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RIGENERAZIONE URBANA, L’IMPASSE DI MILANO

RIGENERAZIONE URBANA, L'IMPASSE DI MILANO

Il “teaser” della videoinchiesta

“Rigenerazione urbana, l’impasse di Milano”: Il video di 2 minuti con gli Highlights della videoinchiesta di Max Rigano

RIGENERAZIONE URBANA: L’IMPASSE DI MILANO – LA VIDEOINCHIESTA

Decine di cantieri bloccati per una indagine penale della Procura di Milano, e molti altri ” a rischio”. Numerosi interventi di rigenerazione urbana nel territorio cittadino sono stati approvati dal Comune di Milano, e risultano perfettamente in regola con le norme urbanistiche comunali e regionali. Ma la Procura interpreta diversamente la norma, e sostiene che siano tutti abusi edilizi. Gli investimenti immobiliari in città sono ora tutti fermi, perchè in base a questa interpretazione, altre centinaia, forse migliaia di interventi eseguiti in questi anni risulterebbero “illegali”. Un vero e proprio “conflitto tra istituzioni”, ma in mezzo ci sono imprenditori, investitori, professionisti, maestranze, proprietari, e anche funzionari comunali, indagati penalmente per aver fatto nient’altro che il proprio lavoro…

Il nostro inviato, Max Rigano ha cercato di fare chiarezza su questo intricato caso, intervistando i protagonisti e gli esperti in materia.

A seguire, il video integrale dell’inchiesta (42 minuti)

RIGENERAZIONE URBANA A MILANO: IL TALK

Il talk, introdotto da Luca Yuri Toselli, direttore editoriale di Creatoridifuturo.it e moderato da Massimiliano Rigano, autore dell’inchiesta, si è svolta online su Zoom Venerdì 13 settembre, h. 11.00 – 12.30.

Hanno partecipato (in odine alfabetico): Federico Aldini, architetto, Presidente Ordine degli Architetti di Milano, Andrea Bezziccheri, imprenditore, Gerardo Ghioni, architetto, presidente Metropolis, Giuseppe Marinoni, architetto, docente Politecnico di Milano, Federico Filippo Oriana, avvocato, Presidente – CEO ASPESI Unione Immobiliare, Andrea Soliani, avvocato

Ed ecco il video integrale del talk (90 min.)


Aggiornamento dell’11 novembre 2024

Recentemente pubblicato su Il Foglio, questo corsivo di Ermes Antonucci ricostruisce con magistrale sintesi l’iter giudiziario in corso, e commenta con lucida severità l’atteggiamento dei PM protagonisti e le loro conseguenze… buona lettura




L’Impatto dei principi fondamentali del Reputation management sulla costruzione di un “lovemark” nel settore delle concessionarie d’auto: studio del caso Grassi Auto

Corso di laurea in Comunicazione e Digital Media

Anno Accademico 2023/2024

INTRODUZIONE

Negli ultimi decenni il concetto di reputazione aziendale ha assunto un ruolo sempre più cruciale nel panorama commerciale globale. La capacità di gestire e consolidare la reputazione di un’azienda non solo influenza la sua immagine pubblica, ma può anche determinare il suo successo a lungo termine.
La presente tesi si propone di esaminare il rapporto tra i principi fondamentali del reputation management e la creazione di un “lovemark” nel settore delle concessionarie d’auto, con particolare riferimento al caso di studio di Grassi Auto.
A tal fine si ritiene necessario, innanzitutto, definire il concetto di reputazione. “La reputazione consiste nel grado di allineamento tra immagine e identità, e si costruisce nel tempo attraverso l’interazione con tutti gli stakeholder. Non è una caratteristica propria dell’impresa, ma un attributo di essa, e, in quanto tale, le viene riconosciuta e certificata dall’esterno”.1
Il focus primario di questa ricerca è quello di analizzare come i principi del reputation management vengano applicati per avviare il processo di trasformazione della propria immagine aziendale in quella di un “lovemark” un marchio amato e adorato dai clienti. Questo processo implica l’utilizzo di una serie di strategie mirate che vanno oltre la semplice pubblicità e si estendono alla gestione delle relazioni con i clienti, alla cura dell’immagine online e offline e all’attenzione alla realtà locale.
Grassi Auto è un’azienda a gestione familiare che cerca di distinguersi nel mercato automobilistico locale; operativa da oltre due decenni con sede a Sassocorvaro Auditore (PU), la concessionaria pone particolare dedizione alla qualità dei prodotti, all’esperienza dei suoi venditori e alla personalizzazione dei prodotti e dei servizi in base alle esigenze dei clienti.
Una delle principali iniziative intraprese dal team di comunicazione di Grassi Auto è stata l’adozione dei social network come strumento di marketing e comunicazione a partire dal 2020. Attraverso una serie di sperimentazioni mirate, il team cerca di utilizzare efficacemente le piattaforme digitali per promuovere i veicoli e interagire con la base di clienti affezionati al brand e non, in modo più diretto e coinvolgente. Inoltre, nel 2022, è stata introdotta sul mercato una selezione di veicoli usati che offrono standard di qualità pari a quelli dei veicoli nuovi, garantiti dalla casa madre e con un chilometraggio limitato. Questa iniziativa ha contribuito a consolidare la fiducia dei clienti nell’azienda e a soddisfare le loro esigenze di affidabilità e sicurezza. Parallelamente, nel 2023, è stato lanciato il sito web ufficiale www.grassiauto.com al fine di rafforzare la presenza online e offrire ai clienti un’esperienza di navigazione intuitiva e informativa. Inoltre sono stati effettuati investimenti nella ristrutturazione della sede per creare un ambiente accogliente e familiare dove i clienti si sentono a proprio agio e i veicoli vengono valorizzati.
Il percorso di trasformazione di Grassi Auto verso il raggiungimento dello status di “lovemark” è tutt’ora in corso, ma il presente studio si propone di esaminare criticamente le strategie adottate dall’azienda fino ad oggi e di valutarne l’impatto sulla percezione del marchio da parte dei clienti e del pubblico in generale. Attraverso un’analisi approfondita e una valutazione critica, si cercherà di trarre conclusioni significative e proporre raccomandazioni pratiche per il miglioramento continuo della reputazione aziendale e la creazione di valore a lungo termine per l’azienda.

1 L. Poma, G. Grandoni, Il reputation management spiegato semplice. Con un focus sulla misurazione della reputazione, Lexis, Torino 2021


Il Testo integrale della Tesi (34 pagine, in lingua italiana, formato .pdf) è disponibile a questo link




Harley-Davidson cede ai blogger di destra e cancella le politiche aziendali per l’inclusività: “Ne siamo rattristati, ma non vogliamo spaccare la nostra comunità”

Harley-Davidson cede ai blogger di destra e cancella le politiche aziendali per l’inclusività: “Ne siamo rattristati, ma non vogliamo spaccare la nostra comunità”

CHICAGO – Harley-Davidson non si preoccuperà più di assumere dipendenti con background etnici e culturali diversi. L’iconica azienda produttrice di motociclette con sede e Milwaukee, Winsconsin – la leggenda immortalata dai film on the road Easy Rider – ha infatti ceduto al bersagliamento di commentatori e influencer dell’ultra-destra che avevano lanciato il boicottaggio: e cancellato tutti i suoi programmi di inclusione.

Non solo dunque non ci saranno più quote di assunzioni destinate a minoranze o a donne. Sono stati cancellati pure gli “obiettivi di spesa” da investire in aziende che appartengono appunto a minoranze o comunque a figure con background alternativi. Harley ha deciso anche di tagliare i ponti con l’Human Rights Campaign, che assegna un punteggio alle aziende in base alle loro politiche, pratiche a chi segue determinati standard. E addirittura cancellerà qualsiasi “contenuto socialmente motivato” dai suoi materiali di formazione per i dipendenti.

Una mossa significativa, che arriva dopo mesi di pressione via social avviate dell’influencer di destra Robby Starbuck, nemico giurato delle politiche inclusive, che già aveva lanciato analoghi boicottaggi contro i trattori della John Deere e Tractor Supply del Tennessee. A indispettire l’influencer è vedere come marchi che a suo dire rappresentano i valori americani, abbraccino un’idea di America più ampia.

«Siamo rattristati dalla negatività con cui sui social media sono stati accolti i nostri programmi. Non intendiamo dividere in alcun modo la comunità Harley-Davidson» scrive l’azienda. Limitandosi ad auspicare che «avere un’ampia base di dipendenti e clienti di origini differenti sia un bene per gli affari. Tutti dovrebbero provare la gioia di guidare le nostre motociclette». Dismessa l’agenda “Woke” – sì, insomma la scelta di essere consapevoli alle ingiustizie sociali – ora bisognerà anche capire se rimarrà ai vertici dell’azienda il CEO Jochen Zeitz che l’aveva messa in atto. Di recente l’azienda aveva donato denaro fondi a campagne LGBTQ+, contribuendo a fondare la Camera di commercio LGBTQ+ del Wisconsin, e organizzando corsi di formazione per i dipendenti.

L’azienda d’altronde, nel frattempo una scelta di campo, l’ha già fatta: figurando fra gli sponsor della Convention repubblicana tenutasi qualche giorno fa nella città dove la celebre moto è nata nel 1903. Ma negli ultimi anni, i tradizionali punti di forza di Harley, compresa la sua squisitissima americanità, sono diventati suoi punti deboli. L’avvento di Donald Trump e il suo pallino per il Made in Usa sembrava essere un’ottima notizia per Harley: e infatti i suoi dirigenti furono invitati alla Casa Bianca meno di un mese dopo l’insediamento di Trump. Ma dopo l’inizio delle guerre commerciali del tycoon, le cose si sono complicate.

Quando nel 2018 Trump impose tariffe del 25 per cento sull’acciaio europeo, la risposta europea travolse anche Harley-Davidson. Le tariffe avrebbero reso il prezzo di quelle moto impossibile in Europa: ma solo se costruite in America. Fu così che Harley iniziò a produrre più moto in Thailandia, aggirando le tariffe. Proprio l’opposto di quel che Trump avrebbe voluto. Finì che Harley passò dall’essere il marchio preferito da Trump, al suo nemico commerciale. Nel tempo le cose si sono appianate. A patto di non prendere posizioni troppo liberal.




Finti progetti green in Cina per avere “sconti” sulle emissioni di CO2: in Germania scoppia lo scandalo dei petrolieri. “Truffa da 623 milioni”

Finti progetti green in Cina per avere “sconti” sulle emissioni di CO2: in Germania scoppia lo scandalo dei petrolieri. “Truffa da 623 milioni”

Pressata da un’interrogazione parlamentare del gruppo Cdu/Csu, la ministra dell’Ambiente tedesca Steffi Lemke (Verdi), ha ammesso carenze nei controlli sui progetti per il recupero della CO2 in Cina, parlando di un caso di grave criminalità ambientaleuna truffa che ricorda quella di cui in Italia è accusata la vecchia gestione dell’ex Ilva. Vediamo di che si tratta. Le aziende petrolifere che operano sul mercato tedesco devono mischiare alla benzina dei distributori anche biocarburanti, per abbattere la loro impronta climatica. In alternativa, dal 2020, possono ottenere certificati per progetti di tutela del clima, con cui compensare le emissioni prodotte in Germania fino all’1,2% della propria quota obbligatoria di riduzione di gas serra, e che possono essere anche venduti ad altre aziende. Quasi tutti i petrolieri hanno quindi avviato progetti in Cina: ma molti di questi, è venuto fuori, esistevano solo sulla carta. Per ottenere l’autorizzazione è bastato presentare documenti falsi all’Agenzia federale per l’ambiente, ente controllato dal ministero: i controlli in loco, infatti, erano affidati a società di certificazione esterne. E l’emittente pubblica ZdF ha verificato che esisteva un monopolio di fatto: circa il 70% dei progetti avviati in Cina è stato convalidato e verificato da due agenzie, la Verico con sede in Baviera (41 progetti) e la Müller-BBM in Nord-Reno Vestfalia (38 progetti).

Così, su 69 progetti di riduzione certificata delle emissioni, quaranta dovranno essere ricontrollati dall’Agenzia, che ha presentato denuncia alla Procura di Berlino per dieci casi in cui emergono indizi di truffa. I segnali del raggiro sono venuti a galla in modo consistente verso la fine dell’anno scorso, e il ministero ha avuto notizia del primo caso sospetto ad agosto 2023. Lemke però afferma di essere stata informata solo a maggio di quest’anno e rivendica di aver reagito rapidamente, convincendo il governo a rinunciare prima del previsto al meccanismo, mentre l’opposizione l’accusa di passività. Secondo la ministra invece la colpa è dei governi passati, che non hanno previsto adeguati meccanismi di controllo: “Abbiamo ereditato un sistema soggetto a errori”, ha dichiarato. Ad ogni modo, dal 1° luglio sono stati bloccati tutti i progetti in corso e la presentazione di nuovi: secondo ZdF, il valore della truffa tocca i 623 milioni di euro.

Dopo mesi di ricerca l’emittente ha denunciato a maggio di aver individuato almeno una dozzina di frodi in cui vecchi impianti sono stati spacciati come nuovi e progettati in difesa del clima. La sede di uno di essi, del valore stimato di circa ottanta milioni, era un grosso pollaio abbandonato vicino a Pechino, mentre il progetto, promosso dalla Shell, avrebbe dovuto comprendere 61 caldaie clima-neutrali. Il colosso energetico dichiarò di aver abbandonato il progetto dal 2021 e che comunque tutto era stato verificato e validato in modo indipendente. “Non possiamo verificare se abbiamo una documentazione completamente falsificata, se manca un controllo visivo sul posto”, aveva commentato allora il presidente dell’Agenzia per l’ambiente Dirk Messner. Il meccanismo, infatti, si basa sulla fiducia nei verificatori e nei validatori, che successivamente e in modo indipendente l’uno dall’altro dovrebbero valutare un progetto prima dell’approvazione.

Lo scandalo è scoppiato quando l’Agenzia ha ricevuto una lettera di una società petrolifera cinese, che denunciava come cinque dei suoi impianti fossero stati presentati come progetti a tutela del clima in Germania. L’ente ha quindi presentato una denuncia contro ignoti, appoggiandosi a uno studio legale internazionale con sede in Cina. Le verifiche sono ancora all’inizio, ma un dirigente responsabile per le certificazioni è già stato sospeso e l’iter di due progetti è stato bloccato, mentre in altri quattro casi le domande sono state ritirate dagli stessi richiedenti. Il commercio dei certificati, ha ammesso il ministero, comunque continua e non può essere fermato, seppure le aziende che li acquistano corrano il rischio che possano essere dichiarati falsi in seguito: nel 2023 il giro d’affari ha raggiunto i 18,4 miliardi di euro, registrando un aumento del 40% rispetto al 2022. La Csu, con la sua responsabile ambiente Anja Weisgerber, accusa la ministra Lemke di responsabilità politica per la truffa, mentre il collega della Cdu Christian Hirte sottolinea come il vero danno sia piuttosto la mancata realizzazione dei progetti a tutela del clima.




I «buchi» della Consob sul fallimento Bio-On

I «buchi» della Consob sul fallimento Bio-On

Poteva la Consob intervenire prima, sospendere il titolo, ed evitare che su una società controllata si innescassero il domino di notizie vere e panico da mercato che poi hanno portato al fallimento di Bio-On, la start up che aveva il sogno di realizzare plastica
biodegradabile? Ha fatto la stessa Consob le necessarie verifiche sulla veridicità e le motivazioni per le quali Quintessential, il fondo attivista di Gabriele Grego, ha pubblicato con tanto di video in rete (fine luglio del 2019) un report dove descriveva l’unicorno di Marco Astorri e Guido Cicognani come una scatola vuota? Quali responsabilità (ammesso che ce ne siano) sono

addossabili alla Consob e quali invece addebitabili alla Borsa Italiana?

A questa e ad altre domande sta cercando di rispondere un procedimento penale partito dalla Procura di Bologna, nel corso del quale è stato sentito Paolo Marchionni, che all’epoca dei fatti (nel 2019 ma anche adesso) era direttore responsabile dell’ufficio informazione mercati della Consob, quello che si occupa anche di abusi di mercato e ha seguito l’indagine.

Marchionni, per esempio, ammette di non aver trasmesso il report (che gli era stato anticipato il giorno prima della pubblicazione) a Borsa Italiana. Eppure il dossier poteva avere rilevanza nell’ambito dei poteri di vigilanza sul mercato Aim dove era quotata Bio-On. Così come il manager dell’authority alla domanda su eventuali indagini portate avanti per appurare la correttezza delle informazioni diffuse dal fondo Quintessential e su Gabriele Grego risponde: «Io personalmente non ho fatto indagini, non so però se l’ufficio abusi di mercato abbia effettuato ulteriori accertamenti sullo studio di Quintessential». Per la cronaca, a capo dell’ufficio c’era Maria Antonietta Scopelliti che nonostante la richiesta della Procura bolognese non è riuscita ad essere presente.

Mentre replica con un «non mi ricordo segnalazioni di questo tipo» alle richieste di chiarimenti sugli appelli degli amministratori di Bio-On, negli incontri di quelle drammatiche settimane (dal 24 luglio al 24 ottobre 2019) di sospendere il titolo. «In condizioni di parità informativa», evidenzia, «la Consob non valuta se sospendere il titolo perché c’è uno studio come ce ne sono tanti sulle società, ripeto ne diffondono a decine in ogni seduta e l’analista risponde di quello che scrive, quindi ripeto noi abbiamo fatto una valutazione proprio all’istante sullo studio, se fosse in qualche modo ben supportato, documentato, non ci siamo posti il problema di valutare la sospensione perché c’era uno studio». Eppure dalle testimonianze di un dipendente Bio-On, presente agli incontri con Consob, risulta che la richiesta di sospensione fosse stata esplicitamente avanzata all’authority.«Noi avevamo chiesto a Consob di sospendere il titolo finché non fosse stata fatta chiarezza e gli abbiamo anche chiesto di creare nel più breve tempo possibile una commissione», sottolinea, l’investor relator Lorenzo Foglia.

Tanti quindi i punti poco chiari della vicenda. E fare un passo indietro per ripercorrerla può aiutare. Bio-On nasce da un’intuizione dei due fondatori, Marco Astorri e Guido “Guy” Cicognani, che nel 2007 volano alle Hawaii per acquistare il brevetto del Pha, un gruppo di polimeri biodegradabili che ha le caratteristiche per diventare l’alternativa sostenibile alle plastiche tradizionali a base di petrolio. Cresce esponenzialmente nel giro di una dozzina d’anni, il modello di business si basava sulla creazione di proprietà e la commercializzazione di brevetti e marchi, nell’arco dei quali raggiunge una capitalizzazione di un miliardo e 300 milioni. E muore, come detto, nel giro di pochi mesi a partire dal luglio del 2019 dopo le accuse del finanziere Gabriele Grego che definisce Bio-On un «bluff», una «nuova Parmalat».

Oggi c’è un nuovo capitolo. La società è stata rilevata da dalla piemontese Maip. Gli impianti sono in fase di ripartenza. E qualche settimana fa un tribunale ha annullato la sanzione inflitta all’epoca dalla Consob, certificando che «non ci fu manipolazione del mercato».

Quindi torniamo al procedimento penale, al quale ha partecipato anche il co-fondatore Astorri. Che ha rilasciato delle dichiarazioni spontanee. «…Confermo», ha voluto sottolineare in tribunale, «di essere stato seduto vicino alla Scopelliti (Maria Antonietta all’epoca responsabile della divisione mercati della Consob ndr) in tutti e due gli incontri che sono stati estremamente lunghi e ho chiesto ripetutamente di chiedere come potevamo sospendere il titolo per tutelare gli investitori perché ci sentivamo sotto attacco». Risposta? «Nulla. Mi ha guardato con il viso attonito e non mi ha mai detto né di sì e né di no […] Alzando le braccia e dicendo che ci avrebbe fatto sapere».