1

Che cos’e il Digital PR? La definizione…

John Mueller, Google, ha appena scosso il settore, dichiarando il Digital PR più importante della SEO tecnica (in alcuni casi):

La comunità Twitter a questo momento sta discutendo su che cos’è il Digital PR, ho visto una piccola manciata di persone scorrettamente dichiarare che il Digital PR è falso, che non favorisce le prestazioni, che non funziona per la SEO, e che è soltanto un modo glorificato per dire “link building” – ma si sbagliano! Ho visto di prima mano la bellezza segreta del Digital PR e il suo impatto se fatto bene! E allora ho pensato di condividerla con voi…

Parlando da persona che gestisce la più grande squadra Digital PR nel mondo ho pensato di aiutare a definirlo una volta per tutti, definendo anche il suo rapporto con la SEO e la differenza con il PR tradizionale.

Allora, che cos’è il Digital PR?

Il Digital PR è una tattica promozionale usato dai marketer per aumentare la presenza online del marchio. È una strategia misurabile e tangibile per favorire la brand awareness, il traffico verso un sito Web, i link che possono incentivare classifiche di ricerca organiche, le vendite, il seguito sui social e il coinvolgimento.

Nonostante suo “origine” nella SEO (ritorniamo su questo di sotto), il Digital PR NON È link building, e in realtà ha un uso molto più ampio che solamente per la SEO. E non alzare gli occhi al cielo, pensando che stia dicendo cazzate. Leggete un po’ e vedrete la bellezza…

Il Digital PR non fa parte della SEO. Fa parte del marketing. I content marketer usano il Digital PR per far vedere il loro contenuto da milioni di persone, i marketer usano il Digital PR per mostrare i loro prodotti a un pubblico diretto, i fondatori usano il Digital PR per creare hype intorno al lancio ed essere posizionati come esperti, creatori video usano il Digital PR per favorire le visualizzazioni e costruire autorevolezza.

È una tattica ampiamente utilizzata, che richiede l’applicazione dei principi del PR tradizionale alla promozione di contenuto/storie/marchi/prodotti online. Viene usato come un modo di stare al passo e distinguersi.

Relazioni pubbliche vengono tradizionalmente definite come “un processo di comunicazione strategica che costruisce rapporti tra le organizzazioni e i loro pubblici.”

Quindi, come costruiamo i rapporti ora? Facciamo sapere al pubblico chi siamo, ci facciamo piacere da loro, gli facciamo fidarsi di noi, gli facciamo connettersi a noi attraverso simili interessi. E poi ci raccomandano, vero? Ebbene, è lo stesso qui nelle relazioni pubbliche digitali.

Carrie Rose, fondatrice di Rise at Seven e Digital PR Examples dice: “Digital PR si tratta di costruire la presenza, la fiducia e l’autorevolezza. Non solo per Google ma per gli utenti, che sono online. Crei contenuti e li distribuisci online in modo che gli utenti sanno chi sei, vanno d’accordo con quello che dici, credano che tu abbia ragione, ti raccomandano e comprano da te.

Digital PR non è il link building. Il link building è una tattica SEO. Ed è importante conoscere la differenza tra loro. Tuttavia, il Digital PR può avere risultati e impatti ALLUCINANTI quando si lavora con la SEO. Perché il Digital PR può anche costruire link. Ecco come…

Come il Digital PR può funzionare per la SEO

Fatto bene, il Digital PR può farti trovare link. Sto parlando di LINK autorevolissimi, impegnatissimi! Link che vengono veramente cliccati, che spingono traffico verso un pezzo di contenuto su un sito, che guidano condivisioni ed coinvolgimento per un marchio e favoriscono ricerche. E poi quei link possono anche favorire le vendite dirette. Si, SUL SERIO! Quei link sono il risultato di contenuto, prodotti, un marchio fantastici. Contenuto rilevante, coinvolgente, utile, intraprendente o diverso.

Quei link e i contenuti rilevanti possono avere un enorme impatto su classifiche organiche. BONUS! Google riconosce i link come un segnale di fiducia e autorevolezza su un soggetto. Più ci sono link che rimandano al tuo sito da siti autorevoli che parlano di quel soggetto, più Google si fiderà di te. È quindi una questione di qualità e quantità. Non uno o l’altro, ma TUTT’E DUE!

I link che il Digital PR ottiene, insieme a una solida SEO tecnica e al contenuto del sito, può aiutare ad aumentare la visibilità della ricerca per frasi chiave non di marca. La ricerca è il canale che ottiene il traffico e l’aumento delle vendite, il Digital PR è uno degli elementi che contribuisce a questo.

Tuttavia, quei link non favoriscono classifiche organiche drasticamente più alte se sono di poca pertinenza, se il sito ha dei problemi tecnici, se il contenuto è scadente. Se possono funzionare assieme, è l’ingrediente perfetto.

Il Digital PR e la SEO funzionando insieme è una bellissima combinazione di avere un ottimo sito e fare credere a tutti – Google compreso – che è un ottimo sito. Se tutti credono che hai un marchio online eccezionale, ma il tuo sito dice tutta un’altra storia (un sito lento, con contenuto di merda, UX scadente, ecc.) Google lo sa che stai ingannando il pubblico e non ti ricompensa.

Il Digital PR non è link building

Link building è sempre stato un modo di ingannare gli altri, inizialmente con Google e poi gli utenti. Ma Google ora è molto più avanzato.

Link building viene usato per fare credere a Google che questo è un sito da cui fidarsi. Ma non è un modo di DIMOSTRARE agli utenti che è un sito da cui fidarsi. Quell’infografica che hai creato sta soltanto costruendo link, non amore per il marchio, non la fiducia degli utenti, non consapevolezza. Solo una tattica per favorire le classifiche organiche (e se la vedi così, stai sprecando tempo).

Dove il Digital PR è iniziato

Il Digital PR esiste da anni e anni, ma non nella forma che vedete oggi. Io ho incominciato a lavorare nella SEO nel 2013 quando le squadre Digital PR avevano appena iniziato ad apparire in agenzie come Branded3 e Epiphany che al tempo erano all’avanguardia.

Essenzialmente l’aggiornamento Google Penguin nel 2012 era l’inizio di questo movimento, cambiando il modo in cui si costruivano link da un sito a un altro in modo di favorire le classifiche organiche più alte. Prima, i link venivano comprati in massa, pagati dalla SEO. Spesso furono irrilevanti, mancavano di coinvolgimento, e dietro di loro c’era poca strategia tranne favorire “LINK JUICE”. Creato per ingannare Google.

Tuttavia, l’aggiornamento Penguin è arrivato di colpo nel 2012, penalizzando i marchi per tutto il web. Migliaia (se non milioni) di soldi sono stati sprecati. Abbiamo rinnegato i link e abbiamo rincominciato da capo. E da questo furono nate le squadre Digital PR.

Una squadra “Digital PR” all’epoca creava contenuto e storie che guadagnavano link invece di dover pagare. Essenzialmente abbiamo fatto tutto quello che potevamo per ottenere un link senza pagare. Questo includeva mandando blogger agli eventi (in cambio di un link), gestire sondaggi per ottenere storie di dati da mandare alla stampa (in cambio di un link) e infografica su infografica da mandare ai siti come pezzi editoriali (in cambio di un link). La maggior parte di questo contenuto meritava PR. Prendere l’approccio PR per ottenere link per la SEO, storie che i giornalisti naturalmente avrebbero trattavano perché erano eccezionale, intraprendente or semplicemente diverse. Abbiamo persino trovato che era più facile ottenere link di più alta qualità, con più autorevolezza, che aiutò a favorire le classifiche ancora di più. Tuttavia, eravamo ancora link builder. Stavamo ancora ingannando Google. Solo che odiavamo ammetterlo!

“Digital PR” divenne più creativo nel corso degli anni. Passò dalle infografiche alle mappe, ai strumenti interattivi, i quiz, micro-siti e altro ancora. Ma l’obiettivo è sempre stato lo stesso – favorire classifiche organiche (SEO) più alte. Tuttavia, una cosa notevole è che quasi sempre il contenuto aveva pochissimo a che fare col marchio ed era solo una tattica per ottenere link.

Ho visto contenuto riguardando morte di celebrità per ottenere link a un sito Web di trucco, infografiche su Netflix per marchi dei giochi dell’azzardo, delle classifiche dei marchi di birra più popolari del mondo per un servizio di installazione di finestre. La pertinenza del contenuto è stato discutibile, ma la verità è che ai SEO non importava se i link venivano cliccato o no. Non gli importava neanche se l’articolo su cui il link è atterrato fu letto, o se ha spinto il marchio o la ricerca, o se ha raggiunto il pubblico giusto. Ho posto la domanda me stesso e moltissime persone hanno confessato che non gli importa.

Devo ammettere che anch’io sono colpevole di averlo fatto. Una volta ho pagato per link (nel 2013 quando i tempi erano duri e era normale fare così) ma ho insegnato alla mia intera squadra come prima creiamo un rapporto tra un marchio e il suo pubblico, a cui la gente vuole bene e di cui si fidano, e poi come usiamo SEO, contenuto di alta qualità e un sito intraprendente per dimostrarlo a Google.

Adesso dove siamo?

Nei ultimi due anni l’industria fiorisce, con una notevole spinta e domanda nei ultimi 12 mesi in particolare. E questo LO AMO!

Ci sono agenzie e persone che continuano a sbagliare nel Digital PR e come funziona per la ricerca. La cosa difficile è che Google non penalizza più i marchi. Lo ignorano e basta. È uno spreco di soldi e di tempo – fino a quando non lo fai bene.

Attualmente lavoro con 65 clienti per tutto il mondo, favorendo le classifiche organiche, traffico e reddito, usando content marketing come un solo modo di farlo. Incomincio a costruire consapevolezza del marchio, contenuto eccezionale, dati che sono unici o pieni di risorse, e poi uso il Digital PR per convincere tutti a crederci, sia gli utenti che Google. Tutto questo a fianco della squadra SEO spingendo il sito ad essere il migliore risultato nei SERP, il team ti progettazione rendendo i siti veloci, usabili e piacevoli con cui interagire, creativi fare sembrare affidabile il sito marchio, sembrare diverso, e costruire l’amore marchio.

Qui c’è un perfetto esempio di come funziona…un anno dopo e la visibilità di questo marchio è più alto che mai.

Non so se l’hai notato, ma le agenzie creative hanno incominciate a vendere il Digital PR. Saltando dentro quello che è sempre stato il NOSTRO spazio. Perché riconoscono il suo impatto su altre parti FUORI dalla SEO. Sebbene tante agenzie creative si stanno dilettando nella SEO, fanno ancora fatica a realizzare quel legame. Voi avete ancora tempo. Voi avete il vantaggio di essere esperti SEO pur essendo capaci di promuovere i contenuti a milioni di persone.

Hai mai sentito la citazione sulla percezione?

“Se cambi il tuo modo di guardare le cose, il modo di guardare le cose cambia.”

Forse è l’ora di cambiare il modo in cui guardi il Digital PR, perché quando io l’ho fatto, ha cambiato il mio mondo. Letteralmente!

Se vuoi vedere esempi di nostro lavoro leggi qua


Carrie Rose
Co-fondatrice e direttore creativo di Rise at Seven. Carrie è una pluripremiata content marketer.




Cybersecurity alla sfida cognitivista, ecco i bias che ci rendono “insicuri digitali”

Cybersecurity alla sfida cognitivista, ecco i bias che ci rendono “insicuri digitali”

Percezione del rischio e attitudine mentale giocano un ruolo centrale nella capacità di proteggere i nostri dati personali. Portandoci spesso a sottostimare l’impatto di eventi avversi. Analizziamo le dinamiche che si celano dietro le quinte dei processi decisionali. E come superare gli ostacoli

La cybersecurity passa anche da una maggiore consapevolezza dei nostri processi decisionali. Per questo serve non solo una forte spinta strategica sull’alfabetizzazione digitale, ma anche una svolta etica nella fase di progettazione delle piattaforme online.

Un esempio su tutti, per capire di cosa stiamo parlando: tutti noi ricordiamo che perfino la password dell’account Twitter di Donald Trump – prima che questo venisse sospeso in seguito ai fatti di Washington – era finita su tutti i giornali: maga2020. L’aveva individuata l’hacker “etico” Victor Gevers in soli cinque tentativi.

Partendo dallo slogan che ha accompagnato per anni il presidente, “Make America Great Again (usato spesso, appunto, con l’acronimo MAGA), il ricercatore olandese – fondatore della organizzazione non profit GDI Foundation – ha utilizzato questa violazione come simbolo delle vulnerabilità della rete, al fine di accrescere la consapevolezza degli utenti sui rischi di un uso non attento ai temi di sicurezza. Possiamo ridere del Presidente e del suo staff, ma ad essere sinceri la maggior parte di noi non è tanto più attenta: tra le password più usate in rete troviamo la stringa di numeri “123456”, seguita da “123456789” e, subito dopo, l’immancabile “qwerty”. Inutile sottolineare che sono anche le più facili da hackerare.

Per giunta usiamo le stesse password per diversi account e dispositivi, anche quando li condividiamo con amici e parenti, con un comportamento estremamente rischioso; è noto quanto le persone utilizzino password identiche per più domini (dal 40% fino ad un 80-90% in casi di parziale riutilizzo), per cui, nell’uso promiscuo di applicazioni apparentemente innocue – come Netflix o altri account di video streaming tra amici – c’è una implicita condivisione di dati sensibili, perché potenzialmente si stanno condividendo le medesime password utilizzate per account più impegnativi (come ad esempio gli accessi bancari).

Gli esempi di tutti quei piccoli incauti gesti che compiamo senza considerarli particolarmente insicuri, coinvolgono attività che sono entrate a pieno titolo nelle nostre abitudini e facciamo fatica a immaginare possano essere rischiose: dal lasciare che Alexa ci aiuti nelle attività domestiche, senza disabilitare la registrazione delle nostra conversazioni, fino all’invio di foto private, foto di bambini o foto intime, tramite Whatsapp e Facebook. Potremmo continuare a lungo elencando piccoli comportamenti che mettiamo in atto senza pensare troppo alle conseguenze in termini di cybersecurity e viene naturale chiedersi quale sia effettivamente la base delle nostre scelte in termini di sicurezza digitale.

Percezione del rischio e bias cognitivi

Un discorso noto agli addetti ai lavori, che si fa sempre più urgente ed importante a livello globale anche per i non esperti, oggi che – per via dell’emergenza sanitaria – all’intera società è richiesto di intensificare l’uso del digitale tra smart workingDad e digitalizzazione della PA.

Il rischio è definibile come la probabilità di subire un fatto negativo a fronte di variabili date, per cui nella nostra mente si traduce in un rapporto costi/benefici strettamente correlato al modo in cui percepiamo ed analizziamo la situazione pericolosa. Già nel 1738 Bernoulli aveva teorizzato l’approccio psicofisico al processo decisionale, sottolineando l’avversità al rischio: la maggioranza delle persone preferisce una sicurezza minore a un azzardo incerto.

L’avversità o la propensione al rischio, intesi come la possibilità di rifiutare o accettare un rischio futuro contro una sicurezza immediata, sono correlate essenzialmente non già ai risultati attesi, ma all’attesa del valore soggettivo dei risultati che si prevedono.

Il principio fondamentale sotteso al processo attribuzionale, prevede erroneamente che l’uomo sia in grado di padroneggiare la realtà, mosso da un bisogno fondamentale di prevedere il futuro controllare gli eventi. Abbiamo bisogno di risposte confortanti anche nel confrontarci con la casualità, e tendiamo ad  attribuire un significato a una struttura da noi percepita, specialmente quando il significato può essere confortante e ridurre l’instabilità dell’ignoto. Ad esempio, la familiarità con una persona ci farà percepire le nostra interazioni digitali più sicure di quanto non lo siano: scambieremo dati e foto tramite whatsapp o email senza concepire il mio comportamento come pericoloso. Allo stesso modo, gli ambienti dotati di determinate caratteristiche saranno correlati ad una elevata percezione di sicurezza e saranno navigati senza troppe preoccupazioni.

In questo caso, intervengono le quattro dimensioni fondamentali connesse alla sicurezza in ambienti digitali, su cui convergono la maggior parte degli studiosi:

  • riservatezza
  • integrità delle informazioni scambiate
  • disponibilità dei contenuti ricercati
  • non-repudiation (non sconfessione) delle transazioni avvenute (soprattutto per i sistemi che prevedono pagamenti).

La teoria del doppio processo

La realtà è complessa, i soggetti sono molto poco razionali e gli esiti dei processi decisionali rispondono più alla necessità di sintesi e semplificazione che non da analisi causali e razionali. Ciascuno di noi ha una sua personale attribuzione di pericolo alle situazioni a prescindere dalla loro reale ed oggettiva rischiosità: le persone associano rischi differenti ad attività che essenzialmente hanno uguali probabilità di produrre conseguenze negative. Da questo punto di vista il decision making essenzialmente si concentra sul concetto di percezione, che prescinde dal rischio oggettivo ma si basa su giudizi e valutazioni che ne danno i soggetti.

Per comprendere i pregiudizi che guidano il nostro comportamento nell’analisi di rischio, è utile ricondurre il pensiero umano in una struttura, chiamata “teoria del doppio processo” che divide la cognizione umana in due modalità: una implicita, sintetica e veloce, che è anche quella più utilizzata nonostante ci faccia incorrere in errori, i bias cognitivi; un’altra esplicita, lenta e sistematica, che sopraggiunge quando siamo disposti ad investire più energie.

Un dato ormai consolidato in letteratura è la discrepanza tra la percezione soggettiva del rischio e la sua valutazione oggettiva. Il sistema di pensiero intuitivo che agisce in modo preminente, seppur implicito, nel creare le nostre valutazioni coscienti, coinvolge le reazioni emotive che associamo a diversi stimoli. Per quanto incidano fattori individuali, ad oggi sappiamo che è possibile focalizzare la risposta ad una situazione di rischio principalmente attorno alla percezione di gravità e probabilità di accadimento di evento.

due criteri di classificazione noti come rischio terrificante e rischio sconosciuto, sono intrinsecamente correlati alla componente affettiva che investe la situazione. Da una parte, quindi abbiamo la percezione di conseguenze gravi, correlata ad una certa attività e dall’altra la possibilità che l’esito non si realizzi, grazie alla capacità di controllare il possibile esito rischioso.

Partendo da questi due fattori ciascuno costruisce implicitamente una personale mappa cognitiva della rischiosità associata ad una determinata attività, che coinvolgerà anche la risposta emotiva connessa ai possibili esiti della situazione. In tal senso, se le attività sono percepite come piacevoli e fonte di benefici, come può ad esempio esserlo condividere foto personali con gli amici attraverso Whatsapp e Messenger, vengono considerate anche poco rischiose o per lo meno la valutazione in termini di costi/benefici è sbilanciata a favore del beneficio correlato alla condivisione, contro un costo che viene percepito come limitato e meno grave, anche in contraddizione con la logica fattuale.

Assunzione di responsabilità e processi decisionali

Nella cybersecurity la comprensione ed il superamento della percezione relativa alla sicurezza, con i relativi bias decisionali, sono aspetti fondamentali, poiché influiscono sull’allocazione delle risorse e sull’analisi delle minacce. Il problema principale è che noi, in qualità di “avari cognitivi”, per prendere le nostre decisioni ci basiamo unicamente su quello che vediamo in modo rapido e tutt’altro che sistematico, senza realmente considerare tutte le informazioni a disposizione: protagoniste del processo sono senza dubbio le euristiche, le scorciatoie cognitive che agiscono a livello inconsapevole, che assumono un peso fondamentale nelle decisioni connesse alla valutazione del rischio, lasciando un ampio margine di influenza alle emozioni correlate alle decisioni.

La componente del rischio spesso non è basata quindi su un dato oggettivo, ma piuttosto sulla percezione soggettiva che ciascuno ha rispetto alla possibilità che un evento negativo si verifichi, ma soprattutto il peso emotivo che attribuisce alle opzioni immaginate.

Un ruolo più importante lo assumono, quindi, le rappresentazioni che ciascuno costruisce, nel tempo ed in virtù di esperienze e relazioni personali, le quali influenzano in maniera determinante i processi decisionali. Così accade che – in assenza di un pericolo imminente e conclamato – le aziende preferiscano non chiamare un esperto di cybersecurity o le persone evitino di aggiornare il costoso antivirus o ancora che non si impegnino a cambiare effettivamente la password con costanza, tutto questo pur di non spendere soldi o tempo hic et nunc.

Senza dubbio il frame e la comunicazione acquistano un rilievo non indifferente nel contesto, se pensiamo che, a parità di probabilità, cambiando la prospettiva del problema – ad esempio invertendo vincite e perdite – si nota una modifica delle risposte (Prospect Theory).

Cybersecurity e effetto framing

L’effetto framing affida un peso rilevante al modo in cui viene contestualizzata la situazione in termini informativi: le parole che scegliamo per proporre un problema inficiano sul modo in cui leggiamo la situazione.

Facciamo un esempio:

  • i dati Coware ci dicono che il 30% dei casi di ransomware include una minaccia di rilascio di dati esfiltrati ed il 22% contiene effettivamente questi dati.
  • i dati Coware ci dicono che il 70% dei casi di ransomware non include minaccia di dati esfiltrati difatti solo il 22% contiene effettivamente questi dati.

L’informazione è esattamente la stessa, ma ad un lettore inesperto nel primo caso appare piuttosto allarmante, nel secondo tutto sommato rassicurante: cambierà totalmente la mia percezione della pericolosità dei ransomware e le relative azioni di difesa che metterò in atto.

In generale il negativo vince sul positivo, nella misura in cui il cervello risponde in fretta anche a minacce puramente simboliche, soprattutto se espresse in maniera emotivamente carica, arrivando ad elaborare in maniera più sistematica le informazioni cattive rispetto a quelle positive.

Oltre a questo, Kahneman ci ha dimostrato che le persone sono più propense a correre il rischio di una grossa perdita differita nel tempo, piuttosto che accettare nell’immediato una perdita reale più piccola, incorrendo così nel bias del presente (o hyperbolic discounting). Le ragioni di questa distorsione sono correlate ad un altro errore molto diffuso, che è la tendenza ad ignorare o sottostimare la possibilità che eventi negativi possano riguardarci in prima persona (bias dell’ottimismo). Questo pregiudizio, secondo la neurologa Tali Sharot, ha una sua funzionalità adattiva: “Research on the optimism bias suggests an important divergence from classic approaches to understanding mind and behaviour. It highlights the possibility that the mind has evolved learning mechanisms to mis-predict future occurrences, as in some cases they lead to better outcomes than do unbiased beliefs”.

Impatti del “bias dell’ottimismo”

Rispetto a credenze imparziali, la tendenza a sovrastimare la possibilità di esiti positivi in futuro, porta a risultati migliori, ed è un comportamento che si è andato consolidando, non solo per il noto processo di minimizzazione delle perdite e massimizzazione dei risultati, ma per una ragione ben più profonda: il nostro sistema cognitivo elabora mappe del futuro tendenzialmente positive, ancorandosi al presente e distorcendo i fatti in modo da non soccombere alla depressione o allo stress. L’illusione ottimistica è quindi evoluzionisticamente necessaria, andandosi a consolidare come processo più frequente nelle valutazioni quotidiane del rischio.

Per quanto alcuni autori arrivino a considerare le illusioni ottimistiche come l’unico gruppo di miscredenze effettivamente adattive, è necessario sottolineare che, in quanto distorsioni cognitive, si tratta sempre e comunque di un processo potenzialmente pericoloso, giacché la sottovalutazione del rischio può ridurre il comportamento precauzionale. Banalmente, se riteniamo improbabile un attacco hacker al nostro sistema informatico, procrastineremo monitoraggi, controlli ed aggiornamenti facendoci trovare vulnerabili nel caso di incursione.

Allo stesso tempo si attiva il pregiudizio egoistico per cui il soggetto attribuisce la “colpa” di ciò che gli accade in prima persona a fattori ambientali o contestuali piuttosto che interiorizzare l’errore come un tratto interno. In caso di attacco, quindi, saremo portati a sminuire le nostre responsabilità attribuendo al virus, all’hacker o al sistema vulnerabile, una potenza superiore alle possibili attese. Come attori sociali, abbiamo la consuetudine di osservare il mondo dal nostro personalissimo punto di vista, il che attiva in modo più vivido un pregiudizio che è frequente nel nostro funzionamento cognitivo: l’errore fondamentale di attribuzione. Si tratta della tendenza a vedere i fallimenti o gli errori di altre persone come parte della loro identità invece che attribuire il fallimento o l’errore a influenze contestuali o ambientali.

Questo accade in maniera ancora più sistematica se abbiamo un’elevata sensazione di controllo personale del rischio, perché l’idea di avere capacità per gestire la situazione ci fa percepire meno grave il pericolo, soprattutto se ci siamo esposti volontariamente alla situazione rischiosa. A questo è associato il bias di conferma che porta ciascuno ad essere d’accordo con le persone che la pensano allo stesso modo ed evitare individui o gruppi che la pensano diversamente ed inducono disagio o dissonanza. Il bias di conferma non solo influenza le nostre strategie di ragionamento, ma influisce anche sul modo in cui memorizziamo le informazioni e le recuperiamo quando necessario. Le persone tendono a concentrarsi e ricordare le informazioni che confermano o si allineano con le loro convinzioni, mentre scartano o dimenticano le informazioni che si oppongono al loro punto di vista.

Anche gli esperti, ad esempio, potrebbero incorrere in questo pregiudizio inconsapevolmente, trovandosi a cercare soluzioni a problemi associati ad un evento avverso, solo fra le cause in linea con le proprie teorie. IIl superamento del bias di conferma richiede un pensiero creativo e flessibile, in particolare il capacità e volontà di guardare una situazione da diversi punti di vista.

Sfida etica per i progettisti

Preso atto che, spesso, il nostro sistema cognitivo incorre in errori e distorsioni, è ancora più chiaro quanto la percezione del rischio sia un processo personale e complesso, nel quale la relazione tra rischi e benefici di un’attività o di una situazione siano percepiti in modo differente da come questa relazione si realizzi nella realtà. Dato oggettivo e percezione soggettiva non coincidono, ma questa consapevolezza va resa parte della cultura digitale e dei suoi processi di alfabetizzazione.

Nel momento in cui si spinge verso una maggiore utilizzo del digitale, l’insicurezza digitale diviene ancora di più un problema pubblico ed urgente. Quotidianamente noi consegniamo ai gestori delle piattaforme importanti informazioni personali, per cui assieme alla sensibilizzazione civica rispetto al problema, si pone anche una questione etica dei progettisti, cui corre l’obbligo di implementare sistemi che prendano atto delle nostre debolezze cognitive, non per sfruttarle a proprio vantaggio, ma per aumentare la sicurezza della navigazione dei propri utenti.

Come sempre, le competenze tecniche e l’uso dei mezzi hanno scarso effetto se non dialogano con le competenze immateriali e culturali di sensibilizzazione rispetto agli effetti a lungo termine di azioni concrete. L’attuale cyber-insicurezza dipende senza dubbio “dall’evoluzione rapidissima degli attori, delle modalità, della pervasività e dell’efficacia degli attacchi”, ma dobbiamo necessariamente contemplare la componente umana, le scelte personali, le “credenze” ed i comportamenti dei singoli. In tal senso le abitudini e l’educazione connesse alla sicurezza acquistano un peso decisivo nel discorso pubblico.




Wikipedia compie 20 anni: come il sapere libero e condiviso ha cambiato la conoscenza

Wikipedia compie 20 anni: come il sapere libero e condiviso ha cambiato la conoscenza

Uno degli aspetti che contraddistinguono l’uomo è la capacità di produrre cultura e di trasmetterla mediante l’insegnamento. Non siamo, in realtà, gli unici viventi capaci di trasferire conoscenze tra individui e generazioni, perché è stato dimostrato che altre specie hanno sviluppato “dialetti” con cui comunicano o comportamenti strettamente legati ai luoghi in cui vivono, con tutte le caratteristiche delle culture locali.

Ma sul pianeta Terra nessuno ha spinto questa capacità all’estremo come abbiamo fatto noi. La società in cui viviamo ne è una diretta conseguenza: la scuola, gli idiomi del mondo, i libri, i media, internet sono solo alcune delle molteplici forme con cui siamo capaci di trasmettere sapere.Moonshine Charred Harley Davidson 0.7lAcquistaTANNICO

Il sapere online

Tra queste è impossibile non includere Wikipedia, che compie vent’anni. Non è semplicemente un’enciclopedia web, messa online per la prima volta il 15 gennaio del 2001 per iniziativa dei due fondatori Jimmy Wales e Larry Singer. È anche un’idea rivoluzionaria, basata sulla convinzione che il sapere costruito dall’umanità debba essere libero e condiviso.

Sembra un’ovvietà, ma non è così. Ne abbiamo parlato con Iolanda Pensa, presidente di Wikimedia Italia appena entrata in carica, che ha spiegato quale sia il vero spirito di questa incredibile iniziativa globale, conosciuta a utilizzata da tutti e accreditata di un’autorevolezza e di un’attendibilità che poche altre iniziative nel mondo possono vantare.

«Wikipedia – spiega – ha subito molte trasformazioni. Si è arricchita di regole e si è dotata di una policy che indica in maniera molto precisa come i contenuti vadano aggiornati e arricchiti. Con il tempo un’attenzione sempre maggiore è stata posta alle fonti, la cui citazione è fondamentale in un periodo in cui si moltiplicano i contenuti nuovi, ma si pone anche il problema di mantenere e aggiornare quelli già presenti. Chiunque intervenga su una voce di Wikipedia deve indicare una fonte autorevole e verificabile».

Quali sono queste fonti? Sono quelle prodotte da scienziati e ricercatori, ma anche dai giornalisti, che quindi hanno un ruolo fondamentale nella costruzione di questo sapere collettivo. E chi sono gli autori degli articoli e dei loro aggiornamenti? «Sono volontari, che non necessariamente devono avere un titolo accademico o professionale», dice ancora Iolanda Pensa.

La versione italiana ottava per voci

«L’importante è che siano obiettivi, documentati e che decidano di introdurre un argomento non perché risponde a una loro esigenza, ma perché contribuisce a rispondere a un interesse collettivo».

Soltanto nel nostro Paese sono oltre 9.500, tutti volontari che hanno contribuito a creare oltre un milione e 665 mila voci, a un ritmo di 5.000 al mese, che fanno dell’edizione italiana l’ottava al mondo per dimensioni.

Iolanda Pensa, presidente di Wikimedia Italia, volontaria di Wikipedia dal 2006. Foto Niccolò Caranti.

Già in questi dati si vede l’enorme potenziale di Wikipedia nel democratizzare la conoscenza, non soltanto perché è liberamente fruibile da tutti, ma perché chiunque può contribuire a costruirla, a patto che segua le regole della comunità.Sì, perché quella di Wikipedia è un’enorme comunità mondiale, cresciuta giorno dopo giorno, al punto da costringere i suoi ideatori a immaginare anche una struttura organizzativa e di gestione.

Dopo due anni dal lancio online è stata creata la Wikimedia Foundation, senza fini di lucro, che con il tempo ha anche cominciato a occuparsi della raccolta di fondi, necessari alla sopravvivenza del progetto che, per mantenersi totalmente libero e autonomo, non accetta alcun tipo di pubblicità.

«Questa libertà ci consente di svincolarci da qualsiasi pressione o controllo – osserva Pensa – e rappresenta un’altra delle caratteristiche uniche di Wikipedia. Dalle donazioni nel 2020 Wikimedia Foundation ha raccolto circa 120 milioni di euro, che sono una grande somma, ma che tutto sommato sono molto pochi se si pensa alle dimensioni di Wikipedia, uno degli strumenti web più consultati del mondo, con oltre 10 miliardi di visualizzazioni mensili. Gli altri big del web, in confronto, realizzano fatturati infinitamente superiori».

Anche dati, foto e video

Anche perché le attività di Wikimedia Foundation non si limitano alla gestione e produzione di Wikipedia. Intanto ne esistono versioni in praticamente ogni idioma del mondo, anche quelli che per effetto di una globalizzazione culturale rischiano di estinguersi e che trovano in questa piattaforma uno strumento per perpetuarsi e per gridare la loro esistenza al mondo.

E poi sono stati lanciati progetti importantissimi per rendere davvero libero e aperto a tutti l’accesso alla conoscenza: da Wikimedia Commons, una collezione di quasi 70 milioni di foto, video e musica a diritti liberi, a Wikidata, una repository immensa di dati di ogni tipo, demografici, economici, scientifici, che non soltanto costituiscono la base di Wikipedia, ma che sono anche utilizzabili liberamente per altri servizi e siti online.

Altri progetti sono quelli di Wikisource, Wikiquote, Wikiversity, Wiktionary, Wikivoyage, tutti da esplorare, tutti pensati per diffondere conoscenza in modo libero e completamente gratuito.I benefici di un servizio di questo tipo sono incalcolabili.

Un recente studio condotto da economisti del Collegio Carlo Alberto di Torino e del ZEW di Mannheim, in Germania, ha dimostrato come il semplice aggiornamento con poche righe aggiuntive delle voci di alcune località spagnole ha determinato un aumento del 9% dei pernottamenti durante la stagione turistica. Ma troppi ancora non se ne rendono conto.

«Anche l’Italia – conclude Iolanda Pensa – dovrebbe capire l’importanza di uno strumento come Wikipedia per promuovere l’immagine del Paese nel mondo, eppure quotidianamente ancora ci scontriamo con una normativa che ci impedisce di diffondere immagini delle città o delle bellezze naturali italiane se destinate a fini commerciali. Noi ovviamente non le pubblichiamo per avere un riscontro economico, ma per consentire a chiunque voglia scaricarle di utilizzare secondo le sue necessità, anche commerciali. È questa in fondo, la vera libertà della conoscenza, avere la possibilità di utilizzarla per gli scopi che ci servono».

Che cosa comporta questa limitazione normativa italiana? «Che per ogni foto dell’Italia che pubblichiamo dobbiamo ottenere le autorizzazioni, con un notevole sforzo, quando ormai in gran parte del mondo esiste un diritto riconosciuto, quello della libertà di panorama, che sancisce il diritto di chiunque di fotografare o filmare luoghi pubblici, monumenti o paesaggi senza correre il rischio di ledere i diritti di alcuno e di affrontare eventuali rivalse legale. Ci piacerebbe che quest’anno il governo italiano affrontasse anche questo problema, nello stesso interesse di una promozione del paese».

È dunque il caso di festeggiare per i 20 anni di Wikipedia. Chiunque volesse farlo, il 15 gennaio o nei giorni successivi, può anche regalare un contenuto a licenza libera, per esempio caricando una foto, inserendo una nuova voce o modificandone una esistente.

Lo fa anche Il Sole 24 Ore: questo articolo è rilasciato con la licenza libera Creative Commons Attribuzione – Condividi allo stesso modo 4.0. Buon compleanno Wikipedia!




Green influencer, chi sono i 10 protagonisti che usano i social per promuovere la sostenibilità

Green influencer, chi sono i 10 protagonisti che usano i social per promuovere la sostenibilità

In queste ore c’è una foto che ha scaldato i social di mezzo mondo, diventando una delle più condivise dell’anno. Al centro della scena due elefanti che si sfiorano con le loro proboscidi. Dietro quello scatto c’è però una storia di attivismo che affonda le radici in anni di battaglie. Uno dei due esemplari nell’immagine è Kaavan, noto come l’elefante più solo al mondo perché rinchiuso nello zoo di Islamabad da trentacinque anni in completa solitudine. Tutto questo almeno fino a qualche giorno fa. Nell’anno che ci ha costretti all’isolamento per via dell’emergenza sanitaria, la liberazione di Kaavan è suonata quasi come una rivincita. In prima linea nell’operazione si è schierata Cher, che ha addirittura accompagnato l’elefante nel suo viaggio aereo dallo zoo del Pakistan al santuario cambogiano, dove da alcune ore vive insieme ad altri suoi simili. Per la missione sono stati mobilitati un cargo russo e un team di veterinari che hanno trascorso tre mesi nella capitale del Pakistan. «I nostri desideri si sono avverati. Abbiamo fatto il conto alla rovescia per questo momento e l’immagine di Kaavan trasportato fuori dallo zoo ci accompagnerà per sempre. Dobbiamo prenderci cura del nostro pianeta e di tutte le specie che lo abitano», ha dichiarato l’icona della musica pop, che ha condotto questa campagna per liberare Kaavan con l’imprenditore Eric Margolis e con l’organizzazione animalista Four Paws, arrivando addirittura a pagare per il trasferimento.

Tutti pazzi per l’oro verde

Kaavan trending topic sui social. D’altronde queste storie scalano l’attenzione globale in un momento di forte disorientamento. E in fondo declinano l’attenzione al pianeta con gesti concreti: così la narrazione dell’ambiente – e tutto ciò che lega l’emergenza pandemica a quella ambientale, climatica e sociale – diventa una leva differenziante. Perché i consumatori sono maggiormente orientati a fare la differenza anche nel loro quotidiano. È la riscossa dell’oro verde, con la sostenibilità diventata business per le marche: così ha titolato pochi giorni fa il Financial Times. Dalle carte di credito in plastica riciclata alle scarpe biodegradabili, i prodotti eco-compatibili hanno invaso i mercati. Si moltiplicano salviette riciclabili, preparati per dolci fatti con olio di palma sostenibile, detergenti in bottiglie riutilizzate. «I corridoi dei market londinesi raccontano la storia del boom verde in atto negli acquisti. In un settore estremamente competitivo, le credenziali eco-compatibili sono diventate la chiave per attirare l’attenzione di consumatori preoccupati per il futuro del pianeta», hanno scritto Judith Evans e Camilla Hodgson.

Fare la cosa giusta attraverso consumi quotidiani consapevoli: è quanto fanno sui social i nuovi testimonial di questa rivoluzione. Lo certifica la nuova classifica degli influencer legati alla sostenibilità emersa dall’Osservatorio Alkemy- Il Sole 24 Ore. «La ricerca è stata affrontata tenendo in considerazione un perimetro piuttosto ampio che include varie declinazioni dei concetti di green, sostenibilità e ambientalismo. Questo approccio ci ha portati a identificare influencer caratterizzati da sensibilità e professionalità differenti, ma tutti accomunati dall’obiettivo di difendere l’ambiente in cui viviamo», racconta Matteo Menin, Managing Director di Alkemy. Una classifica che esclude le metriche meramente quantitative e si concentra sui profili più relazionali, svincolandosi dalla notorietà televisiva. Nei primi dieci posti si va dal divulgatore scientifico alla blogger di moda sostenibile. Sul fronte dei canali ad imporsi è Instagram. Salvo alcuni casi isolati – come Francesca Della Giovampaola o Alex Bellini – Facebook, pur presidiato da tutti con almeno un profilo, generalmente non viene aggiornato, mentre YouTube resta centrale per quegli influencer che fanno del video il formato più incisivo. «Abbiamo rilevato inoltre un potenziale interessante su questi temi in TikTok, un buon segno se interpretiamo il fenomeno come una crescente sensibilità sul tema ambientale da parte delle nuove generazioni. E poi sette delle prime dieci posizioni in classifica sono occupate da donne, più un’ulteriore presenza di una coppia uomo-donna: un fenomeno, quello dell’attivismo ambientale sui social, che quindi risulta prevalentemente femminile, almeno per quanto riguarda i profili che propongono le narrative più efficaci», precisa Menin.

La sfida delle eco-marche

Dai testimonial ai brand: un’alleanza che intercetta realtà grandi e piccole nel segno dell’attenzione alle materie prime e al packaging. Tra i colossi ci sono E.ON, Nivea, Coop, Sephora. Con queste eco-marche i green influencer entrano spesso in contatto. «Oggi la comunicazione sui temi della sostenibilità non è più un lusso, è una necessità. Nessuna azienda pensa ormai di essere competitiva senza dimostrare il proprio impegno verso la sostenibilità. Ma lo si fa ancora in modo superficiale o tecnico. Oggi pochissimi consumatori si lasciano convincere da pubblicità green generiche», afferma Fabio Iraldo, professore ordinario di management alla Scuola Sant’Anna di Pisa e autore di “Oltre il Greenwashing” per Edizioni Ambiente. Per competere bisogna scommettere su concretezza ed efficacia. «Serve dare credibilità ai messaggi, dimostrando con dati e indicatori, meglio se certificati, che il proprio impatto ambientale è inferiore rispetto ad altri e trovando il modo giusto per tradurre quei numeri complessi in un messaggio che abbia un appeal emotivo», precisa Iraldo.

La sfida è per le aziende, ma anche per le agenzie di marketing e comunicazione impegnate a disegnare le nuove campagne. «La sostenibilità è un bellissimo viaggio, non semplice da compiere. La soluzione è quella di ragionare circolarmente e non linearmente, pensare per inclusione e non per esclusione, con un approccio che sia in grado di integrare ragione ed emotività, fatti dimostrati e misurabili con la passione», dice Davide Andrea Sicolo, senior vice president di Edelman. La società ha partecipato ad uno spin-off con la Scuola Sant’Anna e ha creato EPIC. Si tratta di un modello racchiuso in un acronimo: evocatività, prossimità, indicatori, coinvolgimento. «Questi elementi vengono misurati tecnicamente per rendere la comunicazione scientificamente sostenibile, ma allo stesso tempo di impatto», precisa Sicolo. Ancora una volta per i brand la sfida per imporsi sui mercati globali sta nel difficile equilibrio tra misurabilità delle azioni e la loro narrazione.




Sostenibilità: Carioca è ‘green’, largo alla plastica riciclata

Sostenibilità: Carioca è 'green', largo alla plastica riciclata

Mille colori ma è sempre più verde. Carioca lancia il suo progetto per lo sviluppo sostenibile: obiettivo, affermarsi come azienda leader del settore sui temi della sostenibilità sociale ed ambientale. Da giugno 2020 ha iniziato a usare in modo sistematico la plastica riciclata a favore di una politica di riuso e riciclo sia per quanto riguarda i prodotti che per imballaggi e packaging. Per i prodotti, la nuova politica di sostenibilità̀ ambientale ha portato al momento un risparmio nell’utilizzo di plastica fossile per più̀ di 80 tonnellate.

La plastica è stata sostituita utilizzando plastica riciclata da: per-consumer, recuperando da processi di produzione, per 42 tonnellate; post-consumer, con il nuovo materiale Ecoallene, 100% da riciclo poliaccoppiati, per oltre 40 tonnellate. Per il prossimo anno l’obiettivo è raddoppiare la quantità̀ di plastica da riciclo utilizzata e aumentare l’utilizzo di plastica riciclata post-consumo anche su altri prodotti in assortimento. L’ambizione di Carioca è rendere riciclo e riuso della plastica la fonte principale dei propri consumi.

Per quanto riguarda imballaggi e packaging, il 2020, rispetto all’anno precedente, ha visto la progressiva eliminazione del PVC dalle confezioni, per un risparmio di 33 tonnellate; e l’eliminazione della plastica dai packaging riprogettando le proprie confezioni, per 6 tonnellate; una riduzione del consumo di carta e cartone per più di 5 tonnellate. Obiettivo 2021: una ulteriore riduzione della plastica dalle confezioni per altre 30,4 tonnellate e l’eliminazione completa dell’uso di PVC da imballaggi e packaging, arrivando a meno 20,3 tonnellate. Completando così una prima strategia per rendere più̀ sostenibile la filiera di packaging e imballaggi, rendendoli completamente riciclabili, riutilizzabili o compostabili.

Sul fronte del risparmio energetico, Carioca ha iniziato ad investire per ridurre l’impatto della sua attività̀ industriale. Notizia recente, l’installazione dei nuovi pannelli solari Sun Power Performance di Maxeon Solar Technologies nello stabilimento di Settimo Torinese, Torino. Coprendo un’area di circa 2.574 metri quadrati, con un campo fotovoltaico da 500 kW, è una delle più̀ grandi installazioni solari commerciali per scopi di autoconsumo nell’area. L’operazione prevede di generare 524.000 kWh di elettricità̀ pulita e mitigare 278.244 kg di emissioni di anidride carbonica all’anno, fornendo così all’azienda il 15% dell’energia totale della struttura.

L’azienda ha iniziato ad implementare i sistemi di efficienza energetica volti a una riduzione dei consumi dell’attività industriale partendo dall’illuminazione. Una riduzione di 56 MW all’anno grazie ai Led. Obiettivo 2021: pieno rollover dell’impianto fotovoltaico e progetto di revisione dei macchinari da iniezione (le presse) per ridurre ulteriormente i consumi.

C’è poi la collaborazione con Ecoplasteam, azienda del torinese che con tecnologia, innovazione e sostenibilità̀ implementa processi di fine vita dei poliaccoppiati. Nasce così la linea Ecofamily, con pennarelli, penne ed evidenziatori al 70% da plastica riciclata o in Ecoallene, il materiale innovativo plastico ecologico derivante al 100% dal riciclo del poliaccoppiato polietilene-alluminio presente nei cartoni per bevande ed alimenti. Prodotti scelti da GreenPea, il primo Green Retail Park al mondo che aprirà̀ i battenti a Torino l’8 dicembre e con cui Carioca ha stretto una partnership con i prodotti ecofamily brandizzati GreenPea.

“La nostra missione è offrire strumenti per potenziare e stimolare la naturale creatività̀ dei bambini – dichiara Giorgio Bertolo, Sales & Marketing Director Carioca – L’impegno più grande, in questo particolare momento storico, è rendere il loro futuro non solo creativo ma anche più̀ sostenibile, nel massimo rispetto dell’ambiente. Per questo in Carioca siamo impegnati nella ricerca ed applicazione delle soluzioni più̀ efficaci ed innovative per ridurre l’impatto ambientale sia dei prodotti che della produzione aziendale, un vincolo prioritario per le future generazioni”.