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Dati e Intelligenza Artificiale, il piano della Ue per restare al passo con Usa e Cina

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La Commissione Ue ha presentato oggi le sue linee guida programmatiche in materia di dati ed Intelligenza Artificiale. L’obiettivo è sfidare lo strapotere di Usa e Cina in questi ambiti con una “via europea” all’uso corretto, etico, delle tecnologie, che abbracci l’accesso ai dati, la regolazione dell’intelligenza artificiale e del riconoscimento facciale, e lo sviluppo di un mercato del tech made in Europe.

Le proposte sono state avanzate oggi da Margrethe Vestager, Thierry Breton, e Ursula von der Leyen.

Lettera aperta di Ursula Von Der Leyen

In una lettera aperta pubblicata oggi, la presidente della Commissione Ue Ursula Von Der Leyen ha definito lo scopo ultimo delle nuove regole: l’Europa vuole che le sue startup e le sue aziende tecnologiche siano in grado di sfidare Cina e Stati Uniti.

“Sono un’ottimista della tecnologia. Credo nella tecnologia come in una forza per il bene. L’Unione europeadeve essere capace di fare le sue scelte, basate sui propri valori, rispettando le proprie regole. Questo è quello che chiamo un‘Europa tecnologicamente sovrana“. Lo ha scritto la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, su Twitter.

“Sì alla sovranità tecnologica” 

“La mia convinzione che la tecnologia sia una forza per il bene – spiega ancora la numero uno della Ue – deriva dalla mia esperienza come studentessa di medicina. Ho imparato e visto in prima persona la sua capacità di cambiare i destini, salvare vite umane e rendere banale quello che una volta sarebbe stato un miracolo. La transizione digitale dell’Europa deve proteggere e responsabilizzare cittadini, imprese e società” nel segno di una “sovranità tecnologica”. Secondo la von der Leyen, “questo descrive la capacità che l’Europa deve avere per fare le proprie scelte, basandosi sui propri valori, rispettando le proprie regole. Questo è quello che contribuirà a rendere ottimisti tecnologici tutti noi”. 

Libro bianco sull’AI. ‘Norme obbligatorie sull’Intelligenza artificiale’ 

I sistemi di Intelligenza artificiale ad alto rischio, come il riconoscimento facciale, dovranno essere “trasparenti, tracciabili e garantire il controllo umano” in settori “sensibili” come “salute, polizia e trasporti”. Così scrive la Commissione Ue nel suo White Paper sull’AI presentato a Bruxelles, aggiungendo che “questi sistemi possono comportare rischi” e per questo è “essenziale costruire fiducia” con “regole chiare” per le applicazioni “ad alto rischio” che dovranno essere “conformi alle norme europee”.

Alto e basso rischio

Tutte le applicazioni di Intelligenza artificiale che arrivano sul mercato Ue “sono benvenute” ma dovranno conformarsi al quadro normativo europeo, avvertono a Bruxelles. Per i sistemi a basso rischio, la Commissione prevede un sistema volontario di etichettatura. La Commissione chiarisce inoltre che le autorità “dovrebbero essere in grado di testare e certificare i dati utilizzati dagli algoritmi” garantendo “il rispetto dei diritti fondamentali, in particolare la non discriminazione”. 

Riconoscimento facciale ad alto rischio

Il riconoscimento facciale è tra i sistemi di intelligenza artificiale ad alto rischio, “il suo uso è generalmente proibito” e ammesso “solo in casi eccezionali, debitamente giustificati e proporzionati, soggetti a garanzie e basati sul Diritto dell’Unione o nazionale”. Lo scrive la Commissione Ue nel suo ‘White Paper’. L’esecutivo Ue intende avviare “un ampio dibattito su quale eventuali circostanze potrebbero giustificare tali eccezioni”.

L’Europa non vuole che gli Usa registrino i dati di tutti

Come previsto, una delle proposte è incentrata sulla libera circolazione dei dati nel mercato unico digitale della Ue. L’obiettivo è creare questo mercato unico dei dati entro il 2030, in grado di coprire tutto: dalla sanità alla finanza ai dati sull’energia.

In na pubblica comunicazione, la Commissione ha espresso le sue preoccupazioni “sull’accumulo di ingenti quantità di dati” dai giganti del tech americani come FacebookAmazon e Google. La Commissione preannuncia ulteriore regolamentazione per diminuire il potere di queste aziende.

L’obiettivo di tutto ciò è promuovere la condivisione all’interno del mercato unico dei dati fra diversi paesi, aziende e fra autorità pubbliche.

Intelligenza Artificiale e riconoscimento facciale, come svilupparla nella Ue

Presentato inoltre oggi il libro bianco della Ue per lo sviluppo dell’Intelligenza Artificiale.

Attualmente, Usa e Cina sono avanti e dominano il mercato dell’Intelligenza Artificiale. In Europa mancano grandi campioni come FacebookGoogleAmazon o Apple o come le cinesi Baidu o Tencent. Per chiudere il gap con questi giganti l’Europa deve muoversi sul fronte degli investimenti.

Negli ultimi tre anni

Negli ultimi tre anni il finanziamento europeo nella ricerca in questo delicato ambito è aumentato del 70% fino a toccare gli 1,5 miliardi di euro, rispetto ai tre anni precedenti. Von Der Leyn scrive su Twitter che servono 20 miliardi di euro all’anno nei prossimi 10 anni per promuovere l’AI, mentre servono 4-6 miliardi sui dati e sul cloud nella Ue.

“Le autorità devono poter controllare i sistemi di intelligenza artificiale nello stesso modo in cui controllano cosmetici, auto o giocattoli”, ha detto la vicepresidente dell’esecutivo comunitario Margrethe Vestager. I sistemi di intelligenza artificiale devono essere “trasparenti”, “tracciabili” e “sotto il controllo umano”.

Aperto infine il dibattito sul corretto utilizzo del riconoscimento facciale in spazi pubblici, nel rispetto della privacy e dei principi del GDPR.  

Non più tardi di ieri il Ceo di Facebook Mark Zuckerbergè stato in visita ai vertici della Ue per proporre una sua particolare vision della regolazione del web, che tuttavia è stata prontamente rispedita al mittente.

‘La Strategia Europea sui Dati’. Scarica il documento in PDF

‘Il libro bianco sull’Intelligenza Artificiale’. Scarica il documento in PDF




Il mercato del consenso: come tornare dall’inferno di Cambridge Analytica

Il mercato del consenso: come tornare dall’inferno di Cambridge Analytica

Il nuovo libro di Christopher Wylie e la politica al tempo degli algoritmi.

Un ponderoso studio della società di ricerca KP16 dimostra che la politica sta separandosi da Twitter. Forse aveva ragione l’ex premier conservatore David Cameron qualche anno fa a rispondere ai suoi più giovani contendenti che “il Regno Unito e Twitter non sono la stessa cosa”. Christopher Wylie, il talento pentito che ha elaborato i dispositivi di ricerca di Cambridge Analytica, ha scritto un lucidissimo e documentatissimo libro intitolato Il mercato del consenso (Longanesi) per spiegare che la politica e la rete sono oggi inevitabilmente la stessa cosa. Il testo è molto sfaccettato e composito, tutto e sempre attraversato dal tormento del giovane sociologo informatico che s’è trovato, come dice lui stesso, ad attraversare l’inferno. Lo dice uno che, nonostante la sua ancora giovane età, neanche trent’anni, ne ha viste e fatte di tutti i colori, come i suoi capelli che passano dal rosa shocking al pervinca. Nasce nel paradiso canadese dell’isola di Vancouver, della British Columbia: a sei anni bullizzato, a dodici cacciato da tutte le scuole del regno, fa outing a quattordici dichiarandosi gay, a ventuno, ammesso alla London School of Economics per chiari meriti. Una vita senza zone grigie, come si comprende meglio proprio negli ultimi capitoli del libro dove si lascia andare a una a volte persino commovente confessione delle contorsioni di un giovane gay, nel vortice del successo, che s’accorge di “essere cresciuto in un armadio”. 

L’armadio – scrive – non è uno spazio letterale; è una struttura sociale che noi omosessuali interiorizziamo e alla quale ci conformiamo. L’armadio è un contenitore i cui limiti sono imposti dagli altri che vogliono controllare come ti presenti e come ti comporti.

Questa sua esperienza esistenziale l’ha aiutato a capire meglio a cosa stava lavorando e che mostro aveva concorso a creare: Cambridge Analytica è stato l’armadio della politica occidentale per vari anni, costruendo e imponendo una tendenza che ha mutato gli equilibri del mondo.

Leggere questo libro nel pieno della campagna presidenziale americana, e anche nel gorgo della pandemia, ci offre uno straordinario punto di vista, a cui abbiamo ammiccato più volte, ma che non abbiamo mai realmente organizzato e strutturato in termini di reale fattibilità dei pericoli che paventavamo.

Da tempo stiamo dicendo che la rete manipola il consenso, crea bolle che alterano la percezione, sbilancia il dibattito annientando la dialettica nell’opinione pubblica, perché isola ognuno di noi, separandolo dal resto della comunità. Ma tutto questo come si fa? E soprattutto come e chi l’ha fatto?

Christopher Wylie s’alza in piedi e dice: Io.

Nella prima parte del robusto volume – 332 pagine – meticolosamente dispone gli strumenti sul tavolo. Esattamente come un chirurgo che prepara un intervento delicato, Wylie mostra tutte le opzioni, le risorse, gli strumenti con cui si poteva interferire sul cervello di milioni di persone, e come lo si è fatto. Spiega il passaggio dal marketing alla politica, e passa in rassegna quell’umanità rapace, ambiziosa, luciferina, che s’è raccolta attorno a questa bacchetta magica del consenso. Racconta concretamente, con riferimenti espliciti ai contratti, alle modalità operative, alle tecnicalità adottate con cui Alexander Nix, il cattivo del racconto, brillante e debosciato rampollo di Eton che, ignorandone i saperi, trasforma il microtargeting esperienziale in una trappola infernale per la democrazia. La versione più amorale e avida di un moderno Rudyard Kipling, che utilizza l’Africa per saggiare la sua potenza d’intervento: Gabon, Nigeria, Ruanda. La SCL, la società di Nix che ha incubato Cambridge Analytica, comincia a costruire i suoi leader a tavolino. Il procedimento è sempre lo stesso: un ministro paga la parcella e mette a disposizione ingenti dati sulla popolazione, poi intervengono gli algoritmi che il gruppo di Wylie comincia ad affinare e s’inizia a “cambiare la cultura e il vocabolario delle persone, di molte persone, di tutte le persone”.

Siamo nel 2013, da quel momento si comincia a pensare in grande: Nix raccoglie commesse da parte di aziende che vogliono rinnovare il proprio marketing, e soprattutto rispondere all’attacco dei concorrenti. Il giovane Wylie scopre le affinità fra politica e moda, e comincia a lavorare sui trend da predire e poi da imporre.

Le divise politiche, spiega, sono l’altra faccia del programma, a volte la prima faccia. Lungo questa strada che già incrocia psicologia, antropologie e calcolo del sentiment l’allegra brigata della SCL incontra la Darpa, l’agenzia analitica dei servizi americani, e il Defense Science e Technology Laboratory dell’M16, gli omologhi inglesi. I loro studi sull’uso dei social per controllare prima e organizzare poi il senso comune di interi gruppi e regioni richiede un contributo più creativo. L’intreccio porta soldi e coperture al nostro Alexander Nix. È la dimostrazione, come spiega Shoshana Zuboff nel suo topo Il capitalismo della sorveglianza, che le piattaforme predittive sono sempre il risultato di un connubio con il deep state anglo americano. Del resto anche Marianna Mazzucato ci dice che l’intera Silicon Valley diventa quella che oggi vediamo proprio grazie al supporto economico, ideologico e politico degli apparati pubblici americani. Qui forse qualcuno ha esagerato.

Nel 2014 appare il nuovo personaggio, Steve Bannon, il brutto. Come sappiamo si tratta dell’architetto della candidatura Trump, e soprattutto il teorico della radicalizzazione dei ceti poveri bianchi contro la base sociale multietnica dei liberal.

Il teorico del suprematismo bianco americano mette in campo il progetto massimo: conquistare la Casa Bianca. È molto interessante vedere attraverso gli occhi di Wylie come viene concepita, armata, annunciata e gestita la candidatura di Frankenstein. 

Una sequenza di forzature ideologiche supportate da una massa inesorabile di dati e soprattutto dalla catalogazione quasi lombrosiana dei linguaggi di ogni singola microcomunità, arrivando a censire nelle contee contendibili i singoli inquilini nei condomini di cerniera fra le diverse identità politiche. Uno spettacolo, dice Wylie, vedere come a un’azione – raccolta dati individuali e intimi, elaborazione e organizzazione di canali individuali di comunicazione con ognuno delle centinaia di migliaia di elettori contesi -immediatamente corrisponda una reazione: il bersaglio si muove, interagisce, risponde, diventa attivo e trascina i suoi contatti nel solco voluto.

La prova generale del dispositivo di interferenza viene fatta in Inghilterra, con la Brexit: operazione esemplare. Raccolti i dati, scannerizzati gli elettori, individuato il tema ideologico del rancore dei ceti medi per lo scintillante stile di vita delle élite si va a bersaglio. Il risultato, scrive Wylie, è quello di riuscire a riprodurre in vitro le dinamiche sociali. A quel punto hai tutto per cambiare l’esito finale.

In questa parte del libro è davvero copiosa la massa delle informazioni tecniche: come si fa a parlare con masse pulviscolari, disomogenee, individualizzate, rancorose e contrapposte le une alle altre. Wylie in questa parte del libro offre un saggio non dissimile, e non è davvero dissacrante il paragone vi assicuro, con il Che fare? di Lenin. Come sappiamo il leader della rivoluzione russa scrive il suo saggio nel 1905, alla fine dell’ennesima sollevazione fallita nella Russia zarista, e spiega come solo una macchina politica centralmente organizzata, in grado di legarsi ai punti alti del conflitto e capace di dirigere i movimenti sociali sulla base di un’affinità di linguaggio e di interessi con le aree che vuole rappresentare, potrà realmente ottenere un cambio di regime. 

Il giovane talento canadese, nel nuovo contesto del 2020, sull’onda delle esperienze vissute, ripercorre la stessa scaletta, con contenuti, interlocutori e soprattutto strumenti e valori sideralmente diversi.

Si costruisce un partito individuando una contraddizione, facendo crescere uno stato d’animo, interferendo sul senso comune, dando a ognuno la sensazione che stia guidando lui il cambiamento culturale.

Nel libro Wylie a un certo punto richiama il famoso saggio di Valerij Gerasimov, il capo di stato russo, che scrisse nel 2013 un testo assunto come bibbia dalle forze armate di Mosca: “si fa la guerra cambiando la testa e la lingua dei ceti sociali più deboli dell’avversario”. Come si legge nel libro “con i dati si rimodulano gli individui esattamente come con le vaccinazioni durante un’epidemia”.

Mosca è un altro grande protagonista del racconto. Al di là delle polemiche e delle accuse, Wylie racconta dettagliatamente circostanze, date, luoghi, personaggi, cifre e obiettivi dei suoi rapporti con gli apparati di Putin. 

Cambridge Analytica, scopriamo, nasce e si afferma sulla base di un’intesa con la Lukoil, la compagnia petrolifera che il Cremlino usa come bussola finanziaria dei suoi servizi segreti. È la Lukoil che mette in campo, insieme a Bannon e allo staff di Trump, la ragnatela che porterà alla sorpresa del novembre del 2016, quando contrariamente alle previsioni vince proprio il miliardario di New York.

Con i russi i legami sono strettissimi e lucrosi, si parla di oro e petrolio, in gran quantità. Ma Wylie nel suo libro non cede allo scandalismo. Pur documentando accuse gravissime, non insiste su quell’aspetto dell’operazione Trump. Esattamente come fece al suo tempo Lenin, cerca di seguire il filo dei bisogni e delle contraddizioni sociali reali. E racconta come si punti forte a ingigantire un trend inizialmente marginale: il disagio di un’area sociale culturale.

Questa è indubbiamente la parte più innovativa e culturalmente densa del libro. Wylie ci mostra i crateri che la cultura liberale ha scavato nel tessuto sociale americano: l’America orizzontale, delle pianure contro quella verticale degli snob che abitano nei grattaceli di Chicago e New York, il ceto medio bianco di provincia, umiliato dall’egemonia culturale multicolore e multirazziale, gli stessi neri usati dai liberal per mostrare il proprio progressismo ma poi ghettizzati in scuole periferiche e in poco pagati.

È una controprogrammazione che impegna, prima di ingegneri e informatici, sociologi e antropologi, che danno forma a una nuova maggioranza, a cui bisogna dare un’identità, una lingua e il coraggio di esibirsi. Il paradosso, che viene appunto coltivato e formattato dagli algoritmi semantici di Nix, è che i poveri pensano da ricchi, e considerano le proteste sociali solo un modo per rubargli spazio e speranze. Il mondo è giusto nelle sue gerarchie, spiega Bannon, bisogna solo eliminare quella cerchia di intriganti intellettuali che usa i disagi momentanei dei più poveri per volersi accaparrare una fetta maggiore. È proprio questo il leitmotiv che la rete incoraggia e consolida. Senza nessuna contronarrazione. Il risultato è che i rifiutati dal successo, scrive l’autore, si sentano attratti dai vincitori.

Questo è Cambridge Analytica. 

Passaggi essenziali sono i dati di facebook, comprati, rubati, sottratti. I profili di 87 milioni di americani entrano nei server di Nix che Wylie insieme a Alexander Kogan, un ricercatore associato all’Università di Cambridge di origine Moldava, cominciano a ruminare. Ne esce una mappa dettagliata del territorio, in cui particella catastale per particella catastale si sa chi abita, cosa pensa e come parla. Il resto, dice Wylie, è logistica. Nei gironi danteschi descritti nel libro appare anche Julian Assange, al seguito dei russi, fornisce materiali fondamentali, come le famose email della Clinton su cui si balla per un anno, fino alla decisione dell’Fbi di riaprire le indagini a pochi giorni dal voto. Nel frattempo la nuova maggioranza reazionaria cresce, Wylie assiste al domino dei pezzi sulla scacchiera: finanzieri, sindacati, sindaci, religiosi, sportivi, ma soprattutto una marea di gente normale, che cerca un modo per esserci, e non solo votare.

Il tutto nell’indifferenza generale: è incredibile vedere come cresca il fungo senza che nessuno nemmeno l’intraveda. Persino i titolari dei dati, come Google e Facebook, non intuiscono che qualcosa sta cambiando nella loro pancia. Lo stesso Obama, che pure aveva costruito le sue due vittorie proprio sull’ascolto della rete, ignora il rimescolamento dei voti. È il segno, dice Wylie, che l’America verticale nemmeno si abbassa a guardare quella orizzontale. Ma è anche il segno che solo i proprietari, i mandanti, i veri programmatori del sistema possono avere un cruscotto di comando: come Lenin, ancora: solo il vertice del partito sa tutto. E come per le epidemie prima che lo sappiano tutti non lo deve sapere nessuno. Cerca uno sbocco nel Guardian, ma poi scopre che persino il prestigioso quotidiano londinese si fa intimidire, e dopo le prime puntate dell’inchiesta indietreggia. Allarga la portata della denuncia al New York Times che regge all’urto delle dure reazioni legali di coloro che sono esposti nello scandalo ma fino a un certo punto: gli avvocati sono più minacciosi dei killer negli Usa. Finalmente si apre il versante delle inchieste politiche. Negli Stati Uniti e in Inghilterra.

Wylie diventa un whistleblower, un testimone oculare, un confidente che svela i misteri. Comincia a viaggiare fra le due sponde dell’atlantico con un bagaglio di pennette e computer con tutti i documenti dentro, e sempre guardandosi le spalle. Le inchieste inchiodano i responsabili, Cambridge Analytica si scioglie, Bannon è cacciato dalla Casa Bianca, ma nessuno paga realmente. Ognuno riesce a godersi i cospicui fondi accumulati con le parcelle alla Lukoil e a Trump. Soprattutto non cambiano i meccanismi: oggi è peggio, fa intendere il disilluso ragazzo con i capelli colorati. C’è indignazione ma non nuove leggi. Soprattutto non c’è mobilitazione politica e sociale: non c’è conflitto. 

Questo è un concetto a cui Wylie con la sua cultura angloamericana non arriva: la dinamica sociale, lo scontro di interessi, il conflitto li vede sempre relegati a livelli istituzionali. Per questo nelle ultime pagine chiede nuove norme, parla di un piano regolatore della rete, dove attribuire responsabilità proprio agli ingegneri, agli informatici, a quelli come lui, gli apprendisti stregoni. 

Senza la possibilità di individuare interessi e bisogni diversi da quelli che programmano la rete nessun governo potrà raggiungere il giaguaro. Siamo in un tempo in cui la società sta diventando più veloce della tecnologia, e se non si gioca proprio là la partita, ossia in quell’intreccio fra verticale e orizzontale, fra città e campagna, fra élite e ceto medio nessuna norma potrà impedire che Cambridge Analytica continui a ridisegnare la democrazia nell’indifferenza persino dei buoni. 

Come diceva Martin Luther King: non ricorderemo le parole dei nostri avversari ma i silenzi dei nostri amici.




Un nuovo umanesimo del lavoro per trovare un senso con gli altri e per gli altri

Un nuovo umanesimo del lavoro per trovare un senso con gli altri e per gli altri

La ricerca di senso, ingrediente essenziale della felicità, non è solo una ricerca interiore, ma ha una dimensione sociale. Il lavoro può essere un’esperienza chiave

Poter attribuire un significato, un senso, alla propria vita è una delle precondizioni fondamentali per potersi sentire “felici”. Nel senso aristotelico di “eudaimonia”, essere felici, infatti, significa, innanzitutto, avere uno scopo nella vita, coltivare le virtù e fiorire come persone. Ed essere virtuoso non vuol dire solamente praticare le virtù ed orientarsi al bene, perché, etimologicamente, “areté” stava ad indicare, prima di tutto, il “fare bene qualcosa”, l’eccellenza. Non a caso parliamo di un “pianista virtuoso” o di un “virtuoso della racchetta” per indicare, non tanto il loro orientamento al bene, ma la loro capacità di fare bene, di essere eccellenti. Allora, sarà virtuoso colui che sarà riuscito a coltivare e far fiorire, mettendole in atto, le proprie capacità, i talenti, le conoscenze, chi avrà compreso e seguito, in definitiva, la voce del suo “dáimōn”.

La ricerca di senso

Ma la ricerca di senso, ingrediente essenziale di questa felicità virtuosa, non è solo una ricerca interiore. Essa ha, infatti, una dimensione sociale, contestuale, culturale. Perché il senso è qualcosa che lega le esperienze, che assegna un posto agli avvenimenti, che illumina le scelte e che ci mette in relazione con un quadro più ampio fatto di storie e di persone. E non si tratta solo, come nella definizione di Roy Baumeister, di “un insieme di rappresentazioni mentali di possibili relazioni tra cose, eventi e rapporti” (“Meanings of Life”, Guilford, 1991), perché la possibilità di attribuire un significato a ciò che facciamo deriva, innanzitutto, dalla possibilità di inserirlo in un contesto sovraordinato.PUBBLICITÀ

Se il significato immediato di un’azione deriva, infatti, dalla sua finalità, questa, a sua volta, trova senso nella motivazione dell’azione stessa, e questa, poi, si inserisce in una visione più ampia della vita individuale che, infine, può maturare solamente, con riferimento a qualcosa che la trascende e la avvolge. Per questo il significato del singolo gesto può essere compreso appieno solo nell’ambito di un contesto più ampio, che supera l’individualità del singolo, connettendolo, al tempo stesso, ad altri e ad altro. È il “regno dei significati” di cui parlava Alfred Adler nel quale si sviluppa la finalità ed emerge la guida alla nostra stessa vita, come suggerisce Victor Frankl.

Oltre l’individuo

Riflettere sull’importanza del contesto nel processo di costruzione del senso ci aiuta anche a dar conto di quel fenomeno che, in altre occasioni, ho definito “espropriazione esistenziale”: una forma di deprivazione così profonda da cancellare senso, finalità e appartenenze e che genera quel disorientamento collettivo avvertito da fasce non marginali della popolazione e che può sfociare in fenomeni anche quantitativamente rilevanti come quello dei “bullshit jobs”, dei populismi identitari, o delle tragiche “morti per disperazione” di cui sempre più frequentemente sentiamo parlare.

In che modo è cambiato il contesto di riferimento per determinare una tale incapacità di trovare o generare un significato profondo per le nostre esistenze? È interessante, a questo riguardo, la lettura che propone lo storico Yuval Noah Harari, secondo il quale tale mutamento non è altro che il principale frutto del progetto della modernità. Progetto che si fonda su un patto faustiano in virtù del quale “gli esseri umani accettano di rinunciare al significato in cambio del potere” (“Homo Deus”, Bompiani, 2015). Nel quadro premoderno gli uomini riuscivano a trovare un senso alle loro, spesso non facili, vite perché erano collocate in un progetto cosmico, fatto di finalità, voluto e governato da grandi dèi moralizzanti e onniscienti. Trovare il senso significava, in questo contesto, scoprire e giocare il proprio ruolo in un piano sovraordinato e orientato al bene individuale e collettivo.

Il senso nell’età premoderna

Ogni esperienza della vita, così, sia gioiosa che tragica, poteva acquistare un senso, perché parte integrante di questa storia già scritta. “Non siamo al corrente del copione – continua Harari – ma possiamo essere certi che tutto accade per una ragione. Persino quest’orribile conflitto – o pestilenza, o siccità – ha un significato nel più ampio schema delle cose. Inoltre, possiamo fidarci del drammaturgo: di sicuro la nostra vicenda avrà una conclusione positiva e ricca di significato. Per cui anche la guerra – o la pestilenza, o la siccità – porterà qualcosa di buono: se non qui e ora, per lo meno nell’aldilà”. Ma questo copione, mentre, da una parte, forniva valore ad ogni gesto, scelta e accadimento, al tempo stesso, ingabbiava tutti in ruoli e vicende predeterminate e li condannava a finali già scritti. Ecco perché il prezzo da pagare per poter trovare un senso alla propria vita era nientemeno che la rinuncia al proprio arbitrio.

La modernità rifiuta questa visione, straccia il copione e rivendica potere e autonomia. Così facendo, però, finisce per far sparire anche quel contesto comune di riferimento, che era bussola necessaria per dare senso all’esistenza. “La nostra vita non ha copioni, drammaturghi, registi o impresari – e non ha un senso”, conclude Harari.

La modernità e la ricerca del potere

Ma la mancanza del copione, però, mette in moto anche una reazione salutare, scatena la creatività e libera le energie del cambiamento. Se le pestilenze e le calamità naturali non hanno un significato trascendente, non dovremmo più accettarle passivamente, ma piuttosto iniziare a difenderci, a combatterle e, possibilmente, a sconfiggerle. Da una parte, quindi, la “hybris” e la “téchne” e, dall’altra, l’assoluta insignificanza davanti al progetto del cosmo. “Un’incessante ricerca del potere dentro un universo svuotato di senso”. Non è difficile rinvenire in questo snodo cruciale la causa remota di fenomeni epocali come la spaventosa pressione antropica che stiamo esercitando sulla terra coi i cambiamenti climatici, le ondate migratorie e le intollerabili diseguaglianze.

Per cambiare le cose, perché occorre farlo e piuttosto in fretta, non è necessario, però, invertire la rotta. Per ricostruire un contesto capace di favorire la generazione di senso e limitare l’uso in-sensato del potere della tecnica, occorre, semmai, una accelerazione in avanti. Occorre sfruttare una “clausola di recesso” inserita nel patto della modernità: la possibilità di dar vita ad una narrazione alternativa, non esclusivamente vincolata alla dimensione trascendente, ma che sia, comunque, in grado di giustificare il nostro “esser-ci”, il nostro “Dasein”, lo stare al mondo e viverlo significativamente. Sfruttare questa clausola vuol dire distogliere lo sguardo fissamente rivolto al mediatore sacrale – Dio, Stato, Mercato – e rivolgerlo verso chi ci sta a fianco. Nel frontespizio della prima edizione del “Leviatano” di Hobbes sono raffigurati centinaia di piccoli omini che formano il corpo del gigante, coi suoi simboli dell’autorità e del potere. Centinaia di piccoli omini che, pur essendo stretti tra di loro, non incrociano lo sguardo di nessuno. Vicini ma immunizzati dal contatto con l’altro. In rapporto con l’altro solo attraverso l’intermediazione del potere del “Deus mortalis”. La svolta del nuovo umanesimo, che può aiutarci a superare i vincoli del patto e a riconquistare la nostra capacità di generare senso, passa, innanzitutto, per la scelta originaria di incrociare lo sguardo di chi ci sta a fianco e di farci interpellare dal suo volto.

La dignità del lavoro umano

In questo quadro ampio si comprende meglio, credo, anche il ruolo altissimo e la dignità intrinseca del lavoro umano, proprio perché lavorare significa umanizzare il mondo e questo trova senso solo se il lavoro è fatto con gli altri e per gli altri. Queste due dimensioni di socialità e gratuità non possono non essere poste al centro di un ripensamento profondo dell’organizzazione del lavoro nel quale la nostra cultura, oggi, ha bisogno, necessariamente, di impegnarsi a fondo. Né merce di scambio, né solo strumento per la sussistenza, il lavoro può e deve essere principalmente espressione della spinta umana verso l’eccedenza. Ripensato e rivalutato nella complessità dei suoi molteplici significati.

Sappiamo da tempo quali sono le dimensioni che più influenzano il processo di generazione di senso, anche attraverso il lavoro: hanno a che fare con il valore intrinseco dell’attività in sé, con la possibilità di uno sviluppo e di una crescita personale, con il valore strumentale della sua utilità per sé e per gli altri e, infine, con la socialità che favorisce e include. Se il senso che attribuiamo a ciò che facciamo può essere pensato come una serie di rimandi tra la percezione individuale delle nostre azioni e il contesto sovraordinato all’interno del quale operiamo, allora attivare processi di cambiamento nel nostro contesto culturale, figlio diretto del patto della modernità, potrà aiutare a creare le condizioni che facilitano la generazione di senso individuale e condiviso. Se da una parte, fortunatamente, le grandi organizzazioni pubbliche e private sentono sempre più la pressione verso cambiamenti dettati dalle nuove responsabilità ambientali, sarebbe anche ora di iniziare ad esercitare una la spinta analoga per promuovere modalità innovative di progettazione e di gestione del lavoro, affinché possa sempre più e sempre meglio rispondere a quella “volontà di senso”, per usare l’espressione di Frankl, che sempre più diffusamente viene oggi considerata una esigenza umana fondamentale.




Fred Perry ha un problema di neonazisti

Fred Perry ha un problema di neonazisti

Il marchio di moda Fred Perry, fondato negli anni Cinquanta da un celebre tennista inglese e per decenni associato alle sottoculture britanniche e in una certa misura alla sinistra, ha dovuto fare l’ennesimo comunicato per prendere le distanze dai Proud Boys, un gruppo neonazista americano che ha adottato una sua polo nera e gialla come uniforme. Sono alcuni anni che Fred Perry convive con questo problema, ma nell’ultimo comunicato spiega di aver sospeso le vendite di quel modello di polo in Nord America dal settembre del 2019, fino a che «non riterremo che la sua associazione con i Proud Boys sarà finita».

Fred Perry ha definito «incredibilmente frustrante» la situazione, chiarendo che il gruppo di estrema destra non ha niente a che vedere con l’azienda e rivendicando i valori che – a dire della società – sono stati rappresentati dalle sue polo per 65 anni: «inclusività, diversità e indipendenza». La società ha poi rivendicato le sue origini: fu infatti creata negli anni Cinquanta dall’omonimo tennista, tra i più vincenti della storia dello sport, che dominò uno sport elitario cominciando da «figlio di un parlamentare laburista della classe operaia», e che fondò l’azienda «insieme a un imprenditore ebreo dell’Europa orientale».

I Proud Boys esistono dal 2016, quando li fondò Gavin McInnes, un autore e commentatore canadese che fu tra i fondatori di Vice Media e che negli anni ha provato a negare l’affiliazione del gruppo con il neonazismo. In realtà è uno dei movimenti più attivi dell’alt right, la nuova estrema destra americana che da diversi anni porta avanti idee razziste e misogine appellandosi alla libertà di espressione. I Proud Boys, tra le altre cose, sostengono la superiorità della civiltà occidentale, sono islamofobi, incoraggiano l’utilizzo della violenza nella lotta politica, e hanno una visione dei rapporti di genere simile a quella degli “incel”, il movimento online di maschi misogini. In diverse occasioni negli ultimi anni membri del gruppo hanno minacciato, picchiato o accoltellato manifestanti e politici progressisti oppure dei cosiddetti movimenti “antifa”.

Membri dei Proud Boys. (Karen Ducey/Getty Images)

Fin dai primi tempi, McInnes ha incoraggiato i membri del gruppo a indossare una polo Fred Perry gialla e nera. Dietro alla scelta ci sono varie ragioni. Al sito The Outiline, McInnes aveva spiegato che come uniforme dà l’idea di un movimento “duro e puro”, radicato nella classe lavoratrice, come i mod e gli skinhead britannici degli anni Sessanta. In quegli anni, una generazione di giovani inglesi figli della classe lavoratrice ed esposti alle influenze culturali degli immigrati provenienti dalle isole caraibiche diede origine a vari movimenti, caratterizzati da un grande spirito di ribellione e che misero le basi per la successiva esplosione del punk.

Ricercando e costruendo una propria estetica, i movimenti della sottocultura inglese di quegli anni scelsero dei capi d’abbigliamento che fossero abbordabili economicamente ma che fossero anche prerogativa delle classi borghesi. Le polo e i maglioni Fred Perry furono tra gli elementi più importanti della loro immagine, insieme ai jeans attillati e agli scarponcini Dr. Martens.

Dopo un inizio fortemente radicato negli ambienti proletari dell’Inghilterra operaia, e quindi alla sinistra, negli anni Settanta il movimento skinhead divenne sempre più collegato al tifo calcistico e agli ambienti della nuova estrema destra britannica, rappresentata dal National Front, a cui ancora oggi è generalmente associato. In parte, in questo spostamento politico, gli skinhead portarono con sé le polo Fred Perry, che però almeno nel Regno Unito rimasero perlopiù collegate ai movimenti di sinistra.

L’emulazione di questa estetica da parte dei Proud Boys non è comunque una scelta isolata, ed è stata analizzata da alcuni studiosi. Secondo Alice Marwick della Fordham University è un modo di creare «l’immagine di movimento ribelle e audace, contro lo status quo», che sganci il suprematismo bianco dal bagaglio storico del Ku Klux Klan e lo associ a qualcosa di nuovo e alternativo, come appunto l’alt right. Mantenendo però un’immagine aggressiva e quasi militaresca, come quella degli skinhead.

Sebbene siano state un capo d’abbigliamento adottato da diverse sottoculture del Novecento, le polo Fred Perry sono anche diffusissime nella cultura mainstream e delle classi sociali più alte. Sono state scelte anche per questo, ha spiegato sul Guardian la docente di sociologia Cynthia Miller-Idriss. I leader dell’estrema destra americana «sapevano che il pubblico avrebbe faticato ad associare una piattaforma d’odio con uno stile che ricordava più quello del vicino di casa che quello dei nazisti». Già in occasione della grande manifestazione neonazista “Unite the Right” a Charlottesville, Virginia, nel 2017, i leader raccomandarono ai manifestanti di vestirsi “decorosamente”.

La trasformazione nell’estetica e nello stile fa parte di una strategia deliberata e proveniente dall’alto, nel tentativo dell’estrema destra di apparire più mainstream per predisporre meglio il pubblico alle proprie idee. Questo cambiamento normalizza e stravolge l’idea delle persone su come appaia un estremista, e rende più difficile interpretare e riconoscere le idee dell’alt right come estreme.

Non è la prima volta che un marchio di moda internazionale diventa, suo malgrado, associato ai neonazisti. Negli anni Ottanta e Novanta, tra i movimenti skinhead di estrema destra tedeschi diventarono molto popolari le maglie del marchio inglese Lonsdale, che era stato fondato decenni prima e che era stato vestito tra gli altri da Muammad Alì e Paul McCartney. Ma qualcuno si era accorto che indossando una maglietta Lonsdale sotto a una giacca aperta, rimanevano leggibili le lettere NSDA: le prime quattro della sigla che identificava il Nationalsozialistische Deutsche Arbeiterpartei, il partito nazista di Adolf Hitler.

25th November 1980: Police arrest a skinhead who is a member of the British Movement, a fascist organisation. (Photo by Stuart Nicol/Evening Standard/Getty Images)

Quando questa moda si consolidò, Lonsdale decise di impegnarsi attivamente per sganciare il proprio marchio dai neonazisti. Sospese le vendite nei negozi che sapeva essere associati all’estrema destra, sponsorizzò società sportive associate alla sinistra e – negli anni Novanta – lanciò una campagna inclusiva basata sullo slogan “Lonsdale ama tutti i colori”. Tra gli effetti ci fu che il marchio Lonsdale fu adottato e promosso da alcuni attivisti antirazzisti, che volevano sostenere la contro-campagna dell’azienda.




Lo Stato Dei Social Network In Italia Nel 2020

Questa è una raccolta aggiornata con le 109 statistiche più importanti sull’utilizzo dei social media.

  • Come vengono usati i principali canali social nel mondo ed in Italia?
  • Come sono stati usati i social durante la quarantena?
  • Quali sono le statistiche più interessanti per Facebook, Instagram, Tiktok e per gli altri social network?

Troverai la risposta a queste e tante altre domande grazie alle statistiche aggiornate incluse in questo articolo.

Buona lettura!

Panoramica sull’uso dei social network in Italia e nel Mondo

La prima statistica che vi propongo è una delle più affascinanti: più della metà della popolazione mondiale è connessa ad internet. Il 58,6% per essere esatti.

E l’86,6% di queste persone è attiva sui social media. Non solo ha un account, ma è attiva su almeno una piattaforma social!

Per quanto riguarda l’Italia, non avevo idea nel nostro paese ci sono più numeri di telefono attivi (80 milioni) che persone (60,5 milioni).

Inoltre, in Italia usiamo meno i social media per lavorare (31%) che nel resto del mondo (40%). Che sia davvero una cattiva cosa, o è un segnale positivo?

Ecco tutte le statistiche:

Statistiche sull’utilizzo dei social media nel mondo

I seguenti dati relativi a tutto il mondo sono aggiornati a Luglio 2020:

  • Data la popolazione mondiale di 7,79 miliardi di persone, il 66% (5,15 miliardi) usa un telefono cellulare
  • Il 59% della popolazione mondiale (4,57 miliardi) è un utente attivo di internet
  • 3,96 miliardi (il 51% della popolazione mondiale) è attivo sui social network
  • Nell’ultimo anno, tra Luglio 2019 e Luglio 2020, gli utenti dei social sono aumentati di 376 milioni.

Statistiche sull’utilizzo dei social media in Italia

I seguenti dati per l’Italia sono aggiornati a Gennaio 2020:

  • 49,48 milioni di Italiani sono utenti attivi di internet (l’82% della popolazione, percentuale molto maggiore della media mondiale, 59%);
  • A Gennaio 2020, ci sono 35 milioni di utenti attivi sui social media;
  • Gli italiani attivi sui social sono aumentati di 4 milioni in 12 mesi;
  • Data la popolazione italiana di 60,5 milioni a Gennaio 2020, ci sono 80,4 milioni di numeri di cellulare attivi (il 133% della popolazione).

In questa slide possiamo notare come l’Italia sia sotto la media rispetto al resto del mondo.

Sembra che i social siano utilizzati principalmente come svago e meno come lavoro, in quanto la maggior differenza rispetto al resto del mondo è l’utilizzo delle piattaforme per scopi professionali.

  • Un italiano spende in media 6 ore al giorno su Internet.
  • E 1h e 57 minuti sui social network.
  • Molto vicino alla media mondiale, il 98% degli italiani accedono ai social da smartphone.
  • Unico dato molto sotto la media è l’uso dei social per lavoro: solo il 31% degli italiani. Ma questo non significa che siamo gli ultimi. Peggio di noi Regno Unito, Francia e Germania (sotto al 26%). Migliori di noi? Spagna e Portogallo (con percentuali sopra al 35%).

Se usi i social media per lavoro, ti consiglio questa raccolta di oltre 80 strumenti gratuiti di marketing.

I social più visitati da browser e app secondo Similarweb

Similarweb ci permette di capire meglio come vengono utilizzati i social in Italia.

Le statistiche che seguono possono esserti utile per capire su quale social focalizzare le tue energie e creare una content strategy di successo.

Per quanto riguarda l’utilizzo da computer, Facebook è il primo in classifica per accessi, ma non per durata della visita, dove vince YouTube: questo è un segnale che gli italiani amano guardare video, passando in media quasi 22 minuti ogni volta che accedono alla piattaforma video di Google.

L’app social più scaricata?

No, non è TikTok (per ora). E’ Whatsapp, che conferma come la messaggistica istantanea sia uno dei canali preferiti di comunicazione in Italia.

Facebook mantiene il primato di social network più visitato da desktop in Italia a Luglio 2020, seguito da Youtube e Instagram. 

  • C’è però da notare che il tempo speso su Facebook da desktop è di  10 minuti e 48 secondi (con 8,88 pagine per visita), dati inferiori al tempo speso (11 min e 15 sec) e alle pagine per visita(12,07) su Twitter.
  • Youtube è la piattaforma social con la durata media della visita più elevata (21 minuti e 54 secondi).
  • Instagram è il social network con più pagine per visita (12,61)

Tra le app social più scaricate a Luglio 2020, notiamo come Whatsapp sia prima in classifica sia per Android che per iPhone.

Snapchat, al contrario, è tra le ultime in classifica, e Pinterest compare in ottava posizione per iPhone, e non compare proprio per Android.

Gli utenti attivi sui social in Italia secondo Agcom

Grazie all’Osservatorio sulle Comunicazioni della Agcom possiamo conoscere quanti utenti unici hanno i vari social. Purtroppo, Agcom non fornisce per YouTube, quindi ho dovuto aggregare i dati di un’altra piattaforma (Audiweb).

E’ un vero peccato, perchè alcune fonti a Gennaio davano YouTube come il primo social in Italia, mentre al momento non ci è dato sapere chi sia primo.

Secondo te chi è più visitato? YouTube o Facebook?

Se ti va, lascia un commento alla fine del post spiegando perché.

Agcom a Marzo ci mostra un grande incremento per gli utenti attivi dei vari social network in Italia:

  • Facebook si conferma al primo post con 38,4 milioni di utenti attivi, un aumento del 6,8% rispetto a Marzo 2019.
  • Degno di nota TikTok che, con una crescita del 475,1% in soli 9 mesi (da Giugno 2019 a Marzo 2020), si posiziona settimo al di sopra di Reddit.
  • Youtube è al secondo posto con 36,1 milioni, ma Agcom non fornisce dati relativi a questa piattaforma. I dati sono di We Are Social e aggiornati a Dicembre 2019.

Utilizzo dei social media durante la quarantena

Quanto tempo abbiamo passato a casa durante la quarantena… troppo!

E questo si è tramutato in un maggior tempo a fare pane, pizza, e fare scroll sui social.

Il dato più eclatante a mio parere è, di nuovo, per i servizi di messaggistica instantanea: +81% di tempo speso al giorno su Whatsapp e +57% su Messenger.

Ecco le statistiche principali:

  • A Marzo 2020, Facebook è il canale social con il maggior numero di minuti spesi giornalmente sulla piattaforma: una media di 26,4 minuti al giorno.
  • WhatsApp è il social network con l’incremento maggiore: +81% rispetto a Marzo 2019.
  • Pinterest e Twitter sono gli unici due social network che hanno visto una contrazione dei minuti spesi sulle loro piattaforme, rispettivamente -29% e -18%.

Passiamo ora a vedere i dati per le singole piattaforme.

Facebook – Il più visitato

Google Trends ci mostra come l’interesse per Facebook stia calando negli ultimi 12 mesi, a parte un picco attorno a Marzo 2020 durante la quarantena.

  • Gli utenti italiani di Facebook sono 38,4 milioni, in aumento del 6,8% negli ultimi 12 mesi.
  • Il tempo medio speso online in un mese su Facebook è di 16 ore e 24 minuti.
  • Gli utenti si dividono al 50% tra uomini e donne.

YouTube – Grande incremento durante la quarantena

YouTube ha retto bene durante la quarantena.

Il suo picco è più marcato ed allungato nel tempo rispetto a quello di Facebook (vedi sopra), ma in via generale l’interesse per la piattaforma sembra essere leggermente calato rispetto a 12 mesi fa.

  • Gli utenti italiani di Youtube sono 36,1 milioni, in aumento del 2,7% negli ultimi 12 mesi. Da notare che questi dati sono aggiornati a Gennaio 2020. 
  • Il tempo medio speso online mensilmente su YouTube è di 6 ore.
  • Ci sono leggermente più uomini (55%) che donne (45%).

Instagram: +14% utenti in un anno

Anche l’interesse per Instagram sembra essere leggermente calato negli ultimi 12 mesi.

Inoltre non si nota alcun picco importante durante la quarantena.

  • Gli utenti italiani di Instagram sono 28,8 milioni a Marzo 2020, in aumento del 14,2% rispetto a Marzo 2019.
  • Il tempo medio speso online mensilmente su Instagram è di 7 ore, un’ora in più rispetto a YouTube.
  • Ci sono leggermente più uomini (55%) che donne (45%).

Linkedin – Interesse stabile nel tempo

Anche se dal grafico qui sopra sembra che Linkedin sia in calo, c’è da notare che questa è una piattaforma professionale dove si cerca e si parla di lavoro, quindi è normale vedere un decremento delle ricerche in Agosto. 

  • Gli utenti italiani di Linkedin sono 21,2 milioni a Marzo 2020, in aumento del 19,5% rispetto a Marzo 2019.
  • Il tempo medio speso online mensilmente su Linkedin è di soli 37 minuti, il più basso registrato.
  • Ci sono leggermente più uomini (52,7%) che donne (47,3%).

Pinterest – Amato dalle donne

Negli ultimi 12 mesi, Pinterest ha avuto due picchi di ricerche: la prima attorno a Novembre, la seconda durante la quarantena.

  • Gli utenti italiani di Pinterest sono 14,9 milioni a Marzo 2020, in aumento del 30,5% rispetto a Marzo 2019.
  • Il tempo medio speso online mensilmente su Pinterest è di 53 minuti.
  • Ci sono molte più donne (76%) che uomini (16%).

Twitter – Interesse in crescita nel 2020

Twitter è uno dei pochi social che ha aumentato l’interesse degli utenti negli ultimi 12 mesi, almeno stando ai dati di Google Trends.

  • Gli utenti italiani di Twitter sono 12,8 milioni a Marzo 2020, in aumento del 24,2% rispetto a Marzo 2019.
  • Il tempo medio speso online mensilmente su Linkedin è di ben 3 ore e 48 minuti minuti.
  • Ci sono più uomini (61,3%) che donne (38,7%).

TikTok: +457% di nuovi utenti in 9 mesi

TikTok è la piattaforma social più interessante dell’anno, e questo si riflette sulle ricerche online per “tiktok” che sono in continuo aumento.

  • Gli utenti italiani di TikTok sono 5,4 milioni a Marzo 2020, ma l’aumento rispetto a soli 9 mesi prima è enorme: +457%.
  • Il tempo medio speso online mensilmente su TikTok è di 2 ore e 45 minuti.
  • Ci sono leggermente più uomini (54%) che donne (46%).

Snapchat – Il meno visitato della lista

Per quanto riguarda l’interesse nel tempo, Snapchat sembra essere stabile.

  • Gli utenti italiani di Snapchat sono 2,7 milioni a Dicembre 2019, in aumento del 14% rispetto a Dicembre 2018.
  • Il tempo medio speso online mensilmente su Snapchat è di 52 minuti
  • Ci sono molte più donne (72%) che uomini (27%)

Il deck in pdf con tutte le statistiche

Utilizzo: Puoi includere tranquillamente il deck pdf e le singole immagini di questa ricerca sul tuo sito. Ti chiedo solo un link di rimando a questa pagina di ricerca.

Fonti usate per la stesura di questo report

In conclusione

Sei arrivato al termine della nostra lista di statistiche sull’uso dei social media in Italia e nel mondo.

Tenendo presente che i dati relativi ai social media cambiano molto velocemente, abbiamo deciso di tenere questa lista sempre aggiornata. In questo modo non dovrai mai domandarti se queste statistiche sono ancora rilevanti al giorno d’oggi.