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Un nuovo umanesimo del lavoro per trovare un senso con gli altri e per gli altri

Un nuovo umanesimo del lavoro per trovare un senso con gli altri e per gli altri

La ricerca di senso, ingrediente essenziale della felicità, non è solo una ricerca interiore, ma ha una dimensione sociale. Il lavoro può essere un’esperienza chiave

Poter attribuire un significato, un senso, alla propria vita è una delle precondizioni fondamentali per potersi sentire “felici”. Nel senso aristotelico di “eudaimonia”, essere felici, infatti, significa, innanzitutto, avere uno scopo nella vita, coltivare le virtù e fiorire come persone. Ed essere virtuoso non vuol dire solamente praticare le virtù ed orientarsi al bene, perché, etimologicamente, “areté” stava ad indicare, prima di tutto, il “fare bene qualcosa”, l’eccellenza. Non a caso parliamo di un “pianista virtuoso” o di un “virtuoso della racchetta” per indicare, non tanto il loro orientamento al bene, ma la loro capacità di fare bene, di essere eccellenti. Allora, sarà virtuoso colui che sarà riuscito a coltivare e far fiorire, mettendole in atto, le proprie capacità, i talenti, le conoscenze, chi avrà compreso e seguito, in definitiva, la voce del suo “dáimōn”.

La ricerca di senso

Ma la ricerca di senso, ingrediente essenziale di questa felicità virtuosa, non è solo una ricerca interiore. Essa ha, infatti, una dimensione sociale, contestuale, culturale. Perché il senso è qualcosa che lega le esperienze, che assegna un posto agli avvenimenti, che illumina le scelte e che ci mette in relazione con un quadro più ampio fatto di storie e di persone. E non si tratta solo, come nella definizione di Roy Baumeister, di “un insieme di rappresentazioni mentali di possibili relazioni tra cose, eventi e rapporti” (“Meanings of Life”, Guilford, 1991), perché la possibilità di attribuire un significato a ciò che facciamo deriva, innanzitutto, dalla possibilità di inserirlo in un contesto sovraordinato.PUBBLICITÀ

Se il significato immediato di un’azione deriva, infatti, dalla sua finalità, questa, a sua volta, trova senso nella motivazione dell’azione stessa, e questa, poi, si inserisce in una visione più ampia della vita individuale che, infine, può maturare solamente, con riferimento a qualcosa che la trascende e la avvolge. Per questo il significato del singolo gesto può essere compreso appieno solo nell’ambito di un contesto più ampio, che supera l’individualità del singolo, connettendolo, al tempo stesso, ad altri e ad altro. È il “regno dei significati” di cui parlava Alfred Adler nel quale si sviluppa la finalità ed emerge la guida alla nostra stessa vita, come suggerisce Victor Frankl.

Oltre l’individuo

Riflettere sull’importanza del contesto nel processo di costruzione del senso ci aiuta anche a dar conto di quel fenomeno che, in altre occasioni, ho definito “espropriazione esistenziale”: una forma di deprivazione così profonda da cancellare senso, finalità e appartenenze e che genera quel disorientamento collettivo avvertito da fasce non marginali della popolazione e che può sfociare in fenomeni anche quantitativamente rilevanti come quello dei “bullshit jobs”, dei populismi identitari, o delle tragiche “morti per disperazione” di cui sempre più frequentemente sentiamo parlare.

In che modo è cambiato il contesto di riferimento per determinare una tale incapacità di trovare o generare un significato profondo per le nostre esistenze? È interessante, a questo riguardo, la lettura che propone lo storico Yuval Noah Harari, secondo il quale tale mutamento non è altro che il principale frutto del progetto della modernità. Progetto che si fonda su un patto faustiano in virtù del quale “gli esseri umani accettano di rinunciare al significato in cambio del potere” (“Homo Deus”, Bompiani, 2015). Nel quadro premoderno gli uomini riuscivano a trovare un senso alle loro, spesso non facili, vite perché erano collocate in un progetto cosmico, fatto di finalità, voluto e governato da grandi dèi moralizzanti e onniscienti. Trovare il senso significava, in questo contesto, scoprire e giocare il proprio ruolo in un piano sovraordinato e orientato al bene individuale e collettivo.

Il senso nell’età premoderna

Ogni esperienza della vita, così, sia gioiosa che tragica, poteva acquistare un senso, perché parte integrante di questa storia già scritta. “Non siamo al corrente del copione – continua Harari – ma possiamo essere certi che tutto accade per una ragione. Persino quest’orribile conflitto – o pestilenza, o siccità – ha un significato nel più ampio schema delle cose. Inoltre, possiamo fidarci del drammaturgo: di sicuro la nostra vicenda avrà una conclusione positiva e ricca di significato. Per cui anche la guerra – o la pestilenza, o la siccità – porterà qualcosa di buono: se non qui e ora, per lo meno nell’aldilà”. Ma questo copione, mentre, da una parte, forniva valore ad ogni gesto, scelta e accadimento, al tempo stesso, ingabbiava tutti in ruoli e vicende predeterminate e li condannava a finali già scritti. Ecco perché il prezzo da pagare per poter trovare un senso alla propria vita era nientemeno che la rinuncia al proprio arbitrio.

La modernità rifiuta questa visione, straccia il copione e rivendica potere e autonomia. Così facendo, però, finisce per far sparire anche quel contesto comune di riferimento, che era bussola necessaria per dare senso all’esistenza. “La nostra vita non ha copioni, drammaturghi, registi o impresari – e non ha un senso”, conclude Harari.

La modernità e la ricerca del potere

Ma la mancanza del copione, però, mette in moto anche una reazione salutare, scatena la creatività e libera le energie del cambiamento. Se le pestilenze e le calamità naturali non hanno un significato trascendente, non dovremmo più accettarle passivamente, ma piuttosto iniziare a difenderci, a combatterle e, possibilmente, a sconfiggerle. Da una parte, quindi, la “hybris” e la “téchne” e, dall’altra, l’assoluta insignificanza davanti al progetto del cosmo. “Un’incessante ricerca del potere dentro un universo svuotato di senso”. Non è difficile rinvenire in questo snodo cruciale la causa remota di fenomeni epocali come la spaventosa pressione antropica che stiamo esercitando sulla terra coi i cambiamenti climatici, le ondate migratorie e le intollerabili diseguaglianze.

Per cambiare le cose, perché occorre farlo e piuttosto in fretta, non è necessario, però, invertire la rotta. Per ricostruire un contesto capace di favorire la generazione di senso e limitare l’uso in-sensato del potere della tecnica, occorre, semmai, una accelerazione in avanti. Occorre sfruttare una “clausola di recesso” inserita nel patto della modernità: la possibilità di dar vita ad una narrazione alternativa, non esclusivamente vincolata alla dimensione trascendente, ma che sia, comunque, in grado di giustificare il nostro “esser-ci”, il nostro “Dasein”, lo stare al mondo e viverlo significativamente. Sfruttare questa clausola vuol dire distogliere lo sguardo fissamente rivolto al mediatore sacrale – Dio, Stato, Mercato – e rivolgerlo verso chi ci sta a fianco. Nel frontespizio della prima edizione del “Leviatano” di Hobbes sono raffigurati centinaia di piccoli omini che formano il corpo del gigante, coi suoi simboli dell’autorità e del potere. Centinaia di piccoli omini che, pur essendo stretti tra di loro, non incrociano lo sguardo di nessuno. Vicini ma immunizzati dal contatto con l’altro. In rapporto con l’altro solo attraverso l’intermediazione del potere del “Deus mortalis”. La svolta del nuovo umanesimo, che può aiutarci a superare i vincoli del patto e a riconquistare la nostra capacità di generare senso, passa, innanzitutto, per la scelta originaria di incrociare lo sguardo di chi ci sta a fianco e di farci interpellare dal suo volto.

La dignità del lavoro umano

In questo quadro ampio si comprende meglio, credo, anche il ruolo altissimo e la dignità intrinseca del lavoro umano, proprio perché lavorare significa umanizzare il mondo e questo trova senso solo se il lavoro è fatto con gli altri e per gli altri. Queste due dimensioni di socialità e gratuità non possono non essere poste al centro di un ripensamento profondo dell’organizzazione del lavoro nel quale la nostra cultura, oggi, ha bisogno, necessariamente, di impegnarsi a fondo. Né merce di scambio, né solo strumento per la sussistenza, il lavoro può e deve essere principalmente espressione della spinta umana verso l’eccedenza. Ripensato e rivalutato nella complessità dei suoi molteplici significati.

Sappiamo da tempo quali sono le dimensioni che più influenzano il processo di generazione di senso, anche attraverso il lavoro: hanno a che fare con il valore intrinseco dell’attività in sé, con la possibilità di uno sviluppo e di una crescita personale, con il valore strumentale della sua utilità per sé e per gli altri e, infine, con la socialità che favorisce e include. Se il senso che attribuiamo a ciò che facciamo può essere pensato come una serie di rimandi tra la percezione individuale delle nostre azioni e il contesto sovraordinato all’interno del quale operiamo, allora attivare processi di cambiamento nel nostro contesto culturale, figlio diretto del patto della modernità, potrà aiutare a creare le condizioni che facilitano la generazione di senso individuale e condiviso. Se da una parte, fortunatamente, le grandi organizzazioni pubbliche e private sentono sempre più la pressione verso cambiamenti dettati dalle nuove responsabilità ambientali, sarebbe anche ora di iniziare ad esercitare una la spinta analoga per promuovere modalità innovative di progettazione e di gestione del lavoro, affinché possa sempre più e sempre meglio rispondere a quella “volontà di senso”, per usare l’espressione di Frankl, che sempre più diffusamente viene oggi considerata una esigenza umana fondamentale.




Fred Perry ha un problema di neonazisti

Fred Perry ha un problema di neonazisti

Il marchio di moda Fred Perry, fondato negli anni Cinquanta da un celebre tennista inglese e per decenni associato alle sottoculture britanniche e in una certa misura alla sinistra, ha dovuto fare l’ennesimo comunicato per prendere le distanze dai Proud Boys, un gruppo neonazista americano che ha adottato una sua polo nera e gialla come uniforme. Sono alcuni anni che Fred Perry convive con questo problema, ma nell’ultimo comunicato spiega di aver sospeso le vendite di quel modello di polo in Nord America dal settembre del 2019, fino a che «non riterremo che la sua associazione con i Proud Boys sarà finita».

Fred Perry ha definito «incredibilmente frustrante» la situazione, chiarendo che il gruppo di estrema destra non ha niente a che vedere con l’azienda e rivendicando i valori che – a dire della società – sono stati rappresentati dalle sue polo per 65 anni: «inclusività, diversità e indipendenza». La società ha poi rivendicato le sue origini: fu infatti creata negli anni Cinquanta dall’omonimo tennista, tra i più vincenti della storia dello sport, che dominò uno sport elitario cominciando da «figlio di un parlamentare laburista della classe operaia», e che fondò l’azienda «insieme a un imprenditore ebreo dell’Europa orientale».

I Proud Boys esistono dal 2016, quando li fondò Gavin McInnes, un autore e commentatore canadese che fu tra i fondatori di Vice Media e che negli anni ha provato a negare l’affiliazione del gruppo con il neonazismo. In realtà è uno dei movimenti più attivi dell’alt right, la nuova estrema destra americana che da diversi anni porta avanti idee razziste e misogine appellandosi alla libertà di espressione. I Proud Boys, tra le altre cose, sostengono la superiorità della civiltà occidentale, sono islamofobi, incoraggiano l’utilizzo della violenza nella lotta politica, e hanno una visione dei rapporti di genere simile a quella degli “incel”, il movimento online di maschi misogini. In diverse occasioni negli ultimi anni membri del gruppo hanno minacciato, picchiato o accoltellato manifestanti e politici progressisti oppure dei cosiddetti movimenti “antifa”.

Membri dei Proud Boys. (Karen Ducey/Getty Images)

Fin dai primi tempi, McInnes ha incoraggiato i membri del gruppo a indossare una polo Fred Perry gialla e nera. Dietro alla scelta ci sono varie ragioni. Al sito The Outiline, McInnes aveva spiegato che come uniforme dà l’idea di un movimento “duro e puro”, radicato nella classe lavoratrice, come i mod e gli skinhead britannici degli anni Sessanta. In quegli anni, una generazione di giovani inglesi figli della classe lavoratrice ed esposti alle influenze culturali degli immigrati provenienti dalle isole caraibiche diede origine a vari movimenti, caratterizzati da un grande spirito di ribellione e che misero le basi per la successiva esplosione del punk.

Ricercando e costruendo una propria estetica, i movimenti della sottocultura inglese di quegli anni scelsero dei capi d’abbigliamento che fossero abbordabili economicamente ma che fossero anche prerogativa delle classi borghesi. Le polo e i maglioni Fred Perry furono tra gli elementi più importanti della loro immagine, insieme ai jeans attillati e agli scarponcini Dr. Martens.

Dopo un inizio fortemente radicato negli ambienti proletari dell’Inghilterra operaia, e quindi alla sinistra, negli anni Settanta il movimento skinhead divenne sempre più collegato al tifo calcistico e agli ambienti della nuova estrema destra britannica, rappresentata dal National Front, a cui ancora oggi è generalmente associato. In parte, in questo spostamento politico, gli skinhead portarono con sé le polo Fred Perry, che però almeno nel Regno Unito rimasero perlopiù collegate ai movimenti di sinistra.

L’emulazione di questa estetica da parte dei Proud Boys non è comunque una scelta isolata, ed è stata analizzata da alcuni studiosi. Secondo Alice Marwick della Fordham University è un modo di creare «l’immagine di movimento ribelle e audace, contro lo status quo», che sganci il suprematismo bianco dal bagaglio storico del Ku Klux Klan e lo associ a qualcosa di nuovo e alternativo, come appunto l’alt right. Mantenendo però un’immagine aggressiva e quasi militaresca, come quella degli skinhead.

Sebbene siano state un capo d’abbigliamento adottato da diverse sottoculture del Novecento, le polo Fred Perry sono anche diffusissime nella cultura mainstream e delle classi sociali più alte. Sono state scelte anche per questo, ha spiegato sul Guardian la docente di sociologia Cynthia Miller-Idriss. I leader dell’estrema destra americana «sapevano che il pubblico avrebbe faticato ad associare una piattaforma d’odio con uno stile che ricordava più quello del vicino di casa che quello dei nazisti». Già in occasione della grande manifestazione neonazista “Unite the Right” a Charlottesville, Virginia, nel 2017, i leader raccomandarono ai manifestanti di vestirsi “decorosamente”.

La trasformazione nell’estetica e nello stile fa parte di una strategia deliberata e proveniente dall’alto, nel tentativo dell’estrema destra di apparire più mainstream per predisporre meglio il pubblico alle proprie idee. Questo cambiamento normalizza e stravolge l’idea delle persone su come appaia un estremista, e rende più difficile interpretare e riconoscere le idee dell’alt right come estreme.

Non è la prima volta che un marchio di moda internazionale diventa, suo malgrado, associato ai neonazisti. Negli anni Ottanta e Novanta, tra i movimenti skinhead di estrema destra tedeschi diventarono molto popolari le maglie del marchio inglese Lonsdale, che era stato fondato decenni prima e che era stato vestito tra gli altri da Muammad Alì e Paul McCartney. Ma qualcuno si era accorto che indossando una maglietta Lonsdale sotto a una giacca aperta, rimanevano leggibili le lettere NSDA: le prime quattro della sigla che identificava il Nationalsozialistische Deutsche Arbeiterpartei, il partito nazista di Adolf Hitler.

25th November 1980: Police arrest a skinhead who is a member of the British Movement, a fascist organisation. (Photo by Stuart Nicol/Evening Standard/Getty Images)

Quando questa moda si consolidò, Lonsdale decise di impegnarsi attivamente per sganciare il proprio marchio dai neonazisti. Sospese le vendite nei negozi che sapeva essere associati all’estrema destra, sponsorizzò società sportive associate alla sinistra e – negli anni Novanta – lanciò una campagna inclusiva basata sullo slogan “Lonsdale ama tutti i colori”. Tra gli effetti ci fu che il marchio Lonsdale fu adottato e promosso da alcuni attivisti antirazzisti, che volevano sostenere la contro-campagna dell’azienda.




Lo Stato Dei Social Network In Italia Nel 2020

Questa è una raccolta aggiornata con le 109 statistiche più importanti sull’utilizzo dei social media.

  • Come vengono usati i principali canali social nel mondo ed in Italia?
  • Come sono stati usati i social durante la quarantena?
  • Quali sono le statistiche più interessanti per Facebook, Instagram, Tiktok e per gli altri social network?

Troverai la risposta a queste e tante altre domande grazie alle statistiche aggiornate incluse in questo articolo.

Buona lettura!

Panoramica sull’uso dei social network in Italia e nel Mondo

La prima statistica che vi propongo è una delle più affascinanti: più della metà della popolazione mondiale è connessa ad internet. Il 58,6% per essere esatti.

E l’86,6% di queste persone è attiva sui social media. Non solo ha un account, ma è attiva su almeno una piattaforma social!

Per quanto riguarda l’Italia, non avevo idea nel nostro paese ci sono più numeri di telefono attivi (80 milioni) che persone (60,5 milioni).

Inoltre, in Italia usiamo meno i social media per lavorare (31%) che nel resto del mondo (40%). Che sia davvero una cattiva cosa, o è un segnale positivo?

Ecco tutte le statistiche:

Statistiche sull’utilizzo dei social media nel mondo

I seguenti dati relativi a tutto il mondo sono aggiornati a Luglio 2020:

  • Data la popolazione mondiale di 7,79 miliardi di persone, il 66% (5,15 miliardi) usa un telefono cellulare
  • Il 59% della popolazione mondiale (4,57 miliardi) è un utente attivo di internet
  • 3,96 miliardi (il 51% della popolazione mondiale) è attivo sui social network
  • Nell’ultimo anno, tra Luglio 2019 e Luglio 2020, gli utenti dei social sono aumentati di 376 milioni.

Statistiche sull’utilizzo dei social media in Italia

I seguenti dati per l’Italia sono aggiornati a Gennaio 2020:

  • 49,48 milioni di Italiani sono utenti attivi di internet (l’82% della popolazione, percentuale molto maggiore della media mondiale, 59%);
  • A Gennaio 2020, ci sono 35 milioni di utenti attivi sui social media;
  • Gli italiani attivi sui social sono aumentati di 4 milioni in 12 mesi;
  • Data la popolazione italiana di 60,5 milioni a Gennaio 2020, ci sono 80,4 milioni di numeri di cellulare attivi (il 133% della popolazione).

In questa slide possiamo notare come l’Italia sia sotto la media rispetto al resto del mondo.

Sembra che i social siano utilizzati principalmente come svago e meno come lavoro, in quanto la maggior differenza rispetto al resto del mondo è l’utilizzo delle piattaforme per scopi professionali.

  • Un italiano spende in media 6 ore al giorno su Internet.
  • E 1h e 57 minuti sui social network.
  • Molto vicino alla media mondiale, il 98% degli italiani accedono ai social da smartphone.
  • Unico dato molto sotto la media è l’uso dei social per lavoro: solo il 31% degli italiani. Ma questo non significa che siamo gli ultimi. Peggio di noi Regno Unito, Francia e Germania (sotto al 26%). Migliori di noi? Spagna e Portogallo (con percentuali sopra al 35%).

Se usi i social media per lavoro, ti consiglio questa raccolta di oltre 80 strumenti gratuiti di marketing.

I social più visitati da browser e app secondo Similarweb

Similarweb ci permette di capire meglio come vengono utilizzati i social in Italia.

Le statistiche che seguono possono esserti utile per capire su quale social focalizzare le tue energie e creare una content strategy di successo.

Per quanto riguarda l’utilizzo da computer, Facebook è il primo in classifica per accessi, ma non per durata della visita, dove vince YouTube: questo è un segnale che gli italiani amano guardare video, passando in media quasi 22 minuti ogni volta che accedono alla piattaforma video di Google.

L’app social più scaricata?

No, non è TikTok (per ora). E’ Whatsapp, che conferma come la messaggistica istantanea sia uno dei canali preferiti di comunicazione in Italia.

Facebook mantiene il primato di social network più visitato da desktop in Italia a Luglio 2020, seguito da Youtube e Instagram. 

  • C’è però da notare che il tempo speso su Facebook da desktop è di  10 minuti e 48 secondi (con 8,88 pagine per visita), dati inferiori al tempo speso (11 min e 15 sec) e alle pagine per visita(12,07) su Twitter.
  • Youtube è la piattaforma social con la durata media della visita più elevata (21 minuti e 54 secondi).
  • Instagram è il social network con più pagine per visita (12,61)

Tra le app social più scaricate a Luglio 2020, notiamo come Whatsapp sia prima in classifica sia per Android che per iPhone.

Snapchat, al contrario, è tra le ultime in classifica, e Pinterest compare in ottava posizione per iPhone, e non compare proprio per Android.

Gli utenti attivi sui social in Italia secondo Agcom

Grazie all’Osservatorio sulle Comunicazioni della Agcom possiamo conoscere quanti utenti unici hanno i vari social. Purtroppo, Agcom non fornisce per YouTube, quindi ho dovuto aggregare i dati di un’altra piattaforma (Audiweb).

E’ un vero peccato, perchè alcune fonti a Gennaio davano YouTube come il primo social in Italia, mentre al momento non ci è dato sapere chi sia primo.

Secondo te chi è più visitato? YouTube o Facebook?

Se ti va, lascia un commento alla fine del post spiegando perché.

Agcom a Marzo ci mostra un grande incremento per gli utenti attivi dei vari social network in Italia:

  • Facebook si conferma al primo post con 38,4 milioni di utenti attivi, un aumento del 6,8% rispetto a Marzo 2019.
  • Degno di nota TikTok che, con una crescita del 475,1% in soli 9 mesi (da Giugno 2019 a Marzo 2020), si posiziona settimo al di sopra di Reddit.
  • Youtube è al secondo posto con 36,1 milioni, ma Agcom non fornisce dati relativi a questa piattaforma. I dati sono di We Are Social e aggiornati a Dicembre 2019.

Utilizzo dei social media durante la quarantena

Quanto tempo abbiamo passato a casa durante la quarantena… troppo!

E questo si è tramutato in un maggior tempo a fare pane, pizza, e fare scroll sui social.

Il dato più eclatante a mio parere è, di nuovo, per i servizi di messaggistica instantanea: +81% di tempo speso al giorno su Whatsapp e +57% su Messenger.

Ecco le statistiche principali:

  • A Marzo 2020, Facebook è il canale social con il maggior numero di minuti spesi giornalmente sulla piattaforma: una media di 26,4 minuti al giorno.
  • WhatsApp è il social network con l’incremento maggiore: +81% rispetto a Marzo 2019.
  • Pinterest e Twitter sono gli unici due social network che hanno visto una contrazione dei minuti spesi sulle loro piattaforme, rispettivamente -29% e -18%.

Passiamo ora a vedere i dati per le singole piattaforme.

Facebook – Il più visitato

Google Trends ci mostra come l’interesse per Facebook stia calando negli ultimi 12 mesi, a parte un picco attorno a Marzo 2020 durante la quarantena.

  • Gli utenti italiani di Facebook sono 38,4 milioni, in aumento del 6,8% negli ultimi 12 mesi.
  • Il tempo medio speso online in un mese su Facebook è di 16 ore e 24 minuti.
  • Gli utenti si dividono al 50% tra uomini e donne.

YouTube – Grande incremento durante la quarantena

YouTube ha retto bene durante la quarantena.

Il suo picco è più marcato ed allungato nel tempo rispetto a quello di Facebook (vedi sopra), ma in via generale l’interesse per la piattaforma sembra essere leggermente calato rispetto a 12 mesi fa.

  • Gli utenti italiani di Youtube sono 36,1 milioni, in aumento del 2,7% negli ultimi 12 mesi. Da notare che questi dati sono aggiornati a Gennaio 2020. 
  • Il tempo medio speso online mensilmente su YouTube è di 6 ore.
  • Ci sono leggermente più uomini (55%) che donne (45%).

Instagram: +14% utenti in un anno

Anche l’interesse per Instagram sembra essere leggermente calato negli ultimi 12 mesi.

Inoltre non si nota alcun picco importante durante la quarantena.

  • Gli utenti italiani di Instagram sono 28,8 milioni a Marzo 2020, in aumento del 14,2% rispetto a Marzo 2019.
  • Il tempo medio speso online mensilmente su Instagram è di 7 ore, un’ora in più rispetto a YouTube.
  • Ci sono leggermente più uomini (55%) che donne (45%).

Linkedin – Interesse stabile nel tempo

Anche se dal grafico qui sopra sembra che Linkedin sia in calo, c’è da notare che questa è una piattaforma professionale dove si cerca e si parla di lavoro, quindi è normale vedere un decremento delle ricerche in Agosto. 

  • Gli utenti italiani di Linkedin sono 21,2 milioni a Marzo 2020, in aumento del 19,5% rispetto a Marzo 2019.
  • Il tempo medio speso online mensilmente su Linkedin è di soli 37 minuti, il più basso registrato.
  • Ci sono leggermente più uomini (52,7%) che donne (47,3%).

Pinterest – Amato dalle donne

Negli ultimi 12 mesi, Pinterest ha avuto due picchi di ricerche: la prima attorno a Novembre, la seconda durante la quarantena.

  • Gli utenti italiani di Pinterest sono 14,9 milioni a Marzo 2020, in aumento del 30,5% rispetto a Marzo 2019.
  • Il tempo medio speso online mensilmente su Pinterest è di 53 minuti.
  • Ci sono molte più donne (76%) che uomini (16%).

Twitter – Interesse in crescita nel 2020

Twitter è uno dei pochi social che ha aumentato l’interesse degli utenti negli ultimi 12 mesi, almeno stando ai dati di Google Trends.

  • Gli utenti italiani di Twitter sono 12,8 milioni a Marzo 2020, in aumento del 24,2% rispetto a Marzo 2019.
  • Il tempo medio speso online mensilmente su Linkedin è di ben 3 ore e 48 minuti minuti.
  • Ci sono più uomini (61,3%) che donne (38,7%).

TikTok: +457% di nuovi utenti in 9 mesi

TikTok è la piattaforma social più interessante dell’anno, e questo si riflette sulle ricerche online per “tiktok” che sono in continuo aumento.

  • Gli utenti italiani di TikTok sono 5,4 milioni a Marzo 2020, ma l’aumento rispetto a soli 9 mesi prima è enorme: +457%.
  • Il tempo medio speso online mensilmente su TikTok è di 2 ore e 45 minuti.
  • Ci sono leggermente più uomini (54%) che donne (46%).

Snapchat – Il meno visitato della lista

Per quanto riguarda l’interesse nel tempo, Snapchat sembra essere stabile.

  • Gli utenti italiani di Snapchat sono 2,7 milioni a Dicembre 2019, in aumento del 14% rispetto a Dicembre 2018.
  • Il tempo medio speso online mensilmente su Snapchat è di 52 minuti
  • Ci sono molte più donne (72%) che uomini (27%)

Il deck in pdf con tutte le statistiche

Utilizzo: Puoi includere tranquillamente il deck pdf e le singole immagini di questa ricerca sul tuo sito. Ti chiedo solo un link di rimando a questa pagina di ricerca.

Fonti usate per la stesura di questo report

In conclusione

Sei arrivato al termine della nostra lista di statistiche sull’uso dei social media in Italia e nel mondo.

Tenendo presente che i dati relativi ai social media cambiano molto velocemente, abbiamo deciso di tenere questa lista sempre aggiornata. In questo modo non dovrai mai domandarti se queste statistiche sono ancora rilevanti al giorno d’oggi.




Le aziende che investono in CSR hanno risposto in modo più efficace alle sfide COVID-19: Camera di Dubai

Le aziende che investono in CSR hanno risposto in modo più efficace alle sfide COVID-19: Camera di Dubai

 Le imprese di Dubai che investono nella responsabilità sociale delle imprese, CSR, sono state in grado di rispondere in modo più efficace alle nuove sfide create dalla pandemia di COVID-19, secondo un nuovo sondaggio della Camera di commercio di Dubai e Centro del settore per le imprese responsabili.

Il sondaggio, condotto a maggio e giugno 2020, ha rivelato che la comunità imprenditoriale di Dubai ha risposto rapidamente durante le prime fasi dell’epidemia COVID-19 salvaguardando la salute, la sicurezza e il benessere dei dipendenti e mettendo in atto processi per garantire la continuità aziendale.

Nel complesso, il passaggio delle aziende al lavoro remoto è stato fluido grazie ad una serie di fattori quali preparazione digitale, infrastruttura IT avanzata e dipendenti esperti di tecnologia digitale.

Le organizzazioni intervistate hanno sottolineato l’importanza dell’alta dirigenza nel rassicurare la sicurezza dei dipendenti e la sicurezza del lavoro mentre lavorano da casa, garantendo allo stesso tempo una sana interazione con i pari e il benessere fisico ed emotivo.

In risposta alle restrizioni su incontri ed eventi faccia a faccia, le aziende si sono rapidamente adattate spostando le attività di volontariato dei dipendenti su piattaforme digitali, portando le organizzazioni ad esplorare nuovi modi per restituire alle loro comunità e massimizzare l’impatto sociale, secondo il sondaggio.

Le organizzazioni intervistate hanno sottolineato l’importanza delle linee guida istituzionali introdotte dalle autorità nel consigliare la comunità imprenditoriale sulle misure che dovrebbero essere implementate per garantire la sicurezza dei dipendenti.

Lo studio che analizza le risposte delle imprese alla pandemia è il seguito di un rapporto approfondito recentemente pubblicato dalla Camera di Dubai intitolato Responsabilità sociale delle imprese a Dubai: pratiche attuali, sfide e opportunità future, che ha rivelato che un numero maggiore di aziende è ora coerente e sistematico nel loro approccio alla RSI e impegnarsi in iniziative di RSI allineate alle strategie aziendali.

Più della metà delle organizzazioni intervistate aveva una politica di CSR formale e il 65,7% delle organizzazioni aveva un dipartimento o un ufficiale dedicato per gestire la CSR. Tra le organizzazioni che hanno partecipato al sondaggio CSR del 2019, il 62 percento degli intervistati ha riferito di un approccio altamente maturo al coinvolgimento dei dipendenti e questa cifra è salita al 70 percento in relazione a salute e sicurezza.

Oltre il 70 percento delle organizzazioni ha riferito che il consiglio di amministrazione è coinvolto in problemi di CSR, mentre il 68 percento degli intervistati ha riferito livelli avanzati di maturità nelle pratiche di CSR con il volontariato dei dipendenti. Le grandi organizzazioni erano le più mature quando si trattava di investimenti nella comunità. Complessivamente, il 76% delle aziende rispondenti si è impegnato con le loro comunità.

I risultati del rapporto completo mostrano che “migliorare la comunità” è stato il principale fattore motivante alla base delle iniziative di RSI per l’80% delle aziende, mentre “migliorare le entrate” è stato il fattore meno motivazionale. Inoltre, il 58 percento delle organizzazioni rispondenti ha registrato un aumento marginale o significativo della spesa in materia di RSI negli ultimi tre anni e il 42 percento ha osservato che la spesa in RSI è rimasta la stessa o è diminuita nello stesso periodo.

Tradotto da: Hussein Abuel Ela.

https://wam.ae/en/details/1395302858145




Esg, ecco gli indicatori utili per verificare se un’azienda è veramente sostenibile

Esg, ecco gli indicatori utili per verificare se un’azienda è veramente sostenibile

Fra i fattori chiave i bonus dei manager agganciati a parametri di lungo periodo e l’integrazione del piano di sostenibilità in quello industriale. I dati del tradizionale report Kpmg-Nedcommunity sulle dichiarazioni non finanziarie

Bonus dei manager e integrazione della sostenibilità nei piani industriali. Ecco quello che guardano i gestori di fondi (che investono soldi) e gli analisti finanziari (che suggeriscono come investirli) quando si trovano tra le mani la dichiarazione non finanziaria di una azienda quotata. Al netto delle discussioni su standard, metrica e tutti gli altri temi di dibattito sul tavolo delle authority di mezzo mondo, chi non vuole incorrere nel greenwashing verifica prima se il management crede o meno nel mondo Esg.

Sono dunque importanti e interessanti i dati che emergono dal tradizionale rapporto di Kpmg e Nedcommunity che hanno mappato le dichiarazioni non finanziarie (Dnf) di quotate e non quotate obbligate alla pubblicazione. La ricerca, giunta al terzo anno, ha analizzato le Dnf di 200 aziende; soltanto 13 sono i documenti redatti in maniera volontaria nonostante il pressing della Consob.

Bonus sostenibili ma di breve periodo

Partiamo dalle remunerazioni. Il team di ricercatori ha realizzato un focus sul Ftse-Mib40, l’indice delle blue chip di Piazza Affari, quelle che fanno da battistrada per le altre quotate. Ebbene il 74% delle aziende Ftse-Mib definisce obiettivi specifici legati alla
sostenibilità: sembra dunque essere entrato anche nei bonus dei manager l’aggancio con l’ambiente e il sociale. Sembra però. Perché del gruppo di società che ha inserito i criteri Esg nelle remunerazioni, l’84% ha utilizzato parametri specifici ma di breve periodo. Se infatti annunci di voler tagliare le emissioni da qui al 2030 o al 2050, non puoi premiarti poi su un arco temporale di uno o due anni.

Gli indicatori a cui vengono agganciati i bonus dei manager, per il 28% sono legati all’impatto ambientale e per il 22% alla gestione del personale e alle diversità. Via via a scendere vi sono gli altri temi. Soltanto nel 6% dei casi, però, le remunerazioni sono legate al tema sociale (supporto alla comunità e sviluppo del territorio).

Integrazione nei piani industriali

Il secondo indicatore che consente di “contenere” il dilagante greenwashing è verificare se il piano sostenibilità sia integrato o meno nel piano industriale.

Dal rapporto Kpmg-Nedcommunity, si scopre che sono 34 (il 45%) le aziende ad aver realizzato tale integrazione, con un balzo del 140% rispetto al 2017. Poco, tanto? Certamente indicativo del dna di un’azienda. Senza dimenticare però che questi risultati sono stati raggiunti in breve tempo e che 105 aziende hanno comunque una strategia di sostenibilità e 76 hanno formalizzato un piano di sostenibilità strutturato.

Il confronto con i portatori di interesse (stakeholder)

Il nuovo codice di autodisciplina delle società quotate in Piazza Affari «sottolinea il ruolo
del consiglio d’amministrazione nel promuovere il dialogo con gli stakeholder, al fine
di perseguire il successo sostenibile», si legge nel report. Ecco quindi l’importanza del confronto con i portatori di interessi interni ed esterni.

E qui c’è qualche nota dolente. Il 93% ha coinvolto gli stakeholder nell’aggiornamento della materialità, ovvero dei temi considerati rilevanti per l’azienda: buono l’incremento dell’8% rispetto al 2018. Allo stesso tempo però è soltanto il 64% che ha coinvolto anche gli “esterni” in questo confronto con questionari, workshop e forum; nonostante un forte incremento (+53%) il coinvolgimento degli stakeholder esterni non riguarda ancora tutte le società obbligate alla Dnf. I feedback da comunità e consumatori sono invece fondamentali.

I trend

Quali sono allora i trend che si intravedono in base alla ricerca? «La terza edizione della survey – ha sottolineato Pier Mario Barzaghi, partner Kpmg – evidenzia un crescente impegno delle imprese italiane a contribuire al raggiungimento dell’Agenda 2030: 114 aziende del campione, +88% rispetto al 2017, hanno preso in considerazione gli impatti del proprio business sugli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile (SDGs), illustrando le azioni e gli obiettivi attraverso cui contribuiscono alla realizzazione dell’Agenda 2030. Nei prossimi anni ci aspettiamo un’ulteriore crescita di questo fenomeno con particolare attenzione anche ai processi di pianificazione».

Altra tendenza è quella di considerare la Dnf come un’opportunità e non un semplice obbligo. «Grazie all’ingresso dei temi Esg nei consigli d’amministrazione – ha dichiarato Patrizia Giangualano, consigliere indipendente e membro del consiglio direttivo di Nedcommunity – le aziende confermano il percorso intrapreso di progressiva integrazione, definendo sistemi di gestione dei rischi integrati e formalizzando le proprie politiche di gestione sui diversi ambiti considerati maggiormente rilevanti, trasformando la rendicontazione non finanziaria da obbligo di compliance a strumento di comunicazione del valore condiviso che ciascun business è in grado di generare e distribuire».