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Diversity management, tre realtà italiane che provano a cambiare le cose

Diversity management, tre realtà italiane che provano a cambiare le cose

Diversità e inclusione sono valori che si stanno affermando come imprescindibili all’interno di ogni azienda. Ma come promuoverli?

Il diversity management è l’insieme di pratiche e di strategie volte alla promozione e alla valorizzazione della diversità all’interno di un ambiente lavorativo, oltre che all’abbattimento di ogni barriera di genere, religione, etnia ed orientamento sessuale, nato grazie una sempre crescente attenzione da parte di HR e recruiters e alla spinta data dall’emissione di leggi volte a tutelare i diritti di ogni cittadino come quella per le Pari Opportunità o quella sulle Unioni Civili

Ma se è vero che, al giorno d’oggi, tutti parlano di diversity management, lo è altrettanto che, nella pratica, ideare e progettare strategie di inclusione non è certo cosa semplice. Ed è proprio per questo motivo che, anche in Italia, sono nate diverse realtà che si occupano specificatamente di questo: promuovere i valori di diversità e inclusività in un ambiente di lavoro attraverso pratiche e politiche aziendali che non risultino fini a loro stesse, ma che siano indirizzate a portare un effettivo beneficio in termini che riguardano non solo l’”umanità” di una data azienda o società, ma anche la stessa efficenza del suo operato.

Diversity management in Italia e all’estero

L’integrazione e il rispetto di ogni dipendente, infatti, non sono importanti solo se guardati da un punto di vista etico, ma lo sono anche in termini di employer branding, in quanto migliorano l’immagine di un’azienda agli occhi dei suoi consumatori, e di business, dal momento che ogni persona è portata a lavorare meglio in un ambiente dove si senta a proprio agio. Tuttavia, come ha spiegato in un articolo apparso quest’estateClaudio Guffanti, esperto di D&I e fondatore di Unlimited Views, società che si occupa di coaching e progettazione di strategie di inclusione per le aziende, «se da un lato assistiamo a progressi importanti da parte di alcune aziende, dall’altro, invece, molte organizzazioni in Italia sono ferme a piccoli progetti».

Parole che fanno pensare, soprattutto quando scopriamo che «nel mercato US nessuno si chiede più se la diversity sia una reale leva di business», continua Guffanti, secondo cui sono ancora in pochi, nel nostro Paese, ad aver capito a fondo i reali vantaggi che un investimento in D&I può portare con sé. Non solo, ma, sempre secondo l’ingegnere, «alcune aziende vivono nella fierezza di credersi estremamente inclusive, ma basta poco per accorgersi che in molti casi chiamano inclusione quella che in realtà è non discriminazione, senza neppure conoscerne la differenza di significato».

Unlimited Views: l’idea del diversity coaching

Ed è quindi proprio in virtù di questa scarsa consapevolezza che nasce Unlimited Views, brand che si propone di far crescere le aziende grazie al coaching, alla diversità e all’inclusione, intendendo per diversità la “pluralità dei punti di vista attraverso cui ognuno di noi da il proprio contributo” e per inclusione la “costruzione di un ambiente dove ognuno sia rispettato e supportato”. Per il raggiungimento di questi obbiettivi, strumento indispensabile viene considerato il cosiddetto diversity coaching, uno dei servizi offerti dall’azienda, un tipo di coaching finalizzato proprio ad istruire leader e manager nello sviluppo di processi di inclusione e che li aiuti a rispondere ai diversi dubbi che possono nascere quando si affrontano i temi di D&I.

DNA – Difference in Addition: innovazione e cambiamento

Di strategie di D&I si occupa poi anche DNA – Difference In Addition, realtà che ha già fatto largamente parlare di sé, una piattaforma multistakeholder volta ad aiutare le aziende nella creazione di innovazione attraverso un cambiamento che sia sempre sostenibile e che guardi al benessere di ognuno. Sviluppandosi come un vero e proprio hub di competenze relative ai temi di D&I, DNA opera nel campo della formazione, della consulenza e della comunicazione, offrendo ai propri clienti servizi come incontri, eventi, co-progettazioni e partecipazione a bandi, attraverso un supporto multidisciplinare che possa orientare le aziende nelle scelte future e sostenendo tutte le aree dell’organizzazione.  

Tra le attività portate avanti da DNA ci sono anche quelle di Talent Center e di Osservatorio. Il Talent Center DNA è il servizio finalizzato all’inserimento in aziende di figure appartenenti a categorie svantaggiate, come persone con disabilità, persone di origine straniera e persone transessuali/transgender, attraverso la valorizzazione delle loro competenze e delle loro stesse differenze. Quello del Talent Center è quindi un servizio nato per favorire l’incontro fra domanda e offerta, e che viene condotto grazie a modalità di approccio differenti, come candidature on-line, job day e selezioni individuali. Quello del DNA Observatory, invece, è un progetto condotto attraverso collaborazioni con Università sia italiane che straniere che ha come obiettivo lo sviluppo e la diffusione di conoscenze relative a diversity, inclusione e welfare, grazie ad attività quali la raccolta e la diffusione di dati, l’indagine della relazione tra pratiche di diversity management e performance nelle diverse aziende e la collaborazione con organizzazioni pubbliche e private per la divulgazione di informazioni riguardanti tale tema.

Parks – Liberi e Uguali: orientamento sessuale e identità di genere

In ultimo, non può non essere menzionata Parks – Liberi e Uguali, associazione senza scopo di lucro che da ormai dieci anni si occupa di aiutare le aziende a realizzare opportunità di business legate alla valorizzazione della diversità, con un focus prevalente sulle due aree forse più sfidanti del diversity management, ovvero quelle relative all’orientamento sessuale e all’identità di genere

Secondo i dati che ci vengono forniti dall’OMS, le persone LGBT rappresentano circa il 5%della popolazione mondiale, il che vuol dire che più di uno dei ventitré milioni di individui che lavorano in Italia è omosessuale, bisessuale o transessuale. Tuttavia spesso l’appartenenza ad una di queste categorie viene mantenuta nascosta sul luogo di lavoro, poiché si temono ripercussioni e discriminazioni, facendo così nascere un sentimento di paura che può avere conseguenze anche sulle prestazioni lavorative di una persona, portandola a “lavorare peggio”.

Ecco perché la comunità LGBT rappresenta oggi un tema così importante: le aziende che non trattano questo discorso con la dovuta attenzione rischiano di farsi promotrici di luoghi di lavori non ci si senta a proprio agio, così come di climi ed atmosfere che possono inficiare non solo sulla propria reputazione, ma anche sull’operato dei propri dipendenti. Ed è proprio qui che entra in gioco Parks, associazione nata nell’aprile del 2010 (e che vanta tra i suoi fondatori aziende del calibro di Ikea, Johnson&Johnson e Telecom Italia) che si propone di offrire alle aziende servizi relativi a formazione, comunicazione e consulenza su politiche che rispecchino le necessità dei lavoratori LGBT, oltre che sulla creazione di questionari e ricerche ad hoc e l’organizzazione di eventi focalizzati sui temi di D&I, una serie di attività che è sempre calibrata sulle diverse realtà aziendali e che si pone il costante obiettivo di creare un ambiente che sia rispettoso delle scelte e delle esigenze di ogni individuo. 

Altri due servizi offerti, infine, sono il Network e il ParksLab. Le aziende che si associano a Parks possono accedere ad un’area riservata dedicata che si propone di essere uno spazio di condivisione, dove le diverse aziende possono confrontarsi, scaricare documenti e rimanere aggiornati sulle varie attività dell’organizzazione. Il ParksLab, invece, è una serie di incontri tematici su questioni LGBT studiati per fornire gli strumenti necessari alle aziende per il superamento di eventuali problematiche relative all’introduzione e all’implementazione di politiche inclusive.




Torino approva il Piano Strategico dell’Infrastruttura Verde

Torino approva il Piano Strategico dell’Infrastruttura Verde

La Giunta Comunale di Torino, su proposta dell’Assessore all’Ambiente Alberto Unia, ha approvato il Piano Strategico dell’Infrastruttura Verde, strumento di analisi e di programmazione per indirizzare gli investimenti e le politiche di gestione del sistema del verde urbano pubblico torinese nei prossimi decenni, integrativo degli strumenti di pianificazione urbanistica.

La proposta di Piano sarà pubblicata sul sito web della Città e sarà possibile inviare osservazioni per un periodo di 30 giorni. Verrà inoltre trasmessa all’Ente di Gestione delle Aree Protette del Po Torinese e alle Circoscrizioni per i pareri di loro competenza. Successivamente passerà all’esame della Sala Rossa.

“L’incremento quantitativo e il miglioramento qualitativo dei parchi e degli spazi verdi sono indicatori di una città che si cura dell’ambiente e della qualità della vita dei propri abitanti – ha dichiarato l’Assessore al Verde Alberto Unia – e la realizzazione di questo Piano Strategico è una tappa fondamentale per la pianificazione del sistema del verde pubblico. Si tratta di un documento realizzato in continuità con altri strumenti di analisi e di visione del sistema del verde cittadino, a partire dalla candidatura di Torino quale European Green Capital, al Piano di Resilienza Climatica della Città di Torino, e infine con il processo di revisione del PRG la cui proposta tecnica del progetto preliminare è stato approvato in Sala Rossa lo scorso mese di luglio”.

La presenza di infrastruttura verde – ovvero spazi e elementi verdi – in una città, oltre ad indicare la qualità urbana degli spazi costruiti, è un vero e proprio indicatore di sviluppo urbano sostenibile dal punto di vista sociale, economico e ambientale.

Gli spazi verdi assolvono da sempre molteplici funzioni di natura ambientale, sociale, ecologica, culturale ed economica, che ne fanno una delle componenti fondamentali della sostenibilità urbana. Contribuiscono ad esempio a migliorare la salute fisica e psicologica dei cittadini, favoriscono le relazioni sociali e la coesione comunitaria, tutelano l’ecosistema e migliorano il microclima della città, mitigano i rischi dei cambiamenti climatici e dell’inquinamento, attutiscono gli effetti negativi delle isole di calore, accrescono la biodiversità e il valore ecologico dell’ambiente urbano.

Il Piano si compone di dieci capitoli e sette allegati, analizza e approfondisce il sistema del verde urbano di Torino definendo strategie di medio-lungo periodo per la sua valorizzazione e il suo sviluppo.

Si tratta di un documento di pianificazione per indirizzare investimenti in nuove opere e interventi manutentivi, definire priorità gestionali del sistema di infrastruttura verde pubblica urbana, partendo da un’analisi complessiva del sistema di verde pubblico, identificando i punti di forza e le debolezza, valutando le opportunità e definendo strategie, obiettivi e azioni. Si basa in gran parte su due approcci analitici: il primo, il cosiddetto greenprint, è un’analisi sia quantitativa sia qualitativa dell’intero sistema del verde pubblico. Il secondo è l’analisi quantitativa ed economica dei servizi ecosistemici generati dall’intero sistema d’infrastruttura verde della città come base per la pianificazione futura delle sue funzioni.

Più nel dettaglio, i primi capitoli del Piano analizzano le diverse tipologie del verde urbano torinese, con un focus su verde ricreativo, orticoltura urbana, verde ecosistemico, verde coltivato e verde bene turistico. Un capitolo è riservato al ruolo del verde pubblico nella gestione delle emergenze nell’ambito delle attività di protezione civile; vengono inoltre analizzate le diverse modalità di cura del verde e di gestione del verde pubblico, le diverse forme di partenariato pubblico-privato e di coinvolgimento attivo dei cittadini per la cura e per lo sviluppo del verde pubblico, da considerarsi come uno dei principali “beni comuni urbani”. L’ultimo capitolo è dedicato al sommario delle strategie del Piano e degli indicatori di monitoraggio.

Alcuni degli elementi più innovativi del Piano sono: l’analisi del contesto sociale relativo al verde ricreativo; la valutazione qualitativa del verde ricreativo; la valutazione dei servizi ecosistemici generati dall’infrastruttura verde e lo sviluppo di strategie e strumenti di pianificazione per massimizzare gli stessi, compresa la progettazione dimostrativa; le strategie per rafforzare la biodiversità urbana; il piano forestale aziendale per la gestione dei boschi collinari, primo a livello nazionale in ambito urbano; le strategie per la diffusione di infrastruttura verde su tutto il territorio comunale per contrastare le vulnerabilità climatiche; la destinazione di aree libere di patrimonio pubblico a finalità ambientali e sociali; l’evoluzione degli approcci gestionali; l’introduzione di nuove forme di partenariato pubblico-privato per il potenziamento del sistema del verde.

Il Piano Strategico dell’Infrastruttura verde si inserisce in un quadro normativo complesso che partendo dal Piano Regolatore Generale (PRG) comprende il Piano Territoriale Comunale (PTC2) della Città Metropolitana oltre che il Piano Paesaggistico Regionale e altri piani sovraordinati.

Il Piano definisce le strategie per quel verde che già̀ oggi è di proprietà̀ della Città o che, in base alla destinazione d’uso a Parco o a servizi a verde data dal vigente PRG, è destinato a diventare verde pubblico in un prossimo futuro. Per quanto riguarda il verde di proprietà̀ privata, di altri enti e istituzioni non destinato a Parco, sono in vigore invece le norme di attuazione del PRG, il Regolamento del Verde Pubblico e Privato della Città di Torino e le norme sovraordinate.

Il percorso che ha portato alla stesura del Piano ha preso avvio nel 2018 con la sottoscrizione di un Protocollo d’Intesa tra Città di Torino, Comitato per lo Sviluppo del Verde Pubblico (costituito dal Ministero per l’ambiente e la tutela del territorio e del mare), Città Metropolitana di Torino e Regione Piemonte, attraverso cui ciascun ente si è impegnato a perseguire l’obiettivo comune di definire una strategia di sviluppo e valorizzazione dell’infrastruttura verde e della foresta urbana e dei servizi ecosistemici ad essi connessi, da attuarsi anche attraverso l’individuazione di metodi di gestione dei contributi ambientali utili a supportare lo sviluppo e la valorizzazione del patrimonio naturale.

A livello nazionale lo strumento del Piano Strategico dell’infrastruttura verde è stato individuato nel 2017 come strumento integrativo, non obbligatorio, della regolamentazione urbanistica generale a livello locale, dalle “Linee guida per la gestione del verde urbano e prime indicazioni per una pianificazione sostenibile” elaborate da Anci e dal Comitato per lo Sviluppo del verde pubblico. Con il DM del 10 marzo 2020 il Ministero per l’ambiente e la tutela del territorio e del mare, ha ribadito come lo strumento del Piano Strategico, insieme al censimento e regolamento del verde, debba essere alla base per una gestione sostenibile del verde urbano, costituisca lo strumento integrativo alla pianificazione urbanistica generale e debba stabilire gli obiettivi a lungo termine in termini di valorizzazione dei servizi ecosistemici e gli interventi di sviluppo e valorizzazione del verde urbano e periurbano.




I 7 trend che domineranno i social network nel 2021

I 7 trend che domineranno i social network nel 2021

Dal social shopping al boom delle challenge su Twitter usate per fare pubblicità, ecco cosa aspettarsi sulle piattaforme social nei prossimi mesi

1. Tutorial-mania

Non solo lip-sync. Il 2020 ha visto esplodere il trend #ImparaConTikTok che ha impresso a TikTok la sua svolta culturale: sono spuntati come funghi video-tutorial che insegnano di tutto, anche argomenti ostici. A dare il la al fenomeno è stato il lockdown: se gli studenti non vanno a scuola, la scuola va dagli studenti con la complicità dei docenti più volenterosi.

Su Instagram intanto è stato un trionfo di caroselli: gallerie di post che, uno dietro l’altro, compongono una sorta di infografica orizzontale con poche immagini e molte parole. Il filone non si è affatto esaurito: dal quartier generale di TikTok fanno sapere che nel 2021 continueranno a scommettere sui tutorial e Instagram non mollerà l’osso sfruttando anche la funzione Reels. “Le persone sono molto interessate a imparare cose nuove e credo che il fenomeno non si spegnerà tanto presto”, conferma a Wired Benedetta Santini, tiktoker e divulgatrice di filosofia, che ha collezionato più di 800mila like spiegando Platone e Schopenauer in video di meno di un minuto. “Il mio segreto – ammette – sta nell’applicare la filosofia nelle situazioni quotidiane“.

2. Le guide

Al tempo del primo lockdown, Instagram ha proposto a un numero selezionato di creator di realizzare delle mini-guide in tema salute e benessere per aiutare gli altri utenti in pena per il covid. Era anche un modo per sperimentare le guideche sono in pratica raccolte di post sul medesimo argomento con un surplus di testo che introduce le varie foto. L’effetto finale è quello di una guida in formato social (con tag, hashtag e tutto il resto). Ad oggi la funzione non è accessibile a tutti, ma nel 2021 dovrebbe essere diffusa a largo raggio. E di guide ne vedremo tante, anche perché hanno un vantaggio: permettono di aggregare contenuti già pubblicati, senza doverli creare da capo. Chiamatelo pure riciclo creativo.

3. Shopping in app

Il fidanzamento tra TikTok e la piattaforma di ecommerce Shopify è recente. Già negli Stati Uniti sono apparsi i primi video pubblicitari di TikTok che rendono possibile l’acquisto di prodotti via Shopify e nel 2021 approderanno anche in Europa. Nel frattempo, qualche mese fa ha mosso i primi passi anche Instagram Shopping, che offre tra le altre cose la possibilità di taggare i prodotti che si vedono in un video o in una foto per semplificarne l’acquisto. Gli influencer potranno così mettere a reddito la loro autorevolezza con la benedizione dei grandi marchi. Come ha spiegato nel libro No Filter la giornalista Sarah Frier, lo shopping via social va a genio ai brand in quanto spinge gli utenti agli acquisti d’impulso, bypassando il sistema delle recensioni che finora ha dominato l’ecommerce. Ecco perché possiamo scommettere che il 2021 sarà (anche) l’anno del social shopping.

4. Reclame? No challenge

In gergo si chiamano branded hashtag challenge e sono una versione speciale delle challenge di TikTok con i prodotti al centro di video-sfide tra gli utenti, invitati a riprodurre un contenuto pubblicitario in modo da renderlo virale. L’idea che a fare la pubblicità non siano più i volti noti e neppure gli influencer, ma il tiktoker della porta accanto è qualcosa che neppure Andy Warhol avrebbe immaginato.

5. Cross-posting

Ammettiamolo: fare il creator non è una passeggiata. Se prima bastava realizzare un contenuto per un social, oggi tocca farne almeno quattro per colpire l’audience dei principali: Instagram, TikTok, YouTube e Facebook. Non tutti però hanno il tempo e le energie per reggere il ritmo. Ecco così l’idea del cross-posting: creare contenuti che siano buoni per più di una piattaforma e condividerli.

TikTok lo permette già attraverso la funzione share posted video to, che permette di esportare i video anche su Instagram e Facebook. Instagram invece per ora non ricambia e impedisce la condivisione con TikTok, ma una volta creato un Reels basta scaricarlo per condividerlo anche su TikTok e su YouTube Shorts, la nuova funzione di YouTube che permette di condividere “video verticali della durata massima di 60 secondi”, cioè simili a quelli che si vedono su TikTok e Instagram. Il minimo comun denominatore è il tempo: 30 secondi al massimo.

6. In video veritas

Ad oggi, guardando i freddi numeri la tv di Instagram (Igtv) non ha sfondato. Tempo al tempo: il 2021 potrebbe essere l’anno del suo riscatto. Primo, perché come spiega un recente studio Cisco, entro il 2022, l’82% di tutti i contenuti online sarà video, il che significa che i filmati, brevi o lunghi, ci sommergeranno. E poi perché l’anno prossimo chi farà video per Igtv potrebbe guadagnarci: a maggio il direttore operativo del social, Justin Osofsky, ha dichiarato che Instagram darà ai creator il 55% dei guadagni provenienti da spot di 15 secondi, che potranno inserire nei loro video. E non solo: “Instagram sta sta lavorando a diversi tool che faranno guadagnare i creator”, spiega a Wired Yari Brugnoni, amministratore delegato di Ninjalitics, l’app made in italy che analizza le performance dei profili Instagram.

7. Social visual journalism

Ad aprire le danze è stato il Washington Post , su TikTok, con dei contenuti giornalistici leggeri, pensati per i giovanissimi. Nel frattempo nel 2020 Now This ha riempito Instagram di mini-video informativi con i sottotitoli: tanti e diversi gli argomenti, ma sempre pensati per incollare allo schermo il pubblico dei social. A ruota sono arrivati la Cnn, The Guardian, Cbs news e altri big, tutti accomunati dall’intento di assecondare l’ultima trasformazione del giornalismo: il social visual journalism. Un trend destinato a crescere, a giudicare dal numero di annunci di lavoro per la ricerca di video content editor e dal successo di profili come quello della giornalista Mona Chalabi, che in un anno ha praticamente triplicato i suoi follower su Instagram: 430 mila persone che le riconoscono la capacità di sintetizzare notizie e fatti in post a metà strada tra il fumetto e l’infografica. Tutti indizi che ci fanno pensare che tra i tanti slogan del 2021 potrebbe esserci anche Show, don’t tell.




LA REPUTAZIONE DEL MARKETING

LA REPUTAZIONE DEL MARKETING

Ho intercettato un’interessante studio sulla percezione di consumatori e manager nei confronti del marketing, presentato durante la recente conferenza della Società Italiana Marketing (organizzata dalla LUIC Università Cattaneo). Il lavoro ha previsto l’erogazione di questionari a 1.530 manager e 935 consumatori, rappresentativi della popolazione italiana, in collaborazione con IPSOS.

Il punto di vista dei manager sul marketing

Per comprendere il punto di vista dei manager intervistati, bisogna considerare che il campione era composto da persone operanti prevalentemente in grandi aziende e nel mercato B2B, e per il 42% da marketer.
La stragrande maggioranza degli intervistati ritiene che il marketing abbia un importante impatto su molti aspetti della nostra vita. Il 42% gli attribuisce il compito specifico di migliorare la qualità della vita delle persone e il 63% crede possa dare un contributo a questioni sociali come le epidemie, il cambiamento climatico, la povertà.
Il problema che emerge è che i marketing manager non partecipano alle conversazioni sui grandi temi sociali. Il motivo, secondo un terzo dei rispondenti, risiede in una competenza non sufficientemente vasta per formulare indicazioni utili ad affrontarli.

Un’altra criticità rilevata è quella che riguarda il ruolo che il marketing ha in azienda. Il 32% dei manager ritiene che i marketer non siano cittadini “di prima classe” in azienda e l’80% dichiara che le organizzazioni non sempre riescono a creare strutture moderne di marketing.
Al fine di “guadagnare posizioni”, il 70% ritiene che i marketer dovrebbero impegnarsi in una crescita economicamente sostenibile e non a qualsiasi costo.
Questo risultato si sposa bene con la visione che i manager delle altre funzioni hanno dei marketer: colleghi che si occupano più di quello che a loro piace fare, che di quello che servirebbe, che non collaborano con gli altri reparti e che fanno fatica ad avere un approccio unitario all’azienda.

L’aspetto più grave che emerge, sul quale spesso pongo l’attenzione nelle mie riflessioni, è che si fa troppo spesso marketing basandosi su dati passati, piuttosto che guardare agli scenari futuri (62%), attraverso analisi predittive.

Il punto di vista dei consumatori

Alla domanda “di cosa si occupa il marketing”, i consumatori italiani rispondono che si occupa di strategia di vendita (28%). Inoltre le parole più usate dagli intervistati mettono in evidenza una concezione del marketing come sinonimo di pubblicità e promozione; un 43% è decisamente convinto che marketing e pubblicità siano la stessa cosa (un limite del quale ho parlato e che riscontro spesso anche tra gli addetti ai lavori).

Rispetto al ruolo di questa disciplina, il 57% sostiene che il marketing abbia un importante impatto sulla vita delle persone e il 51% che consente a tutti di trovare il prodotto adatto alle proprie esigenze.

Emerge, però, anche un lato oscuro del marketing: il 38% dei consumatori è convinto che esista un aspetto negativo di questa pratica e il 47% sostiene che il marketing è l’arte di vendere qualcosa di cui le persone non sentono il bisogno. Alcuni, addirittura, hanno parlato di una forza oppressiva che li induce a comprare.

Mi pare che i marketer abbiano un grande lavoro da fare sia per riconquistare la fiducia delle persone che quella dei colleghi. Sono convinto che questo sia il momento giusto per provarci: l’uso della tecnologia e dei dati possono permette ai marketer di alzare il livello del loro proposta e contribuire a generare una visione di ampio respiro, che metta al centro i bisogni più profondi delle persone e della società.




La fiducia? Essenziale ma sempre più volatile

La fiducia? Essenziale ma sempre più volatile

Dal mondo dei sondaggi e la distanza, sempre più evidente tra percezione e realtà, alla fiducia sempre più volatile, fino all’associazionismo messo in discussione dai processi di disintermediazione: sono alcuni dei temi che Nando Pagnoncelli, Presidente di Ipsos Italia, ha affrontato in questa intervista con la Presidente FERPI, Rossella Sobrero.

Per chi si occupa di comunicazione e relazioni pubbliche le ricerche sono uno strumento molto importante. Nel tuo ultimo libro (“La Penisola che non c’è”) racconti il mondo dei sondaggi che dovrebbero riflettere l’immagine di una società e che invece rivelano un evidente strabismo tra realtà e percezione dovuto spesso a scarsa conoscenza. Ci spieghi meglio?

Negli ultimi anni l’opinione pubblica ha assunto un’importanza crescente non solo per il mondo delle imprese, ma anche per la politica e le istituzioni. Conoscere le opinioni, gli atteggiamenti e i comportamenti dei consumatori è diventato un elemento imprescindibile per la messa a punto delle strategie di marketing e di comunicazione delle aziende. Più problematico, invece, è il rapporto tra politica, mezzi di informazione e opinione pubblica. Le opinioni dei cittadini infatti sono spesso basate su percezioni distanti dalla realtà, soprattutto quando si ha a che fare con i temi di stretta attualità. Per misurare la distanza tra la percezione e la realtà Ipsos dal 2014 realizza ogni anno una ricerca, intitolata “Perils of percepions”, in cui si chiede ad un campione di cittadini residenti in numerosi paesi, di stimare in percentuale alcuni fenomeni: ad esempio quanti sono i disoccupati, gli anziani, gli stranieri, i giovani che vivono ancora con i genitori, le persone che soffrono di una determinata malattia, ecc. Calcolando per ciascun fenomeno la media delle risposte fornite dal campione e confrontando il valore medio con il dato ufficiale, si osserva che l’Italia tra i 14 Paesi presenti fin dalla prima edizione della ricerca è il paese che fa registrare il divario più elevato tra percezione e realtà. Insomma, gli italiani tendono a sovrastimare, talora significativamente, la portata di molti fenomeni, soprattutto quelli che preoccupano maggiormente. Ciò dipende dalla bassa scolarità degli italiani e dalle modalità con cui le persone si informano e, a questo proposito, basta analizzare i cambiamenti della dieta mediatica dei cittadini registrati negli ultimi dieci anni per capire come prevalga un’informazione di superficie, poco approfondita. E ciò rappresenta un paradosso, perché siamo immersi in un ecosistema mediatico, siamo iper-stimolati in termini di informazione, ma ciò non ha consentito di aumentare le conoscenze dei cittadini e il loro discernimento. Ma le percezioni per i cittadini sono la realtà, pertanto orientano le loro opinioni e i loro comportamenti. Si comprende quindi quale sia il rischio di una politica che, abdicando al proprio ruolo, per definire la propria agenda insegue le opinioni (distorte) dei cittadini, rischiando di determinare una sorta di cortocircuito della democrazia.

Il tema della fiducia è quanto mai di attualità: per chi si occupa di relazioni pubbliche come noi è un argomento molto importante. Quali segnali vedi dal tuo osservatorio?

La fiducia, soprattutto nell’inedito contesto che stiamo vivendo, è essenziale ma rischia di essere volatile. Non rappresenta un’apertura di credito a tempo indeterminato. Basta pensare al profondo cambiamento nel sentiment dei cittadini che le ricerche sociali hanno registrato in questa fase caratterizzata dalla seconda ondata di Covid, rispetto alla prima. Se nei mesi in cui l’emergenza sanitaria era più acuta i cittadini hanno risposto con grande senso di responsabilità, unito a un sentimento di concordia largamente diffuso, oggi le reazioni sono di segno diverso. D’altra parte, se il virus è considerato “democratico” perché colpisce tutti indistintamente, la crisi economica è selettiva e asimmetrica: mette a nudo le differenze tra garantiti (reddito fisso e pensioni) e non garantiti.
Se durante il primo lockdown le critiche al governo e alle amministrazioni regionali non facevano breccia tra i cittadini, decisamente refrattari alla caccia alle streghe, nella seconda ondata le categorie più interessate dai provvedimenti restrittivi hanno reagito duramente.
L’atteggiamento comprensivo e collaborativo manifestato dalla stragrande maggioranza dei cittadini nella scorsa primavera ha lasciato spazio a critiche e recriminazioni non solo da parte di chi è stato costretto a chiudere la propria attività, basti pensare alle riserve sul numero dei posti letto nei reparti di terapia intensiva delle strutture sanitarie o alle polemiche sulla scuola e sui trasporti pubblici locali.
Siamo passati dall’”andrà tutto bene” al pessimismo prevalente. Dalla concordia, al rischio di un “tutti contro tutti”. Si mettono sullo stesso piano l’apertura delle scuole e quella delle piste da sci.
Per ridare un po’ di fiducia credo siano decisive tre questioni: innanzitutto la scelta degli interventi da adottare per contrastare gli effetti della crisi e favorire una vera e propria trasformazione del Paese, affrontando le questioni irrisolte; si tratta di contemperare gli interventi mirati a vantaggio delle categorie più esposte alla crisi economica con la definizione di un “progetto paese” ambizioso che affronti i nodi strutturali e ponga le basi per il rilancio e la crescita con obiettivi di medio-lungo termine (non a caso gli interventi UE sono stati battezzati “Next generation EU”).
In secondo luogo, sarà utile porre attenzione al “racconto” del Paese. In una ricerca recente abbiamo misurato il livello di conoscenza di una ventina di primati italiani: ebbene, il primato più conosciuto è quello dei siti Unesco (poco più di un italiano su tre ne è a conoscenza); solo uno su cinque sa che siamo il secondo paese manifatturiero d’Europa e solo uno su dieci che siamo il paese europeo con il più altro tasso di riciclo dei rifiuti. E potrei continuare. Le percezioni sbagliate e la scarsa conoscenza dell’Italia inducono la maggior parte degli italiani ad avere uno sguardo severo, negativo, svalutativo del loro paese. Riconoscere le cose che funzionano, non significa negare o tacere quelle che non funzionano. Pensare e parlare bene dell’Italia non è “di destra” o “di sinistra”, ma è espressione del “patriottismo dolce” a cui ci esortava il Presidente Ciampi.   
Infine, sarà decisivo il metodo che verrà adottato per la definizione del “progetto Paese”: nelle situazioni di difficoltà l’Italia è riuscita ad ottenere i risultati migliori coinvolgendo le parti sociali, le forze politiche, i corpi intermedi, il mondo dei mass media. Il “metodo concertativo” richiede uno sforzo di tutti i soggetti coinvolti, alla ricerca di un “compromesso alto”. Viceversa, se l’atteggiamento è quello di una gara di tiro alla fune si rischia di acuire le divisioni e le fratture sociali.

L’ultima domanda è sull’impegno associativo che ti ha visto attivo per alcuni anni come presidente di ASSIRM e Consigliere di Pubblicità Progresso. Quali pensi debba essere oggi il ruolo delle associazioni di rappresentanza?

Le associazioni negli ultimi tempi, prima del Covid, avevano subito le conseguenze dei processi di disintermediazione che hanno investito non solo la politica ma quasi tutte le forme di rappresentanza.
Non si è trattato di una delegittimazione ma di una evidente messa in discussione del valore dei corpi intermedi. Le diverse ricerche realizzate fino al 2019 da Ipsos per le associazioni di rappresentanza (datoriali e sindacali) avevano messo in evidenza un cambiamento nelle aspettative degli associati, che risultavano quasi esclusivamente incentrate sull’erogazione dei servizi a fronte di un affievolimento dei valori di cui la propria associazione è portatrice. Tuttavia, tra i tanti cambiamenti che il Covid ha determinato, c’è un ritorno di importanza attribuita dai cittadini alla delega e ai corpi intermedi, come spesso accade nelle situazioni di emergenza, e come abbiamo riscontrato in una nostra ricerca avviata prima della pandemia e conclusa a fine maggio per la Fondazione Astrid e la Fondazione per la Sussidiarietà. Siamo in presenza di un’occasione unica che non va sprecata. I mondi associativi devono essere consapevoli che questo ritorno di fiducia da parte dei cittadini è accompagnato dall’aspettativa che sappiano far coesistere gli interessi settoriali con quelli generali. Insomma, meno spirito corporativo e più responsabilità sociale.