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VENDITA DI BORSA ITALIANA: UN CAPITOLO OPACO NEI RAPPORTI TRA ISTITUZIONI E CITTADINI

VENDITA DI BORSA ITALIANA

Il mese di Agosto 2020 rimarrà nella storia di Borsa Italiana come la data di un cambio di fronte nel rapporto tra Istituzioni e cittadini, nel nome – apparentemente – dell’interesse nazionale.

Nei giorni in cui per la prima volta Apple sfonda il tetto della capitalizzazione simbolica dei 2mila miliardi di dollari, in Italia si discute – finalmente – sul futuro di Borsa Italiana, che capitalizza meno di un terzo della blue chip di Cupertino.

A 24 anni dalla sua privatizzazione e a 14 anni dalla cessione alla Borsa di Londra (LSE), Piazza Affari è di nuovo in vendita: questa volta, però, è il London Stock Exchange a cercare un compratore.

Facciamo un passo indietro: il 6 agosto 2020 l’agenzia Reuters scriveva: “I partiti di governo vorrebbero aumentare i poteri a disposizione della Consob per blindare Borsa italiana, secondo un disegno di legge visto da Reuters.” C’era, quindi,un disegno di legge, anticipato a Reuters da una fonte affidabile, ma non diffuso tra la cittadinanza. L’attenzione del governo per Borsa Italiana e Mts, poi, si è manifestato anche nel Dl Agosto, che prevedeva un potenziamento del potere di Consob (dall’art 75) sul tema delle “Operazioni di concentrazione e salvaguardia della continuità d’impresa”, che introduce un potere di “veto” dell’Autorità di vigilanza sui mercati, nel caso di passaggio di proprietà di Borsa Italiana. A Consob, infatti, andranno notificati i passaggi di quote superiori al 10%, e l’ente di controllo potrà congelare i diritti di voto, nel caso in cui valutasse essere a rischio la sana e prudente gestione degli asset.

Vari articoli sui mass-media – invero non molti – hanno raccontato la progettata vendita di Borsa Italiana (BI), quasi a sbirciare dal buco della serratura. La sensazione è che il Governo stesse studiando il dossier da mesi, ma nella più completa riservatezza.

Venerdì 31 luglio, LSE ha manifestato l’ipotesi di vendere BI e la controllata MTS, società che gestisce il mercato secondario dei titoli di stato italiani. La settimana precedente, LSE aveva comunicato alla Commissione Europea di una revisione della fusione in corso tra LSE stessa e Refinitiv, titanico fornitore di dati e infrastrutture al mercato finanziario, fondato nel 2018 e posseduto da Blackstone Group LP (55% del capitale) e Thomson Reuters (45%). 

Pochi mesi prima, a novembre 2019 l’assemblea degli azionisti LSE aveva votato la proposta di acquisire Refinitiv, valutata 27 Md $. Operazione colossale, che potrebbe condizionare il futuro dei mercati finanziari mondiali: pare che a quel punto BI e MTS siano state considerate “di troppo”. Refinitiv porta infatti in dote Tradeweb Markets, con mission e capacità simili a MTS. Diverse Authority Antitrust devono dare il via libera all’operazione di fusione e dunque la concentrazione di MTS con Tradeweb Markets parrebbe di ostacolo. Gioca anche l’interesse di LSE di sganciarsi dalle forche caudine delle Autorità europee: la cessione di BI e MTS toglierebbe la classica castagna dal fuoco e – cosa sempre gradita di questi tempi – farebbe cassa.

La cosa curiosa è che la politica italiana la racconta un po’ diversamente, stressando molto il tema dell'”interesse nazionale”, in maniera così indeterminata da ricordare la storica gag del “sarchiapone” di Walter Chiari, parodia della irragionata omologazione, per cui è bastevole nominare la “bestia sarchiaponica” per costringere chiunque a confermare di conoscerla benissimo.

Raffaele Volpi, presidente del Copasir – Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica, sul suo profilo Facebook a fine luglio scrisse: “Invito il governo a considerare immediate e improrogabili valutazioni sugli strumenti utili da mettere in campo per intervenire in senso proattivo in questa vicenda. Ritengo importante che sia il nostro paese a decidere il destino di borsa italiana, evitandone smembramenti e riacquisendone il controllo potendone poi decidere alleanze e posizionamenti. Il governo non consenta ad altri di decidere su piattaforme finanziarie essenziali all’interesse del paese. Qualsiasi indugio farebbe ricadere sul governo elementi di grave responsabilità di inerzia rispetto ad una necessaria linea di consolidamento del sistema paese in un momento in cui vi è la necessità di traguardare il futuro con la solidità di tutta la filiera economico-finanziaria”.

In quel periodo, il tema era stato ripreso anche dalla politica, con il deputato del M5S,  Davide Zanichelli, membro della Commissione Finanze della Camera, che insieme ai colleghi Currò, Martinciglio, Raduzzi e Colletti ha depositato una “risoluzione in Commissione Finanze alla Camera per impegnare il Governo d intraprendere ogni iniziativa al fine di concertare un’offerta competitiva in grado di riportare Borsa Italiana all’interno dei confini del Paese e scongiurare l’eventualità di una suddivisione del gruppo. È fondamentale verificare che Borsa Italiana adotti un piano di investimenti atto a sviluppare ulteriormente i mercati dei capitali in Italia. Si tratta di un asset strategico che può giocare un ruolo importante nel panorama finanziario internazionale, a beneficio di tutte le realtà dell’indotto”.

Il vessillo dell’interesse nazionale sventola quindi altissimo: ma dietro le dichiarazioni di principio, varrebbe la pena chiedersi, c’è anche qualcosa di concreto?

A permettere a ognuno di darsi una risposta, come spesso accade può aiutare la storia. La pubblica Borsa Valori Italiana fu privatizzata nel 1998, su iniziativa del Governo Prodi, che di privatizzazioni (e svendite) se ne intendeva assai, ceduta per un tozzo di pane a banche e intermediari, e poi nel 2007 venduta a Londra a LSE, le banche realizzando, mal contati, appena un paio di miliardi di plusvalenze.

Nella City, BI ha generato quasi una rendita di posizione, ostacolo allo sviluppo della reale economia, perché se pingui sono i lucri della Borsa, tali costi sono ribaltati sul sistema del risparmio e sulle imprese che proprio nella Borsa cercano nuovo capitale di rischio. Da ricordare Enrico Mattei, quando ammoniva che l’energia di ENI doveva costare poco per innescare lo sviluppo nazionale, facendo esattamente il contrario delle 7 sorelle che massimizzavano i loro privati profitti. Tenere a mente questo insegnamento può fare la differenza tra “richiamarsi genericamente all’interesse pubblico”… e realizzarlo davvero.

Come illustravo in un pezzo pubblicato sul Fatto quotidiano scritto assieme a Giovanni Bottazzi, una Borsa moderna è di fatto una organizzazione complessa che ruota intorno a una piattaforma informatica, e dunque la piattaforma è il cuore dell’azienda. BI verrà ri-acquistata come guscio, svuotato della piattaforma? Non si sa, ed il punto appare di rilievo assoluto, specie se di “interesse pubblico” si parla.

Si ventila un prezzo di circa 3,3 Md €, che il mercato londinese punta a incassare per finanziare parte dei 27 miliardi di dollari necessari a comprare Refinitiv. L’operazione potrebbe andare in porto grazie a Euronext, la principale Borsa europea per capitalizzazione (oltre 4.300 miliardi, 8 volte Milano e più del doppio di Francoforte) che gestisce i mercati di Parigi, Amsterdam, Oslo, Bruxelles Lisbona e Dublino e che come primo azionista con l’8% ha Caisse des Depots e Consignations.

Per acquistare Borsa Italiana però ai franco-olandesi mancherebbe una parte della cifra chiesta da Londra: i soldi sarebbero offerti da Cassa Depositi e Prestiti – oggi diventata il bancomat di operazioni che lo Stato non vuole o puote fare direttamente con propri fondi, come l’acquisto di Autostrade-Atlantia – che investirebbe qualche centinaio di milioni di risparmio pur di garantire il ritorno sotto il controllo nazionale (formalmente privato, ma di fatto pubblico) di MTS il mercato dei titoli di stato.

Il progetto, come ho affermato in un mio precedente articolo scritto in collaborazione con Nicola Borzi e pubblicato sul Fatto Quotidiano, vedrebbe come azionisti un gruppo di soci italiani (Cdp e Intesa Sanpaolo in primis) al 50% e per l’altra metà Euronext, con la gestione in mano ai primi: ma c’è modo e modo di investire i risparmi dei clienti delle Poste. Siamo certi che sia opportuno farlo per riportare in Italia il controllo di uno strumento giudicato – oggi – “di interesse nazionale” come BI? Se Euronext effettuasse un aumento di capitale riservato a Cdp e ai soci italiani di Borsa, dandogli voce in capitolo nel nuovo gruppo, ancora passi; ma cosa ben diversa sarebbe invece finanziare Parigi senza contropartite di governance, favorendo – mediante un’operazione di rischio perfezionata grazie ai soldi dei risparmiatori italiani – una nazione straniera. Domande quanto meno lecite, che a quanto pare la politica non trova il tempo di farsi, o trova scomodo farsi.

Invero la sola equiparazione azionaria delle casse depositi e prestiti francese e italiana non pare affatto sufficiente se non accompagnata da un sistema di governance che preveda una equilibrata rappresentanza italiana nei ruoli chiave della nuova società-mercato nascente dalla fusione. Insomma, su questa bizzarra e poco chiara manovra di fine agosto i dubbi che circolano nella comunità dei tecnici e degli studiosi dei mercati finanziari sono numerosi. Primo tra tutti: dove sta realmente “l’interesse nazionale”?

Il momento storico particolarmente delicato imporrebbe inoltre ragionamenti approfonditi: quanto è costata al Paese la privatizzazione di BI e, soprattutto, come in futuro i mercati finanziari potranno servire al reale sviluppo dell’economia?

Rimangono di straordinaria attualità le parole di Federico Caffè: “Da tempo sono convinto che la sovrastruttura finanziario-borsistica (…) favorisca non già il vigore competitivo ma un gioco spregiudicato di tipo predatorio, che opera sistematicamente a danno di categorie innumerevoli e sprovvedute di risparmiatori in un quadro istituzionale che di fatto consente e legittima la ricorrente decurtazione o il pratico spossessamento dei loro peculi.”

Purtroppo questa vicenda appare – afferma Luca Poma, professore di Reputation management presso l’Università LUMSA di Roma e l’Università della Repubblica di San Marino – come l’ennesimo episodio in cui il gruppo di regolatori si fa trovare in buona parte impreparato sul tema della rendicontazione trasparente verso i cittadini su ciò che accade nell’ecosistema economico di interesse nazionale, e non solo. Da diversi anni ci si interroga e si dialoga sull’importanza dell’accountability, del “rendere conto”, della evidente (ma forse solo per alcuni) responsabilità da parte degli amministratori – specie coloro che che impiegano risorse finanziarie pubbliche – di rendicontarne l’uso, sia sul piano della regolarità dei conti sia su quello delle finalità e dell’efficacia della gestione. La letteratura scientifica a riguardo è corposa, mentre il principio della necessaria rendicontazione, illustrato in un’infinità di volumi e consolidato da numerose case-history, non è invece ancora stato interiorizzato da tutte le imprese e, con ancor maggiore evidenza, dalle istituzioni pubbliche italiane e dal mondo della politica. È responsabilità del Governo offrire ai cittadini un resoconto del proprio operato in modo chiaro, coerente, trasparente e facilmente interpretabile, e di trasmettere tali informazioni puntualmente ed efficacemente attraverso l’utilizzo di canali istituzionali dedicati: le istituzioni devono essere presenti e rispondere sollecitamente alle necessità informative, solo così – conclude Poma – si potrà instaurare un legame di reale fiducia tra istituzioni e cittadini. Sotto questi profili, la case-history di Borsa Italiana è ben lontana dal poter essere considerata una storia coerente con le prassi e i valori di riferimento.”

E a proposito della preziosa relazione tra cittadini e pubblica amministrazione, la Dott.ssa Giorgia Grandoni ricercatrice presso la start-up innovativa Reputation Management SRL, precisa: “Si tratta di qualcosa che ha a che fare con uno dei più semplici ed elementari tipi di ‘scambio’: offrire informazioni con chiarezza e trasparenza, in cambio di fiducia, e di quello che tra gli addetti ai lavori è definito good will, ovvero, la ‘licenza di operare’. Instaurare un dialogo pubblico alla luce del principio di accountability, direttamente tra cittadini e pubblica amministrazione, garantisce legittimità all’amministrazione pubblica e genera fiducia verso le istituzioni, cosa assai importante specie in un periodo storico delicatissimo come quello che viviamo oggi, nel quale si assiste alla crisi del sistema rappresentativo e a una generale sfiducia verso le istituzioni governative”.

Chiarezza, trasparenza, informazione diretta e completa, senso di responsabilità: parole chiave spesso purtroppo assenti dal panorama delle istituzioni pubbliche italiane, che in questa occasione mostrano una volta di più la corda, lontane anni luce rispetto a ciò che ogni cittadino italiano lecitamente si aspetta.




Prime considerazioni sulla piattaforma NBA. Modelli di comunicazione e processi di apprendimento.

Prime considerazioni sulla piattaforma NBA. Modelli di comunicazione e processi di apprendimento.

Sto seguendo con grande interesse sociale, politico, storico l’evolversi del concetto di platform che il mondo NBA sta sviluppando in queste settimane. Gli approcci analitici di cui sopra devono ancora attendere gli sviluppi, che stanno diventando anche concreti dopo le decisioni prese ieri, ma qualcosa si può già dire da un punto di vista comunicativo, soprattutto in relazione agli atleti, attori principali di quella che vuole diventare un’agenzia sociale influente (già per le elezioni presidenziali del 3 novembre).
I modelli comunicativi scelti dagli atleti sono essenzialmente tre.
Il primo è la keyword communication, ovvero il tentativo di passare messaggi attraverso parole chiave molto semplici da comprendere e contestualizzare. E da qui nascono le 29 keywords che si possono scegliere per le magliette, i badge, le spille, le frasi sui pannelli pubblicitari e tanto altro. Scelta perfetta in quanto la keyword communication, da sempre esistente nell’ecosfera della pubblicità e della propaganda, con il sistema di digital advertising imposto da google e con la logica di fruizione dei contenuti dei nuovi social media risponde pienamente al nostro attuale processo di ricezione-apprendimento-memoria, che richiama a sua volta la Fuzzy-trace theory. In pochissime parole la teoria dice che la cognizione avanzata umana e la relativa acquisizione di competenze vengono sempre più spesso dalle cosiddette gist representations, ovvero passaggi informativi intuitivi (come una delle scritte dietro la schiena degli atleti NBA), che sfocano il contesto e le interpretazioni possibili, ma riescono a far passare l’informazione principale e più importante.

Il secondo invece è la classica comunicazione del microfono aperto. Molti atleti utilizzano le interviste post-partita e i momenti in cui vengono intervistati dai pochi giornalisti presenti nel campus di Orlando per parlare dei temi sociali e politici. Anche in questo caso l’approccio è molto valido perché si passa dalle gist alle verbatim representations, che servono proprio a fissare soprattutto nella memoria a lungo termine le informazioni di base che hanno raggiunto l’audience con il primo modello. Servono ad eliminare quell’alone fuzzy che copre la foresta di parole chiave di cui siamo bombardati dagli schermi dei devices e quindi a mettere a fuoco i discorsi.

Infine, non potendo concretizzare in assemblee, cortei, comizi, adunate fisiche la discussione, perché chiusi nel campus di Orlando (quel FUCK THIS MAN!!!! di Lebron James su Twitter secondo me faceva riferimento anche alla clausura che frena per forza di cose i processi di discussione politica attivati con le parole. Come vediamo anche in Italia, è ancora molto importante la trasposizione fisica del leader tra la massa (non più piedinstallatto ma allo stesso livello, con il riverbero dei selfie, che servono da specchio e promessa, vabbé qui ci allunghiamo troppo), agli atleti non resta che far vibrare tutto attraverso i loro social media, ancora una volta veri e propri media agenti sull’opinione pubblica.

La strategia comunicativa dell’NBA è forte e centrata, soprattutto in una situazione di blocco della vita di relazione, ma c’è un piccolo appunto che spesso emerge. C’è un altro modello comunicativo forse ancora più forte degli altri tre che gli atleti NBA dovrebbero utilizzare di più, quello dell’esempio. Qui è semplice chiamare in causa lo psicologo canadese Albert Bandura e la teoria del modeling, secondo la quale non c’è apprendimento più significativo di quello che osserviamo nel comportamento di un altro individuo che funziona da modello. Attenzione, non parliamo di atleti da seguire come modelli di vita, per cui dovrebbero essere ligi, corretti, sempre educati, parliamo di modelli nel processo di apprendimento, in quanto quello che fanno gli atleti è fortemente significante per i temi in discussione, ovvero il razzismo e la violenza sociale. Attenzione di nuovo, non si è modelli in questo senso decidendo di devolvere tutto il proprio stipendio ad una fondazione benefica, parlo espressamente di modelli di comunicazione in un contesto nel quale sono gli atleti stessi a voler costruire un gigantesco modello di apprendimento che abbia un effetto sociale e politico (prima di tutto al voto di novembre).
Il “bitch-ass white boy” di Montrezl Harrell rivolto a Luka Doncic, lo scontro fisico a cui sono arrivati proprio Mavs e Clippers, la sfida di pura imposizione fisica fra Jimmy Butler e T.J. Warren o quella da playground fra Donovan Mitchell e Jamal Murray soprattutto in gara 1 sono dinamiche sempre esistite in NBA e nello sport americano in generale. Ma è proprio modificando queste dinamiche che si direbbe qualcosa di nuovo, modellando in maniera ancora più decisiva l’audience che segue. Mi rendo conto che si sta praticando uno sport ai massimi livelli possibili e per un traguardo che è un sogno per tutti, ma continuare a perpetuare con le azioni sul campo alcune leggi ormai classiche su cui si è fondata e si fonda la società statunitense non ha l’effetto shock che servirebbe per agire in profondità.

Officials separate the Dallas Mavericks and Los Angeles Clippers after the teams get into a scuffle during Game 1 of an NBA basketball first-round playoff series, Monday, Aug. 17, 2020, in Lake Buena Vista, Fla. (Kim Klement/Pool Photo via AP)

Per fortuna poi (da quel che si è capito anche grazie all’intervento di una finissima mente politica come quella di Obama) si è anche deciso di tornare a giocare. In estrema sintesi: esiste una piattaforma sportiva che agisce nella società senza l’azione sportiva?
Per me no. Giusto dare un segnale come quello dei Bucks e non solo, ma tornare a fare sport è necessario. Aggiungere la specificazione “di sport” accanto a “uomini” o “donne” non è una diminutio nella considerazione sociale. Anzi è solo nella dimostrazione assoluta del talento e della forza sportiva che gli atleti possono diventare modelli sociali da considerare. Picasso non si è rifiutato di dipingere “Guernica” per protestare contro i bombardamenti.




Smart working o start hyping? Il lato oscuro del lavoro a distanza

Smart working o start hyping? Il lato oscuro del lavoro a distanza

Oggi avete usato la vostra stampante 3D? Avete ricevuto un pacco da un drone? Guidato (o almeno visto) un’auto che si guida da sola? O per lo meno full-electric? Usato, anche indirettamente, l’intelligenza artificiale o la blockchain? No? Eppure siamo nel 2020 e, a guardare articoli e dichiarazioni di qualche anno fa, a quest’ora queste tecnologie avrebbero dovuto far parte del nostro quotidiano.

Ogni anno ha la sua “buzzword”, la sua parola magica di cui tutti parlano e che sembra pregna di un futuro luminoso e prossimo. E quest’anno, complice il COVID, pare proprio che questa parola sia “smart working”. A sentire e leggere molti, pare che l’ufficio sia oramai cosa del passato, e che il futuro porterà inarrestabile il lavoro da casa; le sedi aziendali non esisteranno più, o al massimo ci staranno solo server e robot.

Chi si oppone a questa visione o anche solo cerca di ridimensionarla viene presto tacciato di essere un miope retrogrado o un vile guardiano di quell’ancien régime prossimo a essere spazzato via dalla inarrestabile innovazione del momento (la “cancel culture” esisteva anche prima di Black Lives Matter, e il “tech hype” è un suo regno storico). È successo – di nuovo – anche al sindaco di Milano Beppe Sala ieri.

Eppure non è la prima volta che ci si convince che il lavoro in ufficio è un arnese del passato. In almeno tre occasioni – dopo lo shock petrolifero del ’79 che quadruplicò i prezzi della benzina, negli anni ’90 quando le e-mail e gli scanner presero piede, e verso metà dei 2000 con la diffusione di Skype e similari – ci si convinse che oramai il lavoro da casa era l’inevitabile futuro, salvo poi tornare sui propri passi.

Anzi, a guardare solo a pochi mesi fa, la direzione certa del futuro sembrava esattamente opposta, con le imprese più in vista che facevano a gara per rosicchiare spazi e minuti al tempo libero e domestico; con le mense, i caffè, le palestre, i teatri e i ping pong in azienda.

La farsesca storia della “start-up” di sub-affitto immobiliare WeWork, ritenuta solo l’anno scorso un “unicorno” da 47 miliardi di dollari di valore e poi collassata e dimenticata in un batter d’occhio, è in proposito particolarmente significativa.

I pericoli di farsi prendere da questi trend sono principalmente due: concentrarsi molto sui benefici nel breve periodo, adottando troppo e troppo rapidamente processi e strumenti che poi non si sa governare o far crescere; e sviluppare una narrazione tossica ed escludente per chi è incapace o impossibilitato a beneficiare dell’innovazione del momento.

Ecco, questo c’è da dire anzitutto riguardo lo smart-working (o agile working, o tele-lavoro: non sono la stessa cosa ma ci siamo capiti): la maggioranza delle persone non lavora in un ufficio o con un computer, ma nella manifattura, nella logistica, nella cura, nella ristorazione, nel turismo… Tutti ambiti in cui la maggioranza dei lavoratori a distanza può fare ben poco, mentre non pochi di loro fanno affidamento proprio sulla presenza dei colleghi negli uffici per lavorare e per guadagnare.

Ma anche tra chi può – o potrebbe – operare in smart-working o in tele-lavoro, ci sono degli impedimenti “attitudinali”. Non tutti sono inclini a lavorare da soli e per obiettivi. C’è tanta gente che (per fortuna!) non ha molto di quello “spirito imprenditoriale” necessario per auto-gestirsi, ma – per esempio – ha metodo e attenzione per i dettagli, nonché bisogno di ricevere compiti e confrontarsi per lavorare bene.

E poi, infine, ci sono quelli per cui lavorare da casa diventa una specie di incubo, perché non hanno spazi o mezzi adeguati per farlo, o esigenze familiari o sanitarie che rendono il lavoro da casa molto complicato da gestire, o perché se non sono in ufficio con i colleghi e col capo che ogni tanto passa proprio non riescono a concentrarsi.

Fatta quindi l’abbondante tara sull’accessibilità dello strumento a breve termine, vi è poi da ragionare sulle implicazioni a lungo termine. Per esempio c’è il rischio che lo smart-working, invece di rapporto di delega e quindi di fiducia, diventi uno strumento di controllo pervasivo sui lavoratori. Non è difficile immaginare grandi aziende che sviluppino piattaforme software onnicomprensive in cui monitorare ogni momento il comportamento dei dipendenti, un po’ come fanno oggi molti siti con gli utenti.

Vi è poi anche il rischio di una massiccia perdita di capacità contrattuale politica e di rappresentanza da parte dei lavoratori. Oggi i sindacati sembrano piuttosto favorevoli al lavoro a distanza, ma come coltivare e far crescere il senso di comunità e di solidarietà tra lavoratori che nemmeno si incontrano nei corridoi o chiacchierano in mensa? Anzi, c’è il rischio che – come in parte accaduto con le e-mail – esso aumenti lo scarica-barile di compiti e responsabilità: d’altronde, è molto più facile appioppare colpe e incombenze a un indirizzo di posta che al collega che sta dall’altra parte della scrivania.

Ma anche i datori dovrebbero preoccuparsi. Ora, spaventati dai costi di sanificazione e dai rischi di nuove chiusure causa focolai, nonché irretiti dall’idea di poter risparmiare moltissimi costi fissi, spingono per il lavoro a distanza. Ma dovrebbero riflettere sul fatto che così rischiano di diventare sempre più dei semplici “datori di stipendio” invece che datori di lavoro, poiché saranno sempre meno quelli che detengono i mezzi di produzione e quindi il controllo sul proprio processo produttivo.

Anche perché la cultura aziendale – così giustamente ritenuta fondamentale e celebrata fino all’anno scorso – è molto difficile da coltivare con i lavoratori a casa: se io lavoratore mi gestisco da solo e uso i miei mezzi per mandarti, con i miei tempi e i miei modi, i risultati che mi chiedi, e per forza di cose sono sempre meno in grado di vedere il contributo che do nel processo, sei un cliente più che un datore di lavoro. E alla lunga non mi sento di fare per te più dello stretto necessario.

Tutto questo vuol dire che lo smart-working è solo una moda passeggera? Ovviamente no. Può portare benefici a molte persone e alla comunità, aumentando la flessibilità e la responsabilizzazione di moltissimi lavoratori, così come può ridurre sensibilmente inquinamento e sprechi. 

In generale, può essere una grande occasione per instaurare un nuovo clima di fiducia e un rapporto di forza più sano tra datori e lavoratori. Inoltre, in Italia potrebbe essere una straordinaria opportunità per favorire la fusione delle piccole e medie imprese nel management, quello sì in buona parte possibile a distanza.

Tanti possibili benefici, quindi. Ma, come abbiamo visto, anche tanti rischi. E il modo più facile di incorrere nei rischi invece di cogliere le opportunità è fare le cose di fretta, fuori scala e senza pensare alle implicazioni profonde, generando poi disillusione e conflitto. Non caschiamoci.

I grandi cambiamenti sono complessi e richiedono tempo, oltre che prove ed errori. E comunque non cambiano mai tutto per tutti. I rapporti con i colleghi, l’ambiente di lavoro sono per miliardi di persone fattori fondamentali di costruzione della propria identità sociale e anche personale. 

Siamo persone diverse in ambienti diversi: è uno dei principi chiave del nostro essere umani. E le persone, si sa, cambiano, ma molto, molto lentamente.  




AZIENDE PETROLIFERE: LA STAGIONE DELLE MENZOGNE NON FINISCE MAI

AZIENDE PETROLIFERE: LA STAGIONE DELLE MENZOGNE NON FINISCE MAI

Ci risiamo: nuova stagione, nuova campagna globale di pubbliche relazioni.

Nel decimo anno dalle vicende della piattaforma petrolifera Deepwater Horizon, il colosso mondiale dell’estrazione di petrolio BP – British Petroleum torna a guadagnare spazio sui mass-media con una raffinata operazione finalizzata a tentare di riconquistare la benevolenza dell’opinione pubblica.

Procediamo per passi, richiamando qualche dettaglio del disastro ambientale marittimo più tragico di tutti i tempi.

Il 22 aprile 2010, mentre la piattaforma stava completando la perforazione del pozzo Macondo al largo della Louisiana, nel Golfo del Messico, un’esplosione innescò un violentissimo incendio, che uccise all’istante 11 operai, causando diverse decine di feriti. L’incidente, da ciò che emerse dagli atti del processo, venne causato da evidenti negligenze da parte del personale incaricato della sorveglianza dell’impianto, nonché dalla mancata sostituzione di un pezzo meccanico usurato del valore di poche centinaia di migliaia di euro.

Tutti i tentativi di bloccare la fuoriuscita di “marea nera” fallirono, e lo sversamento di petrolio greggio in mare supero le 700.000 tonnellate: BP riuscì ad arginare il problema solo dopo 3 lunghi mesi. Co-responsabile del disastro, fu la multinazionale americana Halliburton, gruppo statunitense che opera in 120 paesi, specializzato nello sfruttamento dei giacimenti petroliferi, strettamente legato a Dick Cheney, ex vicepresidente degli Stati Uniti.

Gli effetti negativi sull’ambiente, sulla fauna e la flora marina, sono stati dichiarati “incalcolabili”. Ma anche per l’uomo vi sono – e vi saranno – conseguenze: intensificazione delle malattie respiratorie e delle patologie della pelle, e soprattutto aumento dell’incidenza di tumori e aumenti statistici degli aborti spontanei, a causa del petrolio e delle sostanze chimiche disperdenti rilasciate sul luogo del disastro, che contamineranno la popolazione locale nel breve e medio termine per via inalatoria e orale, soprattutto come conseguenza dell’accumulo degli idrocarburi nella catena alimentare.

Nel 2012, durante il processo, la BP raggiunse un accordo con il dipartimento di Giustizia statunitense per il pagamento di una penale di 4,5 miliardi di dollari, dichiarandosi colpevole di undici capi d’accusa, per negligenza e colpa grave. Il 2 luglio 2015, inoltre, gli Stati americani colpiti dal disastro hanno raggiunto un accordo con la BP riguardo ai danni ambientali provocati dall’incidente, a seguito del quale la BP dovrà risarcire circa 18,7 miliardi di dollari nell’arco di 18 anni.

Tra l’altro, alcune documentazioni video hanno confermato che alcune spiagge inquinate dal petrolio non erano state ripulite come promesso dalla BP durante i processi, bensì solamente ricoperte con sabbia pulita al fine di nascondere l’inquinamento. BP, infine, durante il procedimento giudiziario si è dichiarata colpevole del capo d’accusa di “ostruzione al Congresso”, a seguito delle evidenti reticenze di suoi alti dirigenti nel collaborare con trasparenza alle indagini. La Halliburton, infine, co-imputata con la BP, ha anche ammesso di aver “intenzionalmente distrutto delle prove chiave dopo il disastro”.

Come aziende del genere possano pretendere di restare sul mercato, incuranti del pregiudizio arrecato al rapporto di figucia con gli stakolder, resta per me un mistero.

Interessante ricordare come qualche anno prima del disastro, la BP modificò il proprio pay-off rinominandolo in “Beyond Petroleum”, ovvero “al di là del petrolio”, facendo anche un rebranding del suo famoso “scudo verde”, modificandolo nel simbolo dell’elio, una specie di margherita con dei raggi verdi e gialli, per enfatizzare il focus aziendale sull’ambiente e sulle fonti di energia rinnovabili.

La società, nel decennio tra il 2000 e il 2010, fu molto attiva sul fronte della responsabilità sociale, partecipando a diversi concorsi e venendo anche ben classificata in ranking internazionali importanti sul fronte ambientale. Per contro, il risultato delle varie commissioni d’inchiesta sul caso fu unanime: alla base del disastro, c’è stato il malfunzionamento di un sistema di sicurezza di un impianto del tutto inadeguato, malfunzionamento causato da una strategia di sistematica e miope riduzione dei costi.

Siamo quindi dinnanzi ad aziende “Giano bifronte”, che da un lato si danno pitturate di verde per apparire sostenibili agli occhi dei cittadini, nel tentativo, spesso fragile, di ridurre i rischi per il loro business, e dall’altro perseguono invece senza sosta business ben poco sostenibili per il futuro del pianeta, a volte pregiudicando la sopravvivenza di interi ecosistemi.

È appena utile ricordare ad azionisti e manager il fortissimo pregiudizio sul valore di borsa dell’azienda generato da questi comportamenti: è difficile farsi una ragione dell’arroganza e supponenza di un sistema industriale “a doppio binario”, che da un lato massimizza in modo sfacciato l’impatto pubblicitario delle proprie politiche “green” ed ecosostenibili, e dall’altro – contemporaneamente e schizofrenicamente – per risparmiare misere somme di denaro causa danni incalcolabili di lungo periodo all’ecosistema e all’uomo. 

Tornando all’attualità, sul sito della BP dedicato alla responsabilità sociale si legge tuttora che l’azienda “lavora per evitare, mitigare e minimizzare gli impatti ambientali in tutti gli scenari in cui opera”. Ebbene, approfondiamo come.

In un articolo per la London Review of Books, Meehan Crist, ricercatore in scienze biologiche alla Columbia University, racconta appunto della nuova campagna di relazioni pubbliche lanciata dalla BP a livello globale, lanciata al fine di mettere in risalto l’impegno del gruppo sul tema delle energie rinnovabili e per un “futuro più verde e pulito”. Lo sforzo pubblicitario di BP si inserisce nella più ampia azione di propaganda dell’American Petroleum Institute, che riunisce oltre 600 aziende nel settore del mondo degli idrocarburi, e che ha lanciato “Energy for Progress”, un imponente programma che ha come scopo – riporta Crist – “convincere l’opinione pubblica che l’industria dei combustibili fossili, dopo aver per decenni speso miliardi di dollari in azioni di lobbismo e disinformazione per disincentivare uno sforzo orientato alla tutela del clima, ora è un partner affidabile nella lotta al cambiamento climatico”.

Limitandosi all’apparenza, parrebbe che l’industria petroliferia stia investendo massicciamente un soluzioni green al fine di cambiare il proprio modello di business: non è così, se consideriamo, analizzando i bilanci pubblici della BP, che l’azienda – player di sicuro riferimento nel settore – investe nel comparto delle tecnologie rinnovabili appena il 3% dei propri investimenti in ricerca e sviluppo; ed è peraltro un’azienda apparentemente “virtuosa”, se consideriamo che dall’analisi pubblicata a gennaio dall’Agenzia Internazionale dell’Energia, la media del comparto di ferma a un misero 1%.

Il problema pare essere l’impossibilità di rendere “redditizi” questi progetti green. Non più tardi di 2 anni fa, l’allora CEO di BP Bob Dudley, dichiarò: “Se qualcuno ci dicesse, ecco 10 miliardi di dollari, investiteli nella produzione di energia verde, noi non siamo sicuri di poter riuscire a farlo”. L’interesse degli azionisti è centrale nella vecchia ed obsoleta filosofia “shareholder value”, ed è quindi ancor oggi l’ossessione dei top manager delle multinazionali che operano in settori maturi quali quello petrolifero. La Crist nel suo articolo afferma: “Se l’interesse degli azionisti, ovvero massimizazre il profitto, entra in conflitto con il bene comune, il profitto vince sempre. Il problema non è solo la BP, ma è strutturale: la BP è legalmente obbligata ad agire nell’interesse degli azionisti”

In questo, non sono d’accordo con la Crist, e con me buona parte del mondo accademico più attento agli sviluppi culturali – e anche giuridici e giurisprudenziali – nel settore della corporate social responsibility e del reputation management.

Le opportunità di una maggiore crescita di redditività e vantaggio competitivo derivanti dal inserimento di preoccupazioni sociali e ambientali come parte integrante della strategie di business di un’azienda, è confermato da una crescente mole di evidenze scientifiche, incluso il celebre lavoro di Robert G. Eccles, Ioannis Ioannou, and George Serafeim, del quale avevo parlato in un mio precedente articolo: fare bene, e fare del bene, acquisendo consapevolezza sul ruolo sociale delle industrie all’interno delle reti sociali, in poche parole fa guadagnare di più. Tanto che gli obblighi giuridici di redditività “a qualunque costo” verso gli azionisti, sottolineati da alcune sentenze in USA negli anni ’80 e ’90 del secolo scorso, sono stati poi rivisti e attenuati da sentenze successive, che hanno tenuto conto e inserito nei loro ragionamenti anche più ampi concetti quali quelli relativi alla stakeholder value, ovvero alla necessità di contemperare con equilibrio gli interessi di tutti i pubblici dell’azienda, e non solo degli azionisti, lavorando per la creazione di un reale valore condiviso tra tutti gli stakeholder.

Come sottolineato da Michael Porter, quando gli investitori ignorano le proprie responsabilità sociali e falliscono nel riconoscere la forte connessione che esiste tra la strategia aziendale, lo scopo sociale e il ritorno finanziario, “essi mettono implicitamente in discussione il ruolo del capitalismo come strumento utile per il progresso della società: in un particolare periodo storico nel quale l’ineguaglianza economica è aumentata e i bisogni sociali sono più evidenti che mai, ignorare la possibile sinergia tra il successo aziendale e il progresso sociale incoraggia le critiche e mette a rischio il futuro stesso del capitalismo”.

A ciò aggiungo che gli stessi grandi investitori – ad esempio l’enorme fondo di investimento Blackrock – richiamano all’ordine le aziende, chiedendo espressamente di farsi carico di queste preoccupazioni, pena il disimpegno dei fondi stessi dalla compagine azionaria.

Per non poche multinazionali, tuttavia, questa consapevolezza è ancora tutta da raggiungere. Vi è tuttavia un rilievo della Crist totalmente condivisibile: quello che pone l’attenzione sull’accusa degli ambientalisti, secondo i quali le aziende del settore petrolifero spendono milioni di dollari ogni anno per costose campagne di pubbliche relazioni finalizzate ad alterare la percezione che l’opinione pubblica ha del loro operato.

La ONG ClientHearth ha citato in giudizio proprio la BP, sostenendo che le sue campagne pubblicitarie e di propaganda siano una “cortina fumogena”: un vero e proprio bombardamento di messaggi finalizzati a convincere la cittadinanza che in combustibili fossili, in quanto necessari al progresso, sono in definitiva una cosa positiva.

Ad esempio, attraverso la diffusione di campagne atte a sensibilizzare il pubblico sull’importanza dell’impronta ecologica individuale, quasi a voler dire: “Siete voi che inquinate, con i vostri comportamenti quotidiani, non noi…”.

Ricordo a tal proposito una mia visita, un paio d’anni fa, al bellissimo Maritime Museum di Rotterdam, in Olanda, il museo del mare il cui percorso espositivo si conclude con una serie di laboratori didattici ed esperienziali proprio sui consumi individuali e familiari, e su come abbatterli: lodevole azione di sensibilizzazione, che avrebbe ancor più senso fosse promossa dalla locale Università, invece che finanziata dall’associazione olandese dei produttori di idrocarburi, della quale la BP è azienda di punta, e da varie aziende produttrici di infrastrutture petrolifere, come risulta se solo si ha la pazienza di scorrere l’elenco delle sponsorship.

Il confine tra la sensibilizzazione del cittadino su temi importanti e di sicuro interesse, e per contro il tentativo di spostare sugli utenti finali le responsbilità per le problematiche derivanti dal cambiamento climatico, è sottile e assai sdrucciolevole: è dal 2015 che la BP tenta di percorrere questa strada, con il supporto di importanti agenzie di pubbliche relazioni a livello globale, sgomitando per cercare di aumentare la propria “licenza di operare”, anche se le previsioni strategiche in tal senso paiono essere di molto precedenti.

È dalla fine degli anni ’90 che le aziende petrolifere immaginano strategie di questo tipo. In un report dal titolo “Scenari di gruppo 1998-2020”, la multinazionale petrolifera Shell immaginava infatti questo scenario: “In seguito agli sconvolgimenti climatici, una coalizione di ONG ambientaliste promuove un’azione legale collettiva contro il governo Statunitense e i produttori di idrocarburi, con l’accusa di aver ignorato quello che gli scienziati dicono da anni: che bisogna fare qualcosa. Si diffonde la reazione sociale all’uso dei combustibili fossili, e gli individui diventano vigilanti ambientali, proprio come una generazione prima erano diventati acerrimi nemici del tabacco. Aumentano le campagne di azione diretta contro le aziende, e i giovani consumatori, in particolare, esigono che si agisca”. Sempre secondo questo documento Shell, “la reputazione è la chiave del successo”: le compagnie petrolifere devono reagire al cambiamento climatico convincendo le persone che esse “stanno rendendo un mondo migliore, diffondendo il capitalismo di mercato e (…) plasmando le problematiche ambientali ovunque si trovino

Metodo assai curioso di porre al centro l’importanza – indiscutibile – della reputazione, rimuovendo in toto uno dei pilastri fondamentali del reputation management che è quello dell’autenticità: come scrive la giornalista esperta in temi ambientali Emily Atkin, “non solo sapevano degli enormi danni provocati dal loro modello di business alla vita sulla Terra, ma sapevano anche, da decenni, in che modo i danni causati dai loro prodotti potevano cambiare il panorama politico legale e culturale”. Non sono spaventati, avverte la Atkin: “Sono pronti”.

Mentre tutto ciò accade, qualcuno coraggiosamente tenta di resistere, non solo con proclami ma con gesti concreti: il celebre quotidiano britannico The Guardian, ha rinunciato ad ogni pubblicità pagata da compagne del mondo dei combustibili fossili.

Benvenuti nel decennio della propaganda 2.0: spregiudicata e alterante, come è sempre stata, ma oggi ancor più disorientante, perché sempre più “tinta di verde”, lupo omicida travestito, abilmente, da agnello amico dell’ambiente.

Bibliografia/sitografia

(selezione bibliografica a cura della Dott. sa Giorgia Grandoni):




Roger McNamee, ex mentore di Zuckerberg: ‘Facebook va boicottata, il suo business model è basato su complottismo, odio e disinformazione’

Roger McNamee, ex mentore di Zuckerberg: ‘Facebook va boicottata, il suo business model è basato su complottismo, odio e disinformazione’

Raggiungere Roger McNamee è particolarmente difficile in questi giorni. La California brucia, l’emergenza Covid non dà tregua e i media lo inseguono per dichiarazioni e interviste, ma questa non è una novità. Lo è invece il suo tentativo di esportare il boicottaggio contro Facebook, #StopHateForProfit, anche in Europa, per segnare un nuovo punto nella lotta al modello di business dei giganti della Silicon Valley.

Chiamatela eterogenesi dei fini: sono passati 14 anni da quando il 64enne che ama definirsi musicista e hippy, ma che è noto soprattutto per essere uno dei venture capitalist di maggior successo d’America, consigliò a un allora giovanissimo Mark Zuckerberg di non accettare l’assegno da 1 miliardo di dollari che Yahoo era pronta a pagare per Facebook. Il social network allora fatturava 20 milioni all’anno e l’offerta era francamente spropositata, ma McNamee aveva intuito le potenzialità dell’idea di Zuckerberg. Da allora, e per un decennio, i due sono stati quasi inseparabili. L’idillio, ha scritto McNamee nel libro Zucked (Penguin Random House), si è rotto quando si è accorto che qualcosa di strano stava succedendo sulla piattaforma, prima che le interferenze sulla Brexit e sull’elezione del presidente Donald Trump diventassero cosa nota.

Incapace di far cambiare idea a Zuckerberg sull’esigenza di trasparenza, l’ex mentore e azionista si è trasformato nell’arco di qualche anno in uno dei più fieri critici delle pratiche del suo ex pupillo, denunciandone comportamenti scorretti e frequentazioni poco consone, ultima quella col presidente Donald Trump.

La California è stata un gran posto per un sacco di tempo, ma non lo è più. Viviamo una situazione da pazzi per via di questo presidente e del suo governo. Persino l’incapacità di rispondere all’emergenza Covid ha a che vedere anche con Facebook: il social network ha dato risalto a quelli che dicono che le mascherine sono un fatto politico e non essenzialmente sanitario”, esordisce quando lo raggiungiamo al telefono, in un giorno di fine luglio che marca l’ennesimo record di contagi e le consuete politiche sul presidente. “Ma d’altronde abbiamo quello che ci meritiamo: siamo stati stupidi e arroganti. Potrebbe finire davvero male”.

Male come?

Penso che Zuckerberg e Trump abbiano un accordo: non si sono stretti la mano, ovviamente, ma è un patto implicito. Per un business come Facebook o Google, per chi fornisce prodotti e servizi onnipresenti e utilizzati da tutti, è essenziale rimanere allineati col potere, a costo di passare qualche guaio pubblico. L’allineamento passa per la scelte di specifiche persone. Facebook ha assunto un signore che si chiama Joe Kaplan e lo ha messo a capo della divisione operativa di Washington. Kaplan è un uomo di estrema destra: è stato assunto per fare lobbying sul partito repubblicano ma la verità è che sono stati i repubblicani a utilizzarlo per fare lobbying su Facebook.

Cosa è successo?

Kaplan ha consentito a Facebook di avere entrature eccezionali nel governo, perché il suo migliore amico è Brett Kavanaugh, nominato giudice della Corte Suprema proprio da Trump. Durante l’udienza di conferma della nomina, Kaplan e la moglie erano seduti subito dietro Kavanaugh, come dire che l’uomo non ha alcuna timidezza nel manifestare la sua vicinanza. Infatti, man mano che il comportamento di Trump diventava più allarmante, Facebook adottava policy esplicitamente a suo favore. Gli altri big lo fanno in modo meno palese: YouTube o Twitter danno grande spazio alle teorie dell’estrema destra, ma cercano di essere meno spudorati. Facebook no. E poi, come scoperto dai giornali, Zuckerberg ha avuto, almeno due conversazioni private con il presidente…

Siamo più chiari: quale sarebbe il supporto “esplicito?”

Ecco un esempio. L’estate scorsa Judd Legum, un reporter di Popular Information,  ha scoperto che il comitato per la rielezione di Trump stava facendo circolare su Fb pubblicità che sono illegali stando alla legge americana. Era una specie di concorso: “Puoi vincere una cena col presidente ma solo se rispondi entro la mezzanotte di stasera”. L’annuncio è rimasto visibile per 30 giorni consecutivi: la storia del rispondere entro mezzanotte era quindi decisamente falsa. Non solo: Legum non è riuscito a trovare un solo vincitore del contest. L’unica ragione per farlo era accumulare dati personali.

In Italia, due anni fa, è stato fatto qualcosa di molto simile: il VinciSalvini…

Ma i “Terms of service” di Facebook, le regole interne, vietano espressamente pubblicità che mentano. Però sapete cos’ha fatto Facebook in questa occasione? Non ha vietato le pubblicità, ma ha cambiato le regole… Questo è il patto implicito tra Trump e Zuckerberg: nessun altro ha fatto qualcosa del genere.

Ci faccia un altro esempio.

Qualche giorno fa Trump ha scritto un post in cui diceva che il voto per posta [che è una delle modalità ammesse dalla legge americana, ndr] significa frode. Facebook ha messo un appunto sotto al testo che dice: “Questo post contiene informazioni riguardo il voto”! A voler essere maligni, lo si può prendere come un endorsement della strampalata teoria del presidente.

La domanda ovvia è perché: qual è l’interesse di Zuckerberg, specie considerato che Trump potrebbe anche non essere rieletto?

In America abbiamo un detto: If it bleeds, it leads. Significa essenzialmente che le cose più truculente, o che fanno arrabbiare, sono quelle che funzionano meglio. Ecco, questo vale nel giornalismo, ma anche per i social network: devi far “scaldare” la gente. Gli algoritmi privilegiano i contenuti che fanno scaldare gli utenti e si sa ormai che questi sono l’hate speech, la disinformazione e le teorie cospirative. Con questi temi si scatenano dibattiti e “lotte” virtuali.

Qual è il punto?

Che dibattiti, commenti, lotte virtuali – quello che nel marketing si chiama engagement – trascinano i ricavi, perché catturano l’attenzione. Il modello di business delle piattaforme, a partire da Facebook, si basa su questo tipo di contenuti. Per questo nonostante le protesta pubblica contro certe voci, i big della Valley decidono sempre di ignorarla fino all’ultimo.  E quando saranno costretti a dare retta ai critici, cercheranno di farlo con il minimo danno possibile per se stessi: potranno silenziare una persona, ma lasceranno spazio a decine di altri propagatori di odio o di teorie cospirative.

D’altronde, dare a Zuckerberg il diritto di decidere chi può dire cosa è pericoloso.

Il problema non è che qualcuno scriva un post: il primo emendamento consente a tutti la libertà d’espressione. Il punto è che quel contenuto divisivo viene amplificato intenzionalmente dall’algoritmo, anche se sappiamo che può avere conseguenze pericolose. Le teorie cospirative, l’odio e la disinformazione sono una componente essenziale del business model di Facebook. Questo è il motivo per cui il legislatore dovrebbe chiedersi se è giusto che queste aziende continuino a esistere così come sono oggi.

Pensa che la politica ci stia riflettendo seriamente?

Dobbiamo sperarlo. Nessuno ha la palla di cristallo, ma nell’ultimo mese è successo qualcosa di grosso. In America stiamo vivendo una tragedia legata al coronavirus, visto che siamo stati i peggiori al mondo a gestire la situazione, il che produrrà anche una crisi economica di proporzioni bibliche. In contemporanea, la brutalità della polizia nell’omicidio di George Floyd ha scatenato una risposta inedita: oggi il 77% delle persone crede davvero che Black Lives Matter, che le vite dei neri contino. Non era mai successo qualcosa del genere, in 40 anni: per la prima volta la gente inizia a pensare che il modo in cui questo Paese ha funzionato non è corretto e che va riformato, in molti aspetti, dal mercato alla polizia.

In Europa nel frattempo hanno fatto molta notizia il boicottaggio lanciato contro Facebook e la protesta dei dipendenti contro il loro capo.

Capiamoci, la protesta è stata molto piccola. Ma è stata comunque una prima volta: nessuno aveva mai manifestato apertamente per i fatti legati alla Brexit, per le interferenze russe, persino per quello successo in Birmania, tutte cose in cui Facebook ha avuto un ruolo.

Lei è stato estremamente vicino a Zuckerberg, ed è in parte responsabile della sua fortuna. Non si era accorto prima dei “difetti”, chiamiamoli così, del suo ex pupillo?

Non ho mai detto e non penso che Zuckerberg sia un uomo orribile. Ma ho deciso di essere un attivista, cioè di cercare di mostrare alle persone quello che davvero sta succedendo dentro a Facebook.. Voglio scatenare quella discussione pubblica che le aziende della Silicon Valley proprio non vogliono. Finora hanno vinto loro. In America l’impostazione dominante è che la moralità non conta, quando si parla di affari. È vero in qualsiasi settore, ed è stato così per decenni, ma il settore in cui operano Facebook o Google ha più impatto di qualsiasi altro. È necessario che inizino a essere responsabili verso i loro lavoratori, verso la nazione, verso la società tutta.

Il boicottaggio come sta andando? Zuckerberg sembra piuttosto tranquillo.

Abbiamo avuto più di 1.000 aziende aderenti. La novità è che ci stiamo preparando a lanciarlo anche in Gran Bretagna, come testa di ponte per l’Europa. Gli investitori sono quelli che fanno i ricavi di Facebook: dovrebbero mobilitarsi anche in Italia, senza aspettare che siamo noi da qui a organizzarlo. 

Se non fosse che Facebook e Instagram sono gli strumenti migliori per decine di migliaia di piccole imprese, in Italia.

È verissimo che Zuckerberg ha la piattaforma per la pubblicità migliore al mondo, ed è vero che è un monopolio: per questo dovrebbe essere regolamentato. Credo che in Europa – dove siete stati più attenti e capaci di intervenire che nel resto del mondo – qualcuno si aspetti una soluzione globale ai problemi di Facebook. Io credo invece che voi abbiate maggiore consapevolezza di noi, e che dopo la Brexit dovreste proibire quantomeno le pubblicità di tipo politico. Almeno finché le cose non cambieranno.