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Danone accelera sulla sostenibilità del business: diventa benefit e BCorp in Italia

Danone accelera sulla sostenibilità del business: diventa benefit e BCorp in Italia

Il colosso mondiale della nutrizione annuncia la certificazione BCorp per Danone, Mellin e Nutricia in Italia. Lo statuto modificato nel febbraio scorso

Emmanuel Faber, ceo del colosso mondiale Danone, aveva detto la settimana scorsa che Covid19 era un buon motivo per accelerare sulla via della sostenibilità, attraverso la trasformazione in BCorp dell’azienda entro il 2025, rispetto al precedente timing al 2030. E proprio ieri la società ha annunciato di aver ricevuto la certificazione B Corp per le sue aziende in Italia, Danone, Mellin e Nutricia. Danone si va così ad aggiungere alle oltre cento aziende italiane – e oltre 3.400 a livello mondiale – che hanno scelto di incorporare nel business obiettivi di tipo sociale e ambientale.

La trasformazione di una grande azienda come Danone (25,3 miliardi di fatturato a livello mondiale) può fare da esempio ad altre che vogliano mettersi in gioco sulla sostenibilità. E l’Italia è uno dei primi paesi al mondo in cui il gruppo della nutrizione decide di fare questo passo.

«La società attuale è scossa da cambiamenti economici, sociali e ambientali che ci invitano a ripensare il modo di vivere e di fare impresa – afferma Fabrizio Gavelli, ceo di Danone Specialized Nutrition South Europe e amministratore delegato di Mellin Spa e Nutricia Italia Spa – Il primo passo verso questo cambiamento spetta alle aziende, proprio perché il loro operato può avere un impatto importante sulla vita delle persone e sull’ambiente. Auspichiamo che in Italia altre realtà come la nostra possano abbracciare il movimento B Corp e dare una svolta significativa verso un modello economico-sociale rigenerativo, più inclusivo, sostenibile e solidale».

La trasformazione in benefit

Questo percorso ha portato a un cambiamento dello statuto: a febbraio Danone, Mellin e Nutricia sono diventate società benefit, status giuridico riconosciuto in Italia – primo paese al mondo – nel 2016. Questo ha significato adottare un nuovo modo di concepire la governance aziendale.«Attraverso la certificazione B Corp vogliamo intraprendere una nuova strada; una terza via che guarda con attenzione alle tematiche sociali, ambientali e culturali salvaguardando la solidità degli obiettivi di redditività – afferma Alberto Salvia, Ad di Danone Spa. – Vogliamo abbracciare questo modello non solo perché pone al centro della propria attività gli interessi di tutti gli stakeholder, ma anche perché crea un valore aggiunto costante, sano e duraturo».

I valori di Danone

Con questa certificazione, Danone conferma l’impegno riassunto in «One Planet. One Health». Danone dichiara dunque esplicitamente che l’azienda «studia e applica soluzioni che rigenerano l’ambiente promuovendo l’utilizzo responsabile delle risorse; è da anni in prima linea per la riduzione degli sprechi alimentari, il recupero ed il riciclo degli imballi; investe in energie rinnovabili, sostiene la mobilità verde dei dipendenti, dona alberi alle città italiane.Coerentemente con la vision, Danone promuove la salute attraverso prodotti nutrizionalmente equilibrati e all’avanguardia. Inoltre, per facilitare l’accesso a una corretta alimentazione come strumento di salute e per il maggior numero di persone possibili, le aziende di Danone dialogano costantemente con Istituzioni, comunità scientifica, pazienti e famiglie e collaborano con organizzazioni impegnate nella lotta alla povertà attraverso iniziative mirate alla promozione di uno stile di vita attivo e sano».Forte anche l’impegno dichiarato sulle persone: «Le aziende di Danone valorizzano da sempre le persone e le comunità in cui operano, promuovendo l’inclusività e rendendo la diversità un asset importante in grado di esaltare le qualità uniche di ciascun individuo. Il sistema di welfare è particolarmente avanzato e strutturato per valorizzare e sostenere le proprie persone anche nei momenti più delicati della vita familiare».

L’universo BCorp

Con questa svolta Danone entra in quell’universo di imprese che intendono concretamente ripensare il modo di fare business perseguendo uno scopo più alto, ovvero conciliare la creazione del valore economico con la realizzazione del bene collettivo. In Italia il movimento B Corp raggruppa oltre 100 aziende, principalmente di medie e piccole dimensioni. Le B Corp sono aziende che usano il business come forza positiva; per diventare B Corp è necessario essere certificati attraverso il Business Impact Assessment, una valutazione rigorosa e indipendente che valuta e certifica l’impegno nei confronti dell’ambiente, dei clienti, dei dipendenti e delle comunità. Il movimento delle B Corp comprende oltre 3400 aziende in 71 Paesi, 101 in Italia. Il 16 luglio Danone parteciperà con altre 50 Bcorp al summit Time to B per un confronto sui temi della sostenibilità.




Per essere un leader vincente, lasciati contraddire

Per essere un leader vincente, lasciati contraddire

In un mondo affamato di leadership, troppi leader non sanno come gestire le critiche e le obiezioni mosse verso il loro lavoro.

Non esiste una soluzione semplice, ma si può trarre ispirazione dai migliori leader, imprenditori ed executive che hanno creato un valore economico durevole basato sui valori umani, accettando e incoraggiando il cosiddetto “diritto di dissentire”. Secondo loro, infatti, si può divenire un buon leader soltanto ascoltando i pareri di tutti, analizzando le ipocrisie e i comportamenti scorretti e dando peso ai feedback dei propri collaboratori. Victor Ho, già CEO e imprenditore, ha raccontato in un’intervista il suo primo approccio alla pratica del “diritto di dissentire”, nata tra le fila della società di consulenza McKinsey&Company: “praticare il diritto di dissentire significa riconoscere che la persona più giovane e con meno esperienza è la persona più adatta a dichiarare di non essere d’accordo con la figura senior presente nella stanza”. Questo concetto è divenuto un caposaldo della cultura aziendale di McKinsey&Company grazie al lavoro di Marvin Bower, guida leggendaria dell’azienda.

Molti manager scambiano la piaggeria per senso di squadra, la paura per consenso, la falsità per entusiasmo. Ma se il dissenso non è espresso, non significa che non ci sia. Semplicemente inciderà sull’atteggiamento della persona senza che il manager ne sia consapevole

Un altro nome legato alla McKinsey, Robin Richards, attualmente CEO di CareerArc Group, ha sottolineato che il dissenso porta alla luce le menti più brillanti e i migliori risultati.

Per lasciarsi contraddire serve fiducia in se stessi, naturalmente. Ma serve anche tanta fiducia nei collaboratori. La fiducia nel fatto che, anche mentre ti contraddicono, non si “chiamano fuori”, e daranno comunque il massimo per realizzare la decisione presa, qualunque essa sia.

Secondo lui, le persone che godono di un simile ambiente si sentono valorizzate e non hanno paura di far sentire la propria voce. La verità è che poche persone hanno il coraggio di dissentire, perché i loro capi non incentivano il loro diritto a farlo. Edgar Schein, professore emerito alla MIT School of Management, ha studiato per decenni le caratteristiche di un leader vincente, e ha più volte sottolineato l’importanza dell’umiltà, quel tipo di umiltà che invita al dissenso, che però ad oggi è ancora troppo rara. L’umiltà e l’ambizione, secondo il professore, non devono essere contrapposti: piuttosto, serve essere umili a servizio della propria ambizione. Solo così i leader riusciranno a raggiungere i propri obiettivi in modo efficace e sostenibile, in un mondo pieno di imprevisti. 

Leggi l’articolo completo di Bill Taylor su www.hbr.org




Il gol per l’ambiente di Dybala: con una start up di New York firma occhiali stampati in 3D

Il gol per l’ambiente di Dybala: con una start up di New York firma occhiali stampati in 3D

L’argentino della Juve ha collaborato con la società King Children per la produzione on demand delle montature PD10. Aderendo alla filosofia #zerowaste non ci saranno materiali da smaltire

Il gol diventa digitale

Che cosa hanno in comune un calciatore e la trasformazione digitale? Che cosa hanno in comune il gol e la sostenibilità ambientale? A rispondere è Paulo Dybala, il numero 10 della Juventus, che ha scelto di sposare un progetto tecnologico all’avanguardia, di quelli destinati a ripensare i sistemi produttivi ma con un impatto sull’ambiente fortemente ridotto. L’attaccante argentino è infatti stato coinvolto nella start up King Children di Brooklyn, fondata dal giovane imprenditore visionario Sahir Zaveri e da David Lee, per la produzione di occhiali sportivi con una procedura molto particolare e che risponde alla filosofia #zerowaste.

Stampa in 3D

La collaborazione con l’attaccante argentino ha reso possibile l’ideazione di montature destinate a migliorare le prestazioni sportive grazie alla capacità di adattarsi perfettamente al viso ottenuta con il ricorso alla mappatura e alla scansione in 3D di oltre 10.000 punti del volto. Il nome del nuovo brand non poteva che essere un omaggio al nome e al numero di maglia del giocatore: PD10. L’obiettivo “zero rifiuti” è centrato perché la produzione avverrà attraverso una piattaforma per la realizzazione su misura di largo consumo: l’occhiale, infatti, sarà il risultato di una stampa in 3D on demand che, rispetto alla tradizionale produzione industriale in serie, non rende più necessario lo smaltimento di scarti di materiali e dell’invenduto, calcolato in due terzi della produzione.Articolo Img

L’attaccante ecosostenibile

«Entrare a far parte del mondo di King Children è per me motivo di orgoglio e di gioia. Ho deciso di condividere le sue idee innovative perché rappresentano pienamente il mio modo di vedere le cose: sostenibilità e tecnologia sono, infatti, le due parole chiave che mi stanno maggiormente a cuore nel progetto – ha commentato Paulo Dybala – Abbiamo lavorato insieme, ho partecipato all’ideazione, al disegno e alla costruzione del prodotto e questa magnifica esperienza ha migliorato il mio modo di essere legato a un brand». Inoltre, con l’adesione a Impatto Zero di Lifegate, che dal 2001 ha salvaguardato 80 milioni di metri quadri di foresta, l’impatto ambientale dell’intero ciclo di vita dei prodotti sarà compensato grazie alla creazione e tutela di foreste in crescita in Madagascar.Articolo Img

Cambiare l’industria della moda

«L’industria della moda, per come è strutturata oggi, produce un’enorme quantità di rifiuti e di scorte che per la maggior parte finiscono invendute», ha spiegato Sahir Zaveri, Ceo e co-fondatore di King Children, e pioniere del movimento #zerowaste. «Lo scopo della nostra piattaforma è di sfruttare tecnologia e materiali altamente performanti per offrire un prodotto di altissima qualità esclusivamente nel momento in cui viene richiesto, evitando scarti e sovrapproduzione. La collaborazione con Paulo Dybala è speciale perché, oltre che sul lavoro tecnico legato alla resa delle prestazioni, è basata su un ideale comune, quello di garantire al mondo un futuro migliore, dove le attività umane, mediante la ricerca, possano coesistere in armonia con gli altri ecosistemi».Articolo Img

I gusti di Paulo

I gusti di Dybala in fatto di occhiali hanno condizionato lo stile della PD10 Personal Edition, edizione limitata per 1010 ordini, progettata da Leslie Muller, che spiega come «la superficie geometrica che caratterizza l’intera montatura è realizzabile esclusivamente con l’utilizzo della tecnologia laser, mentre il ponte a buco appartiene a un design più classico, elemento amato da Paulo». Futuribili anche i materiali, la collezione principale è infatti realizzata in nylon infrangibile di derivazione aerospaziale che permette di raggiungere un peso di soli 25 grammi e all’intera montatura di piegarsi in entrambe le direzioni senza rompersi. Mentre studi medici e neuroscientifici sono alla base delle lenti, realizzate in partnership con Zeiss.Articolo Img




Codebò investe nel green e presenta il suo primo Corporate Social Responsibility Report

Codebò investe nel green e presenta il suo primo Corporate Social Responsibility Report

Codebò, la più antica azienda ascensoristica italiana con una storia di oltre 100 anni, una tradizione familiare da cinque generazioni, oltre 7000 impianti gestiti e circa 1 milione di persone trasportate ogni giorno, ha presentato il suo primo report di Corporate Social Responsibility.

Il documento evidenzia come anche in un settore specialistico come quello della produzione e manutenzione di impianti di trasporto verticale sia possibile fornire un concreto e positivo contributo a tematiche di fondamentale importanza e scottante attualità, quali quelle della responsabilità sociale e del rispetto dell’ambiente.

“Oggi l’ascensore è il mezzo di trasporto più importante e più sicuro al mondo e ha una forte connotazione sociale, perché il superamento delle barriere architettoniche è un vantaggio per tutta la società. Abbiamo scelto volontariamente di intraprendere questo percorso di responsabilità sociale d’impresa perché come azienda ascensoristica il nostro obiettivo principale è da sempre quello di garantire la massima sicurezza nel trasporto di persone all’interno di edifici. Un impegno che oggi diventa in maniera ancora più importante una parte integrante della nostra attività produttiva, legandosi a temi come l’accessibilità, la sostenibilità e il risparmio energetico, per proteggere l’ambiente e migliorare la qualità della vita delle persone”, afferma Gianluca Codebò, Presidente dell’Azienda.

La sintesi di questi valori è tutta racchiusa nella sede torinese di Codebò, un edificio a rischio abbandono nella zona più industriale della città, che è stato completamente ristrutturato secondo i più avanzati criteri di ecosostenibilità: materiali rinnovabili, impianto fotovoltaico che consente la totale autosufficienza energetica della struttura, soluzioni all’insegna del risparmio energetico e dell’abbattimento di CO2, terrazza con orto pensile a disposizione dei dipendenti.

Al tempo stesso, tutti i diversi aspetti dell’attività rispecchiano i criteri aziendali di Corporate Social Responsibility: a partire dall’ottimizzazione dei consumi energetici degli ascensori prodotti, passando per progetti come la progressiva riconversione di tutto il parco auto con utilizzo di motori elettrici e le iniziative per rendere gli uffici sempre più plastic-free, fino alla grande attenzione dedicata alla qualità della vita dei collaboratori, sia per quanto riguarda l’ambiente stesso di lavoro, sia per una serie di servizi aggiuntivi a disposizione degli individui.

Un’attenzione che si è resa ancora più evidente in occasione dell’emergenza Coronavirus (durante la quale l’azienda ha continuato a garantire i servizi di manutenzione e assistenza tecnica) con la tempestiva fornitura di presidi completi di protezione personale a tutti i collaboratori e l’applicazione dello smart working per il personale impegnato in attività di ufficio, a cui ha fatto seguito l’attribuzione di un bonus a tutti i dipendenti, l’attivazione una polizza sanitaria assicurativa specifica per il sostegno economico in caso di eventuale contagio e la possibilità di effettuare un test sierologico direttamente a carico dell’azienda.

Un percorso che è comunque solo all’inizio: guardando al futuro, Codebò intende continuare la strada intrapresa, nel rispetto dell’Agenda Globale per lo Sviluppo Sostenibile promossa dalle Nazioni Unite, con una serie di nuovi progetti destinati a confermare e approfondire l’impegno dell’azienda per uno sviluppo sempre più sostenibile.




“Per fare la differenza basta un filo (di nylon)”

Ha creato un filo di nylon 100% rigenerabile, recuperandolo da reti da pesca e moquette. Ci ha impiegato anni (“e sono stati terribili”), ha affrontato difficoltà, ha speso molti soldi. Lo ha fatto per amore del Pianeta. A tu per tu con Giulio Bonazzi, Ceo di Aquafil, tra gli imprenditori italiani in ascesa

Può un’azienda tradizionale, che produce un prodotto neanche tanto sostenibile come il nylon, diventare un esempio di economia circolare tanto importante da rivoluzionare il settore dell’abbigliamento? Sembrerebbe di sì. Ad Arco di Trento, sul lago di Garda, c’è una multinazionale quotata in Borsa, con 2.900 dipendenti e mezzo miliardo di fatturato, che ha creato un filo di nylon 100% rigenerato e rigenerabile. In che modo? Recuperando la poliammide dai prodotti che la contengono: moquette, reti da pesca e altri materiali. L’azienda si chiama Aquafil, il nome del filato è Econyl, brevettato nel 2011, rappresenta il 38% dei volumi prodotti dall’azienda e sta attirando sempre di più l’attenzione dei brand dell’abbigliamento.

«La sostenibilità è l’unica possibilità per resistere nel medio-lungo termine» esordisce Giulio Bonazzi, 57 anni, presidente e amministratore delegato di Aquafil, azienda nata dai suoi genitori 55 anni fa. «Per vedere mamma e papà dovevo andare in ufficio o in stabilimento. A pranzo e a cena avevamo spesso come ospiti altri imprenditori. Mia madre era una grande imprenditrice, una persona straordinaria in azienda». Cresciuto con questi modelli, Bonazzi ha presto imparato a fare, a tenere duro, a combattere, superando difficoltà e scetticismi. «Ho attraversato momenti difficili, ma oggi che sto avendo degli importanti ritorni economici penso che rischi di più chi non cambia».

Com’è iniziata tutta questa storia?

«Aquafil è nata dai miei genitori nel 1965, quando io avevo appena due anni. La prima produzione di nylon 6 è avvenuta nel 1969. Ma non era la loro prima impresa: 9 anni prima i miei avevano dato vita a un’azienda di confezione di impermeabili di nylon, con 6 operai e 4 macchine da cucire. A quei tempi il nylon era una fibra innovativa e gli impermeabili sono stati tra i primi capi di abbigliamento a essere “confezionati”, cioè prodotti in modo industriale, in un mondo in cui i vestiti si facevano ancora dal sarto… In seguito i miei genitori hanno compiuto un percorso “a ritroso”».

In che senso?

«Dalla confezione sono passati alla tessitura: acquistavano il filato di nylon, lo tessevano e producevano impermeabili. Infine, dalla tessitura al filato. Ma a quel punto fare solo impermeabili non era più sufficiente: per realizzare economie di scala era necessario trovare altri prodotti per i quali fosse necessario il nylon 6. Fu così che mio padre, in Svizzera, nei laboratori della DuPont (l’azienda svizzera che nel 1936 ha inventato la poliammide, meglio conosciuta come nylon 66, ndr), venne a conoscenza della moquette, prodotto che utilizzava grandi quantità di filo di nylon, e cominciò a cercare clienti in questo settore».

Quale è stato il suo primo compito in azienda?

«Il mio primo compito da bambino consisteva nel piegare gli impermeabili e metterli nei sacchetti. Durante l’università (Bonazzi si è laureato in Economia e commercio a Venezia, ndr) aiutavo a caricare i tessuti sui camion. Dieci giorni dopo la laurea ho iniziato il mio periodo di istruzione in azienda: prima nel commerciale, poi nel prodotto. Mi mandavano all’estero dai clienti per capire come funzionava il settore della moquette. America, Belgio, Slovenia… ».

Com’è nata l’idea di Econyl?

«Il problema: il nylon si produce dal petrolio e impatta moltissimo sull’ambiente, soprattutto nelle prime fasi della sua produzione, che comprendono l’estrazione, la trasformazione e la produzione della cosiddetta “materia prima”, cioè quella che poi viene polimerizzata (il termine tecnico) per produrre il filo di nylon. La bella notizia? Il nylon 6 per sua natura può essere “depolimerizzato”, cioè con un solo passo indietro si ritorna alla materia prima, lo si riproduce esattamente com’è quando deriva dal petrolio. Può essere cioè rigenerato, con un minor impatto sull’ambiente».

Come le è venuta un’idea così?

«Io ho sempre “giocato” con l’idea di riciclare le materie prime, cioè trovare dai nostri fornitori materie prime da polimerizzare. A un certo punto ho pensato che potevamo polimerizzare gli scarti, in particolare le moquette usate e le reti da pesca».

Come si fa?

«Invece del consueto flusso “produzione- uso-discarica”, noi partiamo dal fondo, cioè dagli scarti: capiamo dove andarli a recuperare, li portiamo tutti in un luogo, li separiamo dai materiali che non possono essere rigenerati… Tutto questo ha un costo molto alto».

Dove prendete le reti da pesca?

«Le devi cercare, stringere accordi, spesso comprare perché altrimenti il loro destino è la discarica. Molte ci vengono fornite dai grandi allevamenti di salmone e branzino del Nord Europa, ma abbiamo anche stretto accordi con gruppi di volontari impegnati nel recupero delle reti dai fondali marini e sviluppato progetti specifici, per esempio con i pescatori delle Filippine o con gruppi di diversi volontari che recuperano le reti incagliate in relitti marini o nei fondali. Non tutte sono nylon 100%, alcune sono miste, quindi quando le riceviamo nel nostro stabilimento (in Slovenia), dobbiamo separare quelle solo nylon da quelle miste».

Quali problemi ha dovuto affrontare?

«Gli impianti di depolimerizzazione che avevamo non erano in grado di produrre materia prima dagli scarti: dovevamo costruirne uno nuovo, ma anche uno per la preparazione degli scarti. Parallelamente dovevamo anche cercare clienti che fossero interessati al prodotto, per potergli dare un valore. Non è stato facile, perché fino a che non lo abbiamo industrializzato il filato rigenerato era più costoso di quello vergine. Un progetto sul quale abbiamo lavorato 5 anni, dal 2005 al 2010 e che avevamo in parte sottovalutato».

Chi vi ha aiutato?

«Quando nel 2008 andavo dalle banche a chiedere i soldi mi davano del matto. È stato il private equity a credere al mio progetto. Econyl è stato lanciato nel 2011. Il primo settore a recepirlo è stato quello della moquette, qui ci sono aziende molto attente alla sostenibilità. I brand dell’abbigliamento sono arrivati dopo. A cominciare da Speedo, che ha realizzato parte della sua collezione di costumi, poi Adidas con una linea di costumi e di calze. Poi sono arrivati i brand della moda: Gucci, Stella McCartney, Prada, che ha annunciato che entro il 2022 tutte le sue borse in nylon saranno fatte interamente con Econyl. Napapijri, con il progetto nuovissimo della giacca Infinity, riciclabile al 100%. E ora Safilo per la prima volta ha utilizzato Econyl per la montatura di una linea di occhiali».

Strategia di marketing, o vera attenzione per l’ambiente?

«È il consumatore a richiedere ora prodotti sostenibili. Il problema è diventato una vera e propria emergenza. E il tessile-abbigliamento è il secondo settore più inquinante al mondo dopo il petrolio. Tutto quello che stiamo facendo è pochissimo in confronto all’enormità del problema».

Cosa fare per spingere verso un cambiamento reale?

«Occorrono tre cose. 1) Una buona legislazione. In Norvegia una legge ti dice come devi produrre le bottiglie di plastica, e se lo fai in modo diverso paghi una multa. Inoltre hanno introdotto nei supermercati le macchine per il vuoto a rendere: chi restituisce la bottiglia vuota riceve un coupon che può essere utilizzato per la spesa o dato in cassa in cambio di soldi. Il risultato è un tasso di riciclo del 97%. 2) L’educazione. Nel mondo siamo più di 7 miliardi: bisogna cambiare le proprie abitudini. Si pensi soltanto al cibo, responsabile del 20-30% di CO2 e che poi viene buttato via. 3) La riprogettazione di prodotti e processi. E qui entrano in gioco le piccole e medie imprese».

Saranno le piccole imprese i veri motori del cambiamento?

«Trasformare un’azienda da decine di miliardi di euro di fatturato da lineare a circolare è molto difficile, se inizi oggi forse ci riusciranno i pronipoti… questo perché all’inizio ci sono costi altissimi e i manager che si succedono ai vertici delle grandi aziende devono fare i conti con i risultati trimestrali (e vengono remunerati in base a questi), quindi hanno una visione più di breve periodo. Al contrario, per i piccoli e medi imprenditori è più facile ripensare i modelli o addirittura creare business nuovi e innovativi».

Ha fiducia nelle nuove generazioni?

«Moltissimo. Il futuro è loro. Già oggi i giovani che lavorano da noi partecipano con entusiasmo a tutte le novità, sono molto interessati all’economia circolare, a modi diversi di consumare, sono parte attiva della sharing economy».

Chi è stato il primo a credere in lei?

«Kelly Slater, il campione del mondo di surf, quando nel 2014 ha creato la sua azienda di abbigliamento (si chiama Outerknown, ndr) e la prima linea di beachwear, cercava fornitori e produttori “amici del mare”. Ha sentito parlare di noi, ed è voluto venire a vedere di persona il nostro stabilimento in Slovenia. Ha fatto un video che poi ha diffuso, per noi è stata una grande promozione».

Cosa insegna la sua storia?

«Che nella vita bisogna essere un po’ folli. Lo diceva anche Steve Jobs: Stay foolish, stay hungry. È bello svegliarsi al mattino e sapere che c’è sempre qualcosa da imparare e che si può imparare da chiunque, purché si rimanga aperti al cambiamento e si abbia fiducia nell’innovazione. Io ci credo».

INFO: www.aquafil.com

Tratto da Millionaire di aprile 2020.

nylon aquafil
L’apertura dell’articolo pubblicato su Millionaire di aprile 2020