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Dagli scaffali di Zara alle discariche del Ghana: il lato oscuro della fast fashion (e dei vestiti che buttiamo)

Dagli scaffali di Zara alle discariche del Ghana: il lato oscuro della fast fashion (e dei vestiti che buttiamo)

Kantamanto è il nome del più grande mercato di vestiti di seconda mano al mondo. Siamo ad Accra, nel Ghana, e qui gli abiti che non indossiamo più finiscono a tonnellate.

Devastato da un rovinoso incendio prime ore del 2 gennaio scorso, che ha distrutto oltre il 60% dei 70mila metri quadrati e lasciato sul lastrico almeno 8mila venditori direttamente colpiti “dal più grande disastro registrato nei 15 anni di vita del mercato”, come dice la ONG Or Foundation, ora una domanda sorge spontanea: non è questa una responsabilità che per lo meno andrebbe condivisa con la feroce industria della moda?

Certo che sì. L’idea iniziale di qualche visionario di fare di Kantamanto il perno di una filiera circolare è miseramente fallita: qui arrivano 60 milioni di capi invenduti e usati che, potenzialmente, possono essere ricollocati sul mercato, ma il 40% finisce dritto nella spazzatura.

 

 
 
 
 
 
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Ti spiego perché il Ghana è diventato una discarica della fast fashion

Lo sapevi che una parte dei vestiti che butti potrebbe finire in Ghana? Questo Paese dell’Africa occidentale è tra le principali destinazioni per gli abiti di seconda mano provenienti dall’Europa, con l’Italia tra i maggiori esportatori. Solo nel 2022, dal nostro Paese sono state inviate in Ghana quasi 200mila tonnellate di indumenti usati.

Ma non si tratta solo di vestiti di seconda mano. Proprio il mercato di Kantamanto, il più grande centro di smistamento tessile del Ghana, è sommerso da montagne di capi invenduti provenienti dai giganti del fast fashion come H&M, Zara, Primark e Shein.

Secondo un’indagine di Greenpeace, quasi la metà degli abiti che arrivano qui è inutilizzabile: ogni settimana si riversano nel Paese circa 15 milioni di capi, spesso di scarsa qualità e destinati a diventare rifiuti.

Ne abbiamo parlato qui: Fast fashion, sai che fine fanno i tuoi vestiti usati? Ogni settimana 15 milioni vanno a inquinare tutto il Ghana

Cosa succede a questi vestiti? Purtroppo, gran parte finisce in discariche abusive o viene bruciata nei lavatoi pubblici, con conseguenze devastanti per aria, acqua e suolo. Il Ghana è ormai considerato una delle più grandi discariche di rifiuti tessili al mondo, e solo un terzo degli abiti importati riesce a essere rivenduto o riciclato. Il resto diventa un problema ambientale e sanitario per le comunità locali.

Il lato oscuro della fast fashion

La fast fashion ha trasformato il modo in cui acquistiamo e consumiamo abbigliamento. Con collezioni che cambiano in continuazione e prezzi stracciati, i marchi di questo settore incoraggiano un consumo usa e getta che ha un impatto enorme sul Pianeta. Secondo la Commissione europea, il comparto tessile è tra i più inquinanti al mondo, con il quarto impatto più alto su ambiente e cambiamenti climatici.

I numeri parlano chiaro: ogni cittadino europeo butta via in media 11 kg di vestiti all’anno, e ogni secondo un intero camion di abiti viene smaltito in discarica o incenerito. Il riciclo? Praticamente inesistente: meno dell’1% degli indumenti usati viene effettivamente riciclato.

Dietro la moda low cost si nasconde un sistema che produce scarti in quantità insostenibili e scarica il peso di questo spreco su Paesi come il Ghana. Forse è arrivato il momento di ripensare il nostro modo di acquistare vestiti.




B Lab pubblica i nuovi standard per la certificazione B Corp

B Lab pubblica i nuovi standard per la certificazione B Corp

“In un momento in cui altri leader fanno un passo indietro, il business deve guidare il progresso” ha affermato Clay Brown, co-Direttore Esecutivo di B Lab Global. “Non si tratta di un semplice aggiornamento, ma di una rivisitazione completa dell’impatto aziendale per rispondere alle sfide del nostro tempo. I nuovi standard di B Lab possono servire come tabella di marcia per la leadership sulle questioni sociali e ambientali quando è più necessario”.

Con la community delle B Corp in procinto di raggiungere un traguardo significativo, ovvero un gruppo di quasi 10.000 aziende in 100 Paesi, che impiegano quasi 1 milione di lavoratori in 160 settori, i nuovi standard di B Lab, giunti alla settima evoluzione, spingono le aziende a scalare l’impatto verso obiettivi sociali e ambientali condivisi, fornendo alle aziende chiarezza su come intraprendere un’azione significativa e tangibile sulle questioni che riguardano le persone e il pianeta e alzando l’asticella per tutte le imprese.

Dopo aver coinvolto diversi stakeholder attraverso un processo di consultazione pluriennale, B Lab ha introdotto requisiti che tutte le B Corp devono soddisfare in sette argomenti di impatto e abbandona l’assegnazione di un punteggio cumulativo. Questo creerà la possibilità per le B Corp di gestire il loro impatto in modo olistico, aumentando al contempo la trasparenza e la chiarezza per il pubblico.

“Dopo quattro anni, due consultazioni pubbliche e 26.000 feedback da parte di aziende, pubblico ed esperti, siamo fiduciosi che i nuovi standard siano chiari, ambiziosi e realmente in grado di alzare il livello delle aziende in tutto il mondo” ha affermato Judy Rodrigues, Direttrice degli Standard di B Lab Global. “Non vediamo l’ora di collaborare con la nostra comunità per abbracciare questi nuovi standard e creare uno slancio per il cambiamento dei sistemi”.

Le B Corp devono soddisfare gli standard di performance dei seguenti sette argomenti d’impatto:

  • Purpose & Stakeholder Governance: l’azione ha lo scopo definito e integrare la governance degli stakeholder nel processo decisionale, creando strutture di governance per monitorare lo scopo, le prestazioni sociali e ambientali.
  • Climate Action: sviluppo di un piano d’azione a sostegno della limitazione del riscaldamento globale a 1,5°C e, per le aziende più grandi, includere le emissioni di gas serra e obiettivi basati sulla scienza (science-based).
  • Human Right: comprensione dell’impatto negativi delle proprie operazioni e della catena del valore sui diritti umani e adozione di misure per prevenire e mitigare gli stessi.
  • Fair Work: Fornimento di posti di lavoro di buona qualità e ottenere culture aziendali positive, con l’implementazione di pratiche salariali eque e l’integrazione del feedback dei lavoratori nel processo decisionale.
  • Environmental Stewardship & Circularity: Valutazione dei propri impatti ambientali e la messa in atto di azioni significative per la riduzione al minimo nelle proprie operazioni e nella catena del valore.
  • Justice, Equity, Diversity & Inclusion: Promozione di ambienti di lavoro inclusivi e diversificati che contribuscono in modo significativo a comunità giuste ed eque.
  • Government Affairs & Collective Action: Impegno negli sforzi collettivi per la promozione un cambiamento sistemico, sostegno delle politiche che creano risultati sociali e ambientali positivi e, per le aziende più grandi, la condivisione pubblica della reportistica fiscale di ciascun Paese.

“In un mercato in continua trasformazione, con aziende sempre più mature e nuove normative, è essenziale che gli standard e il modello B Corp continuino a evolvere e a spingersi oltre, come fanno con coerenza dal 2006” ha dichiarato Francesco Serventi, Evolution Flow Leader di NATIVA, prima B Corp italiana. “Siamo entusiasti di questa notizia e non vediamo l’ora di confrontarci con i nuovi standard, applicandoli su di noi e su tante aziende desiderose di intraprendere un percorso di miglioramento continuo del proprio impatto”.

Mentre le aziende si trovano ad affrontare una crescente complessità normativa e una crescente pressione a ritirarsi dalle iniziative per il clima e la giustizia sociale, i nuovi standard di B Lab forniscono un percorso chiaro per un impegno duraturo. Riconoscendo le pressioni che le aziende devono affrontare oggi, essi incorporano dati e metodologie di altri schemi di certificazione, quadri di riferimento per la sostenibilità e rapporti di divulgazione, tra cui GRISBTi e Fairtrade, consentendo alle aziende di concentrarsi su ciò che conta: operare a beneficio di tutti gli stakeholder.

Sebbene la certificazione B Corp affermi che un’azienda soddisfa elevati standard di performance sociale e ambientale, l’impegno si conferma con il miglioramento continuo da parte dei nuovi standard di B Lab, con le aziende che devono dimostrare il miglioramento dell’impatto nel tempo, compresi i traguardi dopo 3 anni e 5 anni, consentendo ai leader di continuare a guidare progressi significativi durante il loro percorso come B Corp.

“I nuovi standard di B Lab offrono una visione chiara di cosa significhi essere un’azienda rigenerativa e un percorso concreto per generare impatto positivo” ha affermato Elena Pellizzoni, ESG Chief di Flowe Società Benefit. “Grazie al processo di consultazione, integrano le best practice e stimolano le B Corp a misurarsi su scale sempre più ambiziose e a contribuire a un cambiamento sistemico”.




“Direttiva Greenwashing” in vigore, tutto parte dalla definizione di “certificazione”

“Direttiva Greenwashing” in vigore, tutto parte dalla definizione di “certificazione”

Gli aspetti fondamentali della “Direttiva Greenwashing” in vigore

Pubblicata il 6 marzo e in vigore dal 26 marzo 2024 la cd. “Direttiva Greenwashing”, ovvero la direttiva 2024/825/UE (“Responsabilizzazione dei consumatori per la transizione verde mediante il miglioramento della tutela dalle pratiche sleali e dell’informazione”, che modifica la Direttiva 2005/29/Ce sulle pratiche commerciali sleali). 

Quali sono gli aspetti fondamentali della Direttiva (il cui testo, approvato in via definitiva dal Parlamento Ue il 17 gennaio 2024, è già noto da tempo)? 

  • Si chiarisce cosa si intende con sistema di certificazione (o etichetta) ambientale.
  • Si definisce il concetto di “terza parte” (se manca è pratica commerciale sleale).
  • Le nuove etichette private saranno ammesse ma solo se apportano un “valore aggiunto” sul mercato (quindi rispetto a quelle già esistenti.
  • Vengono definite le regole che devono stare alla base della messa sul mercato di nuove certificazioni, altrimenti le certificazioni dovranno essere proibite perché, appunto, lesive della concorrenza leale.

Il panorama normativo in fase di definizione

Ma partiamo dall’inizio. Il quadro normativo delle asserzioni ambientali (cd. green claims) è in fase di definizione e di forte cambiamento. Lo è per effetto di due importanti documenti che si avvicinano al termine del loro iter normativo comunitario. Si tratta della proposta di Direttiva Green Claims [1] del 22/3/2023, che è derivazione (lex specialis) della più ampia proposta di Direttiva responsabilizzazione consumatori, la  direttiva 2024/825/UE pubblicata il 6 marzo e in vigore dal 26 marzo 2024.

ll concetto di partenza è che uno dei maggiori rischi per la libertà di scelta del consumatore e della libera concorrenza tra le imprese, è rappresentato dal greenwashing. I consumatori, con le loro scelte green che devono essere libere e consapevoli, sono i veri motori del cambiamento.
Quindi prima di tutto la Direttiva sulla responsabilizzazione dei consumatori definisce l’elenco delle pratiche commerciali considerate in ogni caso sleali e associate al greenwashing:

  • esibire un marchio di sostenibilità che non sia basato su un sistema di certificazione o non è stabilito da autorità pubbliche;
  • formulare un’asserzione ambientale generica per la quale il professionista non è in grado di dimostrare l’eccellenza riconosciuta delle prestazioni ambientali pertinenti all’asserzione;
  • formulare un’asserzione ambientale concernente il prodotto nel suo complesso quando riguarda soltanto un determinato aspetto;
  • presentare requisiti imposti per legge sul mercato dell’Unione per tutti i prodotti appartenenti a una data categoria come se fossero un tratto distintivo dell’offerta del professionista.

Il secondo passaggio fondamentale è che vengono per la prima volta [3] introdotte nel sistema due definizioni fondamentali: cosa si intende con “sistema di certificazione” e, di conseguenza, cosa si deve intendere con “terza parte”.

La definizione di “sistema di certificazione”

Per la Direttiva sulla responsabilizzazione dei consumatori la definizione si trova all’articolo 1 (Modifiche alla Direttiva 2005/29/CE) comma 1, lettera r):
– “sistema di certificazione”: un sistema di verifica da parte di terzi che certifica che un prodotto, un processo o un’impresa è conforme a determinati requisiti, che consente l’uso di un corrispondente marchio di sostenibilità e le cui condizioni, compresi i requisiti, sono accessibili al pubblico e soddisfano i criteri seguenti:
i) il sistema, nel rispetto di condizioni trasparenti, eque e non discriminatorie, è aperto a tutti gli operatori economici disposti e in grado di conformarsi ai suoi requisiti;
ii) i requisiti del sistema sono elaborati dal titolare dello stesso in consultazione con gli esperti pertinenti e i portatori di interessi;
iii) il sistema stabilisce procedure per affrontare i casi di non conformità ai requisiti del sistema e prevede la revoca o la sospensione dell’uso del marchio di sostenibilità da parte dell’operatore economico in caso di non conformità ai requisiti del sistema; e
iv) il monitoraggio della conformità dell’operatore economico ai requisiti del sistema è oggetto di una procedura obiettiva ed è svolto da un terzo la cui competenza e la cui indipendenza sia dal titolare del sistema sia dall’operatore economico si basano su norme e procedure internazionali, dell’Unione o nazionali;

Sulla definizione anche la Direttiva Green Claims è assolutamente coerente: con sistema di certificazione si intende (articolo 2, punto 10): “un sistema di verifica da parte di terzi che, nel rispetto di condizioni trasparenti, eque e non discriminatorie, è aperto a tutti i professionisti disposti e in grado di conformarsi ai suoi requisiti, il quale certifica che un dato prodotto è conforme a determinati requisiti e nel cui ambito il monitoraggio della conformità è oggettivo, basato su norme e procedure internazionali, unionali o nazionali, ed è svolto da un soggetto che è indipendente sia dal titolare del sistema sia dal professionista;”.

Quindi, nelle definizioni, i primi aspetti riportati riguardano l’affidabilità e la scientificità che devono stare alla base della definizione delle regole sulle quali l’etichetta ambientale si basa, che deve inoltre essere democratica e aperta.

La definizione di “terza parte”

Quello che è un aspetto inedito nel sistema normativo delle etichette ambientali è la definizione di “terza parte”: le verifiche per il rilascio della certificazione devono essere svolte da un soggetto indipendente e separato nella sostanza (e non solo formalmente) rispetto al titolare del sistema di certificazione e, ovviamente, rispetto all’azienda che chiede la certificazione. Nella sostanza, chi elabora e definisce un sistema di certificazione non può essere legato in alcun modo al soggetto che effettua le verifiche.

La violazione di questo aspetto è ritenuta pratica commerciale sleale (come spiegato nell’Explanatory Memorandum che precede la Proposta di Direttiva) per cui meritevole di sanzioni che dovranno essere attuate dagli Stati membri.

La proposta di Direttiva Green Claims è severa sul punto: “l’esposizione di un’etichetta di sostenibilità non basata su un sistema di certificazione o non istituita dalle autorità pubbliche costituisce una pratica commerciale sleale in tutte le circostanze. Ciò significa che sono vietate le etichette di sostenibilità “autocertificate”, ovvero quelle in cui non viene effettuata alcuna verifica da parte terza (come sopra definita)”.

Quindi, se non esiste una netta separazione dei soggetti, si ricade nell’auto-dichiarazione ambientale, strettamente vietata dalle nuove norme europee.

Il sistema di certificazione (o etichettatura) ambientale deve soddisfare le seguenti prescrizioni (articolo 8 direttiva Green claims):

  • le informazioni sulla titolarità e sugli organi decisionali del sistema di etichettatura ambientale sono trasparenti, accessibili gratuitamente, di facile comprensione e sufficientemente dettagliate;
  • le informazioni sugli obiettivi del sistema di etichettatura ambientale e sulle prescrizioni e procedure per monitorare la conformità dei sistemi di etichettatura ambientale sono trasparenti, accessibili gratuitamente, di facile comprensione e sufficientemente dettagliate;
  • le condizioni per aderire ai sistemi di etichettatura ambientale sono proporzionate alle dimensioni e al fatturato delle imprese così da non escludere le piccole e medie imprese;
  • le prescrizioni per il sistema di etichettatura ambientale sono state elaborate da esperti in grado di garantirne la solidità scientifica e sono state presentate per consultazione a un gruppo eterogeneo di portatori di interessi che le ha riesaminate garantendone la rilevanza dal punto di vista della società;
  • il sistema di etichettatura ambientale dispone di un meccanismo di risoluzione dei reclami e delle controversie;
  • il sistema di etichettatura ambientale stabilisce procedure per affrontare i casi di non conformità e prevede la revoca o la sospensione del marchio ambientale in caso di inosservanza persistente e flagrante delle prescrizioni del sistema.

La limitazione per nuove etichette ambientali

Viene poi normato che gli Stati membri non potranno più istituire nuovi sistemi nazionali o regionali di etichettatura ambientale, dalla data di entrata in vigore della direttiva, se non conformi al diritto dell’Ue e alle disposizioni della prossima Direttiva Green Claims.

Tuttavia, i sistemi nazionali o regionali di etichettatura ambientale istituiti prima dell’entrata in vigore della Direttiva possono continuare a rilasciare i marchi ambientali nel mercato dell’Unione, a condizione che soddisfino le prescrizioni della presente direttiva.

Per evitare l’ulteriore moltiplicarsi dei sistemi di etichettatura ambientale (“marchi di qualità ecologica”) di tipo I in conformità della norma EN ISO 14024 riconosciuti ufficialmente a livello nazionale o regionale e di altri sistemi di etichettatura ambientale, è opportuno che nuovi sistemi nazionali o regionali possano essere sviluppati soltanto in conformità del diritto dell’Unione.

Le sanzioni

In caso di violazione delle disposizioni sui marchi ambientali le sanzioni comprendono anche l’esclusione temporanea, per un periodo massimo di 12 mesi, dalle procedure di appalto pubblico e dall’accesso ai finanziamenti pubblici, comprese procedure di gara, sovvenzioni e concessioni.

Il documento comunitario spiega che attualmente sul mercato dell’Unione sono utilizzate più di 200 etichette ambientali. Presentano importanti differenze nel modo in cui operano per quanto riguarda, ad esempio, la trasparenza e la completezza delle norme o dei metodi utilizzati, la frequenza delle revisioni o il livello di audit o verifica. Queste differenze hanno un impatto sull’affidabilità delle informazioni comunicate sulle etichette ambientali. Sebbene le dichiarazioni basate sull’Ecolabel UE o sui suoi equivalenti nazionali seguano una solida base scientifica, abbiano uno sviluppo trasparente dei criteri, richiedano prove e verifiche da parte di terzi e prevedano un monitoraggio regolare, le prove suggeriscono che molte etichette ambientali attualmente sul mercato dell’UE sono fuorvianti. In particolare, molte etichette ambientali mancano di procedure di verifica affidabili. Pertanto, le dichiarazioni ambientali esplicite riportate sulle etichette ambientali dovranno essere basate su un sistema di certificazione, così come sopra definito.

La proposta di Direttiva Green claims stringe, come preannunciato sopra, sulla proliferazione di nuovi schemi proprietari privati, che quindi dovranno essere sottoposti ad una procedura di convalida preventiva, valutati dalle autorità nazionali e convalidati solo se dimostrano un valore aggiunto (articolo 8, comma 5) rispetto agli schemi già esistenti, in termini di caratteristica ambientale coperta, impatti ambientali, gruppo di categorie di prodotti o settore e la loro capacità di sostenere la transizione verde delle PMI rispetto ai regimi esistenti dell’Unione, nazionali o regionali. Per facilitare la valutazione del valore aggiunto, sarà pubblicata una lista delle etichette ambientali esistenti e affidabili.

I nuovi regimi privati saranno consentiti solo se possono mostrare ambizioni ambientali più elevate rispetto a quelli esistenti e ottenere quindi una pre-approvazione.


Per approfondire

Questions and Answers on European Green Claims

[1] Proposta di Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio sulla definizione e comunicazione di asserzioni ambientali esplicite (Direttiva “Green Claims”) COM (2023) 166 final

[2] Proposta di Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio che modifica le direttive 2005/29/CE e 2011/83/UE per quanto riguarda la responsabilizzazione dei consumatori per la transizione verde mediante il miglioramento della tutela dalle pratiche sleali e dell’informazione

[3] In realtà la definizione di “sistema di certificazione” era già presente nell’articolo 2 lettera s) della direttiva 2005/59/CE dell’11 maggio 2005 relativa alle pratiche commerciali sleali delle imprese nei confronti dei consumatori nel mercato interno.




Maggiore sicurezza nell’era digitale: riflessioni sui Trusted Flaggers

Maggiore sicurezza nell'era digitale: riflessioni sui Trusted Flaggers

Il 2 aprile è stato l’International Fact-Checking Day, giornata promossa dall’International Fact-Checking Network (IFCN) insieme a organizzazioni di fact-checking di tutto il mondo per celebrare l’importanza della verifica delle notizie. Questa ricorrenza mette in luce un principio chiave: combattere la disinformazione è una responsabilità condivisa. Non a caso l’IFCN promuove lo slogan #FactCheckingisEssential, per indicare che un ecosistema informativo sano richiede il contributo di tutti, non solo degli addetti ai lavori.

Oggi il fact-checking è più importante che mai, in un ecosistema mediatico profondamente trasformato dai social network e dalla comunicazione istantanea. Miliardi di persone producono e diffondono contenuti in tempo reale, e notizie infondate possono propagarsi globalmente in pochi minuti. In un contesto così fluido, la verifica di fonti e fatti è essenziale per mantenere la fiducia del pubblico e arginare i danni della disinformazione. Allo stesso tempo, anche le strategie di moderazione dei contenuti online stanno cambiando, come dimostrano le mosse recenti di alcune piattaforme.

A inizio anno Mark Zuckerberg ha annunciato ufficialmente la fine della collaborazione con i fact-checkers su Facebook e Instagram, rimpiazzandoli con le “note di comunità” in stile X/Twitter. Zuckerberg ha giustificato la svolta definendo i fact-checker «troppo politicizzati» e sostenendo la necessità di dare più spazio alla libertà di espressione, pur ammettendo il rischio di maggiore disinformazione. Meta per ora limita questa novità agli Stati Uniti, ma molti la considerano un passo indietro nella lotta alla disinformazione.

In Europa, invece, il Digital Services Act (DSA) ha introdotto da poco i Trusted Flaggers: enti specializzati incaricati di segnalare con priorità alle piattaforme i contenuti illegali, che le piattaforme devono esaminare con urgenza. Invece di ridurre l’intervento umano, l’Europa lo istituzionalizza creando “segnalatori di fiducia” per rafforzare la moderazione online. In Italia, questo ruolo è stato affidato ad Argo Business Solutions, un’azienda specializzata in servizi di sicurezza digitale, riconosciuta per la sua competenza nella lotta contro le violazioni dei diritti di proprietà intellettuale e le frodi online.

Nel mio caso, per la mia tesi magistrale presso l’Università di Amsterdam, sto conducendo interviste a livello europeo sul ruolo dei Trusted Flaggers nel rendere Internet più sicuro. Per questo vorrei coinvolgere chi legge, invitando i colleghi a condividere spunti, contatti o riflessioni utili per arricchire la ricerca. Ogni contributo sarà prezioso per alimentare un dialogo costruttivo sia per la parte teorica che quella applicata della mia tesi. Attenzione! Potreste farvi fare una strategia marketing dal sottoscritto come riconoscimento.

L’approccio di Meta e quello europeo incarnano due modelli molto diversi di governance dei contenuti. Quello statunitense affida il controllo alla comunità degli utenti, riducendo al minimo l’intervento della piattaforma in nome di una libertà di espressione quasi illimitata; quello europeo, definito dal DSA, enfatizza invece la responsabilità condivisa, con obblighi per le piattaforme e la collaborazione di enti qualificati (come i Trusted Flaggers) per rimuovere attivamente i contenuti illegali o falsi. Questi approcci rispecchiano filosofie distanti, espressione di visioni culturali differenti sul ruolo della tecnologia e dei regolatori nel tutelare il dibattito pubblico.

L’evoluzione di questi scenari sarà al centro di un imminente momento di confronto. Il 16 maggio, a Venezia, si terrà il Summit Europeo organizzato da FERPI insieme alla Global Alliance, dedicato alle trasformazioni della comunicazione e all’etica dell’intelligenza artificiale. Sarà un’occasione per discutere i nuovi modelli di regolazione assieme ai membri del Comitato Scientifico FERPILab e come i professionisti della comunicazione possano contribuire a un ecosistema informativo più sano. In tempi di cambiamenti rapidi, appuntamenti come questo sono preziosi per ribadire principi etici e individuare soluzioni che coniughino libertà di espressione e tutela del pubblico.

Per contribuire alla tesi magistrale in corso, potete contattarmi a lorenzo.canu@student.uva.nl




AI e comunicazione: la responsabilità è (ancora) nostra

AI e comunicazione: la responsabilità è (ancora) nostra

L’intelligenza artificiale generativa sta trasformando il mondo della comunicazione, mettendo a disposizione strumenti sempre più sofisticati per creare testi, immagini, video e suoni. Ma di fronte a questa rivoluzione, il punto non è se l’AI debba essere usata o meno. Il vero tema è come i comunicatori scelgono di governarla.

Nel dibattito sulle AI generative si cade spesso in una contrapposizione ingannevole: da un lato, il timore che la macchina possa sostituire l’essere umano; dall’altro, l’entusiasmo per l’efficienza che può garantire. Ma questa lettura è limitante. L’intelligenza artificiale generativa non è un’entità autonoma: è il riflesso dei dati, dei modelli e delle logiche che gli esseri umani decidono di applicare. Per questo, chi si occupa di comunicazione ha una responsabilità fondamentale: capire come utilizzarla in modo etico e consapevole, senza alimentare disinformazione, bias e distorsioni.

AI e disinformazione: uno strumento nelle nostre mani

Le intelligenze artificiali generative non pensano, non mentono e non hanno intenzioni proprie. Semplicemente, elaborano i dati a cui hanno accesso e producono contenuti basati su schemi probabilistici. Questo significa che, se i dati di partenza sono incompleti o distorti, il risultato sarà altrettanto parziale.

Chi lavora nella comunicazione deve essere consapevole di questa dinamica. L’AI può amplificare la disinformazione, ma non ne è la causa: la responsabilità resta umana. I professionisti e le professioniste del settore devono quindi sviluppare una cultura dell’uso critico di questi strumenti, verificando le fonti, contestualizzando le informazioni e riconoscendo i limiti della tecnologia.

L’AI può diventare un alleato nella lotta alla disinformazione, ma solo se viene utilizzata con metodo e trasparenza. Automatizzare la produzione di contenuti non significa rinunciare alla loro qualità e affidabilità.

Non subire l’innovazione, ma governarla

Ad oggi, il quadro normativo sull’AI è ancora in fase di definizione, e i vincoli per chi sviluppa questi strumenti sono limitati. Chi progetta algoritmi ha il dovere di garantire trasparenza, ma chi li usa ha la responsabilità di comprenderne il funzionamento.

Ci sono ancora molte incognite, per esempio sugli impatti ambientali di questa tecnologia: l’addestramento di modelli come GPT-4 consuma un’enorme quantità di energia, paragonabile al fabbisogno annuo di migliaia di famiglie. Oppure sul tema dei bias: se i dati su cui si basano gli algoritmi sono sbilanciati (e oggi lo sono, basti pensare al gender gap nel settore tecnologico), il rischio è che l’AI amplifichi disuguaglianze già esistenti.

Per questo, i comunicatori non possono limitarsi a “usare” le AI generative, ma devono capire come funzionano, quali sono i limiti e come evitare effetti indesiderati (se non sappiamo come funziona la macchina, non possiamo certo “accusarla” di fare un cattivo lavoro). La formazione continua diventa essenziale: solo chi conosce davvero questi strumenti può governarli, evitando di subirne passivamente le conseguenze.

Un nuovo ruolo per chi comunica: competenza, etica e visione

Cambiano i profili e le modalità del nostro lavoro ma non è – e non può essere – l’AI a decidere se un messaggio è corretto, etico o trasparente. Questa responsabilità resta in mano a noi persone.

Chi lavora in comunicazione deve oggi più che mai esercitare pensiero critico, verifica delle fonti e capacità di contestualizzazione. L’AI generativa può automatizzare alcuni processi, ma non potrà mai sostituire la capacità di interpretare il contesto, di creare connessioni significative e di costruire narrazioni autentiche. Più di tutto, di nutrire le relazioni.

Come sottolineano Massimo Lapucci e Stefano Lucchini nel saggio Ritrovare l’umano, non c’è vera sostenibilità senza mettere al centro la componente Human. Questo vale anche per la comunicazione: se la tecnologia non è al servizio del benessere collettivo, rischia di diventare solo un acceleratore di squilibri.

Quindi, il punto non è se l’AI sia un rischio o un’opportunità. Il punto è quale ruolo vogliamo avere come professioniste e professionisti della comunicazione in questa trasformazione. E la risposta sta nella nostra capacità di usarla con consapevolezza, competenza ed etica.