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Un mistero di Internet risolto dopo 14 anni

Un mistero di Internet risolto dopo 14 anni

La carta da gioco numero 256 del videogioco Perplex City mostra la fotografia in primo piano di un ragazzo vicino a un fiume, davanti ad alcune case. Un selfie, anche se ancora nessuno li chiamava così. Era il 2006, e il 31 luglio i programmatori di quel gioco di realtà alternativa su Internet (ARG, Alternate Reality Game) avevano pubblicato quella carta insieme alle altre del mazzo centellinando bene gli indizi a seconda del grado di difficoltà. Sovrapposta sulla foto c’era una scritta in giapponese, la cui traduzione era “trovami”. L’unico indizio per quella carta era: “Il mio nome è Satoshi”.

Perplex City – creato dal team di sviluppo londinese Mind Candy – terminò nel 2008, e il sito di riferimento oggi non esiste più, ma una community di vecchi giocatori sparsi nel mondo ha proseguito per anni le ricerche intorno al rompicapo irrisolto. Gli sforzi nel frattempo avevano probabilmente superato le aspettative dei creatori stessi, attirando peraltro attenzioni sui siti di grandi quotidiani come il New York Times e il Guardian. A dicembre scorso le persone della community, tenute insieme e coordinate nel corso degli anni da una appassionata che nel 2006 creò un sito a questo preciso scopo (Findsatoshi.com), hanno annunciato di avere infine trovato Satoshi. Quattordici anni dopo, Satoshi in persona ha confermato e spiegato tutta la storia.

Come funzionava Perplex Cit

Gli ARG sono giochi di enigmi sviluppati principalmente su Internet ma utilizzando il mondo reale come “piattaforma” e una serie di prodotti commerciali (carte da gioco, giochi da tavolo, capi di abbigliamento e altro) come mezzo di narrazione della storia. Negli anni Duemila, oltre ad avere una certa popolarità tra i giocatori, erano osservati con interesse anche da aziende che intendevano autopromuoversi, anche eventualmente sostenendo i costi dei premi dei giochi.

Perplex City fu sviluppato dalla società britannica Mind Candy e preceduto da una lunga serie di teaser. Metteva in palio un premio da 100mila sterline per la prima “stagione”, avviata il 31 luglio 2006 attraverso la pubblicazione di 256 carte da gioco collezionabili. La linea narrativa della storia chiedeva di ritrovare, attraverso gli indizi disseminati nelle carte, un oggetto chiamato Receda Cube, che un personaggio chiamato Violet Kiteway aveva rubato dall’Academy Museum della città immaginaria di Perplex City e poi seppellito da qualche parte dopo essersi “teletrasportato” nel mondo reale. Era una specie di caccia al tesoro: per risolvere il gioco serviva interpretare gli indizi sulle carte e ricavarne indirizzi email e numeri di telefono, o risalire a siti e blog creati appositamente.

Su tutte le carte una patina da grattare via nascondeva un codice univoco che serviva ai giocatori per tenere traccia delle soluzioni parziali e aggiornare una classifica sul sito del gioco. Non tutte le carte erano indispensabili alla soluzione della prima stagione del gioco. La soluzione arrivò a gennaio 2007 – il Receda Cube si trovava al Wakerley Great Wood, un antico bosco vicino a Corby, nel Northamptonshire – ma l’inizio della stagione successiva subì diversi ritardi. Dopo il premio consegnato al giocatore vincente, Mind Candy faticò a trovare nuovi finanziamenti e Perplex City, insieme al sito con la classifica aggiornata e i nomi dei vincitori, chiuse nel 2008.

Le 256 carte da gioco

Le carte da gioco di Perplex City, vendute in pacchi da sei carte ciascuno (distribuite casualmente, come le figurine), erano contrassegnate da un colore che indicava il coefficiente di difficoltà del rompicapo proposto. L’ordine, dalla carta più facile a quella più difficile, era: rosso, arancione, giallo, verde, blu, viola, nero e argento. Al momento dell’assegnazione del premio della prima stagione, nel 2007, quasi tutti gli enigmi erano stati risolti. Ne rimanevano soltanto tre, proposti in tre carte di colore argento.

Quello legato alla carta 238 è l’unico enigma che gli sviluppatori hanno inserito nel gioco senza avere idea della soluzione. Chiedeva ai giocatori la dimostrazione dell’Ipotesi di Riemann, una congettura sulla relazione tra gli zeri di una certa funzione e la distribuzione dei numeri primi formulata per la prima volta nel 1859 da Bernhard Riemann e ritenuta uno dei più noti problemi irrisolti della matematica. Risolverlo conferirebbe un prestigio superiore a quello riservato al vincitore di un gioco di realtà alternativa, insomma, e implicherebbe tra le altre cose la vincita di un premio da un milione di dollari da tempo messo in palio dal Clay Mathematics Institute di Cambridge, in Massachusetts.

Un altro enigma per niente facile – rimasto irrisolto fino al 2010 – era quello della carta 251. Conteneva una stringa composta da 352 caratteri cifrati attraverso il sistema di crittografia RC5-64: si stima che per decifrare il messaggio sarebbero serviti 30mila computer dell’epoca in esecuzione contemporaneamente per diversi mesi.

L’ultimo enigma rimasto senza soluzione – a parte quello inavvicinabile della carta sull’Ipotesi di Riemann – era quello legato alla carta 256, intitolata “Billion to one”. Riproduceva la fotografia di un ragazzo, con una scritta in caratteri giapponesi stampata sul lato sinistro: “trovami”, diceva, e in un certo senso già quella traduzione era il primo livello da superare (il traduttore di Google come lo conosciamo oggi non esisteva). L’unico altro indizio fornito con la carta era una frase: “My name is Satoshi”. Qualora fosse stato rintracciato, da qualche parte nel mondo, Satoshi aveva istruzioni di rivolgere al giocatore un indovinello la cui risposta rappresentava la password per risolvere l’enigma.satoshi perplex city

Come chiarito in seguito dagli sviluppatori di Perplex City, con la carta su Satoshi gli autori volevano mettere alla prova la teoria dei sei gradi di separazione, un’ipotesi formulata nel 1929 da uno scrittore ungherese, Frigyes Karinthy, e poi molto circolata nella cultura di massa soprattutto dopo la nascita di Facebook. Ogni persona, secondo la teoria, può essere collegata a qualunque altra persona attraverso una catena di relazioni composta da non più di cinque intermediari. Si trattava soltanto di mettere in moto la community e attivare un gran giro mondiale di email, pensarono. La ricerca – un po’ più lunga del previsto – si è conclusa dopo quattordici anni, a dicembre scorso.

Come hanno trovato Satoshi

Alcuni giocatori di Perplex City riuscirono a risalire abbastanza rapidamente al luogo della fotografia. Era stata scattata in un piccolo borgo francese di Kaysersberg, nell’Alsazia, a circa un’ora di macchina da Strasburgo.Kaysersberg

Kaysersberg, Francia (Google Street View)

Se non c’erano dubbi sul luogo, molti erano quelli sull’identità di Satoshi, tanto che l’enigma sembrò da subito arrivato a un punto morto. Dopo la chiusura del sito ufficiale del gioco, nel 2008, diversi siti creati da alcuni appassionati del gioco – Findsatoshi.com, Haveyouseenhim.info, Billion2one.org – continuarono a esistere, anche in versione multilingue, e a raccogliere tutte le nuove informazioni man mano disponibili. Nel 2007 l’autrice del sito Findsatoshi.com, Laura E. Hall, riuscì anche a visitare Kaysersberg durante un viaggio di lavoro e a scattare una fotografia dalla stessa prospettiva scelta da Satoshi al momento dello scatto.

Findsatoshi.com

(Findsatoshi.com)

Nel frattempo Mind Candy aveva diffuso alcune informazioni aggiuntive, benché non particolarmente utili per le ricerche. Chiarì che Satoshi aveva accettato volentieri di partecipare al gioco e che, secondo le istruzioni da lui ricevute, avrebbe dovuto attendere di essere contattato direttamente da qualcuno che lo mettesse in relazione al gioco.

Per anni su Internet se ne continuò a parlare molto, anche dopo innumerevoli falsi avvistamenti, ipotesi improbabili e tentativi falliti da parte dei membri della community. In tempi più recenti, nel tentativo di allargare il più possibile le ricerche, Hall è stata ospite di un podcast e anche di un canale YouTube molto popolare in un video che ha ricevuto oltre un milione di visualizzazioni. Proprio questo video ha innescato un nuovo ramo delle ricerche, portato avanti da un sottogruppo su Reddit (r/FindSatoshi).

L’utente th0may – un ragazzo tedesco di nome Tom-Lucas Säger – ha raccontato di aver visto quel video e averlo poi dimenticato, prima di imbattersi di nuovo in quell’argomento su Reddit, mesi dopo. Per un progetto di design e intelligenza artificiale stava utilizzando per lavoro un software di riconoscimento facciale (PimEyes) basato su una funzione di ricerca inversa delle immagini. Ha fatto un tentativo con la carta di Satoshi e ha trovato, in mezzo alle molte altre, una fotografia di gruppo in cui un uomo molto simile a Satoshi regge un boccale di birra.satoshi

(Tukada-riken.co.jp)

La fotografia, scattata durante una gita aziendale, era stata pubblicata nel 2018 sul sito di una società giapponese, la Tsukada Riken Industry. L’uomo con il boccale di birra, ha scoperto Säger, era uno dei dirigenti: il suo nome, come riportato sul sito, è Satoshi Shimojima. A quel punto Säger si è messo in contatto con Laura Hall, l’autrice del sito Findsatoshi.com, che dopo aver recuperato un indirizzo email diretto ha scritto a Shimojima, in giapponese e in inglese. E Shimojima ha risposto.

Ciao,

grazie di avermi contattato.
Hai detto che stavi cercando un ragazzo di nome Satoshi.
Sì! Sono io il Satoshi che stavi cercando! Wow! Mi ero completamente dimenticato di questo gioco di carte. Credo che avrei dovuto pronunciare un messaggio, a questo punto, ma… diamine! Sono passati più di dieci anni e l’ho dimenticato. Mi dispiace.

A dire la verità non sapevo granché di Perplex City. Quattordici o quindici anni fa uno dei miei migliori amici negli Stati Uniti mi chiese di poter utilizzare una mia foto per il gioco. Mi sembrava interessante, è il genere di cose che mi piacciono. Avevo giusto una foto recente di me in vacanza e dissi “perché no”. Da quel momento in poi non ho più sentito parlare molto del gioco, né sapevo esattamente cosa fosse. Non avevo nemmeno mai visto la carta. Non ci badai molto, e già un anno dopo persi completamente la memoria di questo fatto. E ovviamente nessuno mi ha mai trovato, da allora.

Quando mi hai contattato qualche giorno fa e ho saputo che esisteva ancora questo “Findsatoshi” ho riso moltissimo, ero molto felice. Comunque alla fine mi hai trovato, a partire da una fotografia soltanto, scattata da qualche parte in una piccola città al confine tra Francia e Germania, e poi pubblicata su una carta da gioco quando ero di nuovo a Nagano, in Giappone. Con il mio nome come unica informazione: “Satoshi”.

Il mio nome è molto comune, in Giappone. Tra centinaia di migliaia di Satoshi, sono serviti 14 anni ma alla fine mi avete trovato! È incredibile!

Congratulazioni per aver risolto l’enigma #256!
E che il vostro 2021 sia meraviglioso! Buon anno nuovo!

Questo era l’indovinello che Satoshi avrebbe dovuto proporre – in giapponese – al giocatore: “Chi è che diede vita al fuoco e poi morì?” (la divinità della mitologia giapponese Izanami, ha suggerito qualcuno).

Cosa c’entra Satoshi con Perplex City

Uno dei principali sviluppatori di Perplex City, Adrian Hon, ha confermato l’identità di Satoshi, complimentandosi con Hall e Säger, e anche con Satoshi, per aver mantenuto il segreto così a lungo. Satoshi, come hanno poi spiegato altri ex impiegati di Mind Candy intervenuti sui social per festeggiare la scoperta, era un amico di una persona che lavorava nell’agenzia di pubbliche relazioni di Los Angeles che aveva collaborato con Mind Candy per la promozione del gioco.

«Non c’erano molti passi da fare [per arrivare alla soluzione], ma un po’ di salti in giro per il mondo sì», ha detto Jey Biddulph, aggiungendo che un’alternativa presa in considerazione era quella di utilizzare una persona in Ecuador conosciuta da un’altra persona del team. Alla fine scelsero Satoshi, preferendo una foto di lui in vacanza a Kaysersberg – per complicare l’enigma – anziché la fotografia di lui nella città in cui abitava.




Lo storytelling è morto, viva le storie che fanno immedesimare chi le ascolta

Lo storytelling è morto, viva le storie che fanno immedesimare chi le ascolta

Le aziende che non comprendono che il modo per recuperare un’identità valida ed efficace è svestire i panni dell’eroe e indossare quelli del mentore.

Analizzando il sistema capitalistico contemporaneo, il sociologo Richard Sennett lamentava una mancanza di narrativa. È sempre più difficile recuperare la nostra origine storica. Se ci pensate, costruirsi una narrativa era una cosa semplice nelle generazioni passate: si aveva una tradizione, un sostrato di elementi culturali che afferivano, a loro volta, a generazioni precedenti, rituali condivisi, spesso comunitari, una socialità antica basata sulla condivisione di artefatti unici e indispensabili.

Oggi invece storytelling è una parola abusata e, come tutti i grandi concetti che passano di bocca in bocca tra veri esperti, presunti guru e genuini appassionati, si ritrova ad ogni passaggio assottigliata di valore, come un messaggio trasportato nel gioco del telefono senza fili. Se le regole della narrazione, la morfologia della fiaba di Vladimir Propp e il Viaggio dell’eroe di Christopher Vogler sono entrati nell’recchio del primo giocatore della catena come promotori di un sapere quasi scientifico, portavoce di un’analisi dai risultati comprovati, ciò che invece è uscito dalla bocca dell’ultimo partecipante della catena è un’accozzaglia di spunti senza senso, spesso meri trasporti emotivi, del tutto incapaci di una visione strategia e di lunga durata per uno scrittore, figurarsi per un’azienda.

Spesso, il primo errore nell’implementazione di uno storytelling aziendale coeso ed organico sta nella definizione del brand all’interno della narrazione. La faccio semplice: se il brand è l’eroe della storia, il protagonista principale, il centro di gravità della trama, la storia non piacerà. O meglio, potrà anche piacere, ma finirà con mancare di un ingrediente chiave: la potenza dell’immedesimazione. Questo è, per esempio, l’errore più grossolano nell’implementazione di una vera e propria struttura di Corporate Social Responsibility che si metta al centro della comunicazione interna e del marketing.

A nessuno piace vedere qualcuno che, come si suole dire, si “imbroda”, e volendo ci sono già moniti neotestamentari molto chiari («Non sappia la tua mano sinistra ciò che fa la destra», Matteo 6, 3). Eppure, questa semplice regola aurea sembra che non risuoni nelle orecchie di chi intonaca la facciata dell’azienda di bianco candido senza però prima stuccarne le crepe vistose. Come un attore che, non scendendo a patti con l’età che avanza, ricorre a trattamenti estetici talmente vistosi da rendere ancora più palese la sua condizione, così sono le aziende che non comprendono, al fondo, che l’unico modo per recuperare un’identità valida ed efficace è svestendo i panni dell’eroe per indossare quelli del mentore.

Questo termine deriva da un personaggio dell’Odissea, Mentore appunto, che accompagnava Telemaco, figlio d’Ulisse, alla ricerca del padre perduto. Sotto le spoglie dell’anziano precettore tuttavia c’era Atena, figlia prediletta di Zeus, dea della saggezza. La divinità si fa piccola, maschera la sua grandezza per accompagnare e sostenere colui che pare orfano di padre, di una guida, di un’identità storica pregressa. Avendo noi perso i padri – a detta almeno di tutta una grande corrente psicologica contemporanea (e voglio citare il testo di un giornalista illustre – ma non psicologo – Contro i Papà di Antonio Polito) – le aziende hanno avuto la grande opportunità di poter compensare una mancanza.

La fiducia verso le aziende tuttavia, e in special modo dopo il 2008, anno infausto della crisi economica, è venuta a calare, almeno a detta dell’Edelman Trust Barometer, il report annuale che analizza dove si muove la fiducia dei popoli nel mondo. Il tempo per recuperare la fiducia non può che essere questo, quando si annusa l’aria di una pressante e incombente crisi economica che, come nel 2008, avrà strascichi ad oggi ancora difficili da decifrare.

Se lo storytelling fosse morto, non ci sarebbe speranza di una nuova narrazione condivisa. Tuttavia, nel ritorno alla forma del mentore, anche le aziende possono cercare di recuperare una propria narrazione autorevole, meno eroica e più supportiva. A patto che prima di imbiancare la facciata, riparino le crepe all’intonaco, sempre che le stesse non siano conseguenza di fratture ben più profonde. In tal caso, prima ancora dello storytelling, può essere utile un esame di coscienza.




SALVINI PREMIER? CAMBIA LA COMUNICAZIONE POLITICA, DAL PAPEETE BEACH ALLA PALESTRA PER PALAZZO CHIGI

SALVINI PREMIER? CAMBIA LA COMUNICAZIONE POLITICA, DAL PAPETE BEACH ALLA PALESTRA PER PALAZZO CHIGI

Tempo fa, in un articolo a firma mia e di Giorgia Grandoni, avevo analizzato i vari motivi alla base della scarsa credibilità della classe politica italiana, riconducibili all’assoluta carenza di autenticità nei messaggi e alla narrazione istericamente contraddittoria, finalizzata esclusivamente alla raccolta di consensi a breve termine e attenta – in particolare – al sentiment del momento espresso dai cittadini sui Social, piuttosto che alla costruzione di un’idea di Nazione peculiare, da coltivare e realizzare con costanza e congruenza nel medio-lungo termine.

Al di la di ogni valutazione di tipo “partitico”, scrivevo che – tecnicamente, sotto il profilo della gestione della reputazione – tutto ciò non può che generare un’inevitabile crisi sistemica del mondo della politica: infatti, al di la delle legittime preferenze di ognuno di noi, l’appeal dei brand politici sull’elettore medio è oggi più basso che mai.

Comunicazione politica e shortermismo

Mentre le aziende corrono velocemente sul sentiero da tempo tracciato dell’enfatizzazione virtuosa dei propri valori, i leader politici, e le loro strategie, sembrano poggiare su messaggi e su declinazione di valori che cambiano a ritmo giornaliero, mutando continuamente in base a specifiche convenienze.

La politica, nel tentativo di accaparrarsi facili consensi, è vittima di una malattia che in un’intervista all’Harvard Business Review l’economista Stefano Zamagni definì, in modo assai centrato, come “shortermismo”: lo riscontriamo nel pericoloso calo di adesione e di protagonismo dei cittadini alla vita pubblica, con una percentuale di astensionismo che ha raggiunto nuovi record (oltre 21,5 milioni di persone in Italia in occasione delle ultime elezioni europee hanno scelto di non esercitare il proprio diritto al voto). Tra chi non si reca alle urne per protesta, e chi perché non si sente rappresentato adeguatamente dalle varie proposte politiche, il gap tra cittadini e gli uomini politici si fa più ampio che mai.

Anche nel resto dell’Europa, le eccezioni sono poche: brilla ad esempio l’inossidabile cancelliera tedesca Angela Merkel, vera case-history di eccellenza nella gestione della comunicazione durante l’emergenza pandemica e campione di chiarezza e di sobrietà; oppure, allargando lo sguardo fin dall’altra parte del globo, Jacinda Ardem, l’amato e rispettato Primo Ministro della Nuova Zelanda (nuovamente una donna, sarà un caso?) la cui storia ho brevemente raccontato in un’altra mia recente analisi.

L’importanza dei valori “immateriali”

Come sappiamo, la reputazione è un asset importante – il più prezioso tra quelli “immateriali” – che si costruisce assieme ai propri pubblici, per durare nel tempo, ed essere poi “scambiata” con una sempre più ampia licenza di operare: la scelta dei politici nostrani di ignorare sistematicamente questa realtà sta scavando un solco sempre più grande tra sistema politico italiano e la cittadinanza, danneggiando il primo – riducendone, tra l’altro, potenzialità ed efficacia – e disilludendo i secondi.

Autenticità, coerenza, comunicazione di valori conformi alla propria identità, creazione di strategie di brand reputation a medio-lungo termine (sia che si tratti di aziende che di istituzioni pubbliche o influencer politici), capacità di saper prevenire scenari futuri di crisi reputazionale e, infine, propensione ad assumersi le proprie responsabilità: queste sono sei tra le principali best practices da seguire per tutelare al meglio la propria reputazione, e questo è ciò che la politica italiana può – e dovrebbe – imparare dal Reputation management aziendale.

I politici nostrani, invece, non godono certo di una buona reputazione, una realtà non solo riscontrabile da un’analisi empirica, ma assodata, in quanto documentata e misurata: coinvolti in quella che appare come una campagna elettorale permanente, i politici disilludono il pubblico, tentando ridicoli equilibrismi tra alleanze improbabili e la scelta di abbracciare oggi ciò che solo ieri si criticava aspramente, o viceversa.

Successo e crisi (comunicazionale) di Matteo Salvini

Un caso che sta facendo discutere, e non poco, è quello dell’ex Vicepremier ed ex Ministro degli Interni Matteo Salvini, che fino a prima dell’estate 2019 non aveva rivali riguardo al consenso sulla Rete, forte anche della sua efficiente macchina digitale di propaganda, chiamata dagli addetti ai lavori “La Bestia”, in grado di intercettare in tempo reale il sentiment degli elettori su specifiche tematiche, e produrre quindi contenuti funzionali ad aggregare facilmente seguaci tra persone di ogni genere ed età.

Forte del suo ruolo di “più commentato online”, come scrivevo nell’articolo citato in apertura, Matteo Salvini aveva saputo costruire il proprio consenso sulle piattaforme dei Social network, raggiungendo una percentuale di commenti positivi da parte della propria fan-base dell’83%, il doppio rispetto alle testate giornalistiche, dove è apprezzato solo nel 43% dei commenti, con quasi 3 milioni di follower sulla sua pagina Facebook, e con la scorsa estate ben 439.397 post e commenti da parte dei suoi fan, un numero quattro volte superiore rispetto ai commenti pubblicati nello stesso periodo sulla fan page di Luigi Di Maio (97.998) e addirittura quaranta volte rispetto al profilo dell’ex Premier Giuseppe Conte (10.923), all’epoca in carica.

Un anno dopo l’insediamento, come ricorderete, la crisi di governo, e il re dei consensi sul web vide scricchiolare la propria leadership, vittima dell’instabilità che lui stesso generò: sui Social, e persino sulla sua stessa pagina Facebook, da sempre emblema della sua potente forza comunicativa, venne bombardato dai commenti critici di coloro che si sentirono “traditi” dalle sue scelte politiche. La crisi di agosto 2019, infatti, diede il via a un’altalena di cambi di opinione, incongruenze e colpi di scena tra i leader politici, a un ritmo così elevato da riuscire a stupire la maggior parte degli italiani, pur normalmente “assuefatti” ai cambi repentini di posizioni e alleanze dei protagonisti della politica, con il Movimento 5 Stelle in grado di passare in pochi giorni dagli insulti al PD – il “partito di Bibbiano” – a “governiamo con il PD”. In casa pentastellata, tuttavia, le obiettive carenze sul fronte del rispetto del fondamentale pilastro reputazionale della coerenza non sono certo una novità, e – a riprova di quanto “costi” violare i fondamentali del reputation management – il partito di Grillo è riuscito a inanellare un record negativo dopo l’altro, passando in meno di 2 anni da più del 30% di consensi a – secondo le attuali intenzioni di voto – circa il 10%.

Salvini, egualmente, per quelle scelte pagò un prezzo tangibile ed evidente in termini di consenso diffuso, tanto che secondo l’Osservatorio permanente sulla reputazione digitale dei Ministri di Reputation Science, società che si occupa dell’analisi e della gestione del posizionamento sul web, e che ha monitorato costantemente la percezione online degli utenti nei confronti dei protagonisti politici in Italia, in quel periodo la reputazione dell’ex Ministro Salvini registrò un significativo calo. Per quale motivo?

Occupazione di spazio a qualunque costo vs. costruzione della reputazione

La risposta è semplice: la politica – esattamente come le aziende – ha tutti gli strumenti per identificare, monitorare, comprendere quali sono le aspettative e le esigenze dei cittadini, qui ed ora, grazie alle nuove tecnologie in grado di monitorare il sentiment del pubblico sulle diverse piattaforme Social, e usa questi strumenti per raccogliere una miriade di informazioni e di dati su aspettative e desideri degli elettori, informazioni spesso inquinate da bias potenzialmente distorsivi; questi dati vengono poi utilizzati per “adattare” costantemente la comunicazione politica ai desiderata del pubblico e per apparire in sintonia con gli umori prevalenti, invertendo il processo e agendo quindi non da traino, disegnando un’idea di nazionale e lavorando per costruirla, bensì semplicemente parlando alla pancia degli elettori e seguendo i loro umori del momento.

Mentre le aziende hanno da tempo compreso che la reputazione si costruisce assieme ai propri pubblici, col tempo e per durare nel tempo, la politica si da un’“agenda” diversa: occupare velocemente lo spazio mediatico, intervenendo per primi sulla notizia del giorno, polarizzare tutta la discussione, lanciare messaggi forti e spesso sguaiati, estraendo dall’opinione pubblica sentimenti come rabbia paura e aggressività, i cosiddetti “sentimenti negativi”, funzionali a catturare il consenso di coloro che ascoltano; queste sono le caratteristiche di una strategia di comunicazione politica che brucia il proprio capitale reputazionale sull’altare del consenso immediato, strategia che è stata per lungo tempo la “cifra” della comunicazione politica di Matteo Salvini.

Salvini rinasce e il suo stile di comunicazione politica volta (nuovamente) pagina

Oggi, tuttavia, leggiamo ancora una volta una “storia” diversa: dopo un periodo di gestione pandemica durante il quale i tecnici, gli esperti e i “professori” hanno ritrovato per forza di cose ruolo e autorevolezza, il pirotecnico leader della Lega è nuovamente al governo, seppur questa volta per interposta persona, e sotterra l’ascia di guerra, indossando il tovagliolo per sedersi a tavola, pur senza abbandonare il suo piglio vivace, con dichiarazioni sorprendenti e disorientanti per chi ha strumenti per leggere tra le righe.

Dinnanzi agli accesi malumori di una parte del suo elettorato, infiammata dall’obiettiva e disarmante incompetenza del Ministro Speranza, che – pur avendo piene deleghe per la gestione dell’emergenza pandemica durante tutta la crisi di governo appena conclusa – attende le ultime ore prima della riapertura degli impianti da scii per comunicare agli imprenditori della montagna che la stagione è conclusa ancor prima di iniziare e che gli impianti resteranno chiusi, promettendo (nelle promesse i membri della nostra sciatta e dequalificata classe politica continuano ad essere campioni…) improbabili ennesimi ristori, Salvini prende la parola per dire: “Non è tempo di divisioni, è tempo di assumersi responsabilità, di stare uniti, mettiamo da parte i malumori e lavoriamo a testa bassa”. Il messaggio al suo popolo è tanto inaspettato quanto chiaro: ci sarà tempo e modo per avere soddisfazione, ora dinnanzi a questa tavola imbandita dobbiamo fare la nostra parte “nell’interesse del Paese”.

Aveva già destato forte stupore il richiamo – di fatto europeista – di pochi giorni fa, nel punto stampa tenuto da Salvini all’uscita dalle consultazioni con il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella (“Siamo in Europa, ma vogliamo un’Italia che abbia più voce nella UE”), come anche la successiva dichiarazione pro-Draghi (“Non sarò mai lo sfasciacarrozze di questo Governo”) e ancora la dichiarazione sul Ministro della Salute dopo le polemiche dell’altro giorno (“Speranza ha avuto un anno di forte tensione, non lo invidio, lo sosterremo in ogni modo”).

Ora il segretario della Lega procede a ritmo serrato, e mira forse a rendere evidenti le contraddizioni di Andrea Orlando, il Ministro PD che non più tardi di un mese fa aveva liquidato la Lega affermando “Un governo anche con Salvini? Neanche venisse Superman”, e che ora dovrà rassegnarsi non solo a governare con il leader del più importante partito del centro-destra ma anche a incontrarlo e a negoziare proprio con lui vari dossier caldi sul tema del lavoro.

Una vera e propria giravolta: prima le cubiste, le bandane, i cocktail super-alcolici e la musica sguaiata del Papeete Beach di Riccione, ora una comunicazione politica volta all’assunzione di responsabilità come “azionista” del Governo Draghi, condita da abbondanti dosi di rassicurante buonsenso.

Stante il clima nel Paese, e la voglia di voltare pagina, vari esperti osservatori tracciano già la linea: al Governo dell’ex Presidente della BCE il lavoro difficile di contenimento della pandemia, di accelerazione della campagna vaccinale, e d’impostazione delle riforme strutturali indispensabili per far uscire il Paese dalla crisi; poi, nuove elezioni, e governo di centro-destra.

A quel punto, nella sua nuova veste di politico dotato della “diligenza media del buon padre di famiglia” (cit.) la strada per Palazzo Chigi, per il leader leghista, sarà molto probabilmente perfettamente spianata.




Parliamo di reputazione….

Parliamo di reputazione....

Giovedì 4 febbraio ho “preso un caffè”, chiacchierando di reputazione con Piero Muscari, nel suo format “un caffè che vale”, in collaborazione con 101Caffè.

Qui di seguito, l’audio della trasmissione:

Puoi anche guardarla sul canale Youtube di Italiavale;




Giochi di ruolo online: nuova frontiera della socializzazione in epoca Covid? Intervista a Davide Murmora

Giochi di ruolo online: nuova frontiera della socializzazione in epoca Covid? Intervista a Davide Murmora

Davide Murmora da 20 anni si occupa di comunicazione web e, specificatamente, di posizionamento nei motori di ricerca. Sul suo sito gestisce un blog su Social, Google e loro funzionamento. Lo ho intervistato per creatoridifuturo.it

Web & Social come fuga dalla realtà, specie in epoca Covid. Un mondo (online) sempre più polarizzato e aggressivo, quasi una “valvola di sfogo”. Da utente digitale e da informatico esperto, come legge questo scenario?

L’aggressività sui social è un fenomeno molto noto che, se vogliamo, si è anche acuito nel periodo Covid (poiché abbiamo più tempo libero e dedichiamo maggiore attenzione ai Social). Da un lato rileviamo quello che gli psicologi chiamano “caduta dei freni inibitori” o “caduta dei freni sociali”, diretta conseguenza della aumentata percezione di sicurezza personale dovuta allo schermo “protettivo”. Abbiamo di fronte uno schermo, non una persona reale, questo ci può dare la falsa sensazione che le nostre parole non abbiano conseguenza sugli altri o comunque su persone “vere e reali” quanto noi. I fenomeni che ho citato sono oggetto di studio da parte di psicologi, ma questo non ci impedisce di utilizzare comunque i social e farli utilizzare anche a soggetti minori di età, i quali invece meriterebbero maggiori tutele. La seconda causa dell’aggressività sui social sono proprio i loro algoritmi, che creano due fenomeni ugualmente preoccupanti: la filter bubble ed i post virali. Filter bubble è un termine, noto da tempo agli addetti ai lavori, coniato per la prima volta dall’attivista internet Eli Pariser nel suo libro “The Filter Bubble: What the Internet Is Hiding from You”: in pratica il social network, per fare in modo di aumentare il tempo di connessione da parte degli utenti, finisce per mostrarci soltanto i risultati che ci fa piacere vedere. Ed è inutile mettere mi piace a pagine che la pensano diversamente da noi (ad esempio con diverso orientamento politico) perché, a meno che non ci ricordiamo di navigarle spesso e mettere likes (anche quando non siamo d’accordo) in breve tempo semplicemente spariranno dalla nostra vista. Lo stesso vale per gli amici che leggiamo o che vediamo online. In poche parole Facebook, ma anche Google quando ci mostra i risultati di ricerca, decide per noi cosa dobbiamo vedere. Siamo in una sorta di gabbia, rotta esclusivamente per fare entrare qualche contenuto virale; il che ci porta al secondo punto, i post virali. Quando un post diventa virale? Quando riceve molti like e molti commenti. Cosa succede a quel punto? Facebook (per citare il Social più conosciuto) apre il rubinetto e mostra il post a più persone, e man mano che il post macina likes e commenti ecco che il rubinetto viene sempre più aperto e il post a quel punto diventa virale. Quali post diventano virali? Un tempo bastavano i likes, e quindi ecco i post di gattini, ma ora l’algoritmo è cambiato ed i commenti sono più importanti dei like. Ecco quindi che i post che causano contrasto, indignazione, in poche parole alimentano la rabbia, sono quelli che paradossalmente si diffondono di più. Nei social quindi o restiamo chiusi nel nostro recinto, o ci arrabbiamo: entrambi gli scenari sono inquietanti.

Lei è – tra le altri cose – un progettista di giochi di ruolo, l’ultimo suo prodotto è Crossdoom, un gioco di ruolo di grande giocabilità, molto semplice e adatto anche a utenti non esperti. Quali sono le caratteristiche più innovative di questa Sua proposta, e in generale come si sta evolvendo questo specifico settore?

Il gioco di ruolo è per certi versi esattamente l’antitesi del videogioco. Mentre il videogioco spinge all’isolamento e al gioco solitario o solo al guadagno personale quando si gioca con altri, il gioco di ruolo è vissuto, nella vita reale, intorno a un tavolo, con dei dadi (a volte anche senza) e può essere di diversi generi: fantastico, fantascientifico, investigativo. Nel gioco di ruolo classico, sono presenti generalmente due figure: il game master (detto semplicemente master) e i giocatori. Il master conosce il manuale delle regole e crea la storia che poi i partecipanti giocano, interpretando uno dei personaggi che il manuale mette a disposizione. Con l’esplodere dell’epidemia Covid e il distanziamento sociale imposto dall’emergenza, giocare intorno ad un tavolo è diventato impossibile ed allora molti giocatori hanno scoperto il gioco di ruolo nella sua versione online, sfruttando diverse piattaforme (peraltro già presenti anche in precedenza) come Roll20, Discord, e vari altri sistemi di multi-chat, e le giocate di ruolo sono aumentate anziché ridursi. Il gioco di ruolo online permette di giocare con persone anche molto lontane (ho giocato poche sere fa con un amico di Roma) e questo fa si che i gruppi di gioco si mescolino e che tutti ne abbiano guadagno dal punto di vista anche emotivo, perché più si gioca con persone differenti più la nostra abilità come giocatori o Game master ne trae guadagno, come anche viene soddisfatto il nostro legittimo e naturale desiderio di socializzazione.

Il gaming è parte della proposta (o bombardamento, direbbero i più pessimisti) transmediale al quali è sottoposto il cittadino nel XXI secolo: anche in questo caso esiste un rischio di “fuga dalla realtà” e di non “effetto rifugio” per non dover confrontare le criticità che ci assillano in epoca pandemica?

Come detto sopra, i videogiochi tendono a isolare, anche quando richiedono una modalità cooperativa, perché in quasi nessun gioco è importante la vittoria della squadra fine a se stessa (come ad esempio è invece nel gioco di ruolo), ma sempre come fine per ottenere guadagni personali. Detto questo esistono anche dei videogiochi che sono dei veri e propri giochi di ruolo in solitaria, come ad esempio Cyberpunk. Nonostante l’immersività, le immagini definite e il 3D però non vedo ancora un pericolo di fuga della realtà, sino a che si rispettano le età consigliati per l’utilizzo dei singoli giochi. Vero è che quando un gioco è vietato ai minori di 18 anni non lo si dovrebbe acquistare per un bambino, anche se lo hanno tutti i suoi compagni; stessa cosa dicasi per i videogiochi vietati ai minori di 14 o 12 anni. Queste regole – che non sono elaborate a caso da chi ha progettato il gioco, ma seguono precise indicazioni degli esperti – troppo spesso non vengono assolutamente rispettate dai genitori che, diciamo chiaramente, mettono in pericolo i propri figli, e anche lo stesso mercato dei videogiochi. Un esempio: basta ascoltare su Youtube alcuni tutorial di Grand Theft Auto V fatti da voci talmente giovani che non possono appartenere ad un maggiorenne, eppure non soltanto hanno giocato al videogioco che è rigorosamente vietato ai minori di 18 anni, ma ci hanno giocato talmente tanto da poterne fare un tutorial su Youtube!

Un eccezionale contributo de La Civiltà Cattolica pubblicato pochi giorni fa mette in allarme sui rischi della mancanza di controllo sulle Intelligenze Artificiali. Cosa ne pensa?

Non penso si sia già arrivati al punto da doversi preoccupare del rischio di singolarità con le Intelligenze Artificiali; siamo però sicuramente già al punto di doverci preoccupare di tutelare i minori da Social network pericolosi per la stabilità mentale ed emotiva di bambini e ragazzi, che utilizzano algoritmi creati appositamente per dare dipendenza a una mente giovane ed inesperta. Uno su tutti: Tik tok, al centro di enormi polemiche deflagrate proprio in questi giorni dopo la morte di una ragazzina siciliana che aveva ingaggiato una challenge su quel Social. Dopo avere visto il documentario su Netflix “The Social Dilemma”, viene da chiedersi come mai il governo non abbia ancora proibito il Social network tik tok ai minori di 18 anni. Un’emergenza crescente, che ci richiama tutti a maggiore responsabilità, e che temo non potrà che andare a crescere.