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Le aziende che investono in CSR hanno risposto in modo più efficace alle sfide COVID-19: Camera di Dubai

Le aziende che investono in CSR hanno risposto in modo più efficace alle sfide COVID-19: Camera di Dubai

 Le imprese di Dubai che investono nella responsabilità sociale delle imprese, CSR, sono state in grado di rispondere in modo più efficace alle nuove sfide create dalla pandemia di COVID-19, secondo un nuovo sondaggio della Camera di commercio di Dubai e Centro del settore per le imprese responsabili.

Il sondaggio, condotto a maggio e giugno 2020, ha rivelato che la comunità imprenditoriale di Dubai ha risposto rapidamente durante le prime fasi dell’epidemia COVID-19 salvaguardando la salute, la sicurezza e il benessere dei dipendenti e mettendo in atto processi per garantire la continuità aziendale.

Nel complesso, il passaggio delle aziende al lavoro remoto è stato fluido grazie ad una serie di fattori quali preparazione digitale, infrastruttura IT avanzata e dipendenti esperti di tecnologia digitale.

Le organizzazioni intervistate hanno sottolineato l’importanza dell’alta dirigenza nel rassicurare la sicurezza dei dipendenti e la sicurezza del lavoro mentre lavorano da casa, garantendo allo stesso tempo una sana interazione con i pari e il benessere fisico ed emotivo.

In risposta alle restrizioni su incontri ed eventi faccia a faccia, le aziende si sono rapidamente adattate spostando le attività di volontariato dei dipendenti su piattaforme digitali, portando le organizzazioni ad esplorare nuovi modi per restituire alle loro comunità e massimizzare l’impatto sociale, secondo il sondaggio.

Le organizzazioni intervistate hanno sottolineato l’importanza delle linee guida istituzionali introdotte dalle autorità nel consigliare la comunità imprenditoriale sulle misure che dovrebbero essere implementate per garantire la sicurezza dei dipendenti.

Lo studio che analizza le risposte delle imprese alla pandemia è il seguito di un rapporto approfondito recentemente pubblicato dalla Camera di Dubai intitolato Responsabilità sociale delle imprese a Dubai: pratiche attuali, sfide e opportunità future, che ha rivelato che un numero maggiore di aziende è ora coerente e sistematico nel loro approccio alla RSI e impegnarsi in iniziative di RSI allineate alle strategie aziendali.

Più della metà delle organizzazioni intervistate aveva una politica di CSR formale e il 65,7% delle organizzazioni aveva un dipartimento o un ufficiale dedicato per gestire la CSR. Tra le organizzazioni che hanno partecipato al sondaggio CSR del 2019, il 62 percento degli intervistati ha riferito di un approccio altamente maturo al coinvolgimento dei dipendenti e questa cifra è salita al 70 percento in relazione a salute e sicurezza.

Oltre il 70 percento delle organizzazioni ha riferito che il consiglio di amministrazione è coinvolto in problemi di CSR, mentre il 68 percento degli intervistati ha riferito livelli avanzati di maturità nelle pratiche di CSR con il volontariato dei dipendenti. Le grandi organizzazioni erano le più mature quando si trattava di investimenti nella comunità. Complessivamente, il 76% delle aziende rispondenti si è impegnato con le loro comunità.

I risultati del rapporto completo mostrano che “migliorare la comunità” è stato il principale fattore motivante alla base delle iniziative di RSI per l’80% delle aziende, mentre “migliorare le entrate” è stato il fattore meno motivazionale. Inoltre, il 58 percento delle organizzazioni rispondenti ha registrato un aumento marginale o significativo della spesa in materia di RSI negli ultimi tre anni e il 42 percento ha osservato che la spesa in RSI è rimasta la stessa o è diminuita nello stesso periodo.

Tradotto da: Hussein Abuel Ela.

https://wam.ae/en/details/1395302858145




Esg, ecco gli indicatori utili per verificare se un’azienda è veramente sostenibile

Esg, ecco gli indicatori utili per verificare se un’azienda è veramente sostenibile

Fra i fattori chiave i bonus dei manager agganciati a parametri di lungo periodo e l’integrazione del piano di sostenibilità in quello industriale. I dati del tradizionale report Kpmg-Nedcommunity sulle dichiarazioni non finanziarie

Bonus dei manager e integrazione della sostenibilità nei piani industriali. Ecco quello che guardano i gestori di fondi (che investono soldi) e gli analisti finanziari (che suggeriscono come investirli) quando si trovano tra le mani la dichiarazione non finanziaria di una azienda quotata. Al netto delle discussioni su standard, metrica e tutti gli altri temi di dibattito sul tavolo delle authority di mezzo mondo, chi non vuole incorrere nel greenwashing verifica prima se il management crede o meno nel mondo Esg.

Sono dunque importanti e interessanti i dati che emergono dal tradizionale rapporto di Kpmg e Nedcommunity che hanno mappato le dichiarazioni non finanziarie (Dnf) di quotate e non quotate obbligate alla pubblicazione. La ricerca, giunta al terzo anno, ha analizzato le Dnf di 200 aziende; soltanto 13 sono i documenti redatti in maniera volontaria nonostante il pressing della Consob.

Bonus sostenibili ma di breve periodo

Partiamo dalle remunerazioni. Il team di ricercatori ha realizzato un focus sul Ftse-Mib40, l’indice delle blue chip di Piazza Affari, quelle che fanno da battistrada per le altre quotate. Ebbene il 74% delle aziende Ftse-Mib definisce obiettivi specifici legati alla
sostenibilità: sembra dunque essere entrato anche nei bonus dei manager l’aggancio con l’ambiente e il sociale. Sembra però. Perché del gruppo di società che ha inserito i criteri Esg nelle remunerazioni, l’84% ha utilizzato parametri specifici ma di breve periodo. Se infatti annunci di voler tagliare le emissioni da qui al 2030 o al 2050, non puoi premiarti poi su un arco temporale di uno o due anni.

Gli indicatori a cui vengono agganciati i bonus dei manager, per il 28% sono legati all’impatto ambientale e per il 22% alla gestione del personale e alle diversità. Via via a scendere vi sono gli altri temi. Soltanto nel 6% dei casi, però, le remunerazioni sono legate al tema sociale (supporto alla comunità e sviluppo del territorio).

Integrazione nei piani industriali

Il secondo indicatore che consente di “contenere” il dilagante greenwashing è verificare se il piano sostenibilità sia integrato o meno nel piano industriale.

Dal rapporto Kpmg-Nedcommunity, si scopre che sono 34 (il 45%) le aziende ad aver realizzato tale integrazione, con un balzo del 140% rispetto al 2017. Poco, tanto? Certamente indicativo del dna di un’azienda. Senza dimenticare però che questi risultati sono stati raggiunti in breve tempo e che 105 aziende hanno comunque una strategia di sostenibilità e 76 hanno formalizzato un piano di sostenibilità strutturato.

Il confronto con i portatori di interesse (stakeholder)

Il nuovo codice di autodisciplina delle società quotate in Piazza Affari «sottolinea il ruolo
del consiglio d’amministrazione nel promuovere il dialogo con gli stakeholder, al fine
di perseguire il successo sostenibile», si legge nel report. Ecco quindi l’importanza del confronto con i portatori di interessi interni ed esterni.

E qui c’è qualche nota dolente. Il 93% ha coinvolto gli stakeholder nell’aggiornamento della materialità, ovvero dei temi considerati rilevanti per l’azienda: buono l’incremento dell’8% rispetto al 2018. Allo stesso tempo però è soltanto il 64% che ha coinvolto anche gli “esterni” in questo confronto con questionari, workshop e forum; nonostante un forte incremento (+53%) il coinvolgimento degli stakeholder esterni non riguarda ancora tutte le società obbligate alla Dnf. I feedback da comunità e consumatori sono invece fondamentali.

I trend

Quali sono allora i trend che si intravedono in base alla ricerca? «La terza edizione della survey – ha sottolineato Pier Mario Barzaghi, partner Kpmg – evidenzia un crescente impegno delle imprese italiane a contribuire al raggiungimento dell’Agenda 2030: 114 aziende del campione, +88% rispetto al 2017, hanno preso in considerazione gli impatti del proprio business sugli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile (SDGs), illustrando le azioni e gli obiettivi attraverso cui contribuiscono alla realizzazione dell’Agenda 2030. Nei prossimi anni ci aspettiamo un’ulteriore crescita di questo fenomeno con particolare attenzione anche ai processi di pianificazione».

Altra tendenza è quella di considerare la Dnf come un’opportunità e non un semplice obbligo. «Grazie all’ingresso dei temi Esg nei consigli d’amministrazione – ha dichiarato Patrizia Giangualano, consigliere indipendente e membro del consiglio direttivo di Nedcommunity – le aziende confermano il percorso intrapreso di progressiva integrazione, definendo sistemi di gestione dei rischi integrati e formalizzando le proprie politiche di gestione sui diversi ambiti considerati maggiormente rilevanti, trasformando la rendicontazione non finanziaria da obbligo di compliance a strumento di comunicazione del valore condiviso che ciascun business è in grado di generare e distribuire».




TIM Green: in arrivo le SIM con plastica riciclata

TIM Green: in arrivo le SIM con plastica riciclata

TIM Green è il progetto ecosostenibile che permetterà all’operatore di utilizzare materiali riciclabili su larga scala, scopri le ultime novità.

Il progetto di TIM di ridurre le emissioni di anidride carbonica e di diventare un’azienda eco friendly sta prendendo forma. La mission dell’operatore, infatti, è di conseguire la carbon neutrality entro 10 anni.

Già a partire da queste settimane TIM dovrebbe iniziare a produrre SIM Green con formato dalle dimensioni ridotte e con l’utilizzo di plastica riciclata al 60%. Un piccolo gesto moltiplicato per un gran quantitativo di piccole card, un passo importante nella direzione della sostenibilità ambientale.

TIM Green

L’obiettivo di TIM è quello di diminuire l’impatto ambientale con prodotti sempre più ecosostenibili. Questo interessante progetto permetterà all’azienda di risparmiare fino a 13 tonnellate l’anno di plastica utilizzata per le varie SIM, materiale informativo ed altro. Niente male per essere un “piccolo” gesto basato su di una semplice scelta progettuale.

Per di più, la stessa azienda attraverso TIM Next e TIM Supervaluta permette al cliente di restituire o sostituire con il nuovo il suo smartphone attuale.

I device restituiti dal cliente oltre a dare benefici promozionali per l’acquisto di un modello più recente, permettono all’azienda di riportare allo stato di fabbrica il dispositivo usato e quindi di dare nuova vita allo smartphone. I telefoni ricondizionati verranno poi resi disponibili all’acquisto e permetteranno quindi al cliente anche di risparmiare soldi con un occhio all’ambiente.

Infine, anche per i dispositivi a marchio TIM come i modem o i cordless è previsto l’impiego di materiali riciclati ed ecosostenibili sia per quanto riguarda il packaging sia per la costruzione in sé.




La manipolazione ai tempi del coronavirus

La manipolazione ai tempi del coronavirus

Nei primi mesi del 2020 la vita dei cittadini di quasi tutte le nazioni è stata stravolta dall’annuncio di un nuovo virus. Dai notiziari di tutto il mondo sono praticamente scomparsi i conflitti armati, i cambiamenti climatici, i gruppi terroristici, i morti per ogni altra patologia. Nonostante il nuovo patogeno venisse dichiarato sconosciuto, da subito e in assenza di autopsie che permettessero di conoscerlo, ha assunto il ruolo di pericolo pubblico numero uno. Al punto che gli stati, a partire dalla dittatura cinese, seguita dall’Italia e a macchia d’olio dall’Europa e da gran parte del resto del mondo, hanno applicato restrizioni della libertà personale senza precedenti storici. Come in tempo di guerra, in Italia la separazione dei poteri legislativo, esecutivo, e giudiziario, è stata di fatto sospesa, e l’esecutivo, tramite decreti sempre più incalzanti, ha assunto il ruolo legislativo. Più che in tempo di guerra, e più che in presenza di infezioni epidemiologicamente ben più pericolose del Covid-19, molti diritti costituzionali sono stati sospesi. Tutto ciò si è verificato senza quasi proteste, sia da parte delle opposizioni, sia da parte dei garanti costituzionali, sia da parte della popolazione. La presenza di un consenso così ampio, trasversale e duraturo, nei confronti di misure così drastiche, è anomala. Prescindendo dalla valutazione della necessità delle misure intraprese per fronteggiare il Covid-19, che non è oggetto di questa analisi e per la quale rimando ai lavori già esistenti, colpisce il confronto con altre tematiche sentite urgenti e preoccupanti, che diversamente suscitano da sempre accesi dibattiti politici e popolari riguardo la scelta delle misure da adottare.

Quest’ultima considerazione legittima la domanda se per produrre un consenso così vasto e atipico sia stato fatto ricorso a tecniche manipolative. Tale analisi richiede all’autore, e al lettore, uno sforzo di epoché, sospensione del giudizio, innanzitutto sull’effettiva possibilità che ciò sia possibile e in secondo luogo se ciò si sia o meno verificato. Occorre inoltre mantenere nettamente distinta la questione se sia avvenuta una manipolazione dell’opinione pubblica, dalla questione su chi, nel caso, ne sia stato autore e a quali fini. Il primo livello di analisi pertiene allo psicologo e al sociologo, mentre la seconda questione è competenza del giornalista investigativo o del magistrato. Inoltre, l’eventuale dimostrazione che sia stata perpetuata una manipolazione, non sarebbe in alcun modo invalidata dalle incertezze su chi ne sia stato autore e a quale scopo. Esattamente come, ad esempio, in presenza di un atto vandalico, la mera constatazione del fatto non soggiace alla conoscenza di chi ne sia stato autore o del perché lo abbia compiuto.

Esistono le manipolazioni psicologiche?

Prima di analizzare se sulla questione Covid-19 l’opinione pubblica possa essere stata manipolata, ritengo necessario ripercorrere brevemente, per i non addetti ai lavori, cosa si intenda con manipolazione psicologica e in quali modalità possa presentarsi.

Per una maggiore chiarezza, occorre da subito differenziare il concetto di manipolazione psicologica nella prospettiva giuridica da quello della prospettiva psicosociale. Come è noto, il codice penale italiano prevedeva il reato di plagio finché, nel 1981, la Corte Costituzionale lo ha dichiarato illegittimo, poiché non adeguatamente definito1. Pertanto ne consegue che penalmente il reato di plagio non sussiste, non con tale denominazione e in virtù dell’articolo abrogato, giacché in certi casi può essere inquadrabile come violenza psicologica. La non esistenza del reato di plagio non implica tuttavia che la manipolazione psicologica non esista, bensì unicamente che, se non riconducibile a criteri di violenza privata2, non è penalmente perseguibile. Inoltre è necessario rilevare che nelle scienze sociali, diversamente da altri ambiti, il termine generico di “manipolazione” non è univocamente definito e può riferirsi sia all’azione svolta da una o più persone su un singolo soggetto o un gruppo ristretto, sia al tentativo di influenza sociale esercitato da soggetti o gruppi in posizione dominante nei riguardi dell’intera popolazione; sia a manipolazione esercitata con tecniche covert (nascoste al soggetto), sia imposta con mezzi coercitivi o perfino violenti (Noggle, 2018). In un siffatto panorama non è pertanto raro che autori diversi parlino di manipolazione in relazione a tecniche distinte, come il brainwashing (lavaggio del cervello), l’ipnosi, la PNL (programmazione neuro linguistica), la persuasione o la propaganda. Di seguito esporrò in modo sommario i principi di funzionamento di tali pratiche, sia per differenziarle, sia per evidenziarne aspetti in comune, la cui conoscenza tornerà utile a seguire più facilmente l’analisi oggetto della presente relazione.

Brainwashing e influenza autoritaria

Il termine “brainwashing” è stato creato nel 1950 dal giornalista statunitense Edward Hunter, per proporre una spiegazione alla cooperazione col regime cinese da parte di soldati americani prigionieri nella guerra in Corea. Nel ventennio successivo alcuni articoli accademici hanno esplorato tale possibilità, con conclusioni contrastanti. Perfino la CIA, negli anni ‘50, aveva attivato un programma sperimentale sul controllo mentale, denominato Project MK-Ultra, poi interrotto e desecretato negli anni ‘70; infine investigato durante un’udienza al Senato3 e portato nei tribunali dalle presunte vittime. Ufficialmente da tali esperimenti illegali risulterebbe che la manipolazione mentale non sarebbe possibile, sebbene la preventiva distruzione di molti dei documenti4 non può consentire una valutazione oggettiva dei risultati del progetto.

Parallelamente si sviluppa l’ipotesi che alcune sette religiose sottopongano i loro adepti a un vero e proprio lavaggio del cervello. Tale tesi, analogamente al concetto italiano di plagio, assume rilevanza giuridica e, per l’urgenza di produrre perizie attendibili, in presenza di posizioni scientifiche contrastanti, l’APA (American Psychological Association), nel 1986, istituisce una task force sul tema che si dichiara favorevole all’ipotesi, sebbene poi contraddetta da altra commissione interna all’APA che ritiene la conclusione dei colleghi manchi di evidenza scientifica5. Come tuttavia spesso accade nello studio dei fenomeni sociali, la mancanza di evidenze scientifiche è conseguenza inevitabile di studi osservazionali, e non sperimentali, randomizzati in doppio cieco e sufficientemente confermati da studi successivi (Tangocci, 2020a). Poiché una commissione etica non può spingersi a autorizzare esperimenti che potrebbero realmente dirimere la questione sull’effettiva possibilità di sottoporre una persona al lavaggio del cervello, la legge non può ovviamente formularne il reato, ma al contempo, dalla prospettiva scientifica, la questione non può che rimanere aperta.

Tanto più che (per quanto limitatamente ai singoli aspetti dell’influenza sociale che hanno ricevuto autorizzazione allo studio), a partire da studi pionieristici, come quello sulla finta prigione di Stanford (Haney et al, 1973), o quelli di Stanley Milgram (1974) sull’obbedienza all’autorità, la Psicologia Sociale ha mostrato che, sia per obbedienza, che per acquiescenza, per conformismo o per persuasione, indirizzare l’opinione di singoli individui nella direzione desiderata è certamente in molti casi possibile.

Ipnosi, PNL e tecniche “covert”

Nell’immaginario popolare l’ipnosi oscilla tra l’essere ritenuta un atto quasi magico, e il venire rigettata come impossibile, trascurando di approfondire la realtà che si trova tra questi due estremi. Sebbene sia vero che la disciplina, che vanta ormai qualche secolo di storia, non sempre offre risposte chiare sulle dinamiche di funzionamento dei suoi metodi. Eppure, per quanto possano sussistere dubbi sulle celebri lezioni spettacolo di Jean-Martin Charcot all’Ospedale della Salpêtrière di Parigi, non possono essercene sull’efficacia delle anestesie ipnotiche in occasione di interventi chirurgici (Granone, 1989), né sulla validità dell’ipnosi ericksoniana, ampiamente utilizzata da alcuni professionisti della salute mentale e insegnata in scuole di specializzazione riconosciute dal MIUR.

La Programmazione Neuro Linguistica (PNL) nasce dalla collaborazione tra Richard Bandler e John Grinder che pubblicano (1975) una loro sintesi e rielaborazione del lavoro degli psicologi Milton Erickson, Fritz Perls e Virginia Satir, dell’antropologo Gregory Bateson e del linguista Noam Chomsky. In estrema sintesi, la PNL ritiene che il comportamento umano sia frutto di percorsi neurali consolidati dal linguaggio (non solo verbale) cui siamo abituati. Modificando quest’ultimo sarebbe possibile intervenire, sia sull’insieme delle credenze consapevoli e inconsapevoli, che sul comportamento. L’obiettivo sarebbe conseguibile, sia da parte di chi lo desidera per sé e si applica in autonomia a modellare alcuni suoi aspetti su quelli di chi ha già raggiunto i risultati desiderati; sia da parte di chi lo desidera per sé e, per essere guidato a tal fine, si rivolge ad esperti delle tecniche della disciplina; sia da parte di chi desidera modificare, ad esempio, l’atteggiamento di un cliente nei confronti di un prodotto in vendita. La disciplina non è tuttavia accreditata dal mondo accademico, poiché non ha basi scientifiche in grado di spiegare adeguatamente il suo funzionamento. Non è inoltre gradita a molti psicoterapeuti, poiché si focalizza sulla realizzazione degli obiettivi desiderati, in assenza di una valutazione complessiva dell’individuo, tanto più che è spesso praticata da non psicologi, privi della preparazione necessaria a delineare una diagnosi o un profilo psicologico. Ciò nonostante, l’insieme delle tecniche proposte dalla PNL è certamente funzionale sia, ad esempio, al conseguimento di semplici obiettivi desiderati, come smettere di fumare; sia ad aumentare la probabilità di convincere possibili clienti, o sostenitori, ad acquistare un prodotto in vendita, o a sottoscrivere una causa perorata.

Anche la Psicologia Sociale si è ampiamente occupata di studiare quali situazioni, tecniche e strategie, favoriscano la persuasione di un soggetto target. L’elenco delle tecniche individuate potrebbe essere molto lungo, tuttavia, per motivi di brevità, mi limito a menzionare quelle particolarmente note del “piede nella porta”, consistente nel richiedere inizialmente una piccola adesione per aumentare la probabilità che sia successivamente accolta una richiesta più gravosa, o quella opposta della “porta in faccia”, che mira a facilitare l’accettazione di una richiesta più modesta che segue il rifiuto di una iniziale richiesta sapientemente esagerata (Cialdini et al, 1975). Oltre a una rapida menzione (data la sua particolare rilevanza ai fini persuasivi) della cosiddetta “teoria della dissonanza cognitiva” (Festinger, 1957), secondo la quale gli individui sperimentano uno stato di stress psicologico se sentono discrepanza tra le proprie cognizioni (nozioni, valori, opinioni, credenze), o tra una propria cognizione e un proprio comportamento. Pertanto, per mitigare tale disagio, sono indotte, o a modificare l’ambiente nel quale la discrepanza si manifesta, o a cambiare il proprio comportamento, o a mutare le proprie cognizioni, seguendo la linea di minor resistenza. Di conseguenza, individui dalle intenzioni manipolatorie potrebbero creare artificialmente le condizioni in cui far sentire discrepanza al/ai soggetto/i target, al fine di indirizzare i comportamenti o le opinioni nella direzione desiderata.

Naturalmente, sottolineo che, né le tecniche ipnotiche, né quelle individuate dalla PNL, né quelle scoperte dalla Psicologia Sociale, possono offrire la certezza del risultato con tutti i soggetti e in ogni circostanza. Alcuni soggetti sono facilmente ipnotizzabili, altri no; alcuni si lasciano guidare, o raggirare, facilmente, altri no; e la probabilità o meno varia anche per uno stesso individuo in funzione di tante variabili, tra le quali, la stanchezza, l’esperienza, o la motivazione. Nondimeno le tecniche più efficaci lo sono con un numero maggiore di soggetti e in un maggior numero di casi.

Comunicazione persuasiva e propaganda

Analogamente, quando il target non è più il singolo o un ristretto gruppo di persone, bensì larghe fasce della popolazione, o l’intera cittadinanza, l’efficacia di una manipolazione si misura in base alla percentuale di individui che è in grado di influenzare, e assume il nome di comunicazione persuasiva, o quello di propaganda. Entrambe le forme tuttavia – come pure la pubblicità o il marketing – ricorrono a tecniche simili, sia specifiche, che mutuate da quelle sovresposte e adattate ai canali di comunicazione di massa. Vista la similitudine dei metodi, la tassonomia ha dovuto discriminare i fenomeni sulla base delle intenzioni, scegliendo “persuasione”, se l’ente e la finalità della comunicazione sono valutati positivamente da chi pone l’etichetta sul comunicato, o “propaganda”, se valutati negativamente. Va da sé, che una simile distinzione non ha niente di scientifico, al più pertiene alla filosofia morale, ma anche in tal caso proprio non si vede come la valutazione possa superare i limiti della soggettività.

Nelle università, le modalità per influenzare l’opinione della popolazione su specifici argomenti, vengono insegnate nei corsi di “comunicazione persuasiva”, e i testi di tali corsi (Tra i più diffusi: Perloff, 2010) sono solitamente corposi e ricchi di indicazioni. Non potendo chiaramente riassumerle tutte, riporto che tra le più funzionali a favorire l’adesione ai comportamenti socialmente desiderati figurano i cosiddetti “appelli alla paura”, con il conseguente suggerimento di adottare il comportamento desiderato per evitare le spaventose conseguenze. Si tratta di tecniche, diffusamente impiegate, la cui funzionalità allo scopo stabilito è stata dimostrata, ma che dire dei possibili effetti collaterali sulla popolazione e, soprattutto, della loro valenza etica?

Il termine propaganda viene utilizzato per la prima volta con un’accezione assolutamente positi va, era infatti intesa come una forma di propagazione della fede da parte di Papa Gregorio, che istituì la “Sacra Congregatio dePropaganda Fide” (Pratkanis e Aronson, 2001). Dalla Prima Guerra Mondiale, e ancor più dalla nomina di Joseph Goebbels a “Reichsministerium für Volksaufklärung und Propaganda”, il termine propaganda, è riservato a indicare la comunicazione ingannevole da parte di un’istituzione o un ente, diffondendo menzogne, falsità pur di attirare l’opinione pubblica dalla propria parte. Tuttavia, come già evidenziato, la valutazione di “ingannevole” è strettamente dipendente dall’insieme di valori e credenze del valutatore. Di modo che, per esempio, affermazioni smaccatamente faziose potranno, in tutta buona fede, sembrare corrette a un sostenitore, ma ingannevoli a un oppositore. Perfino la comunicazione di dati statistici, che potrebbe sembrare oggettiva, facilmente non lo è, poiché l’impressione generata varia sostanzialmente a seconda di come i dati vengono divulgati (ad esempio, omettendo alcuni riferimenti essenziali, come spiegato in Huff, 2007). Molte distorsioni, esagerazioni o ridimensionamenti, omissioni o accentuazioni, saranno ritenute una corretta forma di comunicazione persuasiva da chi concorda con la natura del messaggio, ma bollate come falsa propaganda da chi dissente. Poi, naturalmente, esistono anche comunicazioni consapevolmente e smaccatamente mendaci, che ricorrono spudoratamente all’inganno, alla diffusione di messaggi falsi appositamente prodotti, o ai messaggi subliminali (Verwijmeren et al, 2011).

Al fine di esercitare adesione a specifiche opinioni è anche possibile sfruttare, o consapevolmente stimolare, il disorientamento derivante da un sovraccarico cognitivo (information overload, o anche infoxication, vedi ad esempio Benselin, et al, 2016). Poiché, di fronte a un’eccessiva mole di informazioni, un soggetto rischia di non essere più in grado di effettuarne un’elaborazione approfondita e consapevole, sarà più facilmente indirizzabile nella direzione desiderata. Manipolando aspetti emotivi che a ben vedere non hanno niente a che vedere con la correttezza o meno del messaggio. In termini psicologici la cosiddetta “via centrale della persuasione” (Cacioppo et al, 1984), focalizzata sul contenuto del messaggio, tenderà a lasciare il posto a quella che viene chiamata “via periferica della persuasione”, influenzata da aspetti maggiormente controllabili, come ad esempio il ricorso a testimonial famosi a sostegno dell’opinione che si desidera diffondere. Tanto più che un soggetto sottoposto a stress, disorientato, o spaventato, è predisposto a conformarsi alle opinioni e ai comportamenti della maggioranza, poiché tale strategia si è evoluzionisticamente mostrata la più adattiva (Tangocci, 2020b).

Un paragrafo a parte merita il controllo della popolazione attraverso la manipolazione del linguaggio. Sul ruolo dei media, e i mezzi cui ricorrono, per la creazione del consenso è ben noto e particolarmente prezioso il contributo dell’economista Edward Herman e del linguista e filosofo Noam Chomsky (Herman et al, 1988). Tuttavia le ipotesi più estreme sul livello di controllo che il linguaggio può avere sul pensiero sono certamente quelle esposte nel romanzo distopico, 1984, da George Orwell, e in particolare nella sua appendice “The Principles of Newspeak”. L’incessante sorveglianza, la riscrittura della storia, la ritualità dei momenti di odio collettivo verso i nemici del partito, come pure l’imposizione della “neolingua”, tra i cui principi spicca quello del “doublethink”, al fine di rendere impossibile la libertà di pensiero, nella misura in cui sono presentati, sono certamente materia letteraria. Nondimeno, come spesso accade, la grande letteratura, lungi dall’essere mero intrattenimento, è foriera di importanti stimoli di riflessione. Infatti, ma non molti lo sanno, l’opera ha ispirato studi di linguisti e sociologi, interessati a approfondire la potenzialità della manipolazione mediatica del linguaggio (tra i più recenti, con una buona bibliografia: Hossain, 2017). Un semplice esempio ne è l’impiego della locuzione “missione di pace”, oramai da qualche decennio abitualmente utilizzata per denominare degli atti bellici, se perpetuati dal proprio governo o da forze alleate.

Concludo con un’ultima osservazione relativa alle comunicazioni da parte delle autorità, reali o percepite come tali, che siano. Sussiste una buon probabilità che, più o meno consapevolmente, la ricezione di un tale messaggio da parte del destinatario sia mediata da aspetti del rapporto che ha avuto con le sue figure genitoriali, prima vera autorità per ogni bambino. Autori diversi parlerebbero, a seconda dell’orientamento di appartenenza, di attivazione di nuclei complessuali, di Modelli Operativi Interni, di proiezioni, di script comportamentali, o si riferirebbero ad altri costrutti psicologici affini. Quale che sia il termine adottato, e ferme restando le distinzioni tra i costrutti, il punto è che, come da piccoli molti bambini nei confronti di un padre, anche molti cittadini adulti nei confronti dell’autorità, per quanto possano certamente violare delle regole (come forse le hanno violate a suo tempo in famiglia), tendono ad obbedire acriticamente se gli viene detto di essere in uno stato di emergenza. In una situazione di pericolo l’obbedienza si rivela spesso adattiva, pertanto tale predisposizione è stata evoluzionisticamente selezionata nel corso dei millenni, sia nella nostra che nelle altre specie sociali (Buss, 2011). Tuttavia, per quanto un genitore faccia solitamente il bene di un figlio, esistono anche genitori violenti, trascuranti, egoisti, sfruttatori, o perfino stupratori, a volte veri e propri “mostri”. In tali tristi casi, come molti psicoterapeuti sanno, non è raro che il bambino colpevolizzi se stesso dell’abuso subito, piuttosto che accettare la dolorosissima idea che il genitore non lo ami. L’investimento emotivo è troppo alto e il meccanismo di difesa del diniego lo protegge dalla spaventosa eventualità di riconoscersi affettivamente orfano. Analogamente, non tutti i governi fanno necessariamente il bene del loro popolo e, come la storia dovrebbe insegnarci, anche nei regimi più spietati e disumani, l’aderenza di molti cittadini è in larga misura spiegabile da obbedienza acritica, dalla cosiddetta “banalità del male” (Arendt, 1963). Lungi dal prendere posizione a riguardo, mi limito ad affermare che l’eventualità di svegliarsi un giorno, ed accorgersi di essere stati anche noi vittime di un tale fenomeno, non dovrebbe essere esclusa a priori poiché, per definizione, chi ne è affetto è il primo a non rendersene conto.

Giornalismo, istituzioni e Covid

Ultima premessa, questa volta non psicologica, prima di addentrarsi nell’analisi dell’eventuale manipolazione dell’opinione pubblica, contestualmente all’emergenza Covid-19, vorrei ricordare che studiare una situazione data è cosa ben diversa dal mettere a punto una strategia volta ad avere un’influenza sulla società. Proprio come un ingegnere può con semplicità riferire quali presupposti e strategie ha seguito nella realizzazione di un suo progetto, ma in quello che viene chiamato “reverse engineering”, ovvero lo studio di un manufatto di altrui realizzazione, non può che avanzare delle ipotesi; allo stesso modo uno studioso di scienze sociali, non può che proporre le sue più attendibili ipotesi di spiegazione di quanto osserva.

Un aspetto nondimeno fin da subito innegabile è l’esistenza dell’intenzione, da parte quantomeno di alcune istituzioni, di studiare le strategie di persuasione della popolazione più funzionanti. Giacché per dimostrare ciò è sufficiente collegarsi al sito istituzionale del governo inglese, o al database statunitense dedicato agli studi clinici in corso. Nel primo caso veniamo a conoscenza dell’esistenza di un gruppo di studio, denominato “Independent Scientific Pandemic Influenza Group on Behaviours (SPI-B)”6, il cui scopo dichiarato è fornire consulenza in materia di scienze comportamentali per anticipare e aiutare le persone ad aderire ad interventi raccomandati da esperti medici o epidemiologici.(“SPI-B provides behavioural science advice aimed at anticipating and helping people adhere to interventions that are recommended by medical or epidemiological experts”).

Nel sito Clinicaltrials.gov invece apprendiamo che è in corso (da luglio 2020) uno studio7 promosso dalla Yale University volto a determinare se sia più efficace tentare di convincere la popolazione ad acconsentire a inocularsi un vaccino per il Covid-19 ricorrendo a argomentazioni inerenti: 1) evitare ulteriori limitazioni della libertà personale; 2) evitare limitazioni della libertà economica; 3) garantirsi sicurezza sanitaria; 4) fare l’interesse della società; 5) migliorare l’economia grazie a una società ampiamente vaccinata; 6) promuovere il senso di colpa; 7) stimolare l’imbarazzo al non aderire; 8) evitare l’altrui rabbia; 9) rinforzare la fiducia nella scienza; 10) insinuare la codardia di chi non si vaccina.

Si può naturalmente ritenere che sia giusto che la società studi le strategie più funzionali a far sì che la più ampia parte possibile della cittadinanza aderisca alle scelte governative in materia sanitaria. Nondimeno, non si può negare, con onestà intellettuale, che quando queste strategie vengono messe in atto subdolamente, stimolando delle risposte automatiche, le stesse siano forme di comunicazione manipolativa. In Italia (per lo meno nella prima metà dell’anno) è mancata una sufficiente trasparenza relativa ai razionali scientifici soggiacenti alle decisioni politiche, pertanto non ci è dato sapere quali principi abbiano ispirato le scelte comunicative. Certo è che, di eventuali simili intenti, ne andrebbe verificata la compatibilità etica con i principi della Convenzione sui diritti umani e la biomedicina, più conosciuta con nome di “Convenzione di Oviedo”, firmata in Spagna nel 1997 e ratificata dall’Italia nel 20018, che all’articolo 5 prevede che, ogni intervento sanitario può essere effettuato unicamente dopo che la persona ha fornito il suo consenso libero e informato. Dopo essere stato adeguatamente informato sullo scopo e la natura dell’intervento, come pure sulle sue conseguenze e i suoi rischi.

Comunicazione dei dati epidemiologici

Tutti ricordano i “bollettini di guerra”, quotidianamente forniti dalla totalità, o quasi, dei giornali e delle reti televisive. Eppure, con le parole di Giorgio Agamben, tra i filosofi italiani viventi più stimati nel mondo:

Almeno per quanto riguarda l’Italia, chiunque abbia qualche conoscenza di epistemologia non può non essere sorpreso dal fatto che i media per tutti questi mesi hanno diffuso delle cifre senza alcun criterio scientifico, non soltanto senza metterle in rapporto con la mortalità annua per lo stesso periodo, ma senza nemmeno precisare la causa del decesso. (Agamben, 2020a, p. 60).

La comunicazione di numeri assoluti, in mancanza degli indispensabili parametri di riferimento, è infatti indiscutibilmente priva di qualsiasi significato scientifico. Tuttavia non solo, giacché per la maggioranza della popolazione – carente, o dimentica, della formazione necessaria a comprendere questo aspetto – dei numeri ripetuti ossessivamente e quotidianamente comportano un’elevata attivazione emotiva, a seguito della quale, in funzione delle dinamiche già esposte, diminuisce la capacità critica e aumenta la propensione ad accogliere le indicazioni fornite delle autorità. Questo atteggiamento viene spiegato dalla teoria della “mera esposizione”, secondo la quale un individuo che venga esposto ripetutamente e prevalentemente ad uno stimolo si troverà a preferire quello stimolo su altri, indipendentemente delle precedenti cognizioni relative allo stimolo stesso (Zajonc, 1968); questo perché la ripetuta esposizione crea una familiarità con lo stimolo, e tutto ciò che è familiare abbassa la risposta di allarme tipica della paura, fornendo una soluzione ad un probabile dilemma di scelta tra due o più stimoli.

Si tratta a tutti gli effetti di una comunicazione falsata. Non mi è dato sapere se i media abbiano ricevuto indicazioni di diffondere i dati in tale modo; se i principali editori si siano accordati tra loro; se una testata giornalistica sia stata capofila e le altre l’abbiano imitata; se tale pessimo giornalismo sia stato motivato da strategie sensazionaliste mirate alla maggiore audience; o se si sia semplicemente trattato di una, non meno grave, diffusa incompetenza professionale. Certo è che, voluta o casuale che sia, nel caso esistesse una volontà di esacerbare la paura nella popolazione, quale che ne fosse il fine, questa modalità comunicativa è la più funzionale. Tanto più che, arrivata l’estate, terminata l’emergenza ospedaliera, e enormemente ridimensionati i decessi, i bollettini non sono cessati bensì, mantenendo inalterata la grafica, per meglio sottolineare la continuità e perpetuare lo stato emozionale del lettore, sono gradualmente slittati dal mostrare i numeri assoluti di morti a lanciare allarmi per la positività. Tralasciando la palese differenza tra malato sintomatico e positivo asintomatico, di cui molti medici hanno già scritto e parlato9, è evidente che i numeri di positivi aumentano all’aumentare dei test effettuati. Nei primi mesi, nei quali i test erano riservati ai sintomatici, rappresentavano, sì, un indicatore di quanto tali sintomi potessero essere provocati da Sars-Cov-2; ma se i test riguardano persone senza sintomi, eseguirne giornalmente di più, o di meno, dipende unicamente dalle indicazioni o dalle intenzioni di eseguirli.

Un’informazione polarizzata

A seguito di iniziali dichiarazioni di esponenti politici di primo piano, o di cosiddetti esperti, passati nel giro di pochi giorni dal dichiarare che in Italia il rischio fosse inesistente, che l’unico virus fosse quello del razzismo, o che le mascherine per la popolazione generale fossero inutili, all’affermare l’esatto contrario, talvolta perfino in rapida alternanza, è rapidamente emersa una narrazione dominante. La politica ha delegato i suoi doveri decisionali ai membri di un comitato tecnico scientifico e le trasmissioni televisive sono state presidiate da alcuni scienziati da salotto (principio di autorità), i cui riferimenti scientifici già si erano mostrati, e successivamente si sono confermati, privi di valore previsionale. Il principio di autorità funziona in base all’euristica dell’autorità, cioè alla risposta automatica verso un’autorità; secondo questo principio ogni persona che sembri (o si comporti, o venga considerato) un’autorità in un ambito ben preciso stimolerà del destinatario della comunicazione una risposta automatica di obbedienza o di consenso, generalizzata anche in un altro ambito (Cialdini, 1989). Si avvicina a questo concetto anche il messaggio diffuso in questo particolare periodo “lo dice la scienza”, trasmettendo in tal modo l’idea che l’intera comunità scientifica fosse, e sia, concorde. Eppure apertamente contrarie erano invece le opinioni di eminenti virologi, come Giulio Tarro, di emeriti specialisti di malattie infettive come Didier Raoult, di premi nobel come Luc Montagnier, e di migliaia di specialisti in Italia e nel mondo. Su alcuni canali alternativi, quotidiani locali o riviste internazionali, fin dai primissimi tempi era possibile approfondire le posizioni definite eretiche10. Diversamente, i principali canali di informazione, hanno per lo più evitare di presentare un confronto di opinioni con autorevoli membri della comunità scientifica che non si fossero allineati alla narrazione ufficiale. Poco spazio mediatico è stato concesso a tali pareri, relegati in fasce orarie secondarie, o chiosati in modo derisorio dai conduttori televisivi, o violentemente attaccati, come è accaduto a medici italiani in prima linea, concordi su alcuni aspetti, ma dissidenti su altri, come ad esempio Maria Rita Gismondo, Giuseppe De Donno, e molti altri. Alcuni medici hanno poi ritrattato le loro posizioni, non ci è dato sapere se per avere genuinamente mutato opinione o se sfiniti dalla gogna mediatica nella quale erano incorsi, altri non lo hanno fatto. Altri infine, dopo avere diretto ospedali, o reparti, nel periodo della massima emergenza, come Matteo Bassetti, o Alberto Zangrillo, per avere testimoniato che la reale situazione ospedaliera non è quella descritta dai media sono stati tacciati di negazionismo. Querele da parte dell’associazione autodenominatosi “Patto Trasversale per la Scienza”, e task force contro le supposte fake news, si sono attivate a censura delle opinioni professionali discordanti.

Quale che ne sia l’opinione a riguardo, tutti ricorderanno la situazione appena descritta. Nuovamente, non ci è dato sapere cosa abbia motivato una comunicazione così poco aperta a un genuino confronto. Nella prospettiva della presente analisi è tuttavia facilmente rilevabile che la polarizzazione dell’informazione, casuale o indirizzata che sia, è funzionale a un eventuale intento di manipolazione dell’opinione pubblica. Una celebre frase attribuita a Joseph Goebbels, sebbene probabilmente non sua, recita che “ripetendo una bugia cento, mille, un milione di volte, diventerà una verità”. Poco importa chi l’abbia realmente scritta, giacché la sua utilità si esaurisce nel riassumere un principio certamente vero. La costruzione della “percezione della realtà”, la formazione delle opinioni, dipende in gran parte dai riferimenti disponibili, dalla loro frequenza, dal credito riscosso tra i nostri simili. Le atrocità (non solo nella Germania nazista) ispirate dai principi eugenetici, sono state possibili unicamente perché questi ultimi sono stati creduti principi scientifici da una parte dell’allora comunità scientifica, sostenuti dalla politica di alcuni paesi, ossessivamente ripetuti dagli organi di informazione, e in tal modo accolti da larghe parti della popolazione. Dovremmo essere ampiamente edotti sui rischi di un’informazione polarizzata e, fosse solo per principio di precauzione, esigere un dibattito mediatico più equilibrato.

L’etichettatura del dissenso e l’incitamento all’odio

Invece, le opinioni divergenti, non solo di professionisti, medici, biologi, psicologi, filosofi, o giuristi che siano, ma anche quelle dei comuni cittadini che hanno trovato più convincenti le loro argomentazioni che non quelle ufficiali, o comunque maggiormente diffuse, sono perlopiù etichettate negativamente e con ciò liquidate dal pubblico dibattito. L’appello alla libertà di scelta su temi significativi della propria esistenza subisce l’etichetta di “No-Vax”, “No-Mask” o simili; ogni tentativo di ridimensionare l’allarme riconducendolo a diverse interpretazioni dei dati ufficiali subisce l’accusa di “negazionismo”; ogni ipotesi che alcuni aspetti della gestione non appaiano sufficientemente trasparenti e convincenti è tacciata di “complottismo”, o perfino bollata di “terrapiattismo” (come se c’entrasse qualcosa). Sarebbe tuttavia sufficiente ascoltare le affermazioni di chi richiede la libertà di scelta per scoprire che l’etichetta è impropria, giacché il rifiuto è rivolto all’obbligatorietà, non alla misura sanitaria. Basterebbe anche solo affacciarsi agli scritti dei principali autori di riferimento del cosiddetto “complottismo”, per accertarsi personalmente che non vi è riferimento alcuno a ipotesi terrapiattiste, che pure esistono ma riguardano pochi autori, guardati dai primi con altrettanto sospetto di quello giustamente nutrito nei confronti di tali ipotesi dai più.

Sull’uso dei termini “negazionista” e “complottista” invece non mi sento di esprimermi meglio di quanto abbia già fatto il già citato Giorgio Agamben, giudicando tale etichettatura “infame”. Ne riporto pertanto alcuni estratti:

Sul [negazionismo] non vale la pena di spendere troppe parole, dal momento che, mettendo irresponsabilmente sullo stesso piano lo sterminio degli ebrei e l’epidemia, chi ne fa uso mostra di partecipare consapevolmente o inconsapevolmente di quell’antisemitismo tuttora così diffuso tanto a destra che a sinistra della nostra cultura. Come suggeriscono amici ebrei giustamente offesi, sarebbe opportuno che la comunità ebraica si pronunciasse su questo indegno abuso terminologico.

Vale invece la pena di soffermarsi sul secondo termine, che testimonia di un’ignoranza della storia davvero sorprendente. Chi ha familiarità con le ricerche degli storici, sa bene come le vicende che essi ricostruiscono e raccontano sono necessariamente il frutto di piani e azioni molto spesso concertati da individui, gruppi e fazioni che perseguono con ogni mezzo i loro scopi. […] Come sempre nella storia, anche in questo caso vi sono uomini e organizzazioni che perseguono i loro obiettivi leciti o illeciti e cercano con ogni mezzo di realizzarli ed è importante che chi vuole comprendere quello che accade li conosca e ne tenga conto. Parlare, per questo, di un complotto non aggiunge nulla alla realtà dei fatti. Ma definire complottisti coloro che cercano di conoscere le vicende storiche per quello che sono è semplicemente infame. (Agamben, 2020b).

Indubbiamente l’assiduo ricorso a tali etichette non ha motivazioni scientifiche, poiché chiunque abbia anche solo delle minime basi di epistemologia sa bene che la vera scienza si basa sui dubbi Tangocci, 2020a), non sul tentativo di ridicolizzare le affermazioni non gradite. Appare inoltre ben poco coerente con i principi democratici del diritto alla libertà di espressione e decisamente più funzionale ai principi sintetizzati nella ben nota locuzione latina “divide et impera”. Ancor più alla luce delle recenti affermazioni di un rappresentante di primo piano del partito attualmente alla maggioranza, che lo hanno portato a ricevere una denuncia per istigazione alla rivolta11 popolare nei confronti dei cittadini che manifestano il loro dissenso con le misure intraprese.

La comunicazione istituzionale

Come noto, soprattutto nel primo periodo emergenziale, si sono susseguiti a ritmo incessante, decreti del presidente del consiglio dei ministri, decreti ministeriali, ordinanze dei presidenti delle regioni, delle province autonome, e finanche da parte dei sindaci dei più piccoli comuni. In virtù del dichiarato stato di emergenza, e nonostante i dubbi di legittimità espressi perfino da un giudice emerito della Corte Costituzionale12, per i cittadini sono venuti meno alcuni dei diritti esplicitamente affermati da norme di rango superiore. Perfino i cittadini che ritengono, e ritenevano, perfettamente legittime e doverose tali misure senza precedente storico, si sono tuttavia dovuti confrontare con la difficoltà di capire cosa gli fosse o meno concesso fare. A titolo di esempio, tra i tanti possibili, la definizione di “congiunti” che ha richiesto interminabili discussioni su chi fossero finché, sia pure mantenendo alcune vaghezze, non è stato specificato nelle FAQ ufficiali. Eppure, nel caso ad esempio, sarebbe stato sufficiente ricorrere da subito anche solo alla padronanza della lingua italiana garantita da ogni percorso di studio, per evitare ambiguità; né sembra essere soddisfatto il principio di tassatività. Al contempo, la comunicazione ai cittadini di quali fossero i diritti residui che potevano esercitare, è giunta a ricorrere a mezzi tutt’altro che istituzionali come la diretta Facebook.

La fretta, è risaputo, è una cattiva consigliera. Nondimeno appare strano che anche, e soprattutto, in una situazione di emergenza, le direttive ufficiali fossero così difficilmente comprensibili. Che l’efficacia di una direttiva volta a fronteggiare uno stato di pericolo, o supposto tale, sia direttamente proporzionale alla sua probabilità di essere immediatamente compresa e eseguita è cosa ben nota. Ogni governo, e in questo il nostro non fa eccezione, ha dato prova di saper essere chiaro e conciso in molte occasioni, pertanto è difficile immaginare perché a fronte di una situazione ritenuta di estremo allarme, nella quasi totale mancanza di opposizione politica, e valendosi di esperti, commissioni e task force, il risultato sia stato tanto confuso. Anche a tal proposito non posso che limitarmi a constatare che il disorientamento derivante sarebbe funzionale ad un ipotetico potere che volesse alimentare lo stato di allerta e sfruttarlo per indirizzare l’opinione pubblica in una qualche direzione voluta.

Conclusioni

Mi fermo qui, senza addentrarmi nella valutazione di aspetti di ordine medico o giuridico, come le motivazioni soggiacenti il ritardo nelle autopsie, l’attendibilità dei tamponi, la reale necessità, o anche solo utilità, di scelte draconiane come il confinamento in casa di milioni di cittadini sani, o la costituzionalità di tale scelte, la cui valutazione non è di mia competenza, come invece lo è l’analisi della comunicazione effettuata. Limitatamente a tale proposito, posso tranquillamente affermare, e spero di averne sufficientemente illustrato le argomentazioni soggiacenti, che, relativamente alla comunicazione inerente il Covid-19, molti aspetti suggeriscono che una manipolazione possa effettivamente esserci stata, poiché, se così fosse, si sarebbe molto probabilmente valsa proprio delle strategie consapevolmente o inconsapevolmente mese in atto dai media e dalle istituzioni in questi mesi.

Come premesso non è mio compito indagare se tale improbabile congiuntura di eventi sia puramente casuale, o consapevolmente manipolata. Per quanto mi sovvenga una frase attribuita a Giulio Andreotti, che recita: “a pensar male degli altri si fa peccato ma spesso ci si indovina.” Nondimeno le mie competenze, e con esse il mio compito, si esauriscono col fornire queste indicazioni a chi per professionalità e pertinenza è chiamato a vegliare affinché sussistano tutti i requisiti per una reale partecipazione democratica. Mi auguro pertanto che i giornalisti investigativi e i magistrati, vorranno approfondire e delucidarci in proposito.

Riferimenti Bibliografici

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1Art. 603 cod. pen., dichiarato incostituzionale dalla Corte Costituzionale con la sentenza. n° 96/1981 del 08/06/1981.

2Art. 610 cod. pen.

3https://www.nytimes.com/packages/pdf/national/13inmate_ProjectMKULTRA.pdf

4https://www.cia.gov/library/center-for-the-study-of-intelligence/kent-csi/vol44no4/html/v44i4a07p_0021.htm

5https://www.apa.org/monitor/nov02/cults

6https://www.gov.uk/government/groups/independent-scientific-pandemic-influenza-group-on-behaviours-spi-b#coronavirus-covid-19-pandemic

7https://clinicaltrials.gov/ct2/show/NCT04460703

8Legge 28 marzo 2001, n° 145.

9https://www.medicinadisegnale.it/?p=1183

10https://off-guardian.org/2020/03/24/12-experts-questioning-the-coronavirus-panic

11https://www.iltempo.it/politica/2020/09/06/news/davide-barillari-denuncia-contro-nicola-zingaretti-negazionisti-diffamazione-istigazione-rivolta-24438891/

12https://www.ilgiornale.it/news/politica/giudizio-cassese-su-conte-primo-decreto-era-fuori-legge-1854156.html




Post scritto da una IA inganna 26.000 persone

Post scritto da una IA inganna 26.000 persone

E raggiunge il primo posto su Hacker News.

All’inizio del 2019 destò una certa attenzione la presentazione di Gpt-2, un’intelligenza artificiale creata da OpenAI e capace di generare testi di qualità sufficiente da sembrare scritti da un essere umano.

In piena paranoia da fake news, Gpt-2 venne subito bollato come il generatore perfetto di notizie false, tanto che i suoi creatori decisero di rendere nota soltanto una parte del programma, e non il suo intero codice.

Nei mesi intercorsi da allora Gpt-2 si è evoluto in Gpt-3, che rispetto al predecessore è capace di creare testi ancora più simili a quelli che produrrebbe un autore umano.

A differenza di quanto fatto per Gpt-2, per Gpt-3 i suoi creatori hanno deciso di adottare un modello che non tenesse segreto il frutto dei loro sforzi ma allo stesso tempo non lo rendesse disponibile al grande pubblico: la IA è stata pertanto messa a disposizione soltanto dei ricercatori che facciano richiesta di accesso alla beta privata.

Così ha fatto Liam Porr, studente universitario, il quale ha ideato un esperimento con cui ha fornito la prova circa la qualità dei testi di Gpt-3.

Porr ha usato l’intelligenza artificiale per scrivere un post che è stato tanto apprezzato da arrivare al primo posto su Hacker News. Soltanto pochi lettori hanno capito che era stato generato da un programma e, anzi, quanti l’hanno pubblicamente sostenuto nei commenti sono stati zittiti dagli altri, almeno fino a che il lavoro di Porr non è diventato di dominio pubblico.

Tale lavoro non è stato estenuante. «In realtà è stato facilissimo» – ha raccontato lo studente – «ed è questa la parte che fa paura».

Gpt-3 non è né può essere creativo nel senso di essere capace di dare vita a idee completamente nuove. Viene invece addestrato assorbendo un’enorme mole di dati, che analizza rilevando le parole chiave, le associazioni tra di esse, le espressioni più usate e via di seguito.

Poi, partendo da quanto ha digerito produce un nuovo testo, che chiaramente potrà essere soltanto una rielaborazione del materiale di partenza, esposto però in maniera abbastanza convincente da poter passare per qualcosa di nuovo.

Gpt-3 «È bravo a scrivere con proprietà di linguaggio, ma non lo è molto nel seguire logica e razionalità» commenta ancora Porr il quale, conscio di questi limiti, per il suo post di prova ha deciso di adottare un argomento per il quale non sarebbe servita una logica stringente: produttività e auto-aiuto.

Il tentativo è stato evidentemente un successo, anche perché fino alla rivelazione finale i pochi che avevano sollevato dubbi sull’origine del testo hanno immediatamente ricevuto voti negativi dagli altri, fenomeno che peraltro può dirla lunga sulla potenza del conformismo verso l’idea maggioritaria e la sfiducia verso chi solleva dubbi.

gpt 3 downvote

È questo un punto da tenere a mente sopratutto ora che Gpt-3 ha dimostrato come sia possibile ingannare un buon numero di persone (il post ha ricevuto 26.000 visualizzazioni in poche ore, e ciò prima dello svelamento), in quanto come già accadde per Gpt-2 si è riaffacciato lo spettro della possibilità di generare molta disinformazione con pochissima fatica.

E, a un livello forse più basso ma sempre problematico, sistemi come Gpt-3 possono essere usati per generare grandi quantità di contenuti clickbait privi di qualsiasi vero contenuto informativo, mandando alla lunga in crisi da un lato la produzione di contenuti nel web (dato che diventa difficile distinguere ciò che è originale da ciò che non lo è) e dall’altro la remunerazione tramite pubblicità (poiché sarà forse necessario provare ai network pubblicitari di ospitare solo contenuti scritti da persone, e non da robot).

«È possibile» – commenta Porr – «che ci sia un’inondazione di contenuti mediocri, dato che le maglie dei filtri sono ormai tanto larghe. Penso che il valore dei contenuti online calerà parecchio».

OpenAI, intanto, non ha commentato l’operato di Porr. «Magari sono un po’ seccati da quanto ho fatto» ipotizza il ragazzo. «Insomma, è una cosa un po’ sciocca».