda. Le recenti elezioni nel paese kiwy ci insegnano uno stile del tutto diverso… e migliore!

Comunicazione politica: Italia Vs. Nuova Zelanda. Le recenti elezioni nel paese kiwy ci insegnano uno stile del tutto diverso… e migliore!

Non molto tempo fa, in un articolo a firma mia e di Giorgia Grandoni, avevo analizzato vari motivi alla base della scarsa credibilità della classe politica italiana, tendenzialmente riconducibili all’assoluta carenza di autenticità nei messaggi e alla narrazione pubblica istericamente contraddittoria, finalizzata esclusivamente alla raccolta di consensi a breve termine e attenta – in particolare – al sentiment del momento espresso dai cittadini sui Social, piuttosto che alla costruzione di un’idea di Nazione peculiare, da coltivare e realizzare con costanza e congruenza nel medio-lungo termine.

Al di la di ogni valutazione di tipo “partitico”, scrivevo che – tecnicamente, sotto il profilo della gestione della reputazione – tutto ciò non può che generare un’inevitabile crisi sistemica del mondo della politica: infatti, al di la delle legittime preferenze di ognuno di noi, l’appeal dei brand politici sull’elettore medio è oggi più basso che mai.

Il capitale reputazionale: un asset prezioso

Mentre le aziende corrono velocemente sul sentiero da tempo tracciato dell’enfatizzazione virtuosa dei propri valori, i leader politici, e le loro strategie, sembrano poggiare su declinazione di valori che cambiano a ritmo giornaliero, e che mutano continuamente in base a specifiche convenienze.

La politica, invece,nel tentativo di accaparrarsi facili consensi, è vittima di una malattia che in un’intervista l’economista Stefano Zamagni definì “shortermismo”, e lo riscontriamo nel pericoloso calo di adesione e di protagonismo dei cittadini alla vita pubblica: la percentuale di astensionismo alle ultime elezioni ha raggiunto nuovi record, con il 43,7% degli italiani – oltre 21,5 milioni di persone – che nelle ultime elezioni europee hanno scelto di non esercitare il proprio diritto al voto. Tra chi non si reca alle urne per protesta, e chi perché non si sente rappresentato adeguatamente dalle varie proposte politiche, il gap tra cittadini e gli uomini politici si fa più ampio che mai.

Non che nel resto dell’Europa – con qualche eccezione, ad esempio l’inossidabile Cancelliera tedesca Angela Merkel – vi siano eccezioni granché significative, ma allargando un po’ di più lo sguardo verso l’orizzonte, arrivando esattamente dall’altra parte del globo, una case history degna di attenzione spicca sicuramente: è la storia di Jacinda Ardem, Primo Ministro della Nuova Zelanda.

Una storia differente

Nata in centro rurale nel 1980, da padre poliziotto e madre cuoca, la Ardem non a caso si laurea in comunicazione politica e relazioni pubbliche. Lavora per la laburista Helen Clark, successivamente si trasferisce a Londra per entrare nello staff del Premier inglese Tony Blair, e torna infine in Nuova Zelanda per farsi eleggere in Parlamento.

Da deputato, è molto attiva sui temi relativi ai diritti umani – in particolare la lotta alla povertà infantile e diritti della comunità GLBT – finché diventa prima Vice Presidente del Partito Laburista e – a sole 7 settimane dalle successive elezioni – leader del partito.

Vince la sfida e diventa Premier della Nuova Zelanda (marzo 2017), con un governo insieme a Verdi e al partito New Zeland First: ha 37 anni, ed è la più giovane prima ministra donna nella storia del mondo (battuta due anni dopo da Sanna Marin, che diventa a soli 34 anni premier della Finlandia). Ha partorito suo figlio a giugno 2018, senza interrompere il mandato di governo, e senza che la sua scelta venisse messa in discussione dall’opposizione.

Come riporta la giornalista Isabelle Dellerba in un bel ritratto sul quotidiano Le Monde, la Ardern “appare raggiungibile, vicina alla gente, dotata di forte autoironia”, e soprattutto – aggiungo io – con una linea di pensiero coerente e non influenzabile facilmente dai sondaggi o dalle turbolenze dei Social: aveva un programma politico chiaro, anche quando era all’opposizione (il partito conservatore ha governato per 9 anni consecutivi in Nuova Zelanda) e a differenza di molti politici nostrani non l’ha modificato una volta al governo; promuove un messaggio di lotta contro la povertà e le diseguaglianze, di rispetto dei diritti umani, di investimenti pubblici in infrastrutture per rilanciare la crescita, e nel contempo di unità nazionale.

A marzo del 2019, ad esempio, quando un suprematista bianco compie un attentato contro una moschea e un centro islamico uccidendo 51 persone e gettando la nazione nello shock, fa approvare quasi all’unanimità una legge che vieta la detenzione da parte dei civili di armi semi-automatiche e di fucili d’assalto, semplicemente perché era la cosa giusta da fare.

La Jacindamania dilaga

Negli ultimi 2 anni, la Jacindamania – come l’ha definita la BBC inglese – è quindi dilagata sempre più, e alle successive elezioni, il mese scorso (ottobre 2020) la Premier neozelandese ottiene la maggioranza assoluta dei seggi, portando il suo partito al 49,15% delle preferenze: un risultato mai raggiunto da un partito nel Paese con l’attuale sistema elettorale.

Durante l’emergenza Covid-19 da eccellente prova di sé, grazie a una strategia basata su alcuni punti, chiari ed essenziali: chiusura immediata delle frontiere nazionali, lockdown rigido, istituito subito dopo i primi contagi, ed estrema chiarezza nella comunicazione istituzionale. La Nuova Zelanda, quindi, ha avuto solo 25 decessi per Covid su 5.000.000 di abitanti, nonostante la capitale Auckland sia una città moderna e popolosa, delle dimensioni di Milano e con una densità di abitanti per Km2 pari a Venezia: il virus è sparito dall’arcipelago già a maggio scorso.

Ma ciò che è forse ancor più interessante notare, sotto il profilo della comunicazione politica, è lo stile sia dell’attuale maggioranza che dell’opposizione: una campagna elettorale basata strettamente sui contenuti, anche assai diversi e alternativi tra destra e sinistra, ma mai degenerata in attacchi personali, tanto di moda invece in Italia.

La giornalista Laura Walters, su The Newsroom, lo ha scritto molto chiaramente a pochi giorni da voto, facendo un paragone tra la situazione Neozelandese e quella Bielorussa: “Due donne valide ed appassionate competono per guidare il nostro Paese, mentre a Minsk un bullo (Lukaschenko, ndr) si rifiuta di lasciare il potere e alle donne viene intimato di tornare in cucina”.

La Arden e la sua rivale conservatrice, Judith Collins, hanno discusso in campagna elettorale sulle differenti scelte politiche (ma è davvero così complicato riscoprire il valore di un discorso “nel merito” anche in Italia…?). La Collins ha letto con gentilezza e grande dignità il discorso nel quale ammetteva la sconfitta, invece di inventare scuse e scaricare le responsabilità, come d’uso nella nostra penisola (di nuovo: il valore della sobrietà e della coerenza…). Questo stile, proprio di entrambi gli schieramenti, era già emerso chiaramente nei dibattiti televisivi prima del voto: in occasione dell’ultimo incontro tra le due candidate, invece che lanciarsi fango addosso, hanno mostrato comunque empatia, ringraziando per lo spessore del discorso al Parlamento in occasione dell’attacco terroristico del 2019, definendolo “sincero, autentico ed efficace” (la Ardern verso la Collins) e per contro riconoscendo l’impegno della Premier, che “ci ha messo anima e cuore, e questa è una cosa ottima” (la Collins verso la Ardern).

Il discorso di insediamento di Jacinta Ardern, dopo la nettissima vittoria, è stato chiarissimo: “Viviamo in un mondo sempre più polarizzato, nel quale un numero crescente di persone ha perso la capacità di mettersi nei panni degli altri. Spero che la Nuova Zelanda con queste elezioni abbia dimostrato che noi non siamo così, che come nazione siamo in grado di ascoltare e soprattutto di discutere. Non sempre le elezioni riescono ad unire un popolo: ma questo non significa che debbano spaccarlo: e in tempi di crisi, penso che la Nuova Zelanda abbia dimostrato proprio questo”.

Due modi profondamente diversi di vedere il futuro della Nuova Zelanda, quella laburista e quello conservatore, ma che si rispettano nelle loro differenze, e che non traggono pretesto da fatti di cronaca per insultarsi, sbeffeggiarsi, delegittimarsi: il successo dell’uno è basato sui propri risultati concreti, e non sulla forzata diminutio dell’altro.

Reputation management: il valore della coerenza nella comunicazione politica

Al contrario del paese “kiwi” situato all’esatto opposto del pianeta rispetto all’Italia, i politici nostrani non godono di una buona reputazione: una realtà non solo riscontrabile da un’analisi empirica, ma assodata, in quanto documentata e misurata. Coinvolti in quella che appare come una campagna elettorale permanente, i nostri politici disilludono il pubblico, tentando ridicoli equilibrismi tra alleanze improbabili e la scelta di abbracciare oggi ciò che solo ieri si criticava aspramente o viceversa.

Come sappiamo, la reputazione è un asset importante – il più prezioso tra quelli “immateriali” – che si costruisce assieme ai propri pubblici, per durare nel tempo, ed essere poi “scambiata” con una più ampia licenza di operarela scelta dei politici di ignorare sistematicamente questa realtà sta scavando un solco tra sistema politico italiano e la cittadinanza, danneggiando il primo – riducendone, tra l’altro, potenzialità ed efficacia – e disilludendo i secondi.

Autenticità, coerenza, comunicazione di valori conformi alla propria identità, creazione di strategie di brand reputation a medio-lungo termine (sia che si tratti di aziende che di istituzioni pubbliche o influencer politici), capacità di saper prevenire scenari futuri di crisi reputazionale e, infine, propensione ad assumersi le proprie responsabilità: queste sono sei tra le principali best practices da seguire per tutelare al meglio la propria reputazione, e questo è ciò che la politica italiana può – e dovrebbe – imparare dalle best practice del Reputation management.

A quando, quindi, un biglietto – pagato da noi contribuenti, perché no – per un educational in Nuova Zelanda per i nostri vari Salvini, Di Maio, Zingaretti e Meloni…?




Le relazioni pubbliche alla prova della ricostruzione. Intervista al decano delle relazioni pubbliche italiane Toni Muzi Falconi

Le relazioni pubbliche alla prova della ricostruzione. Intervista al decano delle relazioni pubbliche italiane Toni Muzi Falconi

Le relazioni pubbliche sono una disciplina del management assai dinamica di cui non si conoscono ancora a fondo, perché dinamici gli ambiti, le declinazioni, le significatività. Page Society, importante associazione che comprende fra i suoi soci i maggiori esponenti delle relazioni pubbliche americane, nei suoi report del 2016 e del 2019, identifica nell’ufficio del “chief communication officer” il ruolo di costruttore di relazioni, il pioniere del posizionamento delle organizzazioni, lo stratega che analizza la realtà e costruisce piattaforme relazionali per identificare i futuri possibili e proporre le leve necessarie alla creazione di valore sostenibile nel tempo.

Toni Muzi Falconi è il decano delle relazioni pubbliche italiane, sessant’anni di esperienza: le sue prime attività professionali risalgono alla fine degli anni Cinquanta del secolo scorso e avevano a che fare con la ricostruzione, una ricostruzione a partire da macerie visibili, come quelle della seconda guerra mondiale. Oggi le relazioni pubbliche hanno il compito di contribuire ad una ricostruzione che parte da macerie meno visibili, macerie della crisi economica conseguente alla pandemia.

Anche oggi ci troviamo di fronte alla necessità di proporre e organizzare, disegnare, progettare e implementare azioni di senso e di significato.

Ma vorrei partire dalla definizione di relazioni pubbliche e da tutte le possibili declinazioni.

Toni cosa sono le relazioni pubbliche ed anche: chi è e cosa fa un relatore pubblico e in che rapporto è con la comunicazione, che è l’ambito più comune di espressione della nostra professione?

Per raggiungere gli obiettivi che si propone ogni organizzazione, privata, pubblica o sociale che sia sa bene che deve identificare, interagire, ascoltare e coinvolgere i pubblici interni, esterni e di confine, verificarne le aspettative affinché i tempi di attuazione di quegli obiettivi non diventino insopportabili o comunque non diano risultati negativi. Il governo efficace di questi sistemi di relazione si chiama ‘relazioni pubbliche’.

Come sai mi sta a cuore non solo la rappresentanza di interessi ma la capacità dei relatori pubblici di creare percorsi di soluzioni alle problematiche complesse (e le semplici no?): come vedi le discipline dello issue management e dell’evidence based policy nell’ambito proprio della nostra professione?

La rappresentanza di interessi è una cosa e non ha solo a che vedere con l’area della decisione pubblica (penso alle associazioni private e sociali che incidono altrettanto sulle decisioni pubbliche). L’issue management che risale alla seconda metà degli anni 70 del secolo scorso è un importante passo verso la professionalizzazione del governo delle relazioni e identifica, coltiva e opera intorno a issue (tematiche) vitali per la singola organizzazione, sempre a livello privato, pubblico e sociale.

Non corriamo il rischio di essere considerati dei generalisti?

E’ difficile identificare posizioni di alto management che non siano generaliste. Tutto dipende da cosa si intende. Se intendi generiche direi di no, questo rischio non c’è. Se intendi generalisti nel senso che l’impatto è trasversale a tutta l’organizzazione, è normale che sia così e sarebbe strano il contrario.

Fin dagli anni ’80 hai considerato che la disciplina del change management fosse la declinazione più efficace delle relazioni pubbliche: puoi specificare meglio il rapporto fra relazioni pubbliche, il governo strategico delle relazioni pubbliche e il change management?

Il cambiamento è una dato permanente dell’individuo ma anche dell’organizzazione che è, a sua volta, è un insieme di individui. Se non cambiano in continuazione, le organizzazioni muoiono. Il governo dell’organizzazione (management) è il governo di quel cambiamento la cui qualità dipende in larga parte da quella che, con termine inutilmente ‘nuovista’, oggi si chiama, e che dio-ci-perdoni, anche in italiano, purpose.

In uno dei tuoi ultimi post, che hai intitolato “E ora tutti al lavoro”, ti sei soffermato, dopo che il Consiglio Europeo ha votato gli aiuti del post Covid, sulla necessità di gestire il cambiamento. Come scrivi nel tuo post il tema è “assicurarci, da cittadini Europei e Italiani, che le risorse verosimilmente in arrivo siano utilizzati al meglio”. E continui: “l’esperienza e le ricerche ci dicono che i progetti di cambiamento nelle organizzazioni falliscono nel 70% dei casi. Occorre dunque fare di tutto subito, oggi, per mitigare i rischi, accompagnando gli investimenti in arrivo -che riguardino tecnologie, processi, organizzazione- con specifici programmi capaci di ottenere l’adozione del cambiamento previsto insieme alla crescita di capitale: umano nell’organizzazione e sociale nel territorio. Ti chiedo: tutto questo ha a che fare con le relazioni pubbliche, con la costruzione del capitale sociale, relazionale, con il disegno di percorsi capaci di creare valore: ma quali sono le pratiche che noi relatori pubblici possiamo mettere in atto per consentire un corretto ed efficace utilizzo dei tanti miliardi messi a disposizione dall’Europa?

Capire bene le priorità di chi mette le risorse a disposizione e le priorità (necessariamente diverse) di chi governa e conciliare queste con le aspettative di chi le riceve. Sono tre priorità da conciliare attraverso un lavoro immenso di ‘tessitura sociale’ in larga parte basato sul governo efficace dei sistemi di relazione fra i tre soggetti.

Come possiamo contribuire al cambio di paradigma necessario per un nuovo disegno della rappresentanza, della rappresentatività e della rappresentazione e perché sono categorie diverse?

La rappresentanza appartiene alla storia della diplomazia e presuppone che ogni organizzazione rappresenti se stessa verso gli altri; la rappresentatività è una quantificazione variabile nel tempo della rappresentanza; la rappresentazione è invece la modalità in cui l’organizzazione rendiconta/racconta la propria identità e gli obiettivi perseguiti agli stakeholder interni, esterni e di confine. Il nuovo disegno cui accenni prende atto che i cosiddetti corpi intermedi sono stati ormai disintermediati dalla recente crescita esponenziale della rappresentazione. Ritengo però che sia indispensabile per una società che si definisca propriamente democratica piuttosto che re intermediare, neo intermediare i propri i corpi intermedi.

Come credi che le relazioni pubbliche possano contribuire alla definizione di percorsi di valore per la realizzazione degli obiettivi 2030 della nazioni unite?

Se le relazioni pubbliche nel mondo reinventassero anche gli obiettivi 2030 dell’ONU farebbero l’azione migliore possibile.

Come ti immagini il futuro degli uomini fra trent’anni? È ancora vero che la bellezza salverà il mondo e le macchine riusciranno a diventare belle?

Non ne ho francamente la più pallida idea. Spero solo che con minore disuguaglianza, fame, disperazione e cattiveria il mondo ci sia ancora fra 30 anni e le macchine sono sempre state belle… se usate bene.




La reputazione guiderà gli investimenti in comunicazione nel 2021

La reputazione guiderà gli investimenti in comunicazione nel 2021

Il budget complessivo mondiale di spesa in comunicazione nel 2020 sarà di circa 4,2 miliardi di dollari, in calo rispetto ai 4,8 miliardi del 2019

Perennemente connessi e necessariamente concreti. Monitorano le conversazioni sulla loro azienda, dialogano con giornalisti e blogger, scrivono comunicati stampa, accompagnano i top manager spoke person negli eventi pubblici e in televisione, proteggono la reputazione del brand da potenziali speculatori. In fondo sono in prima linea, anche se spesso dietro le quinte. Ecco l’identikit dei comunicatori aziendali, fotografati come ogni anno dal rapporto “The Influence 100” promosso dalla società newyorkese PRovoke.

Una fotografia prevalentemente statunitense, quella che emerge anche per questa nuova edizione: il 56% dei più apprezzati comunicatori opera nel Nord America, mentre il 24% arriva dall’Europa. Leadership prevalentemente al femminile con il 54% del campione a livello globale. Prevalgono i profili che operano nelle aziende di food & beverage, tecnologia, viaggi e retail. Crescono quelli al lavoro nelle Ong, calano invece nei servizi finanziari e nel comparto industriale. Il budget complessivo di spesa in comunicazione nel 2020 è stato di circa 4,2 miliardi di dollari, in calo rispetto ai 4,8 miliardi di dollari del 2019. Tra le cause c’è l’epidemia, che ha costretto a rivedere messaggi, investimenti, priorità. Anche se ben 9 comunicatori su 10 hanno dichiarato che non ci sono stati tagli di personale nella loro azienda. Per i migliori 100 comunicatori al mondo la proiezione legata agli investimenti del 2021 vedrà una forte attenzione sulla reputazione aziendale (75%), sulle pubbliche relazioni (66%), sulla gestione dei social media (55%), sulla gestione delle crisi (30%). Molto meno rilevanti le esperienze di influencer marketing (23%) o le classiche sponsorizzazioni (9%).

Le aziende leader

I top 100 hanno individuato anche le aziende che hanno gestito al meglio la comunicazione e la reputazione: in vetta spiccano Microsoft, Walmart, Apple, Google, Starbucks, Mars, Patagonia. Le sfide del futuro hanno a che vedere con la gestione del lavoro in una logica plurale e contemporanea: le restrizioni di viaggio e movimento, la discontinuità con cui le imprese devono gestire la customer experience, l’interruzione del lavoro e gli aspetti di salute del personale. Così il ruolo del comunicatore diventa più sociale e con una responsabilità allargata.

L’Italia nella top 100

Nella classifica è presente anche Ryan O’Keeffe, attualmente managing director Emea di BlackRock e professionista che ha lavorato in Italia come direttore comunicazione global di Enel. Una sola comunicatrice italiana nel rapporto: è Lorenza Pigozzi, direttrice comunicazione di Mediobanca. «La crisi sanitaria ha influito molto anche sotto il profilo della comunicazione. Le aziende hanno necessità di rafforzare le relazioni con i propri clienti e stakeholder e per farlo devono puntare sull’autenticità dei propri valori, sulla coerenza del percorso che hanno intrapreso negli anni», afferma Pigozzi, nata sul Lago Maggiore e oggi basata su Milano, in tasca una laurea in lingue e letterature straniere conseguita all’Università Cattolica e un passato professionale prima in Lazard e poi in Sanpaolo Imi. Nel 2001 l’approdo in Mediobanca, dove ha disegnato da zero la comunicazione e ne ha valorizzato la reputazione anche fuori confine e in nuovi segmenti di business. «In questo contesto che cambia così rapidamente è necessario ripensare le strategie, rimodulare stile e canali, sperimentare, ripensare i processi. Le nuove architetture digitali sono già il nostro presente. La comunicazione ha un ruolo strategico nel successo di ogni azienda e come tale non può essere usata in termini tattici. Il successo di una buona strategia di comunicazione lavora nel solco del Dna di ogni brand, il valore di oggi è costruito sulla storia di ieri», precisa Pigozzi.