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FACEBOOK INC. E CINA: QUANDO L’APPAESEMENT DIVENTA POLICY

FACEBOOK INC. E CINA: QUANDO L’APPAESEMENT DIVENTA POLICY

Il termine appaesement (sost. ingl. ëpìi∫mënt, pacificazione, sinonimo di “accomodamento”) definisce un accordo ottenuto “a qualunque costo”, ovvero a prezzo di gravi concessioni. Non a caso, in quest’accezione del termine, affonda le sue radici nel periodo nero del nazional-socialismo tedesco: indica la politica adottata dal Regno Unito negli anni ‘30 del secolo scorso, avente lo scopo di tentare di placare le mire espansionistiche di Hitler e conseguentemente scongiurare un intervento militare contro la Germania. Strategia che si rivelò del tutto inutile: ma – si sa – la storia insegna poco, specie alle aziende della Silicon Valley. Comunque, mai definizione fu più adatta a definire le politiche del colosso di Menlo Park verso il regime comunista e totalitarista di Pechino.

Andiamo con ordine, e inquadriamo il contesto, prendendo spunto da un magistrale articolo di John Lanchester dal titolo Document Number Nine, pubblicato sulla London Review of Books.

Il noto giornalista e scrittore britannico ci spiega come la Repubblica Popolare Cinese, che ha compiuto 70 anni lo scorso mese di ottobre, sia un sistema con peculiarità per certi versi uniche: è il mercato per i beni di lusso più grande del mondo, al secondo posto per numero di miliardari, con la classe media più consumistica del pianeta, e nel contempo ha statistiche sulla diseguaglianza peggiori dei tanto criticati Stati Uniti. Per contro, mentre in tutto il mondo occidentale i tassi di crescita sono stati inesistenti o bassi, la Cina nell’ultimo decennio ha continuato a incrementare il proprio PIL di oltre il 6% all’anno. Qual è quindi il prezzo della prosperità?

Non è solo il controllo militare e statale sulle aziende a destare preoccupazioni. Il soffocante governo di Pechino, ad esempio, al concetto di internet come “dono di Dio alla democrazia” (parole di Liu Xiaobo, non a caso primo Premio Nobel a morire in carcere , in Cina, dopo Ossietzky nella Germania nazista), preferisce il concetto di “sovranità cibernetica”, ed esercita quindi una soffocante supervisione sul web, tramite plateali strumenti di censura, che il regime – eufemisticamente – definisce “armonizzazioni”.

Purificare l’ambiente su internet

Nel 2013 venne alla luce – grazie al giornalista Gao Yu, sollecitamente condannato niente meno che a 7 anni di carcere – un inquietante documento a firma dei vertici del Partito Comunista Cinese dal titolo “Comunicato sullo stato attuale della sfera ideologica”, noto anche come Documento numero nove (di qui il titolo del pezzo di Lanchester). Il paper metteva in guardia sulle false tendenze ideologiche occidentali, come ad esempio “promuovere la democrazia costituzionale, promuovere i valori universali, promuovere la società civile, promuovere un’idea di giornalismo in contrasto con la disciplina del Partito, o mettere in discussione la natura del socialismo con caratteristiche cinesi”. Il documento nelle sue conclusioni sottolineava inoltre “la necessità di rafforzare coscienziosamente la gestione del campo di battaglia ideologico, tramite il controllo dell’opinione pubblica e la purificazione dell’ambiente su internet”.

L’intenzione di ribaltare la funzione di internet quale strumento di interconnessione, apertura e libero flusso di informazioni, è quindi chiara. Come attuarla? Con il più poderoso sistema di controllo e censura digitale – o meglio, di “armonizzazione” – mai concepito dall’Uomo.

La Cina è approdata su internet con forte ritardo rispetto al resto dell’occidente, ma ha rapidamente recuperato terreno: a metà anni ’80 del secolo scorso al web erano connessi in Cina 1.500 accademici, oggi sono online oltre 850 milioni di cinesi, la maggior parte tramite Smartphone.

I più importanti siti d’informazione esteri però sono censurati e inaccessibili, dal New York Times alla BBC, passando per Google e Twitter, e – ovviamente, perlomeno ora – Facebook.

Gli account politicamente più critici presenti su Weiboo – la piattaforma di messaggistica che i cinesi utilizzano per connettersi, comunicare e pubblicare le proprie foto – già anni fa sono stati “armonizzati” (leggasi: bloccati e cancellati) da un giorno all’altro.

I titolari degli account più popolari sui Social network cinesi, con il maggior seguito in termini di follower, sono stati convocati dalla neo-costituita Amministrazione Cinese del Cyberspazio, controllata ovviamente dal Partito Comunista, che ha ricordato ai suddetti “la loro responsabilità sociale nei confronti dell’interesse dello Stato e dei valori del socialismo”. Il noto attivista di Weiboo Charles Xue, inizialmente forse non abbastanza convinto dalla richiesta del Partito, ha rilasciato due settimane dopo un’intervista alla TV di Stato, piangendo e scusandosi, dalla sua nuova residenza: una cella di prigione.

Inoltre, chiunque diffonda una notizia in grado di “turbare l’ordine sociale” (qualora cosa ciò possa voler dire…) che venga condivisa online più di 500 volte, rischia fino a 3 anni di carcere.

I manovali dell’armonizzazione

Oltre al vero e proprio firewall – il muro della censura elettronica che blocca l’accesso non solo ai siti stranieri, ma perfino a tutti i singoli thread riguardanti argomenti “sensibili” sui siti autorizzati – anche la propaganda interna è molto attiva: si tratta del Wumao, il cosiddetto “esercito del 50 centesimi”, ovvero blogger e troll coinvolti a pagamento (50 centesimi per ogni post, appunto) per “cambiare discorso” ogni qual volta una conversazione online prende una deriva critica verso il regime, e per pubblicare nuovi contenuti “innocui”. Uno studio accademico ha dimostrato la pubblicazione di quasi 500 milioni di post falsi in un anno. Il reporter James Griffiths, autore del libro The Great Firewall of China, ha dichiarato a riguardo:

“Questi troll non scendono in campo per difendere il Governo dalle critiche: la maggior parte dei loro post riguarda argomenti positivi e condivisi. Si rileva inoltre un elevato livello di coordinamento dei tempi e dei contenuti di questi post: una teoria coerente con questi modelli di comportamento è quella che evidenzia come l’obiettivo strategico del regime sia quello di distrarre e spostare l’attenzione pubblica da eventi e discussioni che potrebbero stimolare un’azione collettiva”

Un altro sistema di concreto controllo è costituito dalla App WeChat, simile alla nostra WhatsApp, ma che i cinesi utilizzano anche per moltissimi pagamenti online: operazioni bancarie, taxi, film, consegna di cibo a casa, e via discorrendo. Pagamenti ovviamente meticolosamente tracciati e all’occorrenza monitorati dal governo Cinese, che ha accesso a qualunque transazione di privati, dagli acquisti di beni e servizi alle cartelle cliniche, dall’accumulo di punti fedeltà del supermercato ai biglietti aerei e del treno, dalle coordinate di movimento (tramite il GPS dei cellulari) alla frequentazione di edifici di culto, e via discorrendo.

Skynet: non è fantascienza

Sempre nel precitato documento de partito si scrive: “Le tecnologie d’intelligenza artificiale permettono di prevedere e segnalare in modo puntuale, preventivo e tempestivo ogni situazione sociale rilevante: tutto questo accrescerà in modo significativo la capacità di controllo sociale, così da garantire la stabilità”. Che i vertici del Partito Comunista credano veramente nel valore della stabilità, sul cui altare immolare quello della libertà personale, o che tutta questa retorica sia finalizzata solo a giustificare quello che appare come un sofisticato sistema repressivo del dissenso, resta un mistero a oggi insondabile.

Un’applicazione già realizzata di intelligenza artificiale finalizzata al controllo sociale è quello del riconoscimento facciale, utile per facilitare il check-in negli aeroporti, ma anche, bizzarramente, per reprimere l’uso eccessivo di carta igienica nei bagni di alcuni siti monumentali (una telecamera identifica il cittadino e rilascia massimo 60 cm. di carta a persona), o, più preoccupante, per individuare e segnalare gli alunni “annoiati e distratti a scuola”: il sistema capillare di telecamere sparse per tutto il Paese, ci ricorda Lanchester, permette di identificare uno qualunque del miliardo e mezzo di cittadini cinesi in circa un secondo. La rete si chiama, con un richiamo abbastanza inquietante, Skynet, come il malefico sistema informatico del film apocalittico Terminator.

Punta di diamante di questo complesso sistema è il noto Social Credit, un apparato di controllo digitale basato sull’accumulo e la detrazione di punti (i “punti fragola” della censura governativa Cinese) levati dal “conto” della persona sulla base del rispetto o meno di comportamenti “socialmente appropriati”, ovviamente nel rispetto di una definizione e classificazione stabilita dal Partito Comunista Cinese, fino a interdire la possibilità di spostamento in treno o aereo in caso di punteggi bassi nel proprio social account. Il sistema è entrato in funzione, sperimentalmente, proprio quest’anno, e lo scopo dichiarato è quello di “interiorizzare il senso dello Stato, mettendolo in pratica attraverso auto-censura e auto-supervisione”.

Business is business?

A fronte di questo scenario inquietante e surreale, più degno di una fiction basata sul romanzo 1984 di George Orwell che non sulla realtà contemporanea, Facebook tenta in ogni modo di promuovere le sue sciatte politiche di appaesement, nel maldestro tentativo di blandire il gigante cinese: Mark Zurkerberg ha annunciato in modo plateale di stare studiando il Mandarino, ha chiesto al Presidente cinese Xi-Jinping di scegliere il nome di sua figlia (il Presidente peraltro ha rifiutato), si è fatto fotografare mentre faceva jogging immerso nello smog tossico di Pechino, tiene – segnala Lanchester – “una copia del noiosissimo volume ‘Governare la Cina’ di Xi-Jinping sulla scrivania ogni qual volta riceve in azienda una delegazione di giornalisti cinesi”, e pare che – ancora non contento della sfacciata quanto ridicola piaggeria – ne abbia anche regalate delle copie ai suoi colleghi a Menlo Park, con lo scopo di far loro meglio comprendere “il socialismo con caratteristiche cinesi”.

E noi, in definitiva, sopravviviamo stretti tra il modello occidentale centrato sull’accumulo e sfruttamento di dati personali e individuali da parte di grandi corporations americane, a scopo di marketing e di profitto, e il modello cinese, un rigido regime tecno-totalitario che basa il suo potere sulla sorveglianza e il controllo, mentre l’Europa – politicamente debole, miope, e frammentata tra decine di singoli interessi nazionali spesso divergenti – annaspando tra una GDPR e un nuovo ambizioso programma di finanziamento per il supercalcolo, l’intelligenza artificiale, la cibersicurezza e le competenze digitali avanzate, si interroga su una possibile terza via, che ponga al centro il rispetto dei diritti dei cittadini.

Prima che sia troppo tardi.




Controllare i lavoratori a distanza: crescono le “sentinelle degli smart workers”

Da Microsoft a ActivTrak: secondo uno studio Usa, il settore del monitoraggio crescerà a dismisura

Sono le “sentinelle dello smart worker”, quelle che controllano – col fucile spianato dall’altra parte dello schermo – che il lavoratore da remoto sia costantemente produttivo. Si tratta delle app per il controllo a distanza dei dipendenti e negli Stati Uniti sono sempre di più: si va da quelle che comunicano ai capi dati sui siti web consultati a quelle che fanno gli screenshot delle schermate. E ora ci si mette anche Microsoft: un nuovo tool, chiamato Productivity Score, annunciato durante la conferenza annuale degli sviluppatori, mostra ai datori di lavoro come i propri dipendenti utilizzano i servizi di Microsoft 365 come Outlook, Teams, SharePoint e OneDrive. Ma può esistere uno smart working senza controllo sulla vita delle persone? Secondo Michel Martone, giurista e accademico, autore del libro “Il lavoro da remoto – Per una riforma dello smart working oltre l’emergenza”, sì: “Il datore di lavoro ha bisogno di controllare – spiega ad HuffPost – ma dovrebbe controllare i risultati del lavoro, non la persona”.

Secondo un’analisi di Market Research Future, il settore del monitoraggio del posto di lavoro dovrebbe crescere fino a raggiungere un mercato da 3,84 miliardi di dollari entro il 2023. Le aziende, sentendo il bisogno di garantire che la produttività non diminuisca durante il lavoro da casa, si rivolgono a società come ActivTrak , Hubstaff e InterGuard, che acquisiscono schermate dei computer dei lavoratori e catalogano per quanto tempo i dipendenti utilizzano determinati programmi. Alcuni di questi programmi, come Teramind, consentono ai datori di lavoro addirittura di guardare in tempo reale cosa fanno i lavoratori sui loro schermi, comprese le loro pubblicazioni sui social.

L’ultima polemica riguarda l’introduzione del tool di Microsoft, che apre una finestra sul mondo privato del dipendente: consente ai capi delle aziende che abilitano lo strumento, di scoprire, ad esempio, il numero di ore che un dipendente ha trascorso in riunioni su Microsoft Teams negli ultimi 28 giorni o di conoscere il numero di giorni in cui una persona è stata attiva su Microsoft Word, Outlook, Excel, PowerPoint, Skype e Teams nell’ultimo mese e su quale tipo di dispositivo. I datori di lavoro possono persino vedere il numero di giorni in cui una persona specifica ha inviato un’e-mail contenente una menzione @ o il numero di volte in cui la videocamera è stata accesa nelle riunioni. Microsoft nega che lo strumento serva per controllare i dipendenti ma la sua introduzione ha comunque scatenato un dibattito sulla privacy e sulla legittimità dell’esistenza di un simile riflettore sulle abitudini dei lavoratori.

Il dibattito smart working – controllo è infuocato. Un articolo pubblicato dal Wall Street Journal e intitolato “Three Hours of Work a Day? You’re Not Fooling Anyone” (“Tre ore di lavoro al giorno? Non stai prendendo in giro nessuno”) racconta i risultati che hanno ottenuto le aziende con l’utilizzo di uno di questi software di controllo dei dipendenti: ActivTrak. Tra i dati che raccoglie ActivTrak per misurare l’attività lavorativa dei dipendenti ci sono nomi utente, barre del titolo dell’applicazione, URL del sito Web consultato, durata dell’attività, schermate, tempo di inattività e attività USB. Brian Dauer, direttore della Ship Sticks, a West Palm Beach, in Florida, compagnia che trasporta equipaggiamenti sportivi e altri bagagli, ammette al Wall Street Journal di iniziare ogni giornata leggendo il report sui suoi dipendenti: “Se qualcuno sta navigando su ESPN.com per cinque minuti, lo vedremo. Il software tiene traccia di ogni piccola cosa che accade sul computer”, ha affermato. Ma quali risultati ha dato questa pratica del monitoraggio? Risultati ottimi, a quanto pare, perché Ship Sticks ha avuto una crescita costante, oggi conta circa 80 dipendenti, e tutto ciò, secondo il suo direttore, è dovuto al controllo perenne del lavoro degli impiegati. Anche Sagar Gupta, vicepresidente esecutivo di Biorev, una società di visualizzazione 3D con sede a Dallas, è della stessa opinione: nel 2016 si è affidato a ActivTrak e ha scoperto che i suoi dipendenti lavoravano solo tre ore al giorno. Il controllo, in qualche modo, è stata la sua salvezza.

“Dall’inizio della pandemia, la richiesta per le nostre tecnologie è triplicata”, ha affermato Brad Miller, CEO di Awareness Technologies, a NPR, all’interno di un articolo intitolato “Your Boss Is Watching You: Work-From-Home Boom Leads To More Surveillance” (“Il tuo capo ti sta guardando: il boom del lavoro da casa ha portato ad una maggiore sorveglianza”). Il loro software InterGuard permette di monitorare tutte le attività che vengono svolte su un pc, assegnando poi a ogni impiegato un “punteggio di produttività”. Va peggio – per i dipendenti – con un altro software di punta, Time Doctor, che invia “alert di distrazione” se l’utente risulta inattivo oppure passa troppo tempo su siti considerati poco produttivi quali Youtube, Facebook o Netflix. Il software può anche scattare e condividere screenshot dello schermo, per controllare l’attività del dipendente in ogni momento.

Dalla raccolta dei dati sui clienti, insomma, le aziende stanno passando alla raccolta dei dati sui lavoratori. Già nel 2019 il Wall Street Journal denunciava il fenomeno, riportando un sondaggio della società Gartner: “Di aziende con sede negli Stati Uniti, in Europa e in Canada, il 22% dei datori di lavoro intervistati dichiara di raccogliere dati sui movimenti dei dipendenti, il 17% raccoglie dati sull’utilizzo del computer di lavoro, il 13% raccoglie dati sull’addestramento dei dipendenti e il 7% tiene sotto controllo le e-mail degli impiegati”. Oggi, con la pandemia e il lavoro da remoto sempre più diffuso, la pratica del controllo stretto e costante è in crescita.

Ma qual è la situazione in Italia? Come spiega Michel Martone, il controllo da parte del datore di lavoro nel nostro Paese è tollerabile fin quando non è lesivo delle prerogative della persona. L’uso di questi software, che fanno screenshot delle interazioni sui social o delle schermate del computer, non è consentito. Tuttavia è necessario disciplinarne l’uso: “Ci troviamo nel solco di una nuova frontiera – afferma -. Le vecchie leggi funzionano male, abbiamo bisogno di nuovi sistemi di tutela sia per i dipendenti sia per i lavoratori. Il lavoro da remoto può essere più produttivo, ma occorre disciplinarlo. E disciplinare anche il diritto alla disconnessione”.




Amazon ha spiato per anni i suoi lavoratori europei più attivi politicamente

Amazon ha spiato per anni i suoi lavoratori europei più attivi politicamente

Stando a rapporti ottenuti da Motherboard, la divisione di intelligence dell’azienda segue molto da vicino i dipendenti impegnati in cause ambientali o sindacali: è una violazione dei diritti dei lavoratori?

I lavoratori di Amazon iscritti ai sindacati, a Fridays for Future o ad altri movimenti organizzati vengono ossessivamente monitorati da Amazon perché ritenuti pericolosi per l’integrità e l’efficienza dell’azienda. Stando infatti a centinaia di rapporti ottenuti da Motherboard, ma non ancora diffusi, gli analisti del Global Security Operations Centre – la divisione dell’azienda incaricata di proteggere dipendenti, fornitori e risorse – hanno monitorato per anni la vita privata di centinaia di migliaia di dipendenti perché ritenuti una minaccia. 

Le email interne hanno rivelato come tutti i membri della divisione di intelligence di Amazon ricevono aggiornamenti continui sulle attività di organizzazione dei lavoratori nei magazzini. Utilizzando i social network l’azienda monitora i dipendenti che aderiscono ai movimenti ambientalisti in Europa perché percepisce questi gruppi come una minaccia alle sue operazioni. Gli analisti infatti prendono nota della data, dell’ora, del luogo esatto, del numero di partecipanti a un evento e in alcuni casi anche del tasso di affluenza previsto per un determinato evento organizzato dai lavoratori dell’azienda, come, ad esempio, uno sciopero o la distribuzione di volantini. 

In generale i documenti offrono uno punto di vista privilegiato sull’apparato di sorveglianza interno dell’azienda, che ha più volte cercato di reprimere il dissenso dei dipendenti cercando, ad esempio, di diffamare i lavoratori che cercavano di organizzarsi con i loro colleghi. Il tutto, come riporta Motherboard, sembra essere motivato col fine di prevenire eventuali interruzioni nelle consegna e nello smistamento degli ordini ricevuti dalla piattaforma. Come si legge nei documenti infatti l’azienda deve “evidenziare potenziali rischi e pericoli che possono influire sulle operazioni di Amazon, al fine di soddisfare le aspettative dei clienti”.https://imasdk.googleapis.com/js/core/bridge3.431.0_it.html#goog_1480612127https://imasdk.googleapis.com/js/core/bridge3.431.0_it.html#goog_1236638189

Secondo poi quanto emerge dai documenti l’azienda avrebbe ingaggiato l’agenzia investigativa Pinkerton, diventata famosa a cavallo tra l’Ottocento e Novecento in America perché forniva personale per infiltrarsi nelle organizzazioni sindacali e intimidire i lavoratori. Accuse negate da Amazon che ha risposto, così: “Abbiamo collaborazioni commerciali con aziende specializzate per i motivi più disparati, ma non utilizziamo i nostri partner per raccogliere informazioni sul personale. Tutte le attività che intraprendiamo sono pienamente in linea con le leggi locali sono condotte con il supporto delle autorità locali”

Fino a poco tempo fa si sapeva poco sulle strategie di Amazon per contrastare l’azione sindacale, nonostante ci fossero da anni rapporti che ne parlavano esplicitamente. Tuttavia sembra che l’argomento sia diventato più popolare, soprattutto quando dopo una protesta pubblica, l’azienda ha rimosso due offerte di lavoro per analisti dell’intelligence, il cui compiti era monitorare le “minacce sindacali”. 

Per quanto riguarda l’Italia invece, nei rapporti supervisionati da Motherboard e risalenti al 2019, si legge come due siti italiani, uno in costruzione alla periferia di Milano e uno in Sardegna – non viene specificato il nome – rappresentassero un rischio “moderato” per Amazon. Il rischio derivava dal semplice fatto che Cgil e Uiltrasporti avessero in precedenza già tenuto delle proteste in altri magazzini italiani. 

In risposta alle accuse, il portavoce di Amazon Lisa Levandowski ha dichiarato: “Come ogni altra azienda responsabile, manteniamo un livello di sicurezza all’interno delle nostre operazioni per aiutare a mantenere al sicuro i nostri dipendenti, edifici e inventario. Qualsiasi tentativo di sensazionalizzare queste attività o suggerire di fare qualcosa di insolito o sbagliato è irresponsabile e scorretto”.

Alla luce di quanto è emerso, Stefan Clauwaert, consulente legale per i diritti umani presso la Confederazioni europea dei sindacati, ha dichiarato che le attività di intelligence di Amazon potrebbero potenzialmente violare le convenzioni e gli standard del lavoro del Comitato europeo. In quanto garantisce ai lavoratori la libertà di associarsi ai sindacati, il diritto di organizzarsi e contrattare collettivamente per maggiori diritti. Inoltre potrebbero pure esserci problemi di privacy, dal momento che il Gdpr richiede alle aziende di divulgare quali dati personali raccoglie e perché. “Anche se possiamo avere l’impressione che tutto ciò che scriviamo su Amazon sia almeno salvato da qualche parte per la revisione, è importante che sappiate che venite esplicitamente osservati” si leggeva già a settembre in una mail trapelata da Amazon e in possesso di Motherboard

Già sotto i riflettori dell’antitrust europeo, a ottobre Amazon ha ricevuto una lettera aperta firmata dalla parlamentare europea Leila Chaibi e da altri 37 parlamentari, fra cui l’italiano Brando Benifei. Nella lettera si legge “l’esponenziale crescita dei profitti di Amazon dall’inizio della pandemia non lo esonera dal rispettare i fondamentali principi legali dei lavoratori”.




Un vocabolario inquinato

Un vocabolario inquinato

Più di 1.200 dipendenti di Google hanno firmato una petizione in favore di Timnit Gebru, e altri 1.500 ricercatori e scienziati del settore le hanno espresso la propria solidarietà. Il suo licenziamento? Per aver scoperto come si alterano i bot nella rete.

“Ma ci ritroviamo con un ecosistema che forse ha incentivi che non sono i migliori per il progresso della scienza per il mondo”. È il commento di Emily M. Bender, professore di linguistica computazionale all’Università di Washington. Il docente ha collaborato con Timnit Gebru, fino a qualche giorno fa responsabile della sezione etica di Google, a un report sulla struttura e gli effetti dei grandi database semantici, in sostanza quei vocabolari digitali che permettono ai bot di parlare e di scrivere sostituendosi agli umani in svariate attività, fra cui anche il giornalismo.

Una ricerca molto delicata che tocca uno dei principali componenti del fatturato del principale motore di ricerca del mondo. Talmente delicata che è costata il posto alla Gebru.

Come sempre l’estromissione di un dirigente di primo livello, quale era la responsabile etica di tutto Google, dal Big Tech, sempre ossessionato dal segreto, è sempre avvolta dal mistero e dal tentativo di delegittimare il dipendente. 

Queste confraternite digitali, che reclamano trasparenza all’esterno ma che al loro interno si comportano con le ritualità da setta di templari, come ha descritto il libro di Dave Eggers Il Cerchio e come ha aggiornato proprio in questi giorni il nuovo reportage sul clima della Silicon Valley di Anna Wiener La valle oscura, non permettono alcuna circolazione di informazioni su quanto stanno preparando e soprattutto sulle relazioni interne fra i vari comparti. 

Timnit Gebru, una giovanissima scienziata della rete, meno di quarant’anni, di origine eritrea, esperta di bias del data mining, in sostanza delle forme di discriminazione indotte dall’uso dei dati nelle bolle di Internet, è giunta a Google già con l’aura del talento per i suoi studi sulle forme d’uso sociale discriminatorio insite nelle tecniche del riconoscimento facciale. 

Messa a capo del comitato etico, doveva integrare, e garantire, che le produzioni di intelligenza artificiale, applicate ormai ordinariamente al linguaggio automatico, non contenessero appunto contenuti o modalità che potesse colpire questa o quella classe socioculturale. 

Improvvisamente, la tempesta. Lo scorso 2 dicembre, dopo un fitto scambio di tweet, durato almeno due settimane, con Jeff Dean, il potentissimo capo dell’intelligenza artificiale della conglomerata di Mountain View, la stessa Gebru annuncia di essere stata licenziata. 

Una procedura assolutamente inconsueta a quei livelli, siamo nel cerchio più prossimo agli dei di Google, i due dioscuri che hanno fondato l’impero: Larry Page e Sergey Brin.

Stiamo parlando di trattamenti economici a sei zeri in dollari, con valigiate di stock options.

Timnit Gebru da MIT Technology Review

Di solito si trovano modalità più consensuali, per accompagnare all’uscita l’indesiderato. Con la Gebru si è tornati alle tecniche del padrone delle ferriere. La causa è stata svelata dalla MIT Technology Review, un altro gigante del settore, edito dal mitico centro universitario di Boston, che ha pubblicato il documento su cui la Gebru insieme ad altri ricercatori stava lavorando. Si tratta, come ha confermato proprio il professor Bender di Washigton, di una ricerca estremamente circostanziata sui robot del linguaggio, quelli che fanno parlare gli assistenti come Alexa o Siri, e cominciano a sostituire funzioni professionali come i giornalisti e gli stessi medici.

Per far parlare automaticamente questi software come se fossero umani bisogna processare quantità poderose di dati e elaborare algoritmi complessissimi. In questo ginepraio di intelligenza artificiale, aveva svelato la Gebru con il suo team di ricercatori, si annidano trappole pericolosissime per la convivenza sociale, come bias confermative, che incoraggiano radicalizzazioni estreme delle opinioni, o discriminazioni valoriali sia di natura etnica che sessuale. Sono sottilissimi meccanismi che agiscono alla base di queste infinite piramidi cognitive che elaborano e imparano linguaggi e ragionamenti. Se all’origine di un meccanismo automatico, che agisce per sviluppi esponenziali, quale è appunto un agente intelligente, si alterano le matrici dei valori di base, ad esempio il concetto di buono o di grande, viene stravolto a valle l’intero risultato operativo. La Gebru ha documentato e ricostruito il motore di questa manipolazione, intendendola in una prima fase solo come un rischio, e per tanto segnalandola alla comunità dei programmatori come cautela e richiamo per una corretta realizzazione dei dispositivi.

Ma evidentemente Google intendeva il concetto di rischio non come eventualità di un errore dei propri data base semantici, ma come minaccia al proprio fatturato. Infatti il responsabile del comparto di Intelligenza artificiale del gruppo, Dean, che dipende direttamente dal capo operativo assoluto che è l’indiano, esperto appunto di intelligenza artificiale, Sundar Pichai, non ha perso tempo e ha cominciato a bombardare la Gebru di email e messaggi per ingiungerle di ritirare prima il documento e poi almeno la sua firma. Un ordine che, se eseguito, avrebbe distrutto l’immagine e la reputazione di una scienziata che basa la sua identità sulla trasparenza scientifica e sull’etica gestionale. E infatti la Gebru ha resistito fino al licenziamento.

Più di 1.200 dipendenti di Google di ogni ordine e grado hanno firmato una petizione in favore della Gebru, e altri 1.500 ricercatori e scienziati del settore le hanno espresso la propria solidarietà. Il nodo non è certo di poco conto, soprattutto in un momento in cui Google, sia negli USA sia in Europa, è sotto tiro per la sua azione di distorsione del mercato e di manipolazione dei dati. Ma in ballo c’è qualcosa di più grande. Anche grazie alla pandemia, siamo alla vigilia di un nuovo salto acrobatico del sistema digitale, dove connettività e potenza di calcolo stanno impennandosi per portare forme di intelligenza non umana a sostituire in funzioni discrezionali l’attività umana. È evidente che se tutto questo si basa su un’artigianale e meccanica selezione di valori e contenuti che rispecchiano la volontà di un proprietario o anche solo di un programmatore cade tutta l’impalcatura che sostiene il processo di digitalizzazione della nostra vita, e conseguentemente le incalcolabili fortune economiche che si stanno accumulando.

Tanto più che, ad esempio, l’Unione europea sta elaborando un nuovo Digital Act che mira a mutare il modello industriale basato sull’intensità innovativa di singole aziende e a favorire la circolarità e la trasparenza di algoritmi e database. Lo stesso si sta proponendo nel cuore di professioni come il giornalismo o la sanità, dove sistemi di intelligenza artificiale si accostano e poi tendono a sostituire i singoli operatori artigiani. Il 64 per cento delle testate europee, ha documentato una ricerca dell’Ordine nazionale dei giornalisti, condotta con l’Università Federico II, che io stesso ho coordinato, sta investendo in sostituzione di redattori con bot. Il caso Gebru ci dice come sia oggi possibile e necessario intervenire direttamente nel controllo e riprogrammazione dei sistemi di calcolo, aprendo finalmente le scatole nere che confiscano dati e informazioni preziosissime perfino per la stessa strategia di contrasto al virus.

Timnit Gebru per Google, così come fece Christopher Wylie per Cambridge Analytica, e prima di loro Eduard Snowden per la trasparenza dei dati pubblici, ha aperto una strada che non potrà rimanere deserta se vogliamo davvero civilizzare il mondo tecnologico e arrivare a non avere più bisogno di eroi o di vittime sacrificali della libertà nella rete.




Pinkwashing: tra aziende che ci credono e furbi lavaggi di coscienza

Pinkwashing: tra aziende che ci credono e furbi lavaggi di coscienza

Qualcuno di voi potrebbe aver sentito parlare del pinkwashing, in riferimento a strategie di marketing ma anche di politica, pur non avendo le idee chiarissime su cosa il concetto indichi o significhi.

Proviamo a fare ordine, cercando anche di comprendere perché spesso se ne parli come di un tentativo, per alcuni, di “lavarsi la coscienza”.

Pinkwashing, cosa significa?

Nata dalla crasi tra pink“, rosa, e “whitewashing“, ovvero imbiancare o nascondere, questa parola è stata inizialmente usata per scopi nobili, da un’associazione per la lotta contro il cancro al seno, al fine di identificare e smascherare la aziende che lucravano sulla malattia, fingendo di dar sostegno alle malate per trarre profitto.

Da lì ha finito con il comprendere, in un senso più ampio, la promozione di un prodotto o di un ente con un atteggiamento di apparente apertura nei confronti di alcuni temi o campagne, come quella dell’emancipazione femminile o del mondo gay; per questo motivo una simile tecnica è spesso identificata anche con un termine più specifico, rainbow washing.

Storia del pinkwashing

Impossibile non notare le somiglianze tra il pinkwashing e il greenwashing, da cui ha preso dinamiche e tecniche, e con cui condivide le critiche; il greenwashing , infatti, è la medesima tecnica di comunicazione finalizzata alla costruzione di un’immagine ingannevolmente positiva di sé e della propria mission, stavolta sotto il profilo dell’impatto ambientale.Continua a leggere dopo la pubblicità

Anche il pinkwashing, utilizzato come detto per sbugiardare campagne pubblicitarie che usavano la lotta contro il cancro al seno per i propri guadagni, proponendo i prodotti contrassegnati dal fiocchetto rosa, è nato, come l’omologo “green”, come critica, per cercare di far comprendere quanto le azioni di queste aziende non fossero mosse da effettivi interessi scientifici ma unicamente allo scopo di catturare l’attenzione di un determinato target, sensibile al tema, il quale, naturalmente, finiva, al momento dell’acquisto, con il preferire i prodotti di quel particolare brand, percependolo appunto impegnato in un’attività lodevole.

In particolare, il termine è stato coniato nei primi anni Duemila dall’associazione Breast Cancer Association, la cui principale attivista, Barbara Brenner, è morta nel 2013, non senza aver condotto una battaglia serrata contro la mercificazione della malattia; proprio lei, a San Francisco, fu l’ideatrice del progetto Think Before You Pink, proprio per rispondere al sempre maggior numero di prodotti contrassegnati con il nastro rosa, venduti appunto con la promessa di raccogliere fondi e sensibilizzare sul tumore al seno.

Molti brand statunitensi, soprattutto nell’ambito della cosmesi, infatti, avevano approfittato della particolare sensibilità al problema per tacere il fatto che alcuni degli ingredienti dei loro prodotti contenessero sostanze chimiche spesso associate all’insorgenza del cancro, regalando prodotti di make-up alle malate oncologiche per mostrare la propria magnanimità e vicinanza.

Oggi il pinkwashing trova un ulteriore prolungamento, stavolta sul versante femminista, nel commodity feminism, per cui le cause tipiche del femminismo vengono fatte proprie da aziende che le svuotano del loro significato mercificandole, non facendo in realtà altro che confermare stereotipi di genere e standard di bellezza che, all’apparenza, affermano di voler combattere. Il concetto è ben spiegato in questo post di lotta.femminista.

 

 
 
 
 
 
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Esempi di pinkwashing nel marketing

Sono molte le aziende che credono nella tecnica del washing, sia esso pink, rainbow, purple o green che dir si voglia; in generale, sembra che la strategia usata da molte di loro vada di pari passo con quelle che sono le tematiche di più stretta attualità, ed è per questo che, negli anni, abbiamo assistito alle varie “colorazione” del washing.Continua a leggere dopo la pubblicità

Un esempio su tutti, quantomai recente, riguarda la questione LGBT, con sempre più brand che, in occasione ad esempio dei Gay Pride, “rivestono” le confezioni dei propri prodotti con l’arcobaleno simbolo della comunità, per mostrare il proprio lato gay friendly e la vicinanza ideale alle lotte antidiscriminazione da essa portate avanti.

Quanto ci sia di strategia e quanto di reale coinvolgimento nella causa, ovviamente, non ci è dato saperlo; possiamo però affermare, senza alcun dubbio, la lontananza da una volontà di fare rainbow washing di Guido Barilla quando, nel 2013, affermò

Non faremo pubblicità con omosessuali perché a noi piace la famiglia tradizionale. Se i gay non sono d’accordo, possono sempre mangiare la pasta di un’altra marca.

Sancendo, in questo modo, una presa di posizione di distanza netta dalla questione, con tutte le accuse e le critiche del caso che piovvero su di lui e sull’azienda italiana; presa di posizione poi (opportunamente) rivista, non si sa se per un improvviso cambio di opinione in merito, o se per una strategia acclarata di pinkwashing. Fatto sta che oggi Barilla è addirittura ai primi posti nella classifica della Human Right Campaign, associazione per i diritti degli omosessuali che stila ogni anno il Corporate equality index.Continua a leggere dopo la pubblicità

Ma un altro esempio celebre di pinkwashing è quello attuato dal colosso di moda low cost Primark, che nella primavera del 2018, a pochi mesi dal Pride, ha lanciato una collezione chiamata proprio “Pride“, destinata al mercato europeo e statunitense, dichiarando che il 20% dei proventi sarebbe stato destinato a Stonewall, l’associazione di beneficenza britannica per i diritti LGBT che prende il nome dai famosi moti del 1969 che sancirono l’inizio delle rivendicazioni LGBT.

Ignorando volutamente di considerare che i capi della collezione erano prodotti in Turchia e Myanmar, Paesi in cui i diritti delle persone LGBT sono a dir poco sottovalutati, l’iniziativa di Primark fu aspramente criticata dalla comunità perché proprio Stonewall non solo non figurava tra gli organizzatori dei Pride di quell’anno, ma aveva anche fatto sapere che non avrebbe partecipato al Pride di Londra.

In sostanza, i detrattori sostennero che Primark, al solo scopo di farsi pubblicità, aveva usato il nome di Stonewall in quanto più conosciuto, quando invece, se davvero avesse voluto fare qualcosa di concreto per il mondo LGBT, avrebbe potuto destinare la percentuale dei proventi ad altre associazioni locali, meno note ma più coinvolte in prima linea nell’organizzazione del Pride.

Pinkwashing e politica: la contraddizione di Israele

pinkwashing

Il pinkwashing non è una strategia sconosciuta neppure in ambito politico, con alcuni esempi davvero eclatanti come, ad esempio, quello dello Stato di Israele, Paese estremamente gay friendly e, in quanto tale, considerato una vera e propria eccezione nel Medio Oriente, generalmente chiuso nei confronti dell’omo o transessualità, ma lacerato da una profonda contraddizione interna di cui andremo a parlare.

La svolta pro LGBT, per Israele, arriva nel 1993, quando lo Stato permette per la prima volta alle persone facenti parte di questa comunità di iscriversi al servizio militare, e prosegue poi con l‘eliminazione della legge sulla sodomia, cinque anni più tardi.

Nel medesimo anno, il 1998, la Corte Suprema israeliana stabilisce che settore pubblico e privato debbano garantire io medesimi benefici sociali ai coniugi dello stesso sesso, mentre nel 2005 è tra i primi Paesi a riconoscere tutti i matrimoni omosessuali celebrati all’estero.

Come si è giunti a determinati traguardi? Molto dipende da alcuni episodi accaduti proprio nello Stato, come l’accoltellamento delle sei persone al Pride di Gerusalemme del 2005, da parte di un ultraortodosso, o dell’invito, un anno dopo, da parte di un attivista di estrema destra a cominciare una “guerra santa” contro le persone queer.

È però l’uccisione, nel 2009, di due adolescenti partecipanti al Gay Pride a stabilire un vero giro di boa, con Simon Peres, ai tempi presidente di Israele, e Benjamin Netanyahu, allora ministro per la strategia economica e l’uguaglianza sociale, che parlarono di “national loss”, perdita nazionale, e diedero il la alla campagna Brand Israel, trasformando di fatto il Paese in un posto ideale in cui si combatte per i diritti di tutti, in una cultura cosmopolita e accogliente. Ma il marchio servì soprattutto per liberarsi dall’immagine di Paese guerrafondaio, reputazione ricevuta soprattutto dopo l’intervento militare in Libano del 2006, che ne lese l’immagine fuori dai confini nazionali.

In questa rinnovata veste, Brand Israel ha incluso quindi il turismo gay friendly, con il lancio della campagna Tel Aviv Gay Vibe nel 2010, che offre viaggi scontati e attività gratuite ai turisti LGBT.

In una regione in cui le donne vengono lapidate, i gay vengono impiccati e i cristiani perseguitati, Israele si distingue. È diverso.

Dichiarò Netanyahu nel 2011, di fronte al Congresso degli Stati Uniti. Peccato che la profonda contraddizione che riguarda Israele e il grande rispetto per i diritti di tutti riguardi soprattutto i palestinesi, la cui tutela viene sistematicamente ignorata, indipendentemente dall’orientamento sessuale. Se i palestinesi LGBT lottano contro l’omofobia, al contempo devono farlo anche contro l’occupazione e la discriminazione da parte dello Stato israeliano, che non lo riconosce, e con cui ha un conflitto aperto da più di settant’anni.Continua a leggere dopo la pubblicità

Il pinkwashing israeliano cerca quindi di mascherare gli sfollamenti, le espropriazioni e la privazione dei diritti ai palestinesi, che gli hanno anche consentito di poter costruire quel “paradiso gay” che è diventata negli anni.

Altre tecniche politiche sono quelle che la professoressa di studi di genere Jasbir Puar ha descritto nel libro Terrorist Assemblages: Homonationalism in Queer Times (Assemblaggi terroristici: l’omonazionalismo in tempi queer) utilizzando il termine omonazionalismo, con cui intende la strategia, applicata negli USA, di tutelare i diritti delle persone LGBT, sottolineandone accettazione e tolleranza, al fine di inglobare le minoranze sessuali in un nazionalismo in cui il Paese di appartenenza finisce con l’essere visto come il solo in grado di dare difesa dei diritti e libertà.

Allo stesso tempo, i cittadini musulmani vengono rappresentati come “gli altri”: intolleranti, arretrati, incapaci di integrarsi nella società liberale e ultimamente una minaccia per la cultura democratica. Forti del sostegno al matrimonio gay e alla partecipazione dei cittadini LGBTQIA alle forze armate, questi stessi cittadini si percepiscono come legittimati dallo stato e ciò facilita ciò che Puar definisce “eccezionalismo”, ovvero un senso di superiorità e singolarità che nasce dal vedersi come tutori della democrazia e dei diritti umani.

Pinkwashing e rainbow washing

Come abbiamo visto, gran parte della strategia di pinkwashing attuale finisce con il focalizzarsi sul tema omofobia, cercando di accattivarsi il target LGBT. Proprio in questo senso, l’operazione di promozione di un prodotto in chiave gay friendly, indirizzato a consumatori open-minded, viene spesso indicata col termine più specifico di rainbow washing, e in questo senso il pinkwashing viene riservato esclusivamente alla dinamica dell’emancipazione femminile.

Poiché è la stessa comunità LGBT a farne uso, si può tuttavia dire che il termine pinkwashing sia sinonimo di rainbow washing.

L’ultima domanda che ci poniamo è questa: è davvero tutto sbagliato? In fondo, secondo la logica del “bene o male, purché se ne parli” e del fatto che se non sei rappresentato, allora non esisti (neppure in pubblicità) si potrebbe comunque considerare il pinkwashing come un mezzo per porre l’accento su tematiche che, altrimenti, finirebbero irrimediabilmente con l’essere ignorate. Vi proponiamo la riflessione conclusiva di Elisa Ghidini in un articolo per Ultimavoce:

[…] Se negli anni Novanta la pubblicità rappresentava essenzialmente uomini bianchi di mezza età e in camicia, con una moglie giovane e avvenente in cucina e bambini sorridenti con i boccoli biondi, oggi le cose stanno gradualmente cambiando. La realtà è questa: se non sei rappresentato, è come se non esistessi. Anche nella pubblicità, sia essa pinkwashing o meno.

Si può fare buon uso quindi anche di uno strumento come il marketing, con la consapevolezza che si rimane comunque all’interno di logiche capitalistiche. Magari un minimo di quel messaggio positivo verrà assorbito anche da chi guarda e non compra . Se poi si tradurrà invece in acquisto, quel messaggio sarà stato funzionale al capitalismo stesso. Ma, forse, con maggiore consapevolezza. C’est la vie.