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DALL’ARTE SITUAZIONISTA ALLA GESTIONE DELLA REPUTAZIONE

DALL’ARTE SITUAZIONISTA ALLA GESTIONE DELLA REPUTAZIONE

Nel mio ultimo volume, “Apri la tua mente”, stimolo il lettore a riflettere sull’importanza di saper unire i punti, facendo tesoro delle lezioni di Edward De Bono sul pensiero laterale, irrinunciabili – ancorché troppo spesso trascurate – per chiunque abbia interesse per il dominio delle relazioni pubbliche e del governo della reputazione.

Da anni, a tal proposito, riservo una delle mie lezioni in università a quelle che i miei collaboratori etichettano come “contaminazioni di saperi”: cos’hanno a che fare le leggi della termodinamica e l’entropia con la comunicazione di crisi? Perché la conoscenza della disciplina matematica della Teoria dei giochi di John Von Neumann potrebbe tornare utile a un relatore pubblico? L’epigenetica ha – o può avere – ha che fare con la produttività delle aziende e con la loro capacità di raggiungere i propri obiettivi di business? La letteratura del ‘900 può avere punti di tangenza con la moderna comunicazione digitale?

La verità è che ho sempre fortemente creduto a un approccio “circolare” e non binario-sequenziale alla nostra professione: solo mantenendo, appunto, la mente aperta a stimoli esterni afferenti a discipline apparentemente lontane dal dominio delle relazioni pubbliche, è possibile acquisire quell’attitudine alla creatività, alla flessibilità e alla resilienza che sono, a mio avviso, caratteristiche imprescindibili del lavoro di chi ha la pretesa di voler e saper costruire il perimetro reputazionale di un’organizzazione o di un individuo.

Nel campo di ricerca della filosofia e della sociologia, ad esempio, da sempre mi stimola il corpo di conoscenze sviluppato dal movimento Situazionista.

L’Internazionale Situazionista fu un fenomeno cultuale con radici nelle avanguardie artistiche del secolo scorso, connotato a tratti come movimento anarchico di sinistra, il quale tuttavia – è bene sottolinearlo – attaccò e criticò a più riprese i regimi totalitari come quelli sovietico e maoista. Figure di spicco del movimento, furono il francese Guy Debord, il danese Asger Jorn, il belga Raoul Vaneigem e l’italiano Giuseppe Pinot-Gallizio.

Il Situazionismo nacque il 28 luglio del 1957, proprio in Italia, in provincia di Imperia, dalla fusione di movimenti culturali preesistenti come la Bauhaus Immaginista e il Comitato psicogeografico di Londra, con una missione – apparentemente – semplice e insieme provocatoria: creare situazioni nella vita reale costruite mediante l’organizzazione collettiva di un “gioco di eventi”, cercando di valorizzare al massimo la parte non-mediocre della vita, e diminuendone, per quanto possibile, i momenti creativamente improduttivi e non fecondi, mantenendo centralissima l’idea del potenziale rivoluzionario del tempo libero.

Ho trovato alcuni punti di contatto tra questi stimoli e il considerare che alcune delle più innovative idee produttive e feconde per la messa a terra dei miei progetti di reputation management siano state da me elaborate non già durante ingessati meeting in ufficio, bensì nel tempo libero: durante lunghe camminate in mezzo al deserto durante un viaggio in nord-Africa, in un giardino, riflettendo dinnanzi a un tramonto al mare, stimolando i neuroni mentre leggevo non già corposi saggi tecnici di settore, pur indispensabili per l’aggiornamento professionale, ma magari banali riviste divulgative.

Tonando ai situazionisti, una delle strategie cognitive proposte dal movimento era la “psicogeografia”, ovvero l’esplorazione pratica del territorio attraverso le cosiddette “derive”. Partendo dallo studio degli effetti precisi dell’ambiente geografico su noi esseri umani, in grado di agire direttamente sul comportamento anche affettivo degli individui, i situazionisti proponevano – tra le altre cose – un preciso esercizio consistente nel cosiddetto Détournement, che si articolava in varie pratiche artistiche: partendo dal presupposto che potrebbe essere l’ambiente a modellare l’individuo, la Deriva situazionista si configura come pratica di liberazione dai dispositivi ambientali tipici del vivere moderno, percepiti come “dispotici”, liberazione da raggiungersi grazie a un volontario smarrimento dell’orientamento.

In poche parole, un vagare senza meta e scopo all’interno di un ambiente: sia esso di tipo cultuale, modificando oggetti estetici noti tramite l’innesto di linguaggi diversi e inusuali, solo apparentemente incompatibili tra loro e fuori contesto, mescolando citazioni dotte con elementi della cultura popolare, come ad esempio personaggi dei fumetti nel cui balloon vengono riportate citazioni afferenti la lotta di classe contro il consumismo, con un effetto finale inatteso e generatore di nuovi significati, allo scopo – in definitiva – di scuotere le certezze dell’acritica comunicazione di massa e generare un vero e proprio scarto di senso; sia, perché no, di tipo geografico e fisico, “perdendosi”, ad esempio, nell’esplorazione di un ambiente urbano e facendone propri tutti gli stimoli, senza un progetto di movimento precostituito.

Come ci ricorda la sempre pratica enciclopedia online divulgativa Wikipedia, “Il senso di questa perdita dell’orientamento, da parte di chi la pratica, è quello di abituare il soggetto a un’apertura mentale verso nuovi, inattesi e magari anche estranianti aspetti della realtà, tecnica questa che si rivela efficace soprattutto se effettuata nei luoghi geografici che abitualmente si abitano”.

Un vero e proprio continuo training sensoriale, che apre a nuove percezioni ed esperienze estetiche, attraverso le quali i soggetti si arricchiscono, riconfigurando il proprio mind-setting e aumentando la propria consapevolezza di se stessi e di ciò che li circonda.

Un’altra delle importanti prese di posizione del movimento Situazionista è stata – non a caso – la riflessione sul diritto d’autore: su ogni loro opera (libro, video, volantino etc.) era ben specificato che essa poteva essere fotocopiata in parte o per intero, modificata e distribuita, sempre a patto che ciò non venisse fatto a scopo commerciale; una forma di valorizzazione dell’opera creativa ripresa solo decenni dopo dal modello Creative Commons, caro a chiunque si occupi professionalmente di comunicazione e di Reputation management.

Il movimento Situazionista terminò per auto-scioglimento, nel 1972 a Parigi, ma la sua eredità sotto il profilo dei contenuti, delle riflessioni e delle provocazioni, è a mio avviso assai attuale tutt’ora, per i motivi che vado ad esporre.

Come ho scritto nella precitata monografia, lo psichiatra Cloude Robert Cloninger, direttore del Centro di psicologia della personalità della Washington University di St. Louis, ha apportato contributi rilevanti per lo studio dei meccanismi cerebrali coinvolti nel funzionamento e nello sviluppo della personalità: sul suo lavoro, denominato “teoria biosociale”, esiste tra gli altri una breve ma significativa tesi di ricerca, quella di Giorgia Grandoni, giovane e valida laureata del Dipartimento di Scienze Cliniche Applicate e Biotecnologie dell’Università del L’Aquila.

Cloninger ha definito la “personalità” come un complesso sistema dinamico composto da sistemi psicobiologici individuali i quali modulano l’adattamento ai cambiamenti ambientali. Egli distingue due componenti della personalità, una a carattere biologico, il temperamento, e una cognitiva e relazionale, il carattere. Il temperamento è definito come la componente della personalità ereditabile, che si basa sulle risposte emotive automatiche di tipo stimolo-risposta, ed è una componente stabile per tutta la vita dell’ individuo; il carattere, riguarda invece l’ azione individuale intenzionale, e risulta modificabile e modulabile nel tempo da esperienze rielaborate e interiorizzate, e in questo processo il tema del rapporto tra essere umano e ambiente – come ci insegna l’epigenetica – ha un peso enorme.

È bene anche ricordare un importante citazione di Cloninger: un limite evidente dell’approccio riduzionistico alla salute mentale delle persone, che ha imperato per tutto il secolo scorso, è dato da un grave errore, ovvero il mancato tentativo da parte delle scienze di studiare il bisogno naturale di felicità che alberga in ogni uomo e le varie tappe che portano a una vita felice.

L’idea di Cloninger è quindi quella di mirare a una scienza del benessere che studi nel complesso come l’uomo può raggiungere una vita soddisfacente, piena e serena: la salute non è infatti solo assenza di malattia, bensì è uno stato di benessere fisico, mentale e sociale complessivo. Il lavoro è certamente per gli esseri umani parte di questa equazione, e la disciplina della responsabilità sociale delle imprese, parte del più ampio corpo di conoscenza del reputation management, si inserisce certamente in modo armonico e congruente in questa visione evoluta del rapporto tra l’Uomo e l’ambiente che lo circonda.

Inoltre, Emilia Costa, professore di Psichiatria dell’ Università “La Sapienza” di Roma, per molti anni titolare della 1^ Cattedra di Psichiatria di quell’università, nel suo saggio “Il cervello e la mente: dal neurone al comportamento”, conferma che il sistema nervoso simpatico e vegetativo – un tempo ritenuto “passivo esecutore” del sistema nervoso centrale, e successivamente invece riqualificato come un sistema interconnesso con il cervello e funzionalmente interdipendente, in grado di operare entro certi limiti anche in autonomia – raccoglie impulsi sensitivi dagli organi del corpo umano a contatto con l’ ambiente, inclusi quegli stimoli che non raggiungono il livello discriminativo di coscienza. Questo sistema nervoso esprime in termini somatici la nostra condizione psico-emotiva, garantendo un controllo sulla risposta allo stimolo, mediante un feedback basato sul rilascio e metabolismo di ormoni, neurotrasmettitori, endorfine e altri mediatori chimici.

Gli studi più recenti hanno recuperato, grazie a un modello di casualità circolare, un messaggio di  integrazione tra i più importanti apparati che regolano gli equilibri all’ interno dell’organismo e le sue relazioni con l’ esterno: un’ intensa e continua “immersione” in un ambiente ricco di stimoli positivi e costantemente proiettato a immaginare scenari futuri – nell’ interesse della migliore sopravvivenza del maggior numero di stakeholder e quindi dell’ intero pianeta – influenzerà quasi certamente le memorie semantiche dell’ individuo, il mantenimento in buono stato delle quali è un efficace indice di controllo dell’ invecchiamento di ogni persona.

A tutto ciò, è bene aggiungere altro, con riguardo agli ultimi sviluppi delle ricerche scientifiche: il nostro destino non è inciso solo nel genoma, ma muta grazie alle buone o cattive abitudini. Ciò potrebbe significare che una elevata propensione al relazionarci positivamente con l’ambiente, all’ etica e al prendersi cura costruttivamente di ciò che ci circonda può entrare anche a far parte del nostro patrimonio genetico ereditario, e quindi essere trasmesso ai nostri figli.

Il team guidato dallo svedese Lars Olov Bygren, specialista di medicina preventiva al Karolinska Institute, ha studiato ad esempio l’ influenza degli stili di vita sul cervello in un campione di 12.000 individui, scoprendo che i comportamenti influiscono sulle istruzioni dei geni e, addirittura, su come questi possano essere ereditati. Il professore infatti spiega che:

“Gli stili di vita influenzano l’espressione genica, il destino non è del tutto scritto nei geni, ma dipende anche dalla “modulazione” dell’azione dei geni stessi. Pur possedendo solo circa 25.000 geni, il nostro genoma è in grado di produrre centinaia di migliaia di proteine: ogni gene può in una certa misura “scegliere” quale proteina sintetizzare, e la scelta dipende anche dai segnali chimici che il gene riceve dall’esterno, indotti proprio dagli stili di vita individuali”.

Gli imprenditori, i manager e i consulenti realmente interessati al futuro della società della quale la loro organizzazione è parte integrante, è più facile che sviluppino strategie cognitive che consentono loro di padroneggiare “da protagonisti” con estrema disinvoltura gli scenari futuri, aggiornando continuamente i propri schemi mentali, e questo – dai dati scientifici in nostro possesso – ha un ruolo nella loro capacità di risolvere problemi complessi e – possiamo affermarlo con ragionevole certezza, sulla base delle evidenze scientifiche disponibili – di influenzare anche dimensioni, plasticità e funzionalità della loro mappa cerebrale, in un continuo stimolo virtuoso del rapporto esistente tra interazioni sociali, estensione dello spazio di controllo dell’ individuo, intensità delle afferenze ambientali e strutturazione anatomico-biochimico-cerebrale.

Come ci ricorda la già citata Emilia Costa, infatti, “un ambiente ricco di stimolazioni positive fa aumentare lo spessore corticale delle cellule, migliora l’attività modulatrice degli impulsi nervosi e conseguentemente le prestazioni comportamentali”.

In definitiva, “sintonizzarci” più armonicamente, più efficacemente, con questa ampia “rete neurale” costituita dall’ambiente che ci circonda, mentre operiamo per creare scenari futuri positivi, non potrà che migliorare il grado di benessere e sanità mentale nostro, del nostro team lavorativo, della comunità alla quale apparteniamo, e quindi – come pezzi di un enorme puzzle – del pianeta intero.

Concludendo, quindi, l’approccio culturale Situazionista, a mio avviso, può avere piena dignità in questo discorso centrato sulle ultime scoperte dell’epigenetica e sul possibile ruolo virtuoso tra individuo e ambiente – culturale e fisico – che lo circonda, e dovrebbe essere riscoperto, apprezzato e fatto proprio da qualunque comunicatore e relatore pubblico, nell’interesse di se stesso, della propria rete di relazioni sociali e – non ultime – delle aziende e istituzioni pubbliche che esso eventualmente assiste con il proprio contributo di pensiero.

Breve bibliografia:

  • Asor Rosa, A; Stile Calvino, Torino, Einaudi, 2001, cap. IV, pp. 63-134
  • Ciarrochi, J., Forgas, J.P. Mayer, J.D., “Emotional intelligence in everyday life, Psychology Press, Taylor & Francis Group, 2001
  • Costa, E; “Il cervello e la mente: dal neurone al comportamento”, in “La Formazione in Psichiatria e Psicologia Clinica”, di Emilia Costa e Maria Di Giusto – CIC Edizioni Internazionali, Roma 2004;
  • Debord, G; La società dello spettacolo, Milano, Baldini Castoldi Dalai editore, 2008
  • Debord, Vaneigem e altri; Situazionismo. Materiali per un’economia politica dell’immaginario, Massari, 1998.
  • Poma, L; Apri la tua mente, Libreria Universitaria, Padova, 2019
  • Poma, L; Epigenetica e aziende: una correlazione possibile?, EticaNews, Milano, 2015
  • Vaneigem, R., Trattato del saper vivere ad uso delle giovani generazioni, 1967;
  • Vaneigem, R.; Noi che desideriamo senza fine, Bollati Boringhieri, 1999, trad. e presentazione di S.Ghirardi



“Smascheriamo la Bestia di Matteo Salvini: una falsità dopo l’altra”

"Smascheriamo la Bestia di Matteo Salvini: una falsità dopo l'altra"

Si chiama Smask.online, ed è un progetto creato da un gruppo di volontari per “smontare” la propaganda digitale del leghista. Svelandone menzogne, meccanismi e parole chiave

Matteo Salvini ha quattro milioni di fan su Facebook, oltre due milioni su Instagram. E un numero di interazioni con i contenuti pubblicati che nessun politico può neanche lontanamente eguagliare: 16 milioni tra like, commenti e click nell’ultimo mese solo su Facebook, quasi 10 milioni su Instagram. Le sue pagine ufficiali sui social network sono lo strumento di propaganda più potente che l’ex ministro dell’Interno ha a disposizione: una macchina del consenso a cui lavorano decine di suoi collaboratori (guidati da Luca Morisi) e chiamata in gergo “La Bestia”.

Una macchina ben oliata che per accumulare like e diffondere il suo verbo martella su immigrazione, sovranismo, complotti e tutto ciò che può essere utile per aumentare il consenso intorno a Salvini. Ma anche contro questo Golia, non mancano i Davide che provano a resistere alla sua potenza. E a proporre qualcosa per togliergli forza.

A provare a smontare la Bestia post dopo post, ci prova una nuova iniziativa dal basso, realizzata da volontari senza supporti politici. Si chiama Smask.online e ogni giorno cerca di rispondere ai post di Salvini proponendo una contro-narrazione argomentata con fonti e contesti.

«Abbiamo deciso di lanciare la nostra piattaforma per fare un’operazione di pedagogia digitale. È importante fare comprendere che dietro “Salvini”, che è solo il simbolo di un metodo, c’è un progetto professionale che utilizza un lessico studiato per ottenere successo» spiega all’Espresso uno dei promotori della piattaforma (che preferiscono firmarsi come Smask, senza usare i propri nomi).

«Ci abbiamo messo quasi un anno per ricostruire il lessico della Bestia. Perché il nostro bersaglio non è Salvini: è solo un personaggio che recita un copione». Un copione fatto di 150 parole chiave riunite in dieci grandi filoni tematici: l’ossessione per l’immigrazione, il sovranismo, l’epica del “capitano”, i complotti e bufale. L’immagine usata da Smask per identificare la Bestia è quella di una piovra i cui tentacoli sono appunto questi temi al centro della sua propaganda costante.

Per capire come funziona Smask basta andare sul sito o sui canali social di questo progetto partito da poco. I volontari prendono un post recente delle pagine di Salvini e lo “smontano”: smentiscono le falsità affermate, pongono le dichiarazioni all’interno di un contesto, forniscono fonti e dati precisi, svelano cosa non torna nelle frasi o nelle foto di Salvini. Un lavoro che utilizza anche gli strumenti del fact-checking, ma che punta non solo allo “sbufalamento”, quanto alla spiegazione delle dinamiche e dei tic comunicativi della Bestia. Ad esempio si prende il post con cui Salvini cita papa Giovanni Paolo II e si mette a confronto con le parole del pontefice sull’accoglienza ai migranti , oppure si sottolinea l’ossessione per il tema dell’immigrazione, usato in combinazione con la pandemia al solo scopo di fomentare i fan sui social ma senza che i due fenomeni abbiano alcun collegamento reale.

«La Bestia propone una narrativa e, per contrastarla, serve una contro-narrativa. Per questo ogni giorno proponiamo dei contro-post argomentati, con fonti, in risposta alla propaganda di Salvini. Il nostro obiettivo è quello di inoculare in Rete delle risposte giorno per giorno, post dopo post», spiegano i promotori di Smask.online. A comporre la squadra sono circa cinquanta persone che comprendono ricercatori di mercato, economisti, giovani che si occupano di comunicazione digitale, docenti, designer, studenti e ingegneri. Residenti in ogni parte d’Italia e anche all’estero. Il progetto non è finanziato e non accetta fondi da partiti o personaggi politici.

«Vogliamo costruire una comunità capace di contrastare sul terreno digitale operazioni come quelle della Bestia che, ne siamo certi, saranno ancora preponderanti nelle prossime elezioni politiche in Italia. Sappiamo che rischiamo in realtà di dare ancora più risalto alla comunicazione di Salvini ed è un problema che ci siamo posti da subito. Ci siamo dati come obiettivo quello di parlare a coloro che sottovalutano questa comunicazione e non la prendono sul serio e anche a quell’area di mezzo di persone che colgono il fatto di essere state utilizzate da questa comunicazione». E vogliono ribellarsi alla Bestia.




Parlamento unito per il libero riuso delle foto, tarda l’ok del Mibact

Parlamento unito per il libero riuso delle foto, tarda l’ok del Mibact

Alla Camera c’è consenso dei partiti sull’introduzione del libero riuso delle immagini di beni culturali nel pubblico dominio, ma il Mibact non si esprime

Nonostante le aziende produttrici di telefoni ci delizino con nuovi modelli di smartphone con fotocamera integrata grandangolare, obiettivi a sette elementi e prestazioni ogni volta superiori per foto e video, il legislatore arranca, non ce la fa a stare al passo con la tecnologia. Una foto in HD scattata al Colosseo, bene pubblico nel pubblico dominio, su cui non sussiste più nessun diritto d’autore, non può essere pubblicata sul libro di fotografia dell’autore in base all’articolo 108 del Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio.

Il passaggio dall’analogico al digitale e l’avvento di Internet hanno rivoluzionato non soltanto i processi di produzione delle immagini, ma anche la diffusione delle fotografie. Oltre al risvolto tecnologico, ne esce mutato il rapporto tra società e immagini. Con blog, Instagram, Facebook, Pinterest, il cittadino da semplice fruitore passivo, è diventato parte attiva del processo di produzione di informazioni. “In questo contesto la fotografia digitale del bene culturale si presta a una infinita gamma di utilizzi, imponendosi come strumento di lavoro ormai indispensabile nelle attività quotidiane di ricerca, tutela e valorizzazione svolte dall’amministrazione, dagli enti di ricerca e dai liberi professionisti; al tempo stesso il digitale ha offerto agli utenti di musei, archivi e biblioteche nuove modalità di fruizione e cognitive, dando vita a forme inedite di interazione tra musei e visitatori, anche grazie ai canali di condivisione offerti dai social network. Cresce dunque l’esigenza di fruizione digitale del nostro patrimonio per le finalità più varie, che vanno talora oltre il mero consumo culturale, mettendo in sempre maggiore evidenza le potenzialità derivanti dallo sfruttamento economico della riproduzione del bene culturale” (Promozione Del Pubblico Dominio e Riuso dell’Immagine del Bene Culturale, Archeologia e Calcolatori 29, 2018, 73-86).

Sulla scia di queste riflessioni, si continua a discutere su come recepire la Direttiva (UE) 2019/790 sul diritto d’autore e sui diritti connessi nel mercato unico. La rete MAB, Musei Archivi Biblioteche, che riunisce AIBANAI ICOM , raccomanda unitariamente che il recepimento della direttiva avvenga in modo tale da assicurare l’efficacia reale delle nuove eccezioni e limitazioni in termini di superamento di ostacoli alla fruizione dovuti al fallimento del mercato delle licenze; armonizzazione piena delle legislazioni degli Stati membri; attuazione dei compiti di servizio pubblico dei nostri istituti. In particolare, le associazioni di categoria ritengono indispensabile, in virtù del disposto dell’articolo 14 della Direttiva volto a promuovere la diffusione e il riuso delle riproduzioni fedeli di opere delle arti visive in pubblico dominio, intervenire non solo sull’art. 87 della legge sul Diritto d’autore, che definisce i diritti connessi sulle fotografie semplici di opere d’arte figurativa, ma anche sugli artt. 107 e 108 del Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio: “liberalizzando il riuso per qualsiasi finalità (quindi anche commerciale) della riproduzione fedele di beni culturali pubblici non protetti da diritto d’autore” come si legge nelle Raccomandazioni . E ancora “La condivisione delle immagini mediante licenze aperte ha già permesso a numerosi musei, archivi e biblioteche in tutto il mondo di porsi al servizio del pubblico in modo più inclusivo ed efficace, assicurando agli istituti culturali anche un ritorno non trascurabile in termini di visibilità e di maggiore attrattività. L’attuazione piena dell’art. 14 è un’occasione per creare davvero innovazione, per trasformare il digitale in una opportunità per tutti, gettando le basi di una effettiva “democrazia della conoscenza” a livello comunitario e dando la possibilità agli istituti di cultura di rispondere in modo più completo alle esigenze più varie della società contemporanea”.

Alla Camera

Grazie alle pressioni di Wikimedia Italia e della rete MAB, il dibattito da qualche settimana è approdato nella Commissione Cultura della Camera dei Deputati . Si discute una Risoluzione presentata dall’on.le Gianluca Vacca, del Movimento5Stelle, ispirata al “giusto equilibrio tra le posizioni giuridiche dei titolari dei diritti e della collettività, quale fruitore della cultura” e dove si chiede, anzitutto di favorire la libera divulgazione di immagini di beni culturali pubblici visibili dalla pubblica via, per qualsiasi finalità, anche commerciale, nel rispetto della normativa sul diritto d’autore. Inoltre si chiede di riconoscere, formalmente, la facoltà dei singoli direttori di istituti centrali e periferici del MiBACT di concedere l’utilizzo di immagini in rete, attraverso licenze di libero riutilizzo commerciale, le quali costituiscono, a tutti gli effetti, l’autorizzazione preventiva all’uso delle stesse già prevista dagli articoli 107 e 108 del Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio. Il 6 ottobre 2020, durante il corso della discussione in Commissione Cultura, Alessandro Fusacchia, di +Europa e rappresentante del Gruppo Misto, ha riconosciuto la centralità del tema in vista del “cambiamento nella domanda di fruizione dei beni culturali”. C’è grande coesione alla Camera, anche Fratelli d’Italia e la Lega con la Risoluzione dell’on.le Daniele Belotti si sono espressi in senso favorevole al libero riuso delle immagini, ma né il PD, né MiBACT e il suo ufficio legislativo sono intervenuti sul punto. Nel corso dell’ultima convocazione del 14 ottobre 2020 è stata prevista invece la possibilità di dare avvio a una serie di audizioni di esperti sul tema che forse aiuteranno il Ministero di Dario Franceschini a prendere finalmente una decisione.




Francia, petizione on line contro Amazon: “A Natale comprate nei negozi locali”. Per ogni posto di lavoro che crea se ne perdono 2,6

Francia, petizione on line contro Amazon: “A Natale comprate nei negozi locali”. Per ogni posto di lavoro che crea se ne perdono 2,6

In Francia si moltiplicano le iniziative per contrastare lo strapotere del colosso dell’e-commerce. Al gruppo si contestano comportamenti concorrenziali e fiscali scorretti. Intermarché offre la sua piattaforma gratis a librerie e piccoli esercizi colpiti dal lockdown

Brutte giornate al quartier generale francese di Amazon, il colosso statunitense dell’e-commerce. Nel paese si moltiplicano le iniziative di disturbo ai danni del gruppo. L’ultima in ordine di tempo è la petizione #NoëlSansAmazon, Natale senza Amazon, in cui i sottoscrittore invitano a non usare la piattaforma di Jeff Bezos per comprare i regali privilegiando invece i negozi locali. La lista dei firmatari è lunga, comprende personalità del mondo della cultura, politici, associazioni. Ci sono, tra gli altri, l’ex membro del partito di Macron Matthieu Orphelin, l’ex ministro dell’Ambiente Delphine Batho, la scrittrice Christine Orban, i sindaci di Parigi, Grenoble e Poitiers, Anne Hidalgo, Eric Piolle e Léonore Moncond’huy, Greenpeace, France Nature Environnement.

Nel documento si esprimono forti preoccupazioni per le conseguenze fiscali, economiche, occupazionali ed ambientali del dilagare di Amazon. L’azienda replica ricordando di aver creato oltre 9mila posti di lavoro nel paese. Ma secondo il documento per ogni posto di lavoro creato da Amazon ne scompaiono almeno 2,6. Inoltre, si legge, Amazon sostiene di aiutare le piccole imprese locali favorendone le vendite ma le aziende francesi presenti sulla piattaforma sono appena il 4,7% del totale e il gruppo preleva una commissione del 15% su ogni vendita. E poi c’è la solita questione fiscale che non riguarda solo la Francia ma tutti i paesi dove opera il colosso.

In sostanza Amazon, come molte altre multinazionali, riesce, grazie ad operazioni infragruppo, a spostare gran parte dei suoi profitti nei paesi con tasse bassissime o inesistenti. Al contrario i costi vengono dirottati nei paesi dove è possibile ottenere i maggiori benefici fiscali. In questo modo la società è riuscita per anni a non pagare un solo dollaro di tasse negli Usa o a versare al fisco dei paesi europei pochi spiccioli. In Francia, sottolinea la petizione, il gruppo realizza ricavi per quasi 8 miliardi di euro ma riesce a pagare poco o nulla.

Nella petizione si chiedono anche interventi legislativi per limitare lo strapotere di Amazon, riprendendo i temi di un dibattito che va avanti da tempo in Francia e che coinvolge librai, editori, sindacati, politici e commercianti. Si chiedono norme che “pongano fine alle concorrenza sleale e all’ingiustizia fiscale”.

Come se non bastasse pochi giorni fa è scattata l’offensiva del gigante francese della grande distribuzione Intermarché che ha messo gratuitamente a disposizione la sua piattaforma di vendite on line alle piccole aziende colpite dalle chiusure dovute al lockdown. L’iniziativa è stata pubblicizzata con il titolo “Sorry Amazon”, sottolineando come il servizio di distribuzione gratis on line riguarderà inizialmente soprattutto le librerie locali per poi estendersi via via ad altri prodotti.

Durante i mesi primaverili i ricavi di Amazon sono cresciuti di circa il 40% anche grazie al boom dell’e-commerce favorito dalle chiusure degli esercizi tradizionali, e il valore di borsa della società nell’ultimo anno è quasi raddoppiato. L’Antitrust europeo ha da poco annunciato l’avvio di un’indagine per comportamenti concorrenziali scorretti dell’azienda di Jeff Bezos. In sostanza il gruppo utilizzerebbe anche i dati delle vendite di soggetti terzi che utilizzano la sua piattaforma per favorire i propri prodotti.




COMUNICAZIONE POLITICA: L’ITALIA A LEZIONE DI STILE… IN NUOVA ZELANDA

Comunicazione politica: Italia Vs. Nuova Zelanda. Le recenti elezioni nel paese kiwy ci insegnano uno stile del tutto diverso… e migliore!

Comunicazione politica: Italia Vs. Nuova Zelanda. Le recenti elezioni nel paese kiwy ci insegnano uno stile del tutto diverso… e migliore!

Non molto tempo fa, in un articolo a firma mia e di Giorgia Grandoni, avevo analizzato vari motivi alla base della scarsa credibilità della classe politica italiana, tendenzialmente riconducibili all’assoluta carenza di autenticità nei messaggi e alla narrazione pubblica istericamente contraddittoria, finalizzata esclusivamente alla raccolta di consensi a breve termine e attenta – in particolare – al sentiment del momento espresso dai cittadini sui Social, piuttosto che alla costruzione di un’idea di Nazione peculiare, da coltivare e realizzare con costanza e congruenza nel medio-lungo termine.

Al di la di ogni valutazione di tipo “partitico”, scrivevo che – tecnicamente, sotto il profilo della gestione della reputazione – tutto ciò non può che generare un’inevitabile crisi sistemica del mondo della politica: infatti, al di la delle legittime preferenze di ognuno di noi, l’appeal dei brand politici sull’elettore medio è oggi più basso che mai.

Il capitale reputazionale: un asset prezioso

Mentre le aziende corrono velocemente sul sentiero da tempo tracciato dell’enfatizzazione virtuosa dei propri valori, i leader politici, e le loro strategie, sembrano poggiare su declinazione di valori che cambiano a ritmo giornaliero, e che mutano continuamente in base a specifiche convenienze.

La politica, invece,nel tentativo di accaparrarsi facili consensi, è vittima di una malattia che in un’intervista l’economista Stefano Zamagni definì “shortermismo”, e lo riscontriamo nel pericoloso calo di adesione e di protagonismo dei cittadini alla vita pubblica: la percentuale di astensionismo alle ultime elezioni ha raggiunto nuovi record, con il 43,7% degli italiani – oltre 21,5 milioni di persone – che nelle ultime elezioni europee hanno scelto di non esercitare il proprio diritto al voto. Tra chi non si reca alle urne per protesta, e chi perché non si sente rappresentato adeguatamente dalle varie proposte politiche, il gap tra cittadini e gli uomini politici si fa più ampio che mai.

Non che nel resto dell’Europa – con qualche eccezione, ad esempio l’inossidabile Cancelliera tedesca Angela Merkel – vi siano eccezioni granché significative, ma allargando un po’ di più lo sguardo verso l’orizzonte, arrivando esattamente dall’altra parte del globo, una case history degna di attenzione spicca sicuramente: è la storia di Jacinda Ardem, Primo Ministro della Nuova Zelanda.

Una storia differente

Nata in centro rurale nel 1980, da padre poliziotto e madre cuoca, la Ardem non a caso si laurea in comunicazione politica e relazioni pubbliche. Lavora per la laburista Helen Clark, successivamente si trasferisce a Londra per entrare nello staff del Premier inglese Tony Blair, e torna infine in Nuova Zelanda per farsi eleggere in Parlamento.

Da deputato, è molto attiva sui temi relativi ai diritti umani – in particolare la lotta alla povertà infantile e diritti della comunità GLBT – finché diventa prima Vice Presidente del Partito Laburista e – a sole 7 settimane dalle successive elezioni – leader del partito.

Vince la sfida e diventa Premier della Nuova Zelanda (marzo 2017), con un governo insieme a Verdi e al partito New Zeland First: ha 37 anni, ed è la più giovane prima ministra donna nella storia del mondo (battuta due anni dopo da Sanna Marin, che diventa a soli 34 anni premier della Finlandia). Ha partorito suo figlio a giugno 2018, senza interrompere il mandato di governo, e senza che la sua scelta venisse messa in discussione dall’opposizione.

Come riporta la giornalista Isabelle Dellerba in un bel ritratto sul quotidiano Le Monde, la Ardern “appare raggiungibile, vicina alla gente, dotata di forte autoironia”, e soprattutto – aggiungo io – con una linea di pensiero coerente e non influenzabile facilmente dai sondaggi o dalle turbolenze dei Social: aveva un programma politico chiaro, anche quando era all’opposizione (il partito conservatore ha governato per 9 anni consecutivi in Nuova Zelanda) e a differenza di molti politici nostrani non l’ha modificato una volta al governo; promuove un messaggio di lotta contro la povertà e le diseguaglianze, di rispetto dei diritti umani, di investimenti pubblici in infrastrutture per rilanciare la crescita, e nel contempo di unità nazionale.

A marzo del 2019, ad esempio, quando un suprematista bianco compie un attentato contro una moschea e un centro islamico uccidendo 51 persone e gettando la nazione nello shock, fa approvare quasi all’unanimità una legge che vieta la detenzione da parte dei civili di armi semi-automatiche e di fucili d’assalto, semplicemente perché era la cosa giusta da fare.

La Jacindamania dilaga

Negli ultimi 2 anni, la Jacindamania – come l’ha definita la BBC inglese – è quindi dilagata sempre più, e alle successive elezioni, il mese scorso (ottobre 2020) la Premier neozelandese ottiene la maggioranza assoluta dei seggi, portando il suo partito al 49,15% delle preferenze: un risultato mai raggiunto da un partito nel Paese con l’attuale sistema elettorale.

Durante l’emergenza Covid-19 da eccellente prova di sé, grazie a una strategia basata su alcuni punti, chiari ed essenziali: chiusura immediata delle frontiere nazionali, lockdown rigido, istituito subito dopo i primi contagi, ed estrema chiarezza nella comunicazione istituzionale. La Nuova Zelanda, quindi, ha avuto solo 25 decessi per Covid su 5.000.000 di abitanti, nonostante la capitale Auckland sia una città moderna e popolosa, delle dimensioni di Milano e con una densità di abitanti per Km2 pari a Venezia: il virus è sparito dall’arcipelago già a maggio scorso.

Ma ciò che è forse ancor più interessante notare, sotto il profilo della comunicazione politica, è lo stile sia dell’attuale maggioranza che dell’opposizione: una campagna elettorale basata strettamente sui contenuti, anche assai diversi e alternativi tra destra e sinistra, ma mai degenerata in attacchi personali, tanto di moda invece in Italia.

La giornalista Laura Walters, su The Newsroom, lo ha scritto molto chiaramente a pochi giorni da voto, facendo un paragone tra la situazione Neozelandese e quella Bielorussa: “Due donne valide ed appassionate competono per guidare il nostro Paese, mentre a Minsk un bullo (Lukaschenko, ndr) si rifiuta di lasciare il potere e alle donne viene intimato di tornare in cucina”.

La Arden e la sua rivale conservatrice, Judith Collins, hanno discusso in campagna elettorale sulle differenti scelte politiche (ma è davvero così complicato riscoprire il valore di un discorso “nel merito” anche in Italia…?). La Collins ha letto con gentilezza e grande dignità il discorso nel quale ammetteva la sconfitta, invece di inventare scuse e scaricare le responsabilità, come d’uso nella nostra penisola (di nuovo: il valore della sobrietà e della coerenza…). Questo stile, proprio di entrambi gli schieramenti, era già emerso chiaramente nei dibattiti televisivi prima del voto: in occasione dell’ultimo incontro tra le due candidate, invece che lanciarsi fango addosso, hanno mostrato comunque empatia, ringraziando per lo spessore del discorso al Parlamento in occasione dell’attacco terroristico del 2019, definendolo “sincero, autentico ed efficace” (la Ardern verso la Collins) e per contro riconoscendo l’impegno della Premier, che “ci ha messo anima e cuore, e questa è una cosa ottima” (la Collins verso la Ardern).

Il discorso di insediamento di Jacinta Ardern, dopo la nettissima vittoria, è stato chiarissimo: “Viviamo in un mondo sempre più polarizzato, nel quale un numero crescente di persone ha perso la capacità di mettersi nei panni degli altri. Spero che la Nuova Zelanda con queste elezioni abbia dimostrato che noi non siamo così, che come nazione siamo in grado di ascoltare e soprattutto di discutere. Non sempre le elezioni riescono ad unire un popolo: ma questo non significa che debbano spaccarlo: e in tempi di crisi, penso che la Nuova Zelanda abbia dimostrato proprio questo”.

Due modi profondamente diversi di vedere il futuro della Nuova Zelanda, quella laburista e quello conservatore, ma che si rispettano nelle loro differenze, e che non traggono pretesto da fatti di cronaca per insultarsi, sbeffeggiarsi, delegittimarsi: il successo dell’uno è basato sui propri risultati concreti, e non sulla forzata diminutio dell’altro.

Reputation management: il valore della coerenza nella comunicazione politica

Al contrario del paese “kiwi” situato all’esatto opposto del pianeta rispetto all’Italia, i politici nostrani non godono di una buona reputazione: una realtà non solo riscontrabile da un’analisi empirica, ma assodata, in quanto documentata e misurata. Coinvolti in quella che appare come una campagna elettorale permanente, i nostri politici disilludono il pubblico, tentando ridicoli equilibrismi tra alleanze improbabili e la scelta di abbracciare oggi ciò che solo ieri si criticava aspramente o viceversa.

Come sappiamo, la reputazione è un asset importante – il più prezioso tra quelli “immateriali” – che si costruisce assieme ai propri pubblici, per durare nel tempo, ed essere poi “scambiata” con una più ampia licenza di operarela scelta dei politici di ignorare sistematicamente questa realtà sta scavando un solco tra sistema politico italiano e la cittadinanza, danneggiando il primo – riducendone, tra l’altro, potenzialità ed efficacia – e disilludendo i secondi.

Autenticità, coerenza, comunicazione di valori conformi alla propria identità, creazione di strategie di brand reputation a medio-lungo termine (sia che si tratti di aziende che di istituzioni pubbliche o influencer politici), capacità di saper prevenire scenari futuri di crisi reputazionale e, infine, propensione ad assumersi le proprie responsabilità: queste sono sei tra le principali best practices da seguire per tutelare al meglio la propria reputazione, e questo è ciò che la politica italiana può – e dovrebbe – imparare dalle best practice del Reputation management.

A quando, quindi, un biglietto – pagato da noi contribuenti, perché no – per un educational in Nuova Zelanda per i nostri vari Salvini, Di Maio, Zingaretti e Meloni…?