Nasce 4sustainability, marchio green per aziende fashion&luxury
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Dalla sostituzione delle materie prime con alternative sostenibili all’eliminazione delle sostanze chimiche tossiche e nocive in produzione, dalla costruzione di un sistema di garanzia del materiale riciclato al miglioramento dello stato di benessere all’interno all’organizzazione. Sono nove le aree possibili di intervento di 4sustainability, il marchio di Process Factory che attesta l’adesione delle aziende del fashion&luxury alla roadmap per la sostenibilità.
“La sostenibilità è una scelta strategica che l’azienda integra nel proprio modello di business e che si traduce in interventi coerenti con la tutela dell’ambiente dei diritti della persona e della dimensione economica – spiega Francesca Rulli, ideatrice di 4sustainability – Una scelta etica che genera valore e opportunità di sviluppo”.
Sono già oltre 130 – spiega l’azienda – le imprese della filiera dei distretti italiani del tessile e della pelle e numerosi brand internazionali ad essersi affidati ai protocolli di 4sustainability per implementare azioni concrete per lo sviluppo sostenibile. “Abbiamo strutturato per primi, in Italia, un percorso espressamente dedicato alle aziende tessili e del comparto moda e in grado di impattare concretamente sull’organizzazione interna e di filiera per trasformare la sostenibilità da costo, quale veniva e viene ancora, in parte, percepita, a leva strategica di sviluppo capace di generare valore”, specifica Rulli.
In cosa consiste questo processo? “L’adesione alla roadmap 4sustainability si concretizza nell’implementazione di una o più iniziative, da realizzare attraverso il progetto, costruito su un protocollo standard, It tool e linee guida dedicati, e attività di training trasversali che precedono e/o seguono il completamento del progetto”, aggiunge l’imprenditrice.
La Roadmap per la sostenibilità consta di 9 aree di intervento, che rappresentano la mappa ideale per un impatto a 360 gradi: Monitoring 4sustainability (mappare e coinvolgere la filiera), Chemical Management 4sustainability (eliminare le sostanze chimiche tossiche e nocive dalla produzione), Training 4sustainability (formare le risorse), Recycle 4sustainability (costruire un sistema di garanzia del materiale riciclato), Csr 4sustainability (applicare sistemi di gestione certificabili), Materials 4sustainability (sostituire la materie prime tradizionali con alternative sostenibili), Climate 4S (introdurre processi che riducano le emissioni di CO2 in atmosfera, i consumi di acqua e di energia), People 4S (utilizzare strumenti per l’analisi e il miglioramento dello stato di benessere all’interno all’organizzazione), Reporting 4sustainability (rendicontare con metodo e trasparenza quanto realizzato).
La fine del tempo genera mostri di silicio
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A colloquio con Guido Brera, in libreria con la Nave di Teseo. “Non è un atto di accusa contro il cortisone di Draghi, ma contro il vuoto della politica che lascia spazio a chi con pazienza, si prenderà tutto”. E il coronavirus c’entra eccome.
Se i tassi di interesse – la misura del tempo in economia – sono ridotti a zero, il tempo è azzerato, non esiste più. E la fine del tempo genera mostri. Giganteschi mostri, prevalentemente di silicio, che possono permettersi di aspettare, di vedere gli altri animali morire, per poi accaparrarsi tutto il mercato. “Piattaforme tecnologiche, big player, società con sedi legali e fiscali virtuali, le aristocrazie digitali che hanno usato la grande opportunità dei tassi di interesse a zero per scaricare tutto il peso sulle economie reali, sulle persone in carne e ossa, sulle famiglie.” A sei anni da “I Diavoli”, best seller germinale a cavallo tra narrativa, finanza e geopolitica, che ha generato siti web, missioni di supporto al soccorso dei migranti e una serie tv in primavera su Sky, Guido Brera, fondatore del gruppo Kairos, gestione del risparmio, torna nelle librerie con “La fine del Tempo”, edito da La Nave di Teseo. “Un libro difficile”, che cerca di coniugare la lucidità delle tesi con il genere del thriller. Dove snodi narrativi ed esposizione di teorie “vanno in frantumi e danzano”, per dirla con un altro testo portato alle stampe con l’amico e premio Strega, Edoardo Nesi.
Dedichi il libro a Federico Caffè, l’economista che sparisce lasciando l’orologio (il tempo…) sul comodino, in un aprile di molti anni fa, “nel più crudele dei mesi”, come ricordi citando “La terra desolata” di Thomas Stearn Eliot.PUBBLICITÀ
Perché Caffè è stato il grande sconfitto, aveva ragione, ma sparisce, keynesiano per eccellenza perde nei confronti della scuola di Chicago, degli alfieri del monetarismo e del liberismo. Tu immagina Caffè che torna oggi, e in sei mesi ricostruisce tutto quello che è accaduto. Come per il professor Wade, che nel mio libro perde la memoria e in sei mesi deve recuperare il senso delle cose che sono successe.
Il professor Wade e il suo avversario, il banchiere d’affari Dominic, in un dialogo illuminante che usa come metafora del Quantitative Easing una “nevicata”, raccontano due versioni contrastanti. Dominic dice che la nevicata ha congelato l’Apocalisse, il professore che la nevicata ha congelato le pareti della piramide sociale che le persone non riescono più a salire. Guido Brera da che parte sta?
Io sposo la linea del professore che è una sorta di vecchio Federico Caffè, però bisogna essere molto pragmatici, il Quantitative Easing è stato un’arma essenziale in un momento di disruption dei mercati finanziari causata da un ritiro trentennale della politica, dagli anni ’80. Il QE era necessario, ma non sufficiente, anzi prolungato produce anche degli effetti negativi. Come la neve si posa dappertutto, poi nelle zone di sole, dove ci sono più debolezze, dove ci sono le classi più deboli, si scioglie. Il QE che all’inizio sembra porre una coperta su tutto, poi si rivela un elemento di disequilibri, soprattutto perché con quei tassi così bassi nascono nuovi business, nuove forme viventi.
È un atto di accusa verso Draghi e il suo Quantitative Easing?
Draghi resta il più grande politico e statista che abbiamo avuto in Europa. Non è un atto di accusa verso la Banca Centrale europea, ma verso la politica che ha lasciato le banche centrali da sole a cercare di risolvere problemi con le loro armi. Peraltro la Bce è stata più illuminata di altre banche centrali. E qualunque banchiere centrale la vedrebbe come questo libro: la politica monetaria è cortisone, ma serve un qualcosa di più strutturato, serve una politica fiscale. “La fine del tempo” è un atto di accusa al vuoto della politica, in prosecuzione con “i Diavoli”, che raccontava la finanza come strumento politico, qui racconto cosa hanno provocato quegli effetti prolungati di immissione di banconote nel sistema.
E qui entra in campo quella che chiami “Tecnofinanza”. Per fare chiarezza, tracce di algoritmi e di supercalcolatori erano già nella crisi dei mutui, nel 2008, tu la correli temporalmente strettamente al “whatever it takes”, il celebre discorso di Draghi che è del 2012.
La Tecnofinanza è un’invenzione del libro. È tutto, è Uber, sono i rider, è ciò che questa enorme massa di liquidità ha incontrato e abbracciato, che in disperata ricerca di rendimenti, incontrando le nuove tecnologie crea dei business disruptive, ossia dirompenti ma anche distruttivi di tutto quello che c’è accanto a loro. Con algoritmi che regolano la vita degli altri, ma scaricando sugli altri i rischi di fare un’attività, con lavoro sottocosto per conquistare sempre più grandi fette di mercato.
Nel cuore del “La fine del tempo”, in più di un passaggio decisamente inquietante parli dei “capitali pazienti”.
Il tempo non esiste più. Nel momento in cui i tassi di interesse – che misurano il valore del tempo – sono a zero, il tempo è azzerato. Tu puoi lanciare una corporate, un’azienda, proprio perché hai capitali pazienti. Mentre prima i grandi fondi di investimento, i fondi sovrani, le assicurazioni, avevano bisogno di un rendimento, ora con i tassi di interesse a zero una parte di allocazione dei capitali è andata verso i fondi di private equity, di venture capital, tutte attività nuove che hanno la mission di creare delle start up sovracapitalizzate, con appunto, dei capitali pazienti. Che possono perdere, anzi devono perdere nel breve per poi accaparrarsi tutte le fette di mercato, in un mercato dove c’è ancora economia reale, lenta, con vera sede fiscale, con reali costi dei lavoratori.
E qual è l’obiettivo di un business del genere?
Un monopolio in cui si prende tutto il banco e a quel punto, si alterano i prezzi.
La Cina per fronteggiare la crisi del coronavirus ha immesso sul mercato 100 milioni di yuan. Lo scenario si ripete?
Nel libro ho fatto l’esempio di Bacon, del suo Trittico della Crocifissione, che definisco “il più sconvolgente e oscuro canto della deformità umana”. Anche nel caso della Cina, come era stato per il Giappone, si creano delle scomposizioni mostruose tra il reale e il mercato. Il reale va male perché l’economia si ferma, così pompi liquidità e gli asset finanziari salgono. Ma attenzione, l’uomo che interferisce così pesantemente sul giusto equilibrio dei prezzi, alla lunga rischi di creare delle bolle importanti.
Definisci la Cina la trappola evolutiva per eccellenza.
La globalizzazione in Cina è stata talmente veloce, con il globale vicino al locale, che la natura si ribella. “La fine del tempo” racconta questo, di un’accelerazione incredibile e di un mondo in trappola. Come il mercato reale, le imprese reali, i lavoratori, le famiglie, anche la natura violentata va in tilt quando un cambiamento avviene troppo velocemente. È esattamente quello che sta accadendo in Cina col coronavirus. Con l’urbanizzazione di 600 milioni di persone in pochi anni, un virus che prima poteva rimanere nelle campagne, ora da un mercato di quartiere in pochi giorni arriva a Tokyo. Troppe distanze in poco tempo. Questa è la fine del tempo.
Ikea è il primo posto al mondo dove puoi pagare con il tempo che impieghi per arrivare al negozio
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Un sogno che si avvera, poter entrare in negozio e pescare l’oggetto desiderato senza pagare un euro. Messa così sembra incredibile e impossibile, eppure c’è chi punta su questo apparentemente incomprensibile metodo di pagamento per incrementare gli affari.
E non si tratta di una piccola azienda o di una giovane startup in cerca di visibilità, perché gli acquisti pagati a tempo sono la nuova formula in vigore da Ikea, precisamente nel secondo store che gli svedesi hanno aperto a Dubai.
Perché pagare con il tempo
Come nella filosofia del gruppo, l’azienda ha scelto un luogo fuori città per lo store Jebel Ali, raggiungibile attraverso un percorso in mezzo al deserto di circa 40-50 minuti dal centro cittadino. Naturale, quindi, che la stragrande maggioranza di residenti e turisti preferisca recarsi presso il primo negozio della catena, più facile da raggiungere.
Ecco, allora, che per smuovere le acque serviva un’idea forte, di quelle capaci di attirare la curiosità delle persone e dei media. Detto e fatto, con la campagna progettata dall’agenzia pubblicitaria Memac Ogilvy, basata appunto sulla possibilità di acquistare prodotti tramite il tempo di percorrenza impiegato per arrivare al negozio.
Come funziona
Nello specifico, la procedura è molto semplice per i clienti, poiché una volta arrivati in cassa devono soltanto scegliere come pagare, con i cassieri che nell’elenco includono anche la variante temporale. Chi accetta (e del resto, chi non accetterebbe?) deve solo ripescare il più recente spostamento nella cronologia di Google Maps e mostrare lo smartphone all’addetto, che scala così la merce dal conto complessivo calcolando la distanza del tragitto.
La base di partenza per gli acquisti è stata varata partendo dal salario medio vigente nel più noto dei sette emirati arabi, pari a 105 dirham, che corrispondo a circa 29 dollari orari (poco meno di 27 euro), con ogni minuto di viaggio valutato l’equivalente di 48 centesimi di dollaro.
Cosa si può comprare
Impossibile dire se il valore sia troppo o troppo poco, anche perché non è questo il punto, bensì l’inedita opportunità offerta ai clienti, che in sostanza con un percorso di 50 minuti si possono assicurare uno dei più gettonati tavolini dell’azienda, mentre chi impiega due ore per recarsi a destinazione può mettere le mani su una classica libreria a sei ripiani (peraltro personalizzabili).
La mossa, ovviamente, è tutt’altro che improvvisata perché, se i consumatori possono acquistare articoli gratis, allo stesso tempo sono incentivati a frequentare più spesso il magazzino che, proponendo un catalogo per la casa senza eguali, garantirà alla società di Stoccolma un incremento delle vendite e maggiori ricavi.
Nuovi scenari
L’opzione “Acquista con il tuo tempo” è attiva per ora solo nello store di Dubai Jebel Ali e non ci sono indizi circa una possibile diffusione in altri negozi e paesi. La novità tuttavia apre due scenari rilevanti, dimostrando in primo luogo come le aziende possano sfruttare servizi digitali famigliari a centinaia di milioni di clienti.
Si dovrebbe ragionare, inoltre, se e come Ikea (e chi replicherà l’innovativo metodo) raccolga e utilizzi i dati che in consumatori rilasciano spontaneamente, accettando il pagamento a tempo, anche se il copywriter della campagna ha specificato che al momento il processo non prevede la raccolta dati della clientela.
Filosofia, etica e tecnologia: prendersi cura della “infosfera” costruendo sintesi tra umanesimo e scienza
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“Pensare l’infosfera”, dice Luciano Floridi, filosofo, professore di filosofia ed etica dell’informazione all’università di Oxford, dove dirige il Digital Ethics Lab. Ha intitolato così il suo ultimo libro, pubblicato da Raffaello Cortina e raccontato, nei giorni scorsi, in tre incontri al Teatro Parenti a Milano.
E sostiene che stiamo vivendo una “quarta rivoluzione”, dopo quelle avviate da Copernico, Darwin e Freud, legata alla diffusione del “digitale”, con tutto il carico dei Big Data e dell’Intelligenza Artificiale che amplia profondamente le dimensioni dell’Information and Communication Technology che abbiamo finora conosciuto e applicato ai processi economici e sociali.
Floridi spiega, dunque, che “l’infosfera rappresenta un nuovo modo di stare insieme, in tutti gli ambiti della vita, dall’educazione al business, dalla politica alla cultura, dal commercio alla salute e all’intrattenimento e ci pone delle sfide sconosciute, facendo del Novecento un mondo obsoleto”. Infosfera come “nuovo spazio”. Rispetto al quale “ci dobbiamo chiedere: come lo stiamo costruendo? Lo stiamo costruendo bene?”.
Pensiero e tecnologie digitali. Riflessione sul senso e il valore delle cose, delle azioni, delle scelte. Elaborazione di nuove idee adatte al cambiamento dei tempi. Floridi è molto chiaro: “La rivoluzione digitale ha effetti sulla nostra autonomia di persone: la nostra libertà, la nostra capacità di determinare le scelte dipende sempre più dai dati. E comincia anche a essere messa in discussione la nostra eccezionalità.
Come esseri umani ci siamo a lungo identificati con l’autodeterminazione e con l’intelligenza, che adesso sono entrambe sotto attacco. L’algoritmo di Netflix ci dice: guarda questo film, ti piacerà. E a scacchi non giochiamo più contro il computer, tanto sappiamo che vincerà lui. La filosofia può essere d’aiuto nel ripensare la nostra unicità” (la Repubblica, 6 febbraio: “Ci vorrebbe un Socrate dell’era digitale”).
Nel tempo controverso delle grandi trasformazioni, proprio per orientarsi di fronte alle questioni e alle scelte che la velocissima evoluzione tecnologica ci pone, emerge con forza il bisogno di una nuova consapevolezza umanistica. E tornano alla ribalta i filosofi. Così come gli intrecci di politica e affari, culture e sfide legate alla sicurezza e alle life sciences nel mondo globale rilanciano la necessità di avere geografi originali per riscrivere le mappe capaci di orientare il nostro cammino.
Filosofi e geografi, per il mondo nuovo. Poeti e letterati, perché nulla come la letteratura sa raccontare lo splendore e la tenebra nel cuore degli uomini (Shakespeare, più di tutti, ne è stato maestro). E storici, per affinare gli strumenti in grado di chiarire le relazioni tra passato e futuro, ricordando la lezione, tra gli altri, di un grande artista contemporaneo, Jannis Kounellis: “Il problema non è quello dell’antichità, ma dell’attualità. E non esiste nessuna attualità senza antichità. La si trova in tutto”.
Se queste sono riflessioni che si incrociano, nel mondo della cultura, della formazione, ma anche dell’economia e della scienza, non può non fare riflettere con una certa preoccupazione il fatto che nelle scelte degli studenti e delle loro famiglie, in vista delle iscrizioni alla scuola secondaria, restino sì in testa i licei, con il 59% delle preferenze (per l’anno scolastico 2020/2021) e un buon passo avanti rispetto al 53,5% dell’anno precedente, ma con un’affermazione straordinaria del liceo scientifico cosiddetto light, quello senza il latino. I dati si riferiscono alla Lombardia.
E in dettaglio documentano come sia aumentata la percentuale dei ragazzi che invece del latino e dell’ora di filosofia, preferiscono un maggiori numero di ore di scienza, di informatica o di discipline sportive o economico-giuridiche.
Perché? Una scuola più semplice ma anche più contemporanea, più adatta ai nostri tempi tecnologici. E più utile per trovare lavoro, si spiega. Questa idea dei ragazzi e delle loro famiglie si lega anche a una tendenza che cresce di peso negli ambienti dell’economia e dell’impresa: è necessario formare persone con gli strumenti adatti a rispondere all’offerta del mercato del lavoro.
Servono competenze scientifiche e tecnologiche, giovani con una formazione in grado di inserirsi nel mondo digitale, tecnici preparati per “Industria 4.0”, l’evoluzione digitale della nostra sofisticata manifattura.
Ci si trova di fronte a due tensioni diverse, entrambe con una certa dose di ragione.
Da tempo le imprese italiane lamentano, giustamente, una diffusa carenza di formazione tecnica e tecnologica. E il dato che ricorre in tutti i dibattiti è quello relativo agli Its, gli Istituti Tecnici Superiori, che qui da noi hanno poco più di 8mila iscritti, un numero davvero esiguo, soprattutto se confrontato con quello tedesco: 800mila.
Investire sulla formazione tecnico-scientifica, si dice nel mondo delle imprese, privilegiando gli istituti tecnici tradizionali, quelli “superiori” (come appunto gli Its) e i corsi di laurea “Stem”, l’acronimo che sta per science, technology, engineering e mathematics, poco frequentati in Italia.
Su un altro versante, molti insistono sull’importanza di un rilancio degli studi classici, per potere avere strumenti di comprensione di un mondo in cambiamento. Costruire conoscenze e non solo competenze.
E, di fronte al rapido usurarsi di tecnologie e contenuti professionali, data appunto l’evoluzione delle culture digitali, formare i giovani a “imparare a imparare”, per usare l’efficace definizione di Francesco Profumo, ex rettore del Politecnico di Torino e presidente del Cnr, prima di diventare ministro dell’Istruzione.
C’è una sintesi possibile? Forse, sta nella necessità di insistere sulla “cultura politecnica”, convergenza di saperi umanistici e conoscenze scientifiche. E di investire nel lungo periodo d’una formazione che abbia solide radici classiche, anche per i programmi degli Its e programmi aperti alle evoluzioni delle tecnologie e della scienza anche per i licei classici.
Costruire ingegneri filosofi (come si è detto spesso in questo blog) e tecnici sensibili alle domande di senso delle cose e non solo alla loro efficienza e produttività. Lavorando sulla formazione di persone consapevoli della “utilità dell’inutile”, riprendendo l’efficace titolo d’un bel libro di Nuccio Ordine, letterato attento ai temi della filosofia e della scienza.
Si torna così alla lezione di Floridi sulla “cura dell’ecosistema”, sull’etica che deve ispirare la relazione con la tecnologia. Un Nuovo Umanesimo da scienziati consapevoli e responsabili. Formati con robuste dosi di pensiero critico fin dai banchi di scuola.
Lettera di dimissioni dall’Osservatorio sulla Comunicazione di Impresa, OCPI – già CCI Club della Comunicazione d’Impresa
p.c. all’Direttivo del OCPI p.c. all’Assemblea del OCPI
Caro Presidente,
ti indirizzo questa mia lettera, facendo seguito alle gentili interlocuzioni delle ultime settimane, con Te e con vari membri del Direttivo dell’Associazione.
In primo luogo, ci tengo sinceramente a complimentarmi per la Tua elezione a Presidente, certo come sono che saprai guidare magistralmente l’Associazione verso nuovi traguardi e verso un più evidente lustro per l’intera categoria dei comunicatori.
Nel merito della governance dell’Associazione, ci tengo a condividere brevemente con te alcune riflessioni.
Come avevo preconizzato in epoca non sospetta, all’epoca dell’avvio di questo percorso di riforma e rilancio del Club Comunicazione d’Impresa, per il quale ho con entusiasmo servito per anni, prima come socio e poi in seno al Direttivo per svariati mandati, le procedure di emendamento dello Statuto esistente hanno finito per penalizzare fortemente la componente maggioritaria dei professionisti della comunicazione, ovvero quella libero-professionale, che in base alle attuali regole statutarie perde completamente – e inspiegabilmente – il diritto di elettorato passivo, a tutto vantaggio della componente Confindustriale.
La scelta di garantire il diritto di elettorato passivo solamente ai rappresentanti di realtà imprenditoriali affiliate a Confindustria, se da un lato garantirà all’Associazione un respiro “istituzionale” che diversamente non avrebbe mai potuto avere, dall’altro viola (giurisprudenza pacifica) le buone prassi in tema di garanzia di democraticità della struttura: come ben sappiamo, ogni clausola che limiti i diritti di elettorato per i Soci in regola con il pagamento della Quota sociale, è stata giudicata in più occasioni come illegittima, e quantomeno – aggiungo – del tutto inopportuna.
Come penso tu sappia, è da tempo accolto in varie sentenze di Cassazione il principio di uguaglianza dei soci delle associazioni: essi debbono avere parità di diritti e di doveri, in quanto persone accomunate da un medesimo interesse o animate da uno stesso ideale. E’ vero, spesso in passato i “contratti” associativi hanno introdotto delle clausole che prevedono alcune differenziazioni fra gli associati (ad esempio molte associazioni distinguono diverse “categorie” di soci, e in questo non vi è nulla di male), ma la dottrina cita, comunemente, esempi di alcune disuguaglianze che sono certamente improprie, e tra esse la clausola che preclude agli associati l’elettorato passivo per le cariche direttive.
A queste riflessioni di carattere più strettamente tecnico, aggiungo che il riservarsi il diritto di eleggere la totalità dei membri del Consiglio Direttivo da parte di Confindustria è anche un pessimo segnale, permeato da una neppure troppo velata arroganza, che vorrebbe i Soci non-confindustriali a fare da “parco buoi” pagando le quote associative senza poi potersi candidare al governo dell’Associazione. Tale caduta di stile pare ancor più discutibile se consideriamo che l’Associazione pretende in qualche modo di rappresentare iscritti provenienti dal mondo della comunicazione, dominio delle scienze sociali dove valori quali autenticità, coerenza, trasparenza e dialogo dovrebbero essere parole chiave imprescindibili.
E quanto rilevo – è bene precisarlo – è vero del tutto a prescindere dalla mia volontà o meno di ricandidarmi, in futuro, quale membro del Direttivo, ovvero di iscrivere una delle realtà imprenditoriali con le quali collaboro a Confindustria per poter a quel punto avere la possibilità di candidarmi: anche per rispetto alle altre organizzazioni no profit con le quali da tempo collaboro, non desidero, infatti, neppure avere la “tessera onoraria” di un organizzazione irrispettosa dei più elementari requisiti di democraticità interna.
Per questa ragione, Ti chiedo di dare lettura di questa mia lettera alla prossima Assemblea dei Soci, atto formale seguente al buon fine del quale vorrai accettare le mie irrevocabili dimissioni da membro del Direttivo dell’Associazione.
Con immutata stima personale, e con i migliori auguri per il Tuo lavoro,