1

Covid 19, ecco le grandi aziende che alimentano i siti di disinformazione

Covid 19, ecco le grandi aziende che alimentano i siti di disinformazione

Migliaia di grandi aziende, come Pepsi, Starbucks, Comcast, Verizon, Marriott, e persino i Center for disease control statunitensi, contribuiscono a finanziare la disinformazione sul Covid-19.

Un’analisi di NewsGuard, l’organizzazione di giornalisti che monitora l’attendibilità dei siti, evidenzia che oltre 4.000 marchi hanno acquistato annunci su siti che pubblicano disinformazione sul Covid-19. Comprese aziende direttamente coinvolte nella campagna vaccinale, come Pfizer, e un centinaio di sistemi ospedalieri e assicuratori sanitari.

Il report è curato da Matt Skibinski, General Manager di NewsGuard. La traduzione è
di Virginia Padovese.

Dal febbraio 2020 ad oggi, 4.315 marchi hanno pubblicato oltre 42.000 annunci programmatici su siti noti per avere pubblicato disinformazione sul Covid-19 e inseriti da NewsGuard nel suo Centro di monitoraggio della disinformazione sul Coronavirus.

Nella maggior parte dei casi, gli annunci erano probabilmente involontari, inseriti da algoritmi su piattaforme di acquisto di annunci programmatici, come DV360 di Google, e non inseriti intenzionalmente dai marchi coinvolti. I dati dimostrano però quanto la pubblicità programmatica stia supportando l’ecosistema della disinformazione online e quanto un’azione decisa da parte di queste aziende potrebbe ridurre notevolmente la portata della disinformazione.

ASSICURATORI SANITARI 

Anche aziende direttamente coinvolte nella campagna vaccinale compaiono tra quelle che finanziano i siti di disinformazione sul Covid-19. Lo studio ha rilevato che 105 assicuratori e fornitori di servizi sanitari, tra cui Stanford Health Care, Emory Healthcare, Northwell Health, RWJ Barnabas, Oscar Health Insurance, United Healthcare, Beaumont Health, University of Pittsburgh Medical Center, New York Presbyterian e Mayo Clinic, hanno fatto pubblicità sui siti web che pubblicano informazioni false sulla pandemia. Tra i siti troviamo domini come WorldTruth.TV, che ha affermato che il vaccino contro il Covid-19 conterrà un microchip di tracciamento; TheGateWayPundit.com, che ha affermato che il dottor Anthony Fauci sta per “guadagnare miliardi” da un vaccino contro il Covid-19 e che le mascherine sono pericolose per la salute; e IntelliHub.com, che ha affermato che il vaccino modificherà il DNA dei pazienti.

Anche Pfizer, che attualmente offre uno dei vaccini a disposizione, e Merck, che ha recentemente interrotto i suoi sforzi di sviluppo di un vaccino, compaiono nell’elenco degli inserzionisti che pubblicano annunci sui siti di disinformazione sul Covid-19, come NOQReport.com, che tra le altre falsità ha affermato che la pandemia è stata progettata da Bill Gates, e TheEpochTimes.com, che ha affermato che il virus è stato prodotto artificialmente.

PARTITO COMUNISTA CINESE

Persino i Centers for Disease Control, agenzia federale Usa che controlla la sanità pubblica degli Stati Uniti d’America, hanno investito in pubblicità su siti che pubblicano disinformazione sul Covid-19, inserendo annunci che esortano le persone a sottoporsi ai vaccini antinfluenzali su GlobalTimes.cn, il sito di propaganda cinese che non rivela di essere finanziato e gestito dal Partito Comunista Cinese e che sostiene che il virus abbia avuto origine in Europa. Il Cdc ha anche pubblicizzato su siti statunitensi che pubblicano disinformazione sul Covid-19, tra cui IndependentSentinel.com, che ha affermato che indossare una mascherina aumenta il rischio di contrarre il Covid-19 e che un insieme di zinco e antibiotici può “curare” il Covid-19. Anche altri marchi ben noti come Starbucks, Acura, Pepsi e Marriott sono stati pubblicizzati su IndependentSentinel.com.

L’elenco degli inserzionisti che finanziano i siti che pubblicano disinformazione sul COVID-19 include anche aziende coinvolte nella distribuzione di vaccini. Ad esempio, Kroger, che distribuisce vaccini a livello nazionale nei suoi negozi, ha pubblicizzato su oltre una decina di siti di disinformazione, incluso Intellihub.com, che ha falsamente affermato che il vaccino contro il Covid-19 modifica il DNA dei pazienti.

SOCIETA’ DI MEDIA

Walmart, che probabilmente sarà tra i principali distributori dei vaccini contro il Covid-19 ha fatto pubblicità su 25 dei siti di disinformazione sul Covid-19, incluso il sito di propaganda controllato dal governo russo SputnikNews.com.

Nella lista troviamo anche società di media. Comcast ha pubblicizzato i suoi prodotti a banda larga Msnbc, Nbc, Universal e Comcast su 14 dei siti di disinformazione sul Covid-19, tra cui CharlieKirk.com, che ha pubblicato affermazioni false sul farmaco idrossiclorochina e ha descritto il Covid-19 come una “pandemia di psicosi delirante”; e Disrn.com, che ha affermato che il Covid-19 è un virus artificiale, creato in laboratorio.

Una delle bufale più diffuse sul Covid-19 è stata la falsa affermazione che la pandemia sia stata causata o aggravata dalla tecnologia 5G. Nell’aprile del 2020, dopo che diverse antenne del 5G sono state prese d’assalto nel Regno Unito, OfCom, ente regolatore delle telecomunicazioni, ha rilasciato dei dati che mostrano che più della metà della popolazione del Regno Unito era stata esposta a disinformazione sul Covid-19 e la narrativa più comune era che il 5G era legato alla pandemia.

BILL GATES

I principali fornitori di telefonia mobile nel mondo hanno fatto annunci pubblicitari su numerosi siti che diffondono informazioni false sul Covid-19, inclusa la bufala del 5G.

Verizon, ad esempio, ha pagato pubblicità su 35 siti di disinformazione sul Covid-19, incluso ad esempio WorldTruthTV.com, dove si affermava falsamente che i circuiti 5G erano contrassegnati con il codice “COV-19”, e che il COVID-19 è stato brevettato da un’organizzazione legata a Bill Gates.

Allo stesso modo, anche AT&T, Sprint, Boost Mobile, e Motorola hanno pubblicato annunci pubblicitari su siti di disinformazione sul Covid-19, come EnergyTherapy.Biz che hanno pubblicato la bufala del 5G.

La maggior parte delle aziende inserisce annunci attraverso le pubblicità programmatiche che utilizzano algoritmi per determinare quali pagine web raggiungeranno un determinato tipo di pubblico. In altre parole, i marchi in genere non sanno dove stanno posizionando i loro annunci.

MODELLO DI BUSINESS

Le piattaforme pubblicitarie di Google, DV360 e DoubleClick, sono tra le più utilizzate per inserire annunci su siti web di disinformazione: il 67% di tutti i siti di disinformazione sul Covid-19 identificati da NewsGuard con posizionamenti di annunci presentavano tag pubblicitari di Google, e il 30% presentava tag di The Trade Desk, un’altra grande piattaforma pubblicitaria.

Da un lato, ciò significa che è improbabile che le aziende da sole possano porre fine al problema della pubblicità sui siti di disinformazione, anche se un impegno da parte dei marchi potrebbe già fare molto.

Dall’altro lato, se le piattaforme pubblicitarie fornissero strumenti per evitare i siti che pubblicano disinformazione quando si inseriscono annunci, potrebbero avere un impatto determinante sul modello di business della disinformazione.




The sound of success

The sound of success

Questa disciplina ha l’incredibile capacità di connettere due campi che spesso consideriamo opposti: l’arte e la scienza. L’obiettivo? Progettare un suono in grado di influenzare il comportamento e plasmare le percezioni.

Per scoprire com’è possibile, ti consigliamo di leggere l’articolo: siamo certi rimarrai incantato!

Per introdurti all’argomento di oggi, ti propongo un indovinello:

“Che cosa hanno in comune Intel, 20th Century Fox, McDonald’s e BMW?”

A primo impatto non sembra esserci nessun collegamento razionale, queste quattro aziende operano in mercati totalmente differenti con un piazzamento eterogeneo e core business diversi.

Voglio allora darti un piccolo suggerimento: la soluzione si trova in una percezione specifica del branding e, se volessimo, potremmo aggiungere all’elenco altre innumerevoli aziende.

Infatti, mi riferisco al Sound Branding: la frontiera del branding che parla una lingua universale fatta di note, ritmo e suoni.

Ti sarà capitato infinite volte di sentire il suono associato a quei brand, a tal punto da riconoscerlo e ricordarlo meglio del logo stesso.

Facciamo un po’ di chiarezza: il branding comprende tutte quelle attività che collegano un marchio a determinati segni distintivi. Pertanto il logo, il nome e il payoff di un brand devono essere in grado di trasmettere i valori aziendali, la Mission e la Vision in modo da delineare un’identità chiara e distinta. Solo così il brand potrà essere riconoscibile e differenziarsi dai competitors.

Nella componente sonora del branding, i suoni vengono sfruttati per formare la percezione degli acquirenti e influenzarne i comportamenti. In questo modo si genera riconoscibilità e si trasmette l’unicità del marchio, evitando problematiche di naming e slogan dovute a differenze linguistiche e comunicando in maniera facile e veloce.

La percezione, sia essa visiva o uditiva, è scienza.

Gli “audio brand” sono progettati in modo da far identificare immediatamente il marchio a livello uditivo, svolgendo la stessa funzione che hanno i loghi a livello visivo.

Cosa accade invece a livello fisiologico? 

In linea generale, la risposta emotiva e fisiologica data da un suono tende ad essere più rapida ed efficace rispetto a quella generata dalla vista. A livello cerebrale, il “circuito uditivo” risulta essere meno denso del sistema visivo, ragione per cui il suono viene incanalato più velocemente verso l’area pre-corticale, ossia il luogo da cui vengono generate le nostre emozioni. Se gli input acquisiti attraverso i vari sensi si sfidassero in una corsa, quelli provenienti dall’udito probabilmente vincerebbero sempre. Per intenderci, puoi sentire dalle venti alle cento volte più velocemente di quanto tu non possa vedere.

Ma il grande potere dei suoni non finisce qui, infatti tra le loro innumerevoli abilità vi è anche quella di influenzare la percezione del nostro gusto. Chi l’avrebbe detto che una melodia potesse “rendere” le nostre pietanze più dolci o piccanti a seconda della composizione delle sue note?

Concentriamoci ora sull’utilizzo dei suoni nell’ottica del marketing.

In primis è necessario delineare una strategia precisa, ricercando l’essenza dell’identità aziendale per poi trasporla in un DNA sonoro composto da note, ritmo, melodia e armonia. A questo punto viene realizzata una campagna per creare una presenza costante e massiccia del suono. L’identità sonora può essere applicata anche come complemento per le strategie di marketing sui social, come accompagnamento nei negozi fisici e per il lancio di nuovi prodotti.

I suoni possono essere utilizzati come una risorsa di touchpoints infinita nel proprio funnel di vendita, a partire dall’awareness sino ad arrivare alla conversione.  In un mondo sempre più competitivo, in cui le strategie digital sono fondamentali è importante essere un passo avanti ai competitors, e di certo un modo per migliorare il proprio brand è quello di implementare una strategia “fonica”.

Se ancora non ti avessi convinto, ti propongo tre case studies presi dal discorso di Steve Keller nel TEDxNashville per farti cambiare idea!

  • Immagina di trovarti in una sala giochi e di non poter sentire alcun suono. Cosa succederebbe? In assenza di suoni e rumori in una sala giochi gli incassi diminuirebbero del 24%. Un risultato niente male per della semplice “musica”.
  • Citiamo ora la quotidianità, se in un negozio di bevande alcoliche una melodia francese accompagnasse l’acquisto di vini, ben il 77% dei vini venduti sarebbe di provenienza francese. Allo stesso modo, se le note fossero tedesche, la percentuale di vini venduti originari della Germania ammonterebbe al 73%.
  • Infine, come utilizzare i suoni a nostro vantaggio e rendere il mondo un posto migliore? A Berlino sono state realizzate delle strutture che rispondono con suoni e melodie alla caduta delle castagne e sono state applicate sotto a un albero nel centro della città. Questo ha attratto un gran numero di persone, che leggendo la finalità di questa applicazione hanno donato fondi a scopo benefico.

Com’è regolato il Sound Branding?

I suoni non sono solo un vantaggio strategico in termini di marketing e vendite, o oggetto di studi psicologici e comportamentali, ma sono anche divenuti oggetto della giurisdizione. Infatti esiste una precisa giurisprudenza per depositare un suono come marchio, purché questo presenti un carattere distintivo e possa essere rappresentato in forma grafica.

Quali sono le nuove frontiere per i nostri tanto discussi suoni?

Innanzitutto, parimenti all’innovazione tecnologica e ai contenuti multimediali, sono l’input per la creazione di nuove opportunità lavorative, ne è la prova tangibile la sempre maggior diffusione di figure come quella dei “Sonic Brander“.

Recentemente MasterCard Visa “sono state investite” dall’onda del sonic branding e, secondo il Sole24Ore, a breve questa pratica si estenderà a banche, assicurazioni e FinTech.

Il motivo? Per ora te lo lascio immaginare…




Carrefour potenzia l’impegno nella moda sostenibile con Tex Responsabile

Carrefour potenzia l’impegno nella moda sostenibile con Tex Responsabile

Negli ultimi 12 mesi, la pandemia ha imposto un’accelerazione forzata a tutte quelle grammatiche che facevano della digitalizzazione la propria parola d’ordine, ridisegnando processi virtuosi che si sono dovuti affidare a nuovi stilemi per evolvere e rimanere rilevanti. Una condizione che ha toccato anche colossi aziendali illustri, come Carrefour, Zara e altre realtà che hanno colto le sfide trasformandole in opportunità.

In questo contesto di trasformazione rientra anche il settore della moda che ha potenziato trend che avevano già fatto capolino nel 2019. Uno su tutti: la sostenibilità. Una ricerca di Pwc Italia per MFF stima che nel 2023 il mercato della green fashion raggiungerà 6,8 miliardi di euro con un incremento del 6,8% dovuto alla crescente sensibilità nell’uso della moda etica per la sostenibilità.

Tex Responsabile, un impegno concreto

In questo contesto si incastra il progetto Tex Responsabile di Carrefour, che applica i concetti della moda sostenibile alla grande distribuzione. Del resto l’attenzione del consumatore per il tema della sostenibilità a 360 gradi, lungi dall’essere scemato, ha anzi assunto nuovo vigore. Sotto la lente d’ingrandimento di clienti sempre più attenti ricadono oggi tematiche quali l’impatto ambientale delle produzioni, l’origine dei prodotti e la tutela delle condizioni di lavoro.
Carrefour ha recepito la spinta del mercato e ha investito sulla moda sostenibile, che si concretizza in una linea tessile responsabile, con l’obiettivo di impiegare materie prime naturali sostenibili e assicurare la tracciabilità dei propri prodotti al 100% entro il 2030.

Un impegno che vede protagonisti l’abbigliamento per bambini e adulti, underwear e biancheria per la casa, nonché l’inaugurazione in Italia di un primo corner Carrefour dedicato al progetto Tex Responsabile presso l’Iper di Limbiate.

carrefour
Carrefour Italia Carrefour Italia, con una cifra d’affari pari a 4,66 Mld euro (2020), opera su tutto il territorio nazionale con oltre 1.450 punti vendita

Carrefour, Tex Responsabile: i dettagli

L’attenzione di Carrefour ai temi della sostenibilità nella moda si snoda trasversalmente su tutte le fasi di produzione dei propri prodotti tessili, ma anche a livello produttivo e umano. L’azienda agisce sia sull’uso di cotone biologico che sull’attuare politiche nel pieno rispetto di lavoratori e animali, ma anche sull’adozione di processi in grado di ridurre gli sprechi e favorire il riciclo. Impiega inoltre processi in grado di inquinare meno e ridurre il quantitativo di acqua necessario e metodi di produzione biologica per preservare la ricchezza dei terreni garantendo una remunerazione equa ai produttori.

Una volta che il prodotto è realizzato, l’attenzione si sposta poi sul packaging, altro tema caldo in ambito sostenibilità. Carrefour riduce il numero e le dimensioni delle etichette e ha rimosso gli imballaggi in plastica da diversi tipi di prodotto per arrivare, entro il 2025, a utilizzare solo plastiche riciclabili o riciclate.




Gli Nft sono una grande bolla?

Gli Nft sono una grande bolla?

Ci ha scherzato sopra persino Beeple, l’artista digitale che a metà marzo ha visto una sua opera digitale (in realtà un pacchetto di opere) venduta all’asta da Christie’s per 69 milioni di dollari“Potrei essere quello che ha guadagnato più di tutti da una cosa che poi si rivela una grande bolla, ha detto intervistato dalla Cnn. La “cosa” a cui fa riferimento Beeple sono ovviamente gli Nft (non-fungible token): la certificazione basata su blockchain che sottrae le opere d’arte digitali – e tutti gli oggetti collezionabili che vivono su internet – alla caratteristica di essere infinitamente replicabili in copie identiche all’originale. Possedere l’Nft di un oggetto digitale è come avere una figurina autografata dal campione lì ritratto, una qualità che la distingue dalla massa delle altre figurine “fungibili” (ovvero tra loro scambiabili come equivalenti) e le conferisce un valore immensamente superiore

La moda degli Nft sta imperversando da mesi nel mondo “crypto”, dando vita a fenomeni che hanno fatto alzare più di un sopracciglio: la clip di una schiacciata di LeBron James venduta a 250mila dollari? Il primo tweet di Jack Dorsey venduto al 2,9 milioni? E che dire dello stesso Beeple, che è diventato l’artista vivente più quotato al mondo dietro ai soli Jeff Koons e David Hockney? Come sempre avviene in questi casi, la frenesia per una nuova tecnologia si è trasformata in esaltazione e quindi in bolla speculativa; che inevitabilmente è scoppiata lasciando chissà quante persone col cerino in mano e il portafoglio vuoto.

Il crollo del prezzo

“Il prezzo medio per un Nft ad aprile era di 1.256 dollari, in caduta dagli oltre 4mila di fine febbraio”scrive per esempio la Cnn. Dati confermati dai vari siti che tengono traccia del valore di questa nuova forma di collezionismo digitale. La bolla, insomma, è scoppiata: questo però non significa che la tecnologia non sia valida o piena di potenziale (come già avvenuto con le dot-com e i bitcoin, che oggi valgono il triplo di quanto valessero all’apice della bolla del 2017), ma semplicemente che al momento l’isteria ha prevalso sulla razionalità.

Gli Nft puntano a risolvere un problema concreto e sentito da tutti gli artisti che lavorano in campo digitale, quello relativo a “provenienza, possesso, distribuzione e controllo delle opere d’arte digitali”, come ha scritto sull’Atlantic il programmatore Anil Dash, uno dei due creatori dell’applicazione per blockchain oggi nota come nft ma che loro all’epoca chiamarono “monetized graphics”

Come racconta lo stesso Dash, la creazione avviene nel maggio 2014 nel corso di un hackaton a cui partecipò assieme all’artista Kevin McCoy“Eravamo all’apice della cultura di Tumblr, un periodo in cui una comunità di milioni di artisti e fan stava condividendo le proprie immagini e video senza alcuna attribuzione o compensazione […]. Kevin pensava da tempo al potenziale dell’allora neonata blockchain – essenzialmente un registro indelebile delle transazioni digitali – per offrire agli artisti supporto e protezione per le loro creazioni”, scrive Anil Dash.

Per qualche anno, l’idea alla base degli Nft – che non venne brevettata – non fece presa nemmeno nei circoli legati all’arte digitale e al mondo della blockchain. Fatta eccezione per il breve boom dei CryptoKitties nel 2017, questa tecnologia non ebbe nessuna applicazione di successo fino all’improvvisa esplosione degli ultimissimi mesi, quando all’improvviso l’intero mondo dell’arte e non solo ha iniziato a occuparsene freneticamente.

Beeple: The First Emoji (beeple-crap.com)

I limiti degli Nft

E forse è anche per questo che alcuni dei limiti causati dalla fretta con cui gli Nft erano stati creati in una notte di hackaton sono ancora oggi presenti. “Se ti piacesse un’opera d’arte, pagheresti di più soltanto perché qualcuno ha incluso il suo nome in un foglio Excel?”, scrive provocatoriamente Dash. Eppure è proprio quello che avviene con gli Nft, che non contengono la vera e propria opera d’arte, ma soltanto un link certificato che rimanda a essa. Un limite causato dal fatto che i “blocchi” che contengono i dati nel registro digitale della blockchain hanno un limite di capienza che è quasi sempre superato dalle opere digitali. La scorciatoia individuata è stata di inserire all’interno del blocco certificato soltanto il link all’immagine e magari una forma compressa della stessa.

Questo non è soltanto un evidente limite di per sé (comprare l’opera o un link all’opera non è proprio la stessa cosa, anche se la certificazione è valida in entrambi i casi), ma soprattutto per la domanda che inevitabilmente si pone: e se un domani quel link non fosse più disponibile? E come potremo assicurarci che l’opera sopravviva al passare del tempo?

A dire il vero, questo è un problema che ci si sta già adoperando per risolvere, sfruttando il protocollo decentralizzato Ipfs (Interplanetary file system), basato su blockchain e gestito quindi da una rete di computer, che evita che sia sufficiente dimenticarsi di rinnovare il dominio per vedere il proprio sito e tutti i contenuti scomparire. Anche l’Ipfs richiede però che ci sia sempre almeno un computer acceso a far parte della catena: ci affideremmo a un sistema del genere per assicurarci che l’opera in questione sia ancora qui tra migliaia di anni? L’Ipfs è inoltre uno strumento usato ancora oggi da una minoranza, mentre la maggior parte degli oggetti digitali acquistati tramite nft vive nelle normali url. Come si legge su The Verge“si rischia di andare incontro a un ‘errore 404’ estremamente costoso”

Un “difetto” della blockchain

C’è un altro problema tipicamente legato alla blockchain: una tecnologia che garantisce che i dati immessi non possano essere contraffatti e che tutte le transazioni siano immutabilmente registrate, ma che non dà alcuna garanzia sulla genuinità dei dati inseriti in primo luogo. E infatti non solo si sono verificati parecchi casi di artisti che hanno visto i loro lavori tramutati in Nft senza nemmeno saperlo (tra cui le opere retrofuturistiche di Simon Stålenhag), ma anche di persone che hanno approfittato del lasco processo di verifica di alcune piattaforme dedicate agli Nft per fingere di essere un determinato artista e guadagnare così dai “gettoni” di opere non loro.

E infine, ovviamente, c’è il problema più immediato e sentito. Quello ambientale. Il processo per creare un singolo nft consuma l’energia necessaria ad alimentare un’abitazione europea per un mese e mezzo. Considerando che già oggi l’impatto ambientale del mondo legato alla blockchain – e in particolare ai bitcoin – è deleterio, diventa fondamentale evitare che la situazione peggiori drasticamente nel caso in cui gli Nft diventassero una normale forma di produzione di arte digitale. Anche in questo caso, però, la soluzione potrebbe essere vicina.

Ethereum, che è la blockchain su cui vive la maggior parte degli Nft, sta infatti lavorando per abbandonare il sistema energivoro della proof-of-work (attraverso il quale i blocchi della blockchain vengono validati dal primo computer che, in competizione con migliaia di altri, risolve un complicatissimo puzzle algoritmico per il quale sono necessarie macchine incredibilmente potenti) e passare alla proof-of-stake

In questo sistema, i nodi sono rimpiazzati dai “validatori”, che per partecipare non devono risolvere puzzle matematici ma semplicemente depositare una somma di denaro come cauzione (al momento pari a un minimo di 32 ether, 55mila dollari). Più soldi si depositano, maggiori sono le possibilità di essere selezionati tra i validatori, che devono confermare la validità della transazione che sta avvenendo sulla blockchain e ottengono come ricompensa altri ether. La transazione è valida se approvata da due terzi dei validatori selezionati, mentre chi viene scoperto a truffare il sistema perde una parte o tutti i soldi depositati. 

Secondo alcuni calcoli, questo sistema permette di risparmiare il 99% dell’energia attualmente consumata, oltre a rendere la blockchain molto più rapida ed efficiente. A questo punto, almeno il problema energetico sarebbe risolto. E tutti gli altri? C’è ancora parecchio lavoro da fare. Finché non sarà impossibile – o almeno molto più difficile – spacciarsi per l’artista che non si è, appropriarsi di opere altrui e smarrire quelle appena acquistate, gli Nft continueranno a venir accusati di non rappresentare altro che un castello di carte.




Cronistoria di un video che vuole infangare il ricercatore italiano

Cronistoria di un video che vuole infangare il ricercatore italiano

Pochi giorni prima del 29 aprile, quando era attesa l’udienza preliminare (poi rimandata al 25 maggio) per i quattro agenti dei servizi egiziani imputati nella tortura e omicidio di Giulio Regeni, un misterioso video è iniziato a circolare su YouTube. Privo inizialmente di una firma, una casa di produzione, una identità chiara, il video si presentava come un documentario giornalistico, una sorta di “inchiesta” sul ricercatore italiano brutalmente ucciso in Egitto. Il video, intitolato “The story of Regeni”, malgrado l’aspetto che denotava una discreta capacità di produzione (segue il classico format documentaristico che alterna interviste a ricostruzioni sul campo) e malgrado la presenza di intervistati italiani piuttosto altisonanti (in particolare, l’ex consigliere militare del governo D’Alema, il generale Dino Tricarico, più due ex ministri, Maurizio Gasparri ed Elisabetta Trenta, oltre al giornalista Fulvio Grimaldi) si rivela quasi subito per quello che è: un’operazione di propaganda e depistaggio con l’obiettivo di screditare la figura di Regeni, e mandare un messaggio intimidatorio all’Italia. 

Come scrive Giuliano Foschini su Repubblica, questo filmato racconta “una storia falsa, smentita dagli atti di cinque anni di indagini della magistratura italiana: allontana ogni responsabilità sui militari egiziani e lancia ombre sull’attività del ricercatore italiano al Cairo, ombre ampiamente già categoricamente smentite dall’inchiesta italiana, con Regeni che viene raccontato come sostanzialmente un fiancheggiatore dei Fratelli Musulmani; accusa la procura di Roma; lancia un messaggio chiaro a tutto il Paese: il processo a carico dei cinque agenti della National security, che sta per cominciare in queste ora a Roma, potrebbe compromettere definitivamente i rapporti commerciali tra i due Paesi. In sostanza, il documentario è  uno spot al governo di Al Sisi. Uno strumento, l’ennesimo, di depistaggio e di contronarrazione per cercare di depistare e alterare il flusso delle indagini”.

Ma prima di procedere ricordiamo a che punto siamo con l’indagine italiana. Il 29 aprile ci sarebbe dovuta essere l’udienza preliminare a carico del generale Sabir Tariq, dei colonnelli Usham Helmi e Athar Kamel Mohamed Ibrahim e di Magdi Ibrahim Abdelal Sharif. “I quattro, appartenenti ai servizi segreti egiziani, sono accusati del sequestro, delle sevizie e dell’omicidio del ricercatore italiano, il cui corpo è stato ritrovato il 3 febbraio del 2016 ai bordi della Alexandria Desert Road, al Cairo”, scrive Andrea Ossino su Repubblica. Ma a causa di un legittimo impedimento di un avvocato, che sarebbe entrato in contatto con una persona positiva al Covid, l’udienza è stata rinviata.

Tutta la storia sulla produzione e diffusione del video apre molti interrogativi

Il video è stato messo online su YouTube il 26 aprile, su un canale aperto il 22, senza attribuzioni di sorta. E poi su una pagina Facebook, The Story of Regeni, da cui sono partite varie inserzioni rivolte a un pubblico italiano (e qui c’è un utente italiano che segnala di averne ricevuta una). Una delle inserzioni iniziava così: “Il primo documentario che ricostruisce i movimenti strani di Giulio Regeni al Cairo”. Il canale e la pagina in questione oggi non esistono più, sono state cancellate. Nel mentre su Twitter, tra il 27 e 30 aprile, vari account egiziani promuovevano il “documentario” come una interessante e rivelatrice inchiesta sulla vicenda.

Per quanto misteriosa la mano dietro al documentario, restava il fatto che qualcuno era tranquillamente riuscito a intervistare i suddetti politici. Wired Italia si è messa in contatto telefonico con la persona che ha realizzato le interviste agli italiani coinvolti, che ha chiesto di mantenere l’anonimato dicendo: “Mi hanno mandato le domande e io le ho fatte. Ho fatto il lavoro e rimandato il materiale”. 
“Non è stato però lui a prendere contatto con gli intervistati italiani – scrive Davide Ludovisi su Wired –  bensì un certo Mahmoud Abd Amid, che si è presentato come “rappresentante di Al-Arabiya in Italia”. Eppure non c’è alcun riscontro di una sua collaborazione con l’emittente saudita. Abd Amid ha contattato l’ex ministra Elisabetta Trenta, per esempio – anch’ella comparsa nel video – usando un indirizzo Gmail ora non più attivo”. 

Versione confermata anche a Repubblica, cui la Trenta dichiara: “Sono stata vittima di un raggiro, mi ha contattato un giornalista che si è presentato come di Al Arabiya in Italia ed è venuto, con due operatori, in un’università. Si sono presentati con una mail”. “Egregia professoressa – si legge – la nostra troupe è a Roma per svolgere un film documentario sui rapporti diplomatici ed economici fra Italia ed Egitto. Dopo aver effettuato molte interviste a riguardo credo che la Sua sarebbe fondamentale nella finalizzazione del progetto”. “Chiesi espressamente – dice la Trenta oggi a Repubblica –   che non si parlasse di Regeni. Me lo assicurarono. Ed effettivamente nulla mi fu chiesto. Poi ieri mi hanno mandato questo documentario… Questa schifezza vergognosa”.

All’ex generale Tricarico invece gli operatori si sarebbero presentati come un giornalista egiziano di Al Jazeera, riferiva Wired. Che già il 30 aprile indirizzava invece i sospetti verso una meno nota, ma ben connotata tv egiziana: “Prima di diventare telefonicamente irraggiungibile, il giovane intervistatore ci ha detto di collaborare come freelance con Al Jazeera, Al Arabiya e Ten. Non ci ha voluto dire chi gli ha commissionato la produzione, ma è stato molto fermo su un punto: Al Jazeera e Al Arabiya non c’entrano nulla. Su Ten invece ha glissato”. 

Sospetti che sono stati confermati intorno al 30 aprile quando, mentre venivano chiusi i primi canali e pagine aperti per diffondere il video, la tv egiziana TeN TV iniziava a pubblicizzarlo, questa volta con tanto di logo, su tutti i suoi canali social, postando anche decine di spezzoni e commenti sulla sua pagina Facebook. (Mentre la messa in onda sul canale era prevista per la sera del 30 – TPI).

TeN TV, scriveva tempo fa il manifesto, è un canale privato vicino ai servizi di intelligence del regime, già protagonista di plateali offensive mediatiche contro difensori dei diritti umani. Un canale pro-militari e pro-governo, secondo il saggio Media, Revolution and Politics in Egypt. Controllata dai servizi segreti, secondo l’analista politico Maged Mandour su Open Democracy.

Ora, alcune note e domande.

Il video è apparso non solo in concomitanza con l’udienza in Italia ma anche con l’uscita, qualche giorno prima, di un altro documentario sull’uccisione di Regeni, di tutt’altro tenore (dove compaiono testimoni che accusano i militari egiziani), fatto da ArabyTv (Fadaat media), trasmesso il 22 aprile, e intitolato “Giulio Regeni, The buried facts’. Tanto che su Twitter sembra esserci traccia di questa contrapposizione.

Chiarita l’attribuzione a TeN TV (ma non le modalità della sua prima diffusione in sordina), resta da capire come abbiano fatto gli organizzatori a farsi passare per altro, raggiungendo persone di così alto profilo che, stando alle loro stesse dichiarazioni, almeno in alcuni casi, ritenevano di parlare con interlocutori del tutto diversi da quelli effettivi e per un documentario di altra natura.