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Lo storytelling è morto, viva le storie che fanno immedesimare chi le ascolta

Lo storytelling è morto, viva le storie che fanno immedesimare chi le ascolta

Le aziende che non comprendono che il modo per recuperare un’identità valida ed efficace è svestire i panni dell’eroe e indossare quelli del mentore.

Analizzando il sistema capitalistico contemporaneo, il sociologo Richard Sennett lamentava una mancanza di narrativa. È sempre più difficile recuperare la nostra origine storica. Se ci pensate, costruirsi una narrativa era una cosa semplice nelle generazioni passate: si aveva una tradizione, un sostrato di elementi culturali che afferivano, a loro volta, a generazioni precedenti, rituali condivisi, spesso comunitari, una socialità antica basata sulla condivisione di artefatti unici e indispensabili.

Oggi invece storytelling è una parola abusata e, come tutti i grandi concetti che passano di bocca in bocca tra veri esperti, presunti guru e genuini appassionati, si ritrova ad ogni passaggio assottigliata di valore, come un messaggio trasportato nel gioco del telefono senza fili. Se le regole della narrazione, la morfologia della fiaba di Vladimir Propp e il Viaggio dell’eroe di Christopher Vogler sono entrati nell’recchio del primo giocatore della catena come promotori di un sapere quasi scientifico, portavoce di un’analisi dai risultati comprovati, ciò che invece è uscito dalla bocca dell’ultimo partecipante della catena è un’accozzaglia di spunti senza senso, spesso meri trasporti emotivi, del tutto incapaci di una visione strategia e di lunga durata per uno scrittore, figurarsi per un’azienda.

Spesso, il primo errore nell’implementazione di uno storytelling aziendale coeso ed organico sta nella definizione del brand all’interno della narrazione. La faccio semplice: se il brand è l’eroe della storia, il protagonista principale, il centro di gravità della trama, la storia non piacerà. O meglio, potrà anche piacere, ma finirà con mancare di un ingrediente chiave: la potenza dell’immedesimazione. Questo è, per esempio, l’errore più grossolano nell’implementazione di una vera e propria struttura di Corporate Social Responsibility che si metta al centro della comunicazione interna e del marketing.

A nessuno piace vedere qualcuno che, come si suole dire, si “imbroda”, e volendo ci sono già moniti neotestamentari molto chiari («Non sappia la tua mano sinistra ciò che fa la destra», Matteo 6, 3). Eppure, questa semplice regola aurea sembra che non risuoni nelle orecchie di chi intonaca la facciata dell’azienda di bianco candido senza però prima stuccarne le crepe vistose. Come un attore che, non scendendo a patti con l’età che avanza, ricorre a trattamenti estetici talmente vistosi da rendere ancora più palese la sua condizione, così sono le aziende che non comprendono, al fondo, che l’unico modo per recuperare un’identità valida ed efficace è svestendo i panni dell’eroe per indossare quelli del mentore.

Questo termine deriva da un personaggio dell’Odissea, Mentore appunto, che accompagnava Telemaco, figlio d’Ulisse, alla ricerca del padre perduto. Sotto le spoglie dell’anziano precettore tuttavia c’era Atena, figlia prediletta di Zeus, dea della saggezza. La divinità si fa piccola, maschera la sua grandezza per accompagnare e sostenere colui che pare orfano di padre, di una guida, di un’identità storica pregressa. Avendo noi perso i padri – a detta almeno di tutta una grande corrente psicologica contemporanea (e voglio citare il testo di un giornalista illustre – ma non psicologo – Contro i Papà di Antonio Polito) – le aziende hanno avuto la grande opportunità di poter compensare una mancanza.

La fiducia verso le aziende tuttavia, e in special modo dopo il 2008, anno infausto della crisi economica, è venuta a calare, almeno a detta dell’Edelman Trust Barometer, il report annuale che analizza dove si muove la fiducia dei popoli nel mondo. Il tempo per recuperare la fiducia non può che essere questo, quando si annusa l’aria di una pressante e incombente crisi economica che, come nel 2008, avrà strascichi ad oggi ancora difficili da decifrare.

Se lo storytelling fosse morto, non ci sarebbe speranza di una nuova narrazione condivisa. Tuttavia, nel ritorno alla forma del mentore, anche le aziende possono cercare di recuperare una propria narrazione autorevole, meno eroica e più supportiva. A patto che prima di imbiancare la facciata, riparino le crepe all’intonaco, sempre che le stesse non siano conseguenza di fratture ben più profonde. In tal caso, prima ancora dello storytelling, può essere utile un esame di coscienza.




SALVINI PREMIER? CAMBIA LA COMUNICAZIONE POLITICA, DAL PAPEETE BEACH ALLA PALESTRA PER PALAZZO CHIGI

SALVINI PREMIER? CAMBIA LA COMUNICAZIONE POLITICA, DAL PAPETE BEACH ALLA PALESTRA PER PALAZZO CHIGI

Tempo fa, in un articolo a firma mia e di Giorgia Grandoni, avevo analizzato i vari motivi alla base della scarsa credibilità della classe politica italiana, riconducibili all’assoluta carenza di autenticità nei messaggi e alla narrazione istericamente contraddittoria, finalizzata esclusivamente alla raccolta di consensi a breve termine e attenta – in particolare – al sentiment del momento espresso dai cittadini sui Social, piuttosto che alla costruzione di un’idea di Nazione peculiare, da coltivare e realizzare con costanza e congruenza nel medio-lungo termine.

Al di la di ogni valutazione di tipo “partitico”, scrivevo che – tecnicamente, sotto il profilo della gestione della reputazione – tutto ciò non può che generare un’inevitabile crisi sistemica del mondo della politica: infatti, al di la delle legittime preferenze di ognuno di noi, l’appeal dei brand politici sull’elettore medio è oggi più basso che mai.

Comunicazione politica e shortermismo

Mentre le aziende corrono velocemente sul sentiero da tempo tracciato dell’enfatizzazione virtuosa dei propri valori, i leader politici, e le loro strategie, sembrano poggiare su messaggi e su declinazione di valori che cambiano a ritmo giornaliero, mutando continuamente in base a specifiche convenienze.

La politica, nel tentativo di accaparrarsi facili consensi, è vittima di una malattia che in un’intervista all’Harvard Business Review l’economista Stefano Zamagni definì, in modo assai centrato, come “shortermismo”: lo riscontriamo nel pericoloso calo di adesione e di protagonismo dei cittadini alla vita pubblica, con una percentuale di astensionismo che ha raggiunto nuovi record (oltre 21,5 milioni di persone in Italia in occasione delle ultime elezioni europee hanno scelto di non esercitare il proprio diritto al voto). Tra chi non si reca alle urne per protesta, e chi perché non si sente rappresentato adeguatamente dalle varie proposte politiche, il gap tra cittadini e gli uomini politici si fa più ampio che mai.

Anche nel resto dell’Europa, le eccezioni sono poche: brilla ad esempio l’inossidabile cancelliera tedesca Angela Merkel, vera case-history di eccellenza nella gestione della comunicazione durante l’emergenza pandemica e campione di chiarezza e di sobrietà; oppure, allargando lo sguardo fin dall’altra parte del globo, Jacinda Ardem, l’amato e rispettato Primo Ministro della Nuova Zelanda (nuovamente una donna, sarà un caso?) la cui storia ho brevemente raccontato in un’altra mia recente analisi.

L’importanza dei valori “immateriali”

Come sappiamo, la reputazione è un asset importante – il più prezioso tra quelli “immateriali” – che si costruisce assieme ai propri pubblici, per durare nel tempo, ed essere poi “scambiata” con una sempre più ampia licenza di operare: la scelta dei politici nostrani di ignorare sistematicamente questa realtà sta scavando un solco sempre più grande tra sistema politico italiano e la cittadinanza, danneggiando il primo – riducendone, tra l’altro, potenzialità ed efficacia – e disilludendo i secondi.

Autenticità, coerenza, comunicazione di valori conformi alla propria identità, creazione di strategie di brand reputation a medio-lungo termine (sia che si tratti di aziende che di istituzioni pubbliche o influencer politici), capacità di saper prevenire scenari futuri di crisi reputazionale e, infine, propensione ad assumersi le proprie responsabilità: queste sono sei tra le principali best practices da seguire per tutelare al meglio la propria reputazione, e questo è ciò che la politica italiana può – e dovrebbe – imparare dal Reputation management aziendale.

I politici nostrani, invece, non godono certo di una buona reputazione, una realtà non solo riscontrabile da un’analisi empirica, ma assodata, in quanto documentata e misurata: coinvolti in quella che appare come una campagna elettorale permanente, i politici disilludono il pubblico, tentando ridicoli equilibrismi tra alleanze improbabili e la scelta di abbracciare oggi ciò che solo ieri si criticava aspramente, o viceversa.

Successo e crisi (comunicazionale) di Matteo Salvini

Un caso che sta facendo discutere, e non poco, è quello dell’ex Vicepremier ed ex Ministro degli Interni Matteo Salvini, che fino a prima dell’estate 2019 non aveva rivali riguardo al consenso sulla Rete, forte anche della sua efficiente macchina digitale di propaganda, chiamata dagli addetti ai lavori “La Bestia”, in grado di intercettare in tempo reale il sentiment degli elettori su specifiche tematiche, e produrre quindi contenuti funzionali ad aggregare facilmente seguaci tra persone di ogni genere ed età.

Forte del suo ruolo di “più commentato online”, come scrivevo nell’articolo citato in apertura, Matteo Salvini aveva saputo costruire il proprio consenso sulle piattaforme dei Social network, raggiungendo una percentuale di commenti positivi da parte della propria fan-base dell’83%, il doppio rispetto alle testate giornalistiche, dove è apprezzato solo nel 43% dei commenti, con quasi 3 milioni di follower sulla sua pagina Facebook, e con la scorsa estate ben 439.397 post e commenti da parte dei suoi fan, un numero quattro volte superiore rispetto ai commenti pubblicati nello stesso periodo sulla fan page di Luigi Di Maio (97.998) e addirittura quaranta volte rispetto al profilo dell’ex Premier Giuseppe Conte (10.923), all’epoca in carica.

Un anno dopo l’insediamento, come ricorderete, la crisi di governo, e il re dei consensi sul web vide scricchiolare la propria leadership, vittima dell’instabilità che lui stesso generò: sui Social, e persino sulla sua stessa pagina Facebook, da sempre emblema della sua potente forza comunicativa, venne bombardato dai commenti critici di coloro che si sentirono “traditi” dalle sue scelte politiche. La crisi di agosto 2019, infatti, diede il via a un’altalena di cambi di opinione, incongruenze e colpi di scena tra i leader politici, a un ritmo così elevato da riuscire a stupire la maggior parte degli italiani, pur normalmente “assuefatti” ai cambi repentini di posizioni e alleanze dei protagonisti della politica, con il Movimento 5 Stelle in grado di passare in pochi giorni dagli insulti al PD – il “partito di Bibbiano” – a “governiamo con il PD”. In casa pentastellata, tuttavia, le obiettive carenze sul fronte del rispetto del fondamentale pilastro reputazionale della coerenza non sono certo una novità, e – a riprova di quanto “costi” violare i fondamentali del reputation management – il partito di Grillo è riuscito a inanellare un record negativo dopo l’altro, passando in meno di 2 anni da più del 30% di consensi a – secondo le attuali intenzioni di voto – circa il 10%.

Salvini, egualmente, per quelle scelte pagò un prezzo tangibile ed evidente in termini di consenso diffuso, tanto che secondo l’Osservatorio permanente sulla reputazione digitale dei Ministri di Reputation Science, società che si occupa dell’analisi e della gestione del posizionamento sul web, e che ha monitorato costantemente la percezione online degli utenti nei confronti dei protagonisti politici in Italia, in quel periodo la reputazione dell’ex Ministro Salvini registrò un significativo calo. Per quale motivo?

Occupazione di spazio a qualunque costo vs. costruzione della reputazione

La risposta è semplice: la politica – esattamente come le aziende – ha tutti gli strumenti per identificare, monitorare, comprendere quali sono le aspettative e le esigenze dei cittadini, qui ed ora, grazie alle nuove tecnologie in grado di monitorare il sentiment del pubblico sulle diverse piattaforme Social, e usa questi strumenti per raccogliere una miriade di informazioni e di dati su aspettative e desideri degli elettori, informazioni spesso inquinate da bias potenzialmente distorsivi; questi dati vengono poi utilizzati per “adattare” costantemente la comunicazione politica ai desiderata del pubblico e per apparire in sintonia con gli umori prevalenti, invertendo il processo e agendo quindi non da traino, disegnando un’idea di nazionale e lavorando per costruirla, bensì semplicemente parlando alla pancia degli elettori e seguendo i loro umori del momento.

Mentre le aziende hanno da tempo compreso che la reputazione si costruisce assieme ai propri pubblici, col tempo e per durare nel tempo, la politica si da un’“agenda” diversa: occupare velocemente lo spazio mediatico, intervenendo per primi sulla notizia del giorno, polarizzare tutta la discussione, lanciare messaggi forti e spesso sguaiati, estraendo dall’opinione pubblica sentimenti come rabbia paura e aggressività, i cosiddetti “sentimenti negativi”, funzionali a catturare il consenso di coloro che ascoltano; queste sono le caratteristiche di una strategia di comunicazione politica che brucia il proprio capitale reputazionale sull’altare del consenso immediato, strategia che è stata per lungo tempo la “cifra” della comunicazione politica di Matteo Salvini.

Salvini rinasce e il suo stile di comunicazione politica volta (nuovamente) pagina

Oggi, tuttavia, leggiamo ancora una volta una “storia” diversa: dopo un periodo di gestione pandemica durante il quale i tecnici, gli esperti e i “professori” hanno ritrovato per forza di cose ruolo e autorevolezza, il pirotecnico leader della Lega è nuovamente al governo, seppur questa volta per interposta persona, e sotterra l’ascia di guerra, indossando il tovagliolo per sedersi a tavola, pur senza abbandonare il suo piglio vivace, con dichiarazioni sorprendenti e disorientanti per chi ha strumenti per leggere tra le righe.

Dinnanzi agli accesi malumori di una parte del suo elettorato, infiammata dall’obiettiva e disarmante incompetenza del Ministro Speranza, che – pur avendo piene deleghe per la gestione dell’emergenza pandemica durante tutta la crisi di governo appena conclusa – attende le ultime ore prima della riapertura degli impianti da scii per comunicare agli imprenditori della montagna che la stagione è conclusa ancor prima di iniziare e che gli impianti resteranno chiusi, promettendo (nelle promesse i membri della nostra sciatta e dequalificata classe politica continuano ad essere campioni…) improbabili ennesimi ristori, Salvini prende la parola per dire: “Non è tempo di divisioni, è tempo di assumersi responsabilità, di stare uniti, mettiamo da parte i malumori e lavoriamo a testa bassa”. Il messaggio al suo popolo è tanto inaspettato quanto chiaro: ci sarà tempo e modo per avere soddisfazione, ora dinnanzi a questa tavola imbandita dobbiamo fare la nostra parte “nell’interesse del Paese”.

Aveva già destato forte stupore il richiamo – di fatto europeista – di pochi giorni fa, nel punto stampa tenuto da Salvini all’uscita dalle consultazioni con il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella (“Siamo in Europa, ma vogliamo un’Italia che abbia più voce nella UE”), come anche la successiva dichiarazione pro-Draghi (“Non sarò mai lo sfasciacarrozze di questo Governo”) e ancora la dichiarazione sul Ministro della Salute dopo le polemiche dell’altro giorno (“Speranza ha avuto un anno di forte tensione, non lo invidio, lo sosterremo in ogni modo”).

Ora il segretario della Lega procede a ritmo serrato, e mira forse a rendere evidenti le contraddizioni di Andrea Orlando, il Ministro PD che non più tardi di un mese fa aveva liquidato la Lega affermando “Un governo anche con Salvini? Neanche venisse Superman”, e che ora dovrà rassegnarsi non solo a governare con il leader del più importante partito del centro-destra ma anche a incontrarlo e a negoziare proprio con lui vari dossier caldi sul tema del lavoro.

Una vera e propria giravolta: prima le cubiste, le bandane, i cocktail super-alcolici e la musica sguaiata del Papeete Beach di Riccione, ora una comunicazione politica volta all’assunzione di responsabilità come “azionista” del Governo Draghi, condita da abbondanti dosi di rassicurante buonsenso.

Stante il clima nel Paese, e la voglia di voltare pagina, vari esperti osservatori tracciano già la linea: al Governo dell’ex Presidente della BCE il lavoro difficile di contenimento della pandemia, di accelerazione della campagna vaccinale, e d’impostazione delle riforme strutturali indispensabili per far uscire il Paese dalla crisi; poi, nuove elezioni, e governo di centro-destra.

A quel punto, nella sua nuova veste di politico dotato della “diligenza media del buon padre di famiglia” (cit.) la strada per Palazzo Chigi, per il leader leghista, sarà molto probabilmente perfettamente spianata.




Parliamo di reputazione….

Parliamo di reputazione....

Giovedì 4 febbraio ho “preso un caffè”, chiacchierando di reputazione con Piero Muscari, nel suo format “un caffè che vale”, in collaborazione con 101Caffè.

Qui di seguito, l’audio della trasmissione:

Puoi anche guardarla sul canale Youtube di Italiavale;




Giochi di ruolo online: nuova frontiera della socializzazione in epoca Covid? Intervista a Davide Murmora

Giochi di ruolo online: nuova frontiera della socializzazione in epoca Covid? Intervista a Davide Murmora

Davide Murmora da 20 anni si occupa di comunicazione web e, specificatamente, di posizionamento nei motori di ricerca. Sul suo sito gestisce un blog su Social, Google e loro funzionamento. Lo ho intervistato per creatoridifuturo.it

Web & Social come fuga dalla realtà, specie in epoca Covid. Un mondo (online) sempre più polarizzato e aggressivo, quasi una “valvola di sfogo”. Da utente digitale e da informatico esperto, come legge questo scenario?

L’aggressività sui social è un fenomeno molto noto che, se vogliamo, si è anche acuito nel periodo Covid (poiché abbiamo più tempo libero e dedichiamo maggiore attenzione ai Social). Da un lato rileviamo quello che gli psicologi chiamano “caduta dei freni inibitori” o “caduta dei freni sociali”, diretta conseguenza della aumentata percezione di sicurezza personale dovuta allo schermo “protettivo”. Abbiamo di fronte uno schermo, non una persona reale, questo ci può dare la falsa sensazione che le nostre parole non abbiano conseguenza sugli altri o comunque su persone “vere e reali” quanto noi. I fenomeni che ho citato sono oggetto di studio da parte di psicologi, ma questo non ci impedisce di utilizzare comunque i social e farli utilizzare anche a soggetti minori di età, i quali invece meriterebbero maggiori tutele. La seconda causa dell’aggressività sui social sono proprio i loro algoritmi, che creano due fenomeni ugualmente preoccupanti: la filter bubble ed i post virali. Filter bubble è un termine, noto da tempo agli addetti ai lavori, coniato per la prima volta dall’attivista internet Eli Pariser nel suo libro “The Filter Bubble: What the Internet Is Hiding from You”: in pratica il social network, per fare in modo di aumentare il tempo di connessione da parte degli utenti, finisce per mostrarci soltanto i risultati che ci fa piacere vedere. Ed è inutile mettere mi piace a pagine che la pensano diversamente da noi (ad esempio con diverso orientamento politico) perché, a meno che non ci ricordiamo di navigarle spesso e mettere likes (anche quando non siamo d’accordo) in breve tempo semplicemente spariranno dalla nostra vista. Lo stesso vale per gli amici che leggiamo o che vediamo online. In poche parole Facebook, ma anche Google quando ci mostra i risultati di ricerca, decide per noi cosa dobbiamo vedere. Siamo in una sorta di gabbia, rotta esclusivamente per fare entrare qualche contenuto virale; il che ci porta al secondo punto, i post virali. Quando un post diventa virale? Quando riceve molti like e molti commenti. Cosa succede a quel punto? Facebook (per citare il Social più conosciuto) apre il rubinetto e mostra il post a più persone, e man mano che il post macina likes e commenti ecco che il rubinetto viene sempre più aperto e il post a quel punto diventa virale. Quali post diventano virali? Un tempo bastavano i likes, e quindi ecco i post di gattini, ma ora l’algoritmo è cambiato ed i commenti sono più importanti dei like. Ecco quindi che i post che causano contrasto, indignazione, in poche parole alimentano la rabbia, sono quelli che paradossalmente si diffondono di più. Nei social quindi o restiamo chiusi nel nostro recinto, o ci arrabbiamo: entrambi gli scenari sono inquietanti.

Lei è – tra le altri cose – un progettista di giochi di ruolo, l’ultimo suo prodotto è Crossdoom, un gioco di ruolo di grande giocabilità, molto semplice e adatto anche a utenti non esperti. Quali sono le caratteristiche più innovative di questa Sua proposta, e in generale come si sta evolvendo questo specifico settore?

Il gioco di ruolo è per certi versi esattamente l’antitesi del videogioco. Mentre il videogioco spinge all’isolamento e al gioco solitario o solo al guadagno personale quando si gioca con altri, il gioco di ruolo è vissuto, nella vita reale, intorno a un tavolo, con dei dadi (a volte anche senza) e può essere di diversi generi: fantastico, fantascientifico, investigativo. Nel gioco di ruolo classico, sono presenti generalmente due figure: il game master (detto semplicemente master) e i giocatori. Il master conosce il manuale delle regole e crea la storia che poi i partecipanti giocano, interpretando uno dei personaggi che il manuale mette a disposizione. Con l’esplodere dell’epidemia Covid e il distanziamento sociale imposto dall’emergenza, giocare intorno ad un tavolo è diventato impossibile ed allora molti giocatori hanno scoperto il gioco di ruolo nella sua versione online, sfruttando diverse piattaforme (peraltro già presenti anche in precedenza) come Roll20, Discord, e vari altri sistemi di multi-chat, e le giocate di ruolo sono aumentate anziché ridursi. Il gioco di ruolo online permette di giocare con persone anche molto lontane (ho giocato poche sere fa con un amico di Roma) e questo fa si che i gruppi di gioco si mescolino e che tutti ne abbiano guadagno dal punto di vista anche emotivo, perché più si gioca con persone differenti più la nostra abilità come giocatori o Game master ne trae guadagno, come anche viene soddisfatto il nostro legittimo e naturale desiderio di socializzazione.

Il gaming è parte della proposta (o bombardamento, direbbero i più pessimisti) transmediale al quali è sottoposto il cittadino nel XXI secolo: anche in questo caso esiste un rischio di “fuga dalla realtà” e di non “effetto rifugio” per non dover confrontare le criticità che ci assillano in epoca pandemica?

Come detto sopra, i videogiochi tendono a isolare, anche quando richiedono una modalità cooperativa, perché in quasi nessun gioco è importante la vittoria della squadra fine a se stessa (come ad esempio è invece nel gioco di ruolo), ma sempre come fine per ottenere guadagni personali. Detto questo esistono anche dei videogiochi che sono dei veri e propri giochi di ruolo in solitaria, come ad esempio Cyberpunk. Nonostante l’immersività, le immagini definite e il 3D però non vedo ancora un pericolo di fuga della realtà, sino a che si rispettano le età consigliati per l’utilizzo dei singoli giochi. Vero è che quando un gioco è vietato ai minori di 18 anni non lo si dovrebbe acquistare per un bambino, anche se lo hanno tutti i suoi compagni; stessa cosa dicasi per i videogiochi vietati ai minori di 14 o 12 anni. Queste regole – che non sono elaborate a caso da chi ha progettato il gioco, ma seguono precise indicazioni degli esperti – troppo spesso non vengono assolutamente rispettate dai genitori che, diciamo chiaramente, mettono in pericolo i propri figli, e anche lo stesso mercato dei videogiochi. Un esempio: basta ascoltare su Youtube alcuni tutorial di Grand Theft Auto V fatti da voci talmente giovani che non possono appartenere ad un maggiorenne, eppure non soltanto hanno giocato al videogioco che è rigorosamente vietato ai minori di 18 anni, ma ci hanno giocato talmente tanto da poterne fare un tutorial su Youtube!

Un eccezionale contributo de La Civiltà Cattolica pubblicato pochi giorni fa mette in allarme sui rischi della mancanza di controllo sulle Intelligenze Artificiali. Cosa ne pensa?

Non penso si sia già arrivati al punto da doversi preoccupare del rischio di singolarità con le Intelligenze Artificiali; siamo però sicuramente già al punto di doverci preoccupare di tutelare i minori da Social network pericolosi per la stabilità mentale ed emotiva di bambini e ragazzi, che utilizzano algoritmi creati appositamente per dare dipendenza a una mente giovane ed inesperta. Uno su tutti: Tik tok, al centro di enormi polemiche deflagrate proprio in questi giorni dopo la morte di una ragazzina siciliana che aveva ingaggiato una challenge su quel Social. Dopo avere visto il documentario su Netflix “The Social Dilemma”, viene da chiedersi come mai il governo non abbia ancora proibito il Social network tik tok ai minori di 18 anni. Un’emergenza crescente, che ci richiama tutti a maggiore responsabilità, e che temo non potrà che andare a crescere.




TRIVIOQUADRIVIO: “È ORA DI LEGALIZZARE LA COMPLESSITÀ”

TRIVIOQUADRIVIO: “È ORA DI LEGALIZZARE LA COMPLESSITÀ”

Intervista di Giorgia Grandoni a Leonardo Previ – Presidente di Trivioquadrivio, Sustainability Manager di Starching – sulla campagna LEGALISE COMPLEXITY e sul il podcast gratuito di 10 episodi nato per raccontare i vantaggi della complessità legalizzata.

Come nasce questo affascinante progetto sulla legalizzazione della complessità?

Come spesso accade in questi casi, da un’istanza, un’urgenza: siamo esausti di una classe dirigente che rifiuta questa caratteristica così diffusa nell’epoca nella quale viviamo che è la complessità. Da una parte, c’è la consapevolezza, da parte nostra, che la complessità è diffusa, onnipresente e dunque impossibile da schivare, e dall’altra parte c’è la constatazione, la presa d’atto, che chi ha dei ruoli di responsabilità agisce molto frequentemente come se la complessità, invece, non fosse parte dell’equazione. Come se al posto della complessità ci fosse quella che appunto noi chiamiamo “complicazione”. Il podcast nasce quindi dall’idea di rendere il più evidente possibile che quando si affrontano difficoltà con gli strumenti non adatti si è destinati a continuare a convivere con quella stessa difficoltà. L’esempio che facciamo spesso è proprio questo. Noi frequentiamo molte imprese, frequentiamo decisori, leader, dirigenti davvero bravi con la propria cassetta degli attrezzi a fronteggiare problemi complicati, magari problemi anche particolarmente articolati. Ma quando si trovano a dover fronteggiare un sistema complesso ecco che le loro chiavi inglesi girano a vuoto. Di qui è nata l’idea di costruire un percorso in 10 episodi che raccontasse le basi teoriche di questo movimento che noi chiamiamo di diffusa “criminalizzazione della complessità” e che poi desse anche qualche spunto per capire come legalizzare la complessità, come tornare a non averne paura. Per molto tempo noi umani non abbiamo affatto avuto paura della complessità, che è stata a lungo parte dalla nostra cultura. Ecco, noi nel podcast suggeriamo di adottare alcuni stratagemmi, alcuni atteggiamenti che ci possono aiutare in primo luogo a non averne paura, perché la paura non è mai una buona compagna di strada quando si tratta di assumere decisioni delicate; e in secondo luogo una volta liberatici dalla paura, capire come possiamo fare per ottenere il risultato che noi riteniamo più ambito: abitare la complessità.

Chi sono i “criminalizzatori della complessità”?

Tutti coloro che a partire dal secondo dopoguerra hanno, a volte consapevolmente, a volte inconsapevolmente, adottato strumenti adatti a tentare di gestire un mondo complicato. Gli strumenti dell’analisi, gli strumenti della statistica, gli strumenti della valutazione quantitativa. Nella categoria dei decisori noi inseriamo dirigenti d’azienda, ma anche i dirigenti della pubblica amministrazione, i dirigenti scolastici, e tutti coloro che dentro ambiti organizzativi molto più intimi e persino privati come le famiglie, si comportano assumendo decisioni come se tutto ciò che non è quantificabile, non avesse dignità di esistenza. Questi sono i criminalizzatori della complessità perché da una parte, hanno imparato e dall’altra hanno insegnato – quindi sono stati in qualche modo loro stesse le prime vittime di un sistema educativo che ha messo “fuori legge” la complessità – un’attitudine molto diffusa, molto pervicace che ha cercato di negare la presenza della complessità nei sistemi organizzativi. I principali responsabili di questa criminalizzazione della complessità sono proprio i decisori. Coloro che maneggiano il potere, e che possono stabilire per esempio quali criteri adottare per misurare la validità di una prestazione professionale o di una prestazione formativa o di un sistema di apprendimento. Coloro che possono decidere da che parte occorre guardare per stabilire se si è fatto o meno un buon lavoro. Questi sono i criminalizzatori della complessità. Nel podcast li chiamiamo, semplificando, burocrati oppure luogo-comunisti.

Cosa si intende per “decomplessificazione”?

È una parola che abbiamo rubato a un antropologo, Francesco Remotti, e che identifica un aspetto molto molto importante di legalize complexity. Remotti dice: “la complessità è dappertutto non la possiamo scartare, ma a volte è talmente elevata che dobbiamo cercare con delicatezza e con cognizione di causa di semplificarla”. I processi di decomplessificazione sono quelli a cui noi stiamo assistendo in questi mesi di fronte all’emergenza sanitaria. Questa è un’emergenza ampia che chiama in causa campi molto distanti tra di loro. È una emergenza che ci irretisce tutti, che ingarbuglia lo scenario. Che collega le decisioni politiche collegate a quelle economiche e queste ultime a quelle sanitarie. Ecco, tutta questa serie di intrighi, dice Remotti, quando si ingarbugliano troppo, occorre vengano un po’ semplificati. Remotti usa un’immagine che ci ha ispirato e che usiamo molto spesso: decomplessificare significa passare dagli intrighi agli intrecci. Mentre gli intrighi sono territori nei quali non si capisce bene che cosa succede, e si espongono facilmente al caos, gli intrecci sono come i tappeti: ci offrono un pavimento più solido sul quale noi possiamo camminare per cercare di fronteggiare le situazioni complesse.

Proprio in relazione a quello che mi ha appena detto volevo proporle una riflessione: nell’ultimo libro del professor Luca Poma, “Apri la tua mente”, la crisi viene descritta come “Un repentino e inaspettato aumento del grado di entropia in un dato sistema”. Tanto più aumenta l’entropia, tanto più cresce il caos, in un sistema che se paragonato a un’organizzazione complessa corrisponde ad un numero di informazioni impossibili da processare, e quindi a uno stato di crisi. Allo stesso modo, la totale assenza di entropia in un sistema, e quindi di complessità, potrebbe essere paragonata a una “morte” dell’organizzazione dove non esistono azioni, intenzioni, movimenti, comunicazione. È quindi quanto mai opportuno oggi per chi si occupa di crisi e di comunicazione imparare a “leggere la complessità” garantendo in questo modo un grado di entropia per quanto possibile basso e conseguentemente una maggiore accessibilità alle informazioni disponibili e una valutazione di possibili scenari. Lei cosa ne pensa?

Credo che, come abbiamo raccontato nel podcast, attraverso strumenti nuovi ai quali magari si può accedere aprendo appunto la propria mente, o se volessimo utilizzare un’immagine metaforica, attraverso l’utilizzo di occhiali diversi rispetto a quelli a cui siamo abituati, possiamo senz’altro capire meglio quali sono le informazioni di cui in quel preciso momento abbiamo bisogno. Nel podcast facciamo spesso riferimento ai pericoli della comunicazione e al valore delle relazioni. Questo è naturalmente un vecchio argomento dei migliori tra i relatori pubblici: c’è una insistita sopravalutazione del valore della comunicazione e c’è una diffusa sottovalutazione del valore delle relazioni. La complessità è di fatto un sistema di relazioni, un sistema estremamente articolato nel quale è piuttosto difficile riconoscere legami diretti, un sistema per lo più dominato da legami indiretti. Chi è capace di riconoscere il valore delle relazioni si può districare con maggiore maestria all’interno di questo sistema.

Oggi ci troviamo di fronte all’evidenza che con le sole capacità di analisi di computazione è impossibile decifrare e comprendere la complessa realtà che ci circonda. Le volevo chiedere, appunto, quali sono invece le abilità umane che occorre sviluppare secondo lei?

Legalize complexity insiste su una nuova parola che abbiamo inventato qualche tempo fa e di cui ci serviamo spesso che fa riferimento proprio a 3 capacità salienti: la parola è ASANABI, una parola composta da un acronimo delle iniziali di ascoltare, anticipare, abilitare. Queste sono a nostro avviso le 3 capacità chiave di chi intende abitare la complessità. La capacità di ascolto, un ascolto molto particolare quello che vuole ascoltare l’altro con l’obiettivo di cambiare il proprio punto di vista. Anticipare, come la capacità di riuscire, grazie alle abilità acquisite attraverso l’ascolto, ad anticipare le istanze dei nostri interlocutori e riconoscerle ancor prima che queste vengano notificate: quali sono i territori in cui i nostri interlocutori potrebbero venirsi a trovare? E infine abilitare, abilitare forse è l’elemento più importante di legalize complexity. Io credo, sono convinto da lungo tempo che i decisori debbano trasformarsi in abilitatori. La capacità principale del leader complesso è la capacità di abilitare le risorse di cui sono portatori tutti i collaboratori che circondano il leader, ma anche abilitare tutte le risorse che il territorio della complessità nel quale il leader si muove, offre. Ecco questo tema, dell’ascolto, dell’anticipo e dell’abilitazione è il nostro corrispettivo della “aprire la mente”, credo quindi che – tornando a quanto abbiamo accennato prima – il Professor Poma potrebbe ritrovarsi in questo in questo acronimo, in questo ASANABI, perché credo ci siano molte cose in comune con i discorsi che lui fa sulla entropia, sui sistemi, sull’ordine e sul caos.

Il nono episodio del podcast si concentra sul tema della misurazione e già nei primi minuti viene proposta un’interessante riflessione sulla differenza tra le dimensioni di impatto e di risultato. Le chiedo innanzitutto di spiegare brevemente ai lettori la differenza tra questi due indicatori, e poi vorrei chiederle: perché secondo lei essi vengono troppo spesso sovrapposti, perché è invece importante osservare con attenzione l’esatta dimensione dell’impatto?

La nostra cultura è innamorata dei risultati e noi abbiamo un sistema premiante nelle organizzazioni d’impresa che è ancorato, sostanzialmente, agli obiettivi. Il nome di questo sistema è Management by objectives. Gestiamo a partire dagli obiettivi. L’impatto è un concetto che eccede il risultato ottenuto. Ogni azione umana genera un impatto che è destinato ad andare oltre i risultati che immediatamente si possono cogliere. La figurazione, che più ci aiuta comprenderlo meglio, è proprio il sasso lanciato nello stagno: io ho l’obiettivo di lanciare il sasso, raggiungo lo stagno ma non mi accorgo, se mi concentro soltanto sui miei raggiungimenti immediati, che il mio gesto genera molti cerchi nell’acqua. Quei cerchi sono gli impatti generati dai miei gesti, a volte gli impatti generati dalle mie intenzioni e questi cerchi finiscono per raggiungere e bagnare delle sponde che io non mi accorgo nemmeno esistano, perché magari mi sono già voltato dopo avere lanciato il mio sasso, e mi sono disposto ad altri ottenimenti e cercherò di raggiungere nuovi obiettivi. Noi abbiamo ottimi strumenti per misurare i risultati, ma pessimi strumenti per misurare gli impatti. Per questo dobbiamo dotarci di un’attrezzatura che ci consente di valorizzare la complessità delle intenzioni umane e leggere il più possibile, valutare e dov’è possibile misurare, gli impatti che l’azione umana genera.

Secondo lei quali azioni quindi occorrono per imparare ad abitare meglio la complessità?

Noi abbiamo offerto un decalogo,10 attività, e chi abbia voglia di divertirsi a riconoscere 10 passi per abitare la complessità vi trova molti riferimenti. Ecco, io direi che se dovessi provare a dare un’idea di questa articolata serie di suggerimenti che noi diamo all’interno dei podcast, insisterei su un tema, forse il tema più semplice, ma ahimè il tema più abusato, che è il tema delle conversazioni. Abitare la complessità significa diventare maestri di conversazione, è ritornare ad essere capace di conversare con l’eleganza, con disponibilità, con il tempismo necessario ad offrire ai propri interlocutori l’opportunità di divenire contributori, di offrire un contributo significativo alla conversazione stessa. Noi abbiamo purtroppo disimparato a conversare. C’era un vecchio libro di Norbert Elias che raccontava bene il valore delle conversazioni nelle società di corte. Ecco, rispetto ai cortigiani, noi siamo diventati molto più volgari, abbiamo compromesso le capacità di ascolto e ci siamo scordati che comunicare non vuol dire necessariamente conversare. Per conversare ci sono alcune caratteristiche che appaiono difficili da frequentare, a volte contraddittorie: un limitato numero di persone, una disponibilità all’ascolto ampia e naturalmente la condivisione di un sistema di codici di riferimento. Quindi conversare significa comprendere quali sono i vocabolari a cui si riferiscono i nostri interlocutori ed essere capaci di abitarli, di tradurli, di frequentarli e quando questo non è possibile di sospendere la valutazione e sospendere il giudizio. Troppo di frequente noi finiamo per disabitare la complessità perché frettolosamente etichettiamo le valutazioni degli altri come irricevibili mentre dovremmo fare un po’ più attenzione e cercare di metterci in conversazione traducendo tutti i codici che non ci sono familiari.

Nel podcast si parla della figura del “impactholder” che in questo nuovo paradigma prende il posto dello “stakeholder”. Questa sostituzione “implica il principio che un progetto è ritenuto buono non soltanto se negozia con coloro che detengono un interesse riconosciuto rispetto agli esiti attesi del progetto stesso, diviene buono il solo progetto proposto da un progettista capace di conversare con tutti coloro che lo sappiano o meno e lo vogliano o meno, stanno per essere investiti dall’onda lunga del progetto”. Questa distinzione è totalmente assimilabile alle nuove e moderne mappature degli stakeholder – sulle quali ha lavorato il team di ricerca del prof. Poma già nel 2008 – in cui partendo dall’assunto in cui “tutti sono stakeholder” non esistono pubblici “influenti” ma solo un diverso grado di interconnessione con l’organizzazione (e tra di loro). Questa riflessione coerentemente con l’applicazione della logica ad insiemi sfumati (che caratterizza i diversi pubblici, anche quelli di minore prossimità) rende l’organizzazione complessa responsabile per tutti loro e consapevole dell’impatto che ogni azione può avere nell’ecosistema. Cosa ne pensa?

Penso che questa concezione del significato del termine stakeholder sia molto vicina alla nostra idea di impactholder. La ragione per cui abbiamo coniato questo termine è che dentro il termine stakeholder lavora una idea di attività, di responsabilità, di immediatezza, to hold and stake, che evoca una certa consapevolezza. Nel definire qualcuno stakeholder, noi stiamo attribuendo a questo qualcuno la capacità di to hold, di sostenere, di possedere, di gestire in qualche modo un interesse. La concezione di stakeholder che lei ha evocato è più ampia, quindi per me è decisamente più interessante. Quello che ci piaceva del concetto di impactholder è che spesso esistono stakeholder privi della consapevolezza dell’impatto che stanno per subire e dunque una buona misurazione di impatto deve raggiungere tutti quegli stakeholder che stanno per essere raggiunti da un impatto. Questo è un punto molto importante. È irrilevante come li chiamiamo. È importante che li coinvolgiamo. Quindi direi che c’è una convergenza molto ampia tra il concetto di stakeholder che lei offre e il nostro concetto di impact holder.

C’è qualcosa che le sarebbe piaciuto raccontarmi che non le ho domandato?

Questi sono 10 episodi da una ventina di minuti ciascuno, e nello scrivere i testi che ho successivamente registrato, con molto rammarico ho dovuto escludere molti temi. Oggi un aspetto che mi piacerebbe ricordare è che per abitare la complessità, come racconto nell’ultimo episodio, dobbiamo recuperare due valori molto importanti che credo siano rilevanti anche nelle relazioni pubbliche. Il primo elemento è la capacità di divertirsi: e con questo parlo di scanzonatura, dobbiamo tornare ad essere scanzonati, a non prenderci troppo sul serio; il che non significa affatto non fare le cose come si deve, bisogna fare le cose per bene ma con scanzonatura. Il secondo elemento, che sembra contraddittorio forse, rispetto chi si occupa di relazioni pubbliche e che spesso sembra votato ad un certo grado di visibilità, è quello della discrezione. Dobbiamo imparare a risultare più discreti perché al contrario abitare la complessità diventerebbe impossibile, verremo sopraffatti da essa. Al contrario, grazie a una personale discrezione potremmo cercare di abitarla. Quindi: divertiti e discreti. Ma di questo parliamo una prossima una volta…