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Osservatorio Immagino: la CSR nel carrello della spesa vale 3,8 miliardi di euro

Osservatorio Immagino: la CSR nel carrello della spesa vale 3,8 miliardi di euro

Avere comportamenti etici e comunicarli ai consumatori si conferma una strategia vincente per le aziende del largo consumo. Loghi, “bollini” e claim che certificano l’origine delle materie prime, le modalità produttive, il rispetto dell’ambiente e dei lavoratori sono percepiti come rassicuranti dagli shopper e i marchi che ne hanno fatto uso hanno ottenuto maggiore spazio sugli scaffali della grande distribuzione.
Lo rileva la settima edizione dell’Osservatorio Immagino di GS1 Italy, realizzato in collaborazione con Nielsen, che ha preso in esame un paniere di 111.639 prodotti di largo consumo che sviluppano l’82% del fatturato italiano di ipermercati e supermercati.

Italianità

L’immagine rassicurante più diffusa sulle confezioni è la bandiera del paese d’origine (prevalentemente quella italiana): si trova sul 13,4% dei prodotti del paniere Immagino (+0,5% rispetto al 2018), e pesano il 14,6% del giro di affari complessivo che è pari a 36 miliardi di euro. Le vendite hanno riguardato principalmente affettati, pasta di semola, surgelati, sughi, detersivi per stoviglie e preparati avicunicoli.

Fonte: Osservatorio Immagino Nielsen GS1 Italy, ed. 1, 2020

Responsabilità sociale

Un ruolo importante lo svolgono anche le certificazioni legate alla Corporate social responsibility (CSR) presenti sul 7,4% dei prodotti che costituiscono il 10,6% delle vendite (3,8 miliardi di euro).

In particolare, l’Osservatorio Immagino ha individuato otto certificazioni dell’area CRS. Le più rilevanti per giro d’affari sono FSC (Forest Stewardship Council), che ha sviluppato il maggior incremento delle vendite (+1,0% annuo), Sustainable cleaning (+0,4%), relativa alla detergenza, e Friend of the sea (+0,3%), riferito ai prodotti ittici ottenuti in modo sostenibile.

Nei 12 mesi analizzati hanno aumentato la loro presenza sui prodotti le certificazioni Ecocert (+19,6% delle vendite) che certifica l’origine naturale o biologica delle materie prime impiegate in alimenti, cosmetici, detersivi e tessuti; UTZ (+16,2%), che garantisce la produzione sostenibile di the, caffè e cioccolato; Fairtrade (+8,5%), che garantisce il rispetto di migliori condizioni dei lavoratori nei paesi in via di sviluppo, ed Ecolabel (+4,4%) che attesta il ridotto impatto ambientale delle aziende che hanno ottenuto l’utilizzo del logo. Al contrario i prodotti presentati in etichetta come Cruelty free (esenti da test sugli animali) hanno accusato una flessione delle vendite di -3,4%, principalmente per la riduzione dell’offerta nei cibi per cani, nelle salviette per bimbi, nei dopo shampoo, nelle creme trattamento corpo e nei prodotti per la pulizia del viso.

Marchi europei

Si allarga l’offerta di prodotti biologici provenienti dall’Unione europea, riconoscibili dal logo EU Organic che arriva al 6,8% del paniere dell’Osservatorio Immagino, in particolare formaggio grana, uova, panificati senza glutine, surgelati vegetali e frutta secca sgusciata. Si registra però un rallentamento della crescita del valore delle vendite (+2,1% annuo rispetto a +6,2% del 2018 sul 2017).

Il marchio CE è invece presente solo sul 2,1% dei prodotti del largo consumo con un’incidenza dell’1,6% del valore delle vendite. Rispetto al 2018 l’offerta di beni dotati di questo riconoscimento è salita di +4,9% ed è aumentato il giro d’affari soprattutto di uova di Pasqua, dentifrici e prodotti per incontinenti.




Coca-Cola Hbc Italia punta sull’ecodesign, no a limiti su uso plastica riciclata

Coca-Cola Hbc Italia punta sull'ecodesign, no a limiti su uso plastica riciclata

Eco-design, ovvero la progettazione di imballaggi con un impiego sempre più efficiente dei materiali di cui sono composti: Coca-Cola Hbc Italia ci crede e infatti bottiglie e lattine, già da sempre al 100% riciclabili, hanno visto ridursi le quantità di plastica, vetro ed alluminio necessarie per produrle rispettivamente del 20%, 25% e 15%. E’ una delle azioni del principale imbottigliatore e distributore dei prodotti a marchio The Coca-Cola Company in Italia, raccontate nel 16esimo Rapporto di Sostenibilità “Siamo di casa”, pubblicato oggi. Un documento che certifica i risultati dell’azienda in tutte le aree del business, dal rapporto con le comunità locali all’ambiente, dalla presenza sul mercato al benessere delle circa 2.000 persone che lavorano tra gli uffici, i cinque stabilimenti e nella forza vendita.

Particolare attenzione alle sfide ambientali, dove gli investimenti dell’azienda vanno nell’ottica di un continuo miglioramento sia nelle diverse fasi del processo produttivo. “La sfida alla sostenibilità ci vede in prima linea proprio in virtù del rispetto verso i territori in cui operiamo. L’ecodesign rappresenta una frontiera importante su cui vogliamo continuare a investire per progettare ed è per questo che ci auspichiamo che il Parlamento e il Governo decidano di rimuovere il limite massimo all’uso di plastica riciclata al 50%, presente solo in Italia, così da permetterci di essere ancora più sostenibili e portare a reale compimento il concetto di economia circolare”, dichiara Vitaliy Novikov, amministratore delegato di Coca-Cola Hbc Italia.

Il decreto del 20 settembre 2013, n.134, infatti, impedisce alle imprese del settore di utilizzare plastica riciclata per più del 50%, limite che – fa sapere Coca-Cola Hbc Italia – impedisce quanto avviene già negli altri Paesi Europei dove la plastica utilizzata nelle bottiglie non è solo riciclabile ma anche riciclata, un freno a investimenti in sostenibilità e un limite ai principi di economia circolare a cui si ispirano le direttive Europee in tema di plastica monouso.

Anche per quanto riguarda i processi industriali, l’azienda pone la sostenibilità al centro, sia che si tratti della fase di produzione delle bevande, in cui viene utilizzata energia elettrica proveniente al 100% da fonti rinnovabili, sia che si tratti della logistica, dove il miglioramento dei flussi ha permesso un risparmio di oltre 1.400 tonnellate di CO2 solo nel corso dell’ultimo anno, o della presenza sul mercato dove l’introduzione di frigovetrine eco-friendly ad alta efficienza energetica hanno permesso di risparmiare oltre 3.700 tonnellate di CO2 nel 2019.

Il Rapporto di Sostenibilità, redatto e certificato secondo i parametri di rendicontazione internazionale più avanzati del GRI Standards, è disponibile integralmente sul sito www.lanostraricetta.it.




Acquisti: sostenibilità e csr spingono gli italiani verso nuovi brand

Acquisti: sostenibilità e csr spingono gli italiani verso nuovi brand

Due driver sempre più incisivi sugli acquisti food e non, con relativi loghi e certificazioni che si fanno spazio. I dati di tre ricerche sul tema

Attenzione a sostenibilità e csr in tutte le loro diverse sfaccettature: un trend che continua la propria ascesa presso i consumatori italiani, influenzandone le scelte di acquisto in ambito food e non solo. A confermarlo, fornendo importanti dati sul tema, sono tre nuove indagini: un report del Capgemini Research Institute, l’Osservatorio di Nomisma per Fileni, nonché la settima edizione dell’Osservatorio Immagino Nielsen GS1 Italy, che descrive a livello più ampio l’evoluzione delle etichette food e i claim di maggior successo.

Vediamo a seguire i punti più interessanti emersi dalle tre ricerche.

LA RICERCA DI SOSTENIBILITA’ PORTA A “BRAND MINORI”

Innanzitutto, secondo il report Capgemini il 53% dei consumatori e il 57% delle persone di età compresa tra 18 e 24 anni hanno iniziato ad acquistare prodotti di marchi meno conosciuti ma più sostenibili. Più della metà degli intervistati (52%) afferma di avere un legame emotivo con prodotti o aziende ritenuti sostenibili, mentre il 64% ha dichiarato che acquistare prodotti sostenibili li fa sentire meglio (percentuale che raggiunge il 72% nella fascia d’età 25-35 anni).

SPAZIO A LOGHI E CERTIFICAZIONI

Come rileva l’Osservatorio Immagino nel capitolo dedicato a sostenibilità e csr, nel 2019 le icone, i “bollini” e i marchi che forniscono informazioni e garanzie sui prodotti (come Cruelty free, Ecocert, Ecolabel, Fairtrade, Friend of the sea, Fsc, Sustainable cleaning e Utz) hanno continuato a guadagnare spazio sulle etichette dei prodotti di largo consumo presenti nei supermercati e negli ipermercati italiani e si sono confermati un elemento distintivo. Una tendenza che tocca tanto l’alimentare quanto il mondo della cura della casa, comparto dove i prodotti che hanno evidenziato in etichetta le loro caratteristiche green hanno registrato una forte accelerazione della crescita rispetto all’anno precedente: +10,9% di vendite contro il +3,1% del 2018.Pubblicità

I TREND ACCELERATI DAL LOCKDOWN

Parliamo di una generale sensibilità già precedentemente in via di sviluppo e che la pandemia pare aver accelerato. Secondo Capgemini, infatti, il 67% dei consumatori ha dichiarato che presterà maggiore attenzione alla scarsità delle risorse naturali, mentre il 65% ha affermato che, nella “nuova normalità”, sarà più attento all’impatto dei propri consumi.

Un’ulteriore conferma sul tema arriva dal relativo Osservatorio di Nomisma per Fileni. Il 22% dei consumatori dichiara di aver incrementato gli acquisti Made in Italy e Km 0, mentre il 28% ha cominciato ad acquistare prodotti alimentari provenienti da filiere corte proprio durante la quarantena. In crescita anche l’interesse verso i metodi di produzione biologica e sostenibile: durante il lockdown, il 20% degli italiani ha preferito cibi prodotti con metodi a basso impatto ambientale, il 12% ha acquistato prodotti alimentari con packaging sostenibile e il 30% ha sperimentato i prodotti biologici per la prima volta. In particolare, è il comparto dei freschi quello su cui si è concentrata maggiormente l’attenzione dello user bio: +10% nei primi 3 mesi del 2020, con picchi nell’ortofrutta (+15%) e nella carne (+31%). Riguardo alla carne, poi, due terzi degli italiani la cerca da allevamenti all’aperto, mentre 9 su 10 vogliono un packaging sostenibile.




I consumatori chiedono un nuovo brand activism fatto di azioni concrete

I consumatori chiedono un nuovo brand activism fatto di azioni concrete

Il sostegno a una o più cause non assolve automaticamente i brand dal tacere su altre problematiche sociali: il silenzio non è più neutrale

  • Durante l’ultima ondata di brand activism è emersa, come non mai, la richiesta di responsabilità e autenticità da parte dei consumatori.
  • La brand self awareness è un antidoto contro l’ipocrisia aziendale e deve per forza andare di pari passo con le dichiarazioni di sostegno alle cause sociali.
  • Le azioni concrete sono ciò che i consumatori chiedono. Al contrario, i brand non faranno altro che mettere in discussione la loro credibilità.

Nelle ultime settimane, sulla scia della campagna Black Live Matters, molti brand si sono espressi contro il razzismo. Alcuni hanno semplicemente dichiarato la propria solidarietà, altri – come Lego e Ben & Jerry’s – hanno invece annunciato azioni concrete. Scelte accomunate dalla stessa volontà di stare “dalla parte giusta della storia”, ma che hanno sortito nel pubblico reazioni diverse. Se alcune aziende sono state infatti lodate per il proprio impegno, altre sono state accusate di ipocrisia e opportunismo.

Brand activism, un fenomeno in crescita

Il motivo per cui il brand activism è un fenomeno in crescita appare chiaro. Secondo un recente sondaggio condotto dalla società di consulenza Edelmanil 60% degli americani boicotterebbe o comprerebbe da un marchio in base alla sua risposta alle proteste contro l’ingiustizia razziale. E il dato è ancora più alto tra i più giovani: il 78% dei millennials ritiene che anche i brand debbano alzare la voce, mentre il 70% delle persone tra i 18 e i 34 anni cambierebbe di conseguenza le proprie scelte di di acquisto. Ma già più di quattro anni fa il 66% delle persone era disposto a pagare di più pur di avere prodotti che rispettassero principi quali ad esempio la sostenibilità ambientale.

I consumatori ritengono che le marche abbiano la possibilità di produrre un impatto concreto sulla società. Lo studio di Sprout Social del 2019, ad esempio, rivela che secondo il 66% delle persone i brand hanno il potere di facilitare un cambiamento reale, mentre il 67% di esse pensa che le loro piattaforme – in particolare i canali social – siano efficaci nell’aumentare la consapevolezza riguardo le problematiche sociali. Insomma, parafrasando Spider-Man, secondo i consumatori da un grande brand derivano grandi responsabilità sociali.

Come ha sottolineato anche l’Outlook report quindi, sempre più la fiducia nel marchio non si basa solo sui suoi prodotti o servizi, ma anche sulle scelte etiche e politiche fatte dall’azienda che vi sta dietro.

brand activism

Perché i social media hanno cambiato tutto

Prima della nascita dei social media, i marchi non avevano canali di comunicazione diretta coi proprio clienti. Di conseguenza, i consumatori stessi non si aspettavano prese di posizione su tematiche sociali da parte dei propri brand preferiti. L’avvento dei social network ha invece aumentato le aspettative dei consumatori riguardo l’attivismo dei brand.

Del resto, l’ondata di indignazione in seguito all’uccisione di George Floyd non è stata guidata da testate giornalistiche o istituzioni, ma da persone comuni che hanno iniziato a condividere il proprio sdegno su Twitter e Facebook. In una simile situazione, coesistendo nello stesso spazio digitale, i marchi devono necessariamente inserirsi nelle conversazioni in modo pertinente. Ma non corrono il rischio di apparire opportunisti?

La domanda di autenticità da parte del pubblico

Molti dei più grandi brand mondiali erano rimasti in silenzio sul tema della violenza razziale fino al momento in cui hanno twittato #BlackLivesMatter. Per questo sono apparsi opportunistici. Certo, meglio tardi che mai. Ma il brand activism va costruito nel tempo, con costanza e soprattutto autenticità. L’autenticità non è qualcosa che può essere presa in prestito o prodotta da un giorno all’altro e il suo punto di partenza è la costruzione dell’attivismo di brand sui valori fondamentali del marchio stesso.

Ma il sostegno a una o più cause non assolve automaticamente i brand dal silenzio su altre problematiche sociali: il silenzio non è più neutrale. Ciò che allora può fare un marchio è inquadrare il proprio sostegno attraverso un approccio intersezionale. Ad esempio, se un brand è impegnato nella sensibilizzazione sul cambiamento climatico, in occasione di campagne contro il razzismo potrebbe sottolineare il concetto di sproporzionalità riguardo le conseguenze dei problemi ambientali sulle persone di colore.

Infine – ma non ultima – fondamentale per l’autenticità è la brand self awareness, la consapevolezza di sé da parte del brand. Un antidoto contro l’ipocrisia aziendale che deve per forza andare di pari passo con le dichiarazioni di supporto. Cioè, inutile twittare contro il razzismo, se al suo interno l’impresa stessa non è impegnata a sradicarlo. AmazonRalph Lauren e Next Door sono tre esempi di brand fortemente criticati per aver rilasciato dichiarazioni di sostegno ipocrite, perché in contrasto con problematiche interne.

brand activism

Una nuova era per il brand activism

Durante quest’ultima ondata di brand activism è emersa come mai prima d’ora una richiesta di responsabilità. Denunciare il razzismo sui social media non è attivismo di marca senza azioni a sostegno, e le azioni concrete sono ciò che i consumatori chiedono. Se al contrario un marchio è tutto parole e niente azioni, questo non farà altro che mettere in discussione la sua credibilità.

Denunciare l’ipocrisia aziendale non è mai stato così facile. Internet non dimentica mai, anzi sembra fatto apposta per riesumare i problemi del passato e di conseguenza responsabilizzare i brand su ciò che fanno nel presente.

Non basta aprire il libretto degli assegni per effettuare donazioni una tantum. Occorre invece cambiare la politica interna a favore dell’inclusione razziale, rivedere i prodotti perché non siano diffusori di pregiudizi, espandere la responsabilità sociale. Un cambiamento insomma non relegato alle strategie del reparto marketing, ma abbracciato da tutta l’azienda come valore chiave su cui lavorare.

È responsabilità di ciascuna impresa abbracciare e inserire la corporate social responsibility (CSR) all’interno della propria struttura aziendale. Magari non tutte diventeranno B Corps, ma qualche ritocco al modo in cui calcolano il risultato economico aziendale contribuirà a rafforzare la responsabilità interna nei confronti della società.

Insomma, nonostante le reazioni dei brand al movimento Black Live Matters siano state talvolta superficiali, la nuova domanda di responsabilità potrebbe provocare nei marchi riflessioni più profonde e portare infine a cambiamenti sostanziali nell’autenticità del loro attivismo.

Questi valori sono già radicati nel DNA del vostro marchio? Benissimo! Altrimenti, questo è il momento di iniziare.




Barilla ha tolto la finestra trasparente dai suoi pacchi di pasta

Barilla ha tolto la finestra trasparente dai suoi pacchi di pasta

Per ridurre la quantità di plastica. Una mossa molto apprezzata dai consumatori

Barilla ha sostituito la finestra trasparente sui pacchi di pasta per ridurre la quantità di plastica delle sue confezioni. Il brand italiano è uno dei primi a introdurre la novità nella categoria, con un’iniziativa per ora limitata al mercato UK.

Le finestre in plastica appaiono sui packaging della pasta praticamente da sempre: vengono utilizzate per mostrare il prodotto all’interno della scatola e “rassicurare” così i consumatori. L’inserto rappresenta tuttavia una complicazione in fase di riciclo e smaltimento delle scatole: i consumatori devono rimuovere il pannello di plastica prima di gettare la confezione tra gli imballaggi in cartone.

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Una delle nuove scatole Barilla senza la plastic window

Adesso Barilla Group ha rimosso l’onnipresente finestra di plastica sottile, rendendo i suoi imballaggi riciclabili al 100% nel Regno Unito.

La novità rientra tra le iniziative del “Good for You, Good for the Planet“, che include gli sforzi che l’azienda sta operando sul piano della sostenibilità: la riduzione della quantità di materiale utilizzato, la selezione di carta proveniente da foreste gestite responsabilmente, la produzione di imballaggi con un solo materiale, quindi più facili da riciclare.

Sulle nuove confezioni al posto delle finestre appare un’illustrazione e una nota che spiega: “Niente più finestre di plastica. Cambiando il nostro mondo un pacchetto alla volta“.

Barilla è uno dei maggiori produttori di pasta al mondo – nel 2016 ha venduto 3.413 milioni di euro di pasta – e la novità potrebbe senz’altro influenzare i competitor nella categoria. Vedremo se altri brand seguiranno. Per ora le nuove scatole sono disponibili in tutto il Regno Unito.