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Lvmh, Prada e Cartier fondano la prima blockchain globale del lusso

Lvmh, Prada e Cartier fondano la prima blockchain globale del lusso

Lvmh, Prada e Cartier (gruppo Richemont) hanno annunciato nel primo pomeriggio di oggi, 20 aprile, la fondazione di Aura Blockchain Consortium, un consorzio a sostegno della prima blockchain globale dedicata all’industria del lusso. Un progetto che non sarà limitato ai tre gruppi fondatori, ma al contrario aperto a tutte le società del lusso che lo vorranno, indipendentemente dal settore o dal Paese in cui operano. Aura Blockchain Consortium è un’organizzazione senza scopo di lucro e i profitti saranno reinvestiti per garantire lo sviluppo tecnologico della piattaforma.

Tracciare i beni di lusso e garantire l’autenticità

Si tratta di una notizia di rilievo non solo perché apre la strada a una tracciabilità verificabile (e immutabile), ma anche peri nomi in campo, perché segna un ulteriore passo avanti in un dialogo a livello globale dei grandi gruppi della moda e del lusso in un momento di ricostruzione post-pandemia e dove il tema della sostenibilità è tra quelli trainanti. La nota diffusa spiega che il progetto promuove l’utilizzo di un’unica soluzione blockchain globale «per garantire ai consumatori maggiore trasparenza e tracciabilità». I tre gruppi «hanno sviluppato insieme un’esclusiva piattaforma comune per affrontare sfide condivise in materia di comunicazione dell’autenticità, approvvigionamento responsabile e sostenibilità attraverso un formato digitale sicuro. I marchi del lusso — prosegue lil comunicato — hanno una storia unica da raccontare per la qualità dei materiali, l’artigianalità e la creatività. La tecnologia offerta da Aura Blockchain Consortium permette al consumatore di avere accesso diretto alla storia dei prodotti e alla loro garanzia di autenticità».

La qualità dei prodotti

I clienti possono, infatti, seguire facilmente e in modo trasparente il ciclo di vita di un prodotto, «dalla sua creazione alla distribuzione attraverso dati affidabili lungo tutto il processo, rafforzando così la relazione con i loro marchi di riferimento». Nella nota si parla di una «collaborazione senza precedenti» e si sottolinea come con lo sviluppo di questa tecnologia Lvmh, Prada e Cartier «continuano ad elevare gli standard del settore per guidare il cambiamento e accrescere la fiducia dei propri clienti nelle pratiche sostenibili e nell’approvvigionamento responsabile condotto dai singoli marchi».

Il certificato di garanzia grazie alla Blockchain

Nel concreto, il sistema tecnologico è costituito da una blockchain privata multi-nodale ed è protetto dalla tecnologia ConsenSys e da Microsoft. Registrerà le informazioni in modo sicuro e non riproducibile e genererà un certificato unico per ogni proprietario, aumentando la desiderabilità di oggetti di valore, frutto di un saper fare unico e realizzati con materiali sostenibili di alta qualità. Toni Belloni, direttore generale gelegato di Lvmh, ha spiegato che «Aura Blockchain Consortium è una grande opportunità per il nostro settore, per rafforzare il rapporto con i clienti offrendo loro soluzioni semplici per conoscere meglio i nostri prodotti. Unendo le forze con altri marchi del lusso in questo progetto, stiamo aprendo la strada alla trasparenza e alla tracciabilità. Spero che altri prestigiosi marchi abbraccino questa soluzione».

Lorenzo Bertelli, Head of Marketing & Head of Csr del gruppo Prada, ha aggiunto che «insieme ai nostri partner abbiamo intrapreso un percorso di collaborazione e fiducia senza precedenti nel nostro settore; abbiamo dato vita a un progetto unico e innovativo con l’obiettivo di mettere al centro i nostri clienti, creando valore grazie a un sistema di autenticazione sostenibile che genererà infinite possibilità». «Aura Blockchain Consortium rappresenta un esempio di cooperazione senza precedenti nel settore del lusso — ha aggiunto Cyrille Vigneron, presidente e Ceo di Cartier International e membro del consiglio di amministrazione e del senior executive commitee di Richemont —. La Blockchain è una tecnologia chiave per migliorare il servizio ai clienti, il rapporto con i partner e la tracciabilità dei prodotti. L’industria del lusso realizza oggetti senza tempo e deve garantire che standard rigorosi perdurino e rimangano in mani fidate. Invitiamo quindi l’intero settore a unirsi a questo consorzio per progettare una nuova era del lusso rafforzata dalla tecnologia blockchain».

Come funziona la piattaforma: informazioni e responsabilità

Sulla piattaforma sono intanto già attivi Bulgari, Cartier, Hublot, Louis Vuitton e Prada e sono in corso «diverse discussioni a uno stadio avanzato», sia all’interno dei gruppi fondatori sia con brand indipendenti, per entrare a far parte del consorzio. I fondatori precisano che «ogni marchio ha aderito in base alle proprie specificità e alle aspettative dei propri clienti e continuerà a essere pienamente proprietario e responsabile dei propri dati, senza che si verifichi alcuno scambio di informazioni sensibili sotto il profilo della concorrenza». Le informazioni saranno memorizzate in modo da non essere modificate, manomesse o violate.




Bye bye, Emotet

Bye bye, Emotet

A gennaio scorso avevo segnalato che un intervento coordinato di varie forze dell’ordine in numerosi paesi aveva messo fuori uso Emotet, uno dei malware più diffusi, che da solo era responsabile di circa il 30% di tutti gli attacchi informatici.

La tecnica era classica: un documento Word, che molti utenti ritengono innocuo, conteneva il malware, che veniva lanciato se la vittima apriva il documento e attivava le macro in Microsoft Word.

Ora è arrivata la conclusione dell’intervento di polizia: il 25 aprile scorso i computer che erano stati infettati da Emotet hanno cancellato il malware. Questo è stato possibile perché le forze di polizia avevano preso il controllo degli aggiornamenti di Emotet e ne avevano diffuso uno autodistruttivo.

Alla scadenza impostata, appunto il 25 aprile, è scattata l’autodistruzione. Il portale dedicato ad Emotet presso Abuse.ch indica ora zero computer infetti, che è un risultato notevolissimo, considerato che Emotet aveva preso il controllo di oltre un milione di computer in tutto il mondo, generando incassi illegali per oltre 2 miliardi di dollari.

Va notato che in un intervento come questo le forze di polizia in sostanza aggiornano forzatamente i computer infettati, senza chiedere il consenso dei rispettivi proprietari, ponendo interrogativi sulla legalità di questa tecnica, indubbiamente efficace ma potenzialmente pericolosa. Ovviamente in questo caso nessun protesta, però è formalmente un’intrusione.

Anche l’FBI di recente ha usato lo stesso approccio per ripulire a forza i server Microsoft Exchange infettati da una serie di attacchi denominati Hafnium, visto che i legittimi proprietari di questi server si ostinavano a non aggiornarli.




Dalla CSR al CSV per perseguire un “successo sostenibile” e mitigare l’eco-ansia del consumatore

Dalla CSR al CSV per perseguire un “successo sostenibile” e mitigare l’eco-ansia del consumatore

Sostenibilità, dopo resilienza, è forse la parola più abusata di questi tempi, specialmente dopo lo scossone dato dalla pandemia ancora in atto. È interessante, però, ricordare che questa parola non è così “moderna” come si potrebbe pensare. Di fatti, la parola sostenibilità viene coniata nel 1713 per mano del tedesco Hans Carl von Carlowitz (1645-1714), responsabile dell’estrazione mineraria d’argento per conto della corte sassone a Freiberg. Von Carlowitz propose nel suo testo “Sylvicultura Oeconomica oder Anweisung zur Wilden Baum-Zucht” (“Sylvicultura Oeconomica o avvertenze sulla coltivazione di alberi selvatici”) un uso delle foreste che abbattesse tanti alberi quanti ne sarebbero successivamente ricresciuti in un’ottica di “Nachhaltigkeit”, sostenibilità appunto.

Tuttavia, nonostante l’intuizione precoce, la sostenibilità è stata soggetta, di fatto, ad un abbandono culturale e operativo. La fame della crescita ha fatto passare sotto silenzio la maggior parte delle attenzioni per l’ecosistema ambientale ed anche sociale, con la vita di molte persone non calcolata a fronte della prosperità di pochi.

Com’è noto, è in tempi recenti, dal Rapporto Brundtland del 1987 in poi, che la sostenibilità, partendo dal concetto di sviluppo sostenibile, è diventata qualcosa di sempre più presente nel dibattito pubblico, tanto da diventare così impattante da plasmare le coscienze dei consumatori e il modus operandi del business.

La letteratura scientifica in materia fa datare al 1979, e al contributo dell’economista A.B. Carroll, una prima visione moderna di Corporate Social Responsibility (CSR – Responsabilità Sociale d’Impresa), intesa come un soddisfacimento simultaneo di una più ampia gamma di responsabilità da parte delle imprese, per cui spettavano non soltanto obblighi economici e legali, ma anche responsabilità etiche e discrezionali (filantropiche).

Oggi, la Csr è un concetto noto in termini teorici alla stra grande maggioranza degli operatori economici e probabilmente anche – per alcune realtà – l’aspetto più ipocrita che funge da facciata per comportamenti dei più deplorevoli, dal Greenwashing alle più articolate frodi ambientali.

Quali azioni concrete per gli obiettivi di sostenibilità

È pur vero che, lato business, delle volte, delle azioni concrete a sostegno della sostenibilità sono ancora difficili da avviare. Ciò è anche in linea con quello che emerge da una nuova ricerca realizzata a livello globale e promossa da Sap. Di fatti, lo studio “Improving the Environment at Planetary Scale: A Survey of Business Drivers and Actions” (Migliorare l’ambiente su scala planetaria: un’indagine sui fattori e le iniziative business) esplora le azioni che le imprese stanno compiendo per migliorare l’ambiente e le sfide che devono affrontare, mettendo in evidenza come i cambiamenti climatici, lo sfruttamento delle risorse, l’inquinamento atmosferico, i rifiuti solidi e la disponibilità di materie prime, siano state le principali priorità di investimento per affrontare problemi in ambito ambientale, secondo i responsabili aziendali intervistati per lo studio.

Sulla base delle risposte di oltre 7.400 responsabili aziendali di 19 paesi (tra cui l’Italia) e 16 settori, pesa molto l’incertezza sull’attuazione dei piani d’azione di sostenibilità e una concretizzazione del Roi, che non sembra apparentemente evidente e immediato per le aziende. Questa ed altre motivazioni sono condensate negli ulteriori punti che l’analisi  ha anche rilevato:

  • La ragione di fondo che spinge un’azienda a investire in progetti per la tutela dell’ambiente per il 29% degli intervistati risiede nelle normative che regolano il proprio settore, per il 27% nella crescente approvazione del mercato verso il proprio brand e infine per il 26% del campione nei rischi sulla reputazione aziendale (in caso di immobilismo).
  • Alla domanda “quali forze motivano la tua azienda ad agire per migliorare l’ambiente” la prima risposta è stata l’impegno dei Ceo e dei consigli di amministrazione, la seconda i regolamenti governativi. E la terza, subito a ridosso, i ricavi e la crescita dei profitti, a dimostrazione che le azioni ambientali sono influenzate da pressioni sia interne che esterne.
  • L’incertezza su come integrare la sostenibilità nei processi aziendali e nei sistemi IT è vista come il più grande ostacolo all’implementazione dei piani d’azione per il 35% del campione. L’allineamento delle attività proposte con la strategia di business è al secondo posto (34%), seguito dalla difficoltà di dimostrare il ritorno sugli investimenti (33%).
  • Solo il 21% dei rispondenti ha dichiarato di essere completamente soddisfatto della qualità dei dati a sua disposizione per valutare i problemi ambientali. La ragione principale di insoddisfazione è dovuta alla mancanza di fiducia nei dati, che possono essere incompleti e non coprire l’ambito richiesto.

Questo particolare momento storico, quindi, sta mettendo a dura prova il rapporto tra business e sostenibilità. “I risultati dello studio mostrano che l’83% delle aziende non crede che in questo momento gli impatti ambientali siano rilevanti per il loro business”, ha affermato Daniel Schmid, chief sustainability officer di Sap. “Le imprese devono capire che le questioni ambientali sono importanti proprio ora. Con una percentuale crescente di consumatori sempre più sensibili ai valori e ai comportamenti etici delle aziende da cui acquistano, abbiamo quindi l’importante responsabilità di aiutare le organizzazioni a comprendere meglio gli impatti della crisi climatica sul loro business, a superare le barriere messe in evidenza dalla nostra ricerca ed infine ad accelerare il passo per avviare azioni a difesa del clima”.

Approccio customer centric per superare l’eco-ansia

Infatti, questa fatica delle aziende a perseguire, in maniera trasparente, delle concrete azioni di sostenibilità si pone come miope rispetto al fenomeno dell’eco-ansia, che affligge sempre più consumatori. Questa espressione si è diffusa sempre più, dopo che nel 2017 l’American Psychological Association ha pubblicato uno studio che correlava fenomeni ansiosi al cambiamento climatico. Di fatto, si tratta di forme di preoccupazione più o meno accentuata per l’ambiente, la distruzione degli habitat naturali, il cambiamento climatico, l’inquinamento e in generale tutti i problemi ecologici e le catastrofi causate o rafforzate dall’azione dell’uomo e dalla sua attività produttiva sul pianeta. Che le conseguenze del cambiamento climatico influenzino anche attività economiche e sociali, può apparire razionalmente comprensibile nel caso di conseguenze dirette, ma che questo – a priori – solo livello di pensiero, possa causare una gamma di sensazioni, come rabbia, shock o terrore, in maniera più o meno intensa, portando in alcuni casi a soffrire di disturbi post-traumatici da stress, è qualcosa che l’approccio customer centric del business non può permettersi di ignorare.

È anche nel rispondere ad un’esigenza come quella generata da fenomeni di eco-ansia, che si può beneficiare del cosiddetto Successo sostenibile“, che il Codice di Corporate Governance 2020 definisce come “Obiettivo che guida l’azione dell’organo di amministrazione e che si sostanzia nella creazione di valore nel lungo termine a beneficio degli azionisti, tenendo conto degli interessi degli altri stakeholder rilevanti per la società”.

Da queste evidenze, si riscontra la necessità, lato business, di un nuovo approccio, che le permetta anzitutto di trovare le modalità per superare le difficoltà di implementazione della sostenibilità. Può essere forse d’aiuto superare il più tradizionale approccio CSR, andando verso quello che, ormai già 10 anni fa, gli economisti M. Porter e M. Kramer (Creating shared value, 2011) in un articolo sull’Harvard Business Review definirono Corporate Shared Value (Csv). Alla base dello stesso concetto, vi è la consapevolezza dell’interdipendenza tra il successo aziendale e il contributo sociale dell’impresa . Il concetto di Crs viene superato in quanto il Csv si delinea come la capacità di creare valore economico con modalità che consentano di ottenere benefici, contemporaneamente, sia per l’azienda sia per la società, in maniera tale da riconciliare il successo economico-finanziario con lo sviluppo sociale.

I passi per creare Corporate Shared Value (Csv)

Le strade perseguibili per la creazione del Csv sono tre, che il Corporate Reporting Forum, in un suo documento dell’ottobre 2020, riassume come tali:

  • “Riconcepire e innovare i prodotti e i servizi valutando i rischi e le opportunità legate alla produzione o all’erogazione di quanto già offerto, per meglio servire i mercati di riferimento o entrare in nuovi mercati non ancora esplorati;
  • Ridefinire e innovare la produttività della catena del valore incrementando la qualità dei prodotti e/o l’efficienza dei processi produttivi, riducendo i costi di produzione e le risorse impiegate e/o migliorando i processi di distribuzione, per generare un vantaggio economico e sociale;
  • Sostenere lo sviluppo dei cluster locali con cui l’impresa entra in contatto tramite l’ammodernamento delle infrastrutture, il supporto ai fornitori locali e il sostegno alle comunità di riferimento, per ottenere un vantaggio competitivo di lungo periodo e promuovere al contempo lo sviluppo sociale”.

In definitiva, vi è un’esigenza di concretezza e pragmaticità che permetta di avvalorare e dimostrare in maniera misurabile e rendicontabile i benefici , che pur vi sono, della sostenibilità. Misurazione e rendicontazione volti a delineare la strategia aziendale e guidare i diversi processi aziendali, facendone emergere i vantaggi economici, sono ora le priorità su cui lavorare, per dimostrare come la sostenibilità conviene.




“Le invio il mio avatar per le misure, va bene?” Dati e privacy in atelier

“Le invio il mio avatar per le misure, va bene?” Dati e privacy in atelier

“Ci vediamo domani alle 10 per l’ultima prova allora?”

Non posso proprio domani, ma le invio il mio avatar per le misure, va bene?”

“Ancora meglio, abbiamo ormai il software per trasferire tutti i dati al nostro sistema di cucitura”.

Il dialogo potrebbe essere fra qualche tempo pratica corrente in un qualsiasi negozio di abbigliamento.

Cominciano infatti a moltiplicarsi gli atelier degli avatar personali. L’ultimo lo ha aperto a Milano Billy Berlusconi, nipote del più noto, al momento, Silvio.

Si tratta di un centro per la realizzazione di avatar che riproducono, in tutto e per tutto, le fattezze e le misure del titolare. Un altro centro simile è già in attività a Torino, e se ne annunciano anche a Roma.

La promozione del prodotto, che il nuovo Berlusconi che scende in campo annuncia, e al quale, se buon sangue non mente, non mancheranno certo le risorse pubblicitarie, oltre che finanziarie, parla di un vero gemello che ci sostituisce in incombenze fastidiose, come appunto misurarsi un abito, oppure andare dal personal trainer per farsi prescrivere esercizi. Sembrerebbe, a prima vista il solito giochetto per ricchi annoiati. Definizione che qualche decennio fa veniva usata in generale per Internet, e successivamente, per i social. Poi abbiamo visto dove siamo arrivati.

Ora siamo dinanzi ad un fenomeno che già fu annunciato circa 10 anni fa, con quella moda, allora passeggera, di SecondLife. Qualcuno ricorderà: la piattaforma dove si ricreavano condizioni di vita comunitaria reale per mezzo di pupazzetti che impersonavano i singoli utenti. Si cominciava a parlare di duplicazione di se stessi, di dare forma ai sogni o alle ambizioni, ricreando personalità e attività. Qualcuno riuscì anche a guadagnarci qualcosa speculando sulla frenesia di rendere il proprio avatar attraente e brillante, dotandolo di un personal designer, di un arredatore della propria casa e di accompagnatori o accompagnatrici suggestive, per non dire direttamente eccitanti.

Quella forma di fuga da se stessi durò un paio d’anni e si spense naturalmente, sostituita da una più ampia, inclusiva e omologante corsa ai social. 

Ma, come sempre, ogni tendenza ormai nel sistema virtuale si modifica, anzi, si ri-media, come direbbero Grusin e Bolter, i due teorici della combinazione continua di linguaggi e valori nella società dell’informazione. I processi non si esauriscono, ma si innestano in tendenze più complesse. La sensoristica, intrecciata a una potenza di calcolo che sta riproducendo funzioni umane, come voce, memorie e correlazioni, ad alta fedeltà, ci ripropone l’obbiettivo di una nostra riproduzione.

Infatti, anche sulla scorta della società distanziata, che la pandemia ci sta imponendo, con le pratiche di massa di smart working e di e Learning, la disponibilità di veri avatar che, in sicurezza per noi, rendono più dirette e fluide le relazioni sociali che non possiamo gestire in presenza, sta ormai imponendosi come necessità diffusa. In questo contesto si pone il tema di una modularità dell’avatar, che per rispondere fedelmente alle nostre perfette dimensioni e misure, dove evolversi con noi, rimanendo in contatto con gli indicatori della nostra personalità, sia fisica che psicologica. In sostanza, se vogliamo usufruire di un servizio efficiente e duraturo, dovremmo trasferire all’avatar i nostri dati socio biologici. In modo da poterlo usare in permanenza, adattandolo a varie evenienze. A questo punto diventano due i temi che ci interrogano: da una parte quale fenomeno potranno attivare gli avatar di noi tutti interagendo fra di loro? Che società si potrebbe creare accanto alla nostra, con questi gemelli che ci rappresentano? Si arriverebbe ad una sorta di Blade Runner in scala minore, dove avatar e originali si mischiano in diverse forme di relazione, come appunto attività subalterne o ancora integrative o, di nuovi svaghi, o, infine di svaghi di sempre, come l’industria del sesso non maccherebbe di proporre, e in questo forse già lo zio qualche suggerimento potrebbe darlo all’intraprendente nipotino. Ma l’altro tema che inevitabilmente incontreremo su questa pista riguarda, come è ormai prassi consueta, la questione dei dati. Se noi avremo modo di trasferire al sistema di calcolo che guida l’avatar, sia nelle prime versioni puramente virtuali, che in quelle tridimensionali e materiali che Billy Berlusconi ci annuncia, i nostri dati psico-biologici, per rendere appunto il gemello in tutto corrispondente a noi via via che invecchiamo, a sua volta l’avatar a chi invierà questi dati preziosissimi per profilare intimamente l’umanità?

Siamo ad un giro di boa che ci fa intendere come forse, dietro l’apparente frivolo business della vanità dei ricchi milanesi, la famiglia Berlusconi si sia trovata ancora una volta , dopo la sbornia della TV commerciale negli anni 80, ad essere veicolo di un processo di modernizzazione passiva della nostra società che mira a sostituire i social come strumento di raccolta e trasferimento dati con un nuovo medium, basato sulla relazione diretta fra consimili di ognuno di noi, in cui la nostra anima diventa un file da appaltare.




Il Consiglio di sorveglianza di Facebook ha confermato il ban di Trump

Il Consiglio di sorveglianza di Facebook ha confermato il ban di Trump

Con una decisione tra le più attese della storia recente dei social media, Donald Trump è stato bandito in forma permanente anche da Facebook e da Instagram. È la decisione a cui l’Oversight Board, il consiglio di sorveglianza super partes istituito da Facebook l’anno scorso, è giunto nel pomeriggio italiano del 5 maggio, dopo mesi di discussioni e feedback degli utenti.

La sospensione definitiva dei profili dell’ex presidente era stata messa in discussione dalla piattaforma stessa, che aveva preferito affidare all’Oversight Board la decisione finale sulle sorti digitali del tycoon. Dopo mesi di discussioni il consiglio superiore ha confermato il ban definitivo dalle piattaforme di Menlo Park per l’ex presidente degli Stati Uniti. Nel contempo, però, l’Oversight Board ha espresso critiche nei confronti della natura permanente del divieto, in quanto questa azione non sarebbe congruente con le normali sanzioni applicate dal social network.

L’ex presidente è stato bandito da Facebook e Instagram a seguito dell’assalto al Campidoglio americano che i suoi sostenitori hanno messo in atto lo scorso gennaio, a seguito di un suo discorso a Washington che propagandava la fake news dei brogli elettorali che, a suo dire, gli avrebbe scippato le presidenziali di novembre.

L’organismo di vigilanza ha affermato che la decisione iniziale di sospendere definitivamente Trump è “priva di standard” e che la risposta corretta avrebbe dovuto essere “coerente con le regole applicate agli altri utenti della piattaforma”.

Nonostante questa sgridata a Facebook per il modo in cui ha deciso di bandire Trump dalle sue piattaforme, l’Oversight Board ha deciso che l’ex presidente ha effettivamente infranto gli standard della community di Facebook confermandone quindi l’estromissione.

Tuttavia, come si accennava il consiglio superiore ha stabilito che Facebook non può estromettere un utente dalle sue piattaforme per un periodo indefinito senza essersi dotato di criteri che stabiliscano come e quando l’account possa essere ripristinato. In sostanza, per il Consiglio, Facebook ha il potere di estromettere un utente ma deve concedergli la possibilità di redimersi e di meritarsi nuovamente l’accesso ai social network.

Il Consiglio ha anche nei fatti sostenuto che Facebook abbia cercato di evitare le proprie responsabilità “deferendo questo caso al board per risolverlo”.

Sebbene queste raccomandazioni non siano vincolanti, esamineremo attentamente le raccomandazioni del board”, ha commentato Nick Clegg, vicepresidente degli affari globali e della comunicazione di Facebook.

Ora Facebook ha 6 mesi di tempo per rispondere alle decisioni della sua corte suprema stipulando delle nuove regole che possano gestire al meglio situazioni simili future. Nel frattempo Trump è già corso ai ripari, aprendo il suo personalissimo – e un po’ deludente – blog mascherato da social network.