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Ritratto dell’odiatore seriale su Facebook. Insulti e minacce tra gattini, torte e Padre Pio

Ritratto dell'odiatore seriale su Facebook. Insulti e minacce tra gattini, torte e Padre Pio

Sono medici, insegnati, casalinghe. Anziani eleganti, appassionati di Disney. Ma che alla tastiera si trasformano in razzisti e mostri di cinismo. Storia di un fenomeno sempre più diffuso

Prince Jerry aveva 25 anni, veniva dalla Nigeria, era laureato in Biochimica e continuava a studiare qui, in Italia, dove era arrivato nel 2016 dopo due anni di odissea tra il deserto, i lager libici e la roulette russa del mar Mediterraneo sul barcone. Parlava un italiano fluente, e tutti lo ricordano come allegro e buono. A lungo ha atteso che gli venisse concesso l’asilo; a dicembre, invece, gli è stato protocollato il rifiuto. Il ragazzo è stato assalito dalla disperazione, non era più lo stesso. Il suo corpo è stato trovato senza vita sui binari di una stazione, travolto da un treno. Un suicidio, molto probabilmente.

La notizia è rimbalzata su Facebook. «Hai fatto più che bene» ha esultato il ventenne Danilo R., di origine calabrese, che ascolta Vasco e segue pagine dedicate a Forza Nuova e Matteo Salvini, quest’ultimo celebrato in tutte le salse. «A fatto bene, uno di meno» gli ha fatto eco, omettendo la h, la signora Fioralba M., una settantenne di Vasto dall’aspetto soave come il suo nome, la sua bacheca è una sfilata di ricette e immagini dei nipotini, mette il like a pagine come “associazione Sacro Cuore di Gesù” e in più è devota della “mistica Natuzza Evolo”, oltre che del suo idolo assoluto, il ministro dell’Interno. «Povero… treno» ha commentato Marian R, un giovane di nascita romena che lavora nei trasporti funebri. Sguardo limpido, adora talmente il nostro paese da essersi fatto tatuare il Colosseo sulla nuca. Per Roberta A. si tratta, semplicemente, di «Uno in meno». Bionda e appassionata dei film della Disney, attacca con virulenza papa Bergoglio, che ha osato definire i rifugiati “Gesù d’oggi”, e scrive «ti amo Salvini» un giorno sì e l’altro pure. 

Un clima di intolleranza e violenza strisciante, un’alta marea di fango scorre sui social, a cominciare da  Facebook, divenuto una specie di poligono di tiro verbale. Bersaglio fisso, sempre loro: i migranti, rei di sottrarre serenità e posti di lavoro agli italiani «brava gente». La “legittima offesa” colpisce anche il Pd, il solito George Soros, l’ex ministro Cécile Kyenge, Saviano, i “sinistri”, i “professoroni” e gli “accoglioni”. Minimo comun denominatore, il cibarsi di luoghi comuni alimentati dal sottobosco di fake news e dalla galassia dei media di destra.

Ecco allora «i migranti che sbarcano palestrati, col cellulare d’ultima generazione carico». Ecco lo stillicidio, il propagandistico inferno perpetuo di connazionali ridotti alla fame o a dormire per strada «mentre un richiedente asilo ha abusato di decine di bambini» e noi «rischiamo la pelle ogni volta che usciamo di casa», specie se incontriamo uomini di colore (“negri”) che se la spassano a spese dei contribuenti. Ecco il senso indotto e autoindotto di insicurezza permanente, a cui non c’è decreto che tenga. Ma chi sono queste persone che passano il tempo libero a postare contenuti e meme rancorosi e xenofobi, misogini, fascisti, radunandosi sul profilo del leader della Lega o in pagine come Rialzati ItaliaIo sto con SalviniL’Italia è degli ItalianiMovimento 9 dicembre ForconiDalla vostra parte?

E non mancano i gruppi chiusi. Per farsi approvare la domanda di iscrizione a Prima gli italiani, L’Espresso ha dovuto rispondere esclusivamente a queste due domande: 1) «Sei contrario agli immigrati?» (risposta, «sì») 2) «Ti senti insicuro/a dove risiedi?» (Ancora un «sì»). Dopo pochi minuti la richiesta è stata accettata.

È la stessa gente che affolla i comizi del vicepremier leghista nel suo tour elettorale senza fine, e che piange, va in deliquio quando il Capitano si materializza sul palco sulle musiche del Gladiatore e intona la sua filastrocca populista. Sono gli stessi che incontriamo tutti i giorni al bar, al supermercato, al cinema, nel nostro condominio. Perfetti insospettabili, individui anonimi e in apparenza pacifici che quando aprono bocca su Facebook si trasformano in mostri di cinismo e cattiveria razzista. 

2019, l’anno del razzista 4.0

«Basta con l’invasione africana». D’altronde, per lui i migranti sono «scimpanzé, che si arrampicano sugli alberi». La piattaforma di Mark Zuckerberg continua a rivelarsi facilmente permeabile dai nostalgici del Ku Klux Klan. Carlo C, un azzimato signore di mezza metà con gli occhiali, e col culto della personalità di Matteo Salvini, a proposito della Sea Watch sibila: «Ma gettateli in mare». Maurizio D., un ciociaro appassionato dei Pink Floyd, non ha dubbi: «Sono menti inferiori». Samuel C, palestrato e tatuato ventenne di Cagliari, puntualizza: «Io, che non sono razzista, prima li prenderei a badilate sui denti, poi gli darei fuoco. E con le ceneri passerei il fertilizzante alle piante». Il dottor Francesco F, che sarebbe un importante dirigente medico, impegnato per giunta in campo oncologico, mostra la sua soluzione finale: «Blocco navale e cannonate quando entrano in acque nazionali». Riccardo D.M., elegante settantenne pugliese minaccia: «Questi africani proliferano come topi. Cominciamo col castrare questi bastardi e poi mandiamo a fare in culo gli ipocriti e i falsi buonisti, i vagabondi e parassiti di sinistra». Chiara F. è una 23enne della provincia di Como. Pare dolcissima, innamorata del suo ragazzo e col gattino in braccio. Però sentenzia: «Pensano solo a scopare. Ciò che distingue l’umano dall’animale è la capacità di razionalizzare: traete voi le conclusioni».

Persino le quotazioni del führer stanno tornando di gran moda ultimamente.  Ferdinando P., in posa con figlio e fidanzata: «Ci vorrebbe, per questi emigrati, un bell’Hitler di nuovo». E Salvatore B., un millenial napoletano che fa il pizzaiolo in Germania: «Dategli fuoco a ‘sti neri di merda». Sergio M. lancia un auspicio: «A quando il prossimo Traini?».

Anche i sessisti si sono adeguati al clima, e continuano a molestare a stormi sulla sua pagina Fb Laura Boldrini, nonostante la sua battaglia culturale e legale contro gli odiatori seriali. Ai loro occhi, l’ex presidente della Camera è colpevole due volte: è una donna bella e intelligente, ed è fautrice dell’accoglienza. Simone F, un ragazzo di Como cultore della trap, posta: «Visto che vi piacciono così tanto gli immigrati, a te e Valentina Nappi, potete fare una gang bang con loro?». Un certo Alfredo D. dalla Sicilia si infiamma: «Non ho paura se mi porti in tribunale. Chiamami! Sei una latrina! Essere ignobile ignorante! Neanche appartieni alla razza umana». Lui, che è un vero campione di umanità, lascia il suo numero di telefono vero.

Alle volte, l’ultrà è una donna. «Vaffanculo stronza, ti dovrebbero stuprare» è l’invettiva pronunciata dall’abruzzese Maria D.P.,  casalinga; all’indirizzo di un’avvocatessa di Sulmona che si era permessa di criticare il politico più osannato del momento con una frase di Ovidio («Empio è colui che non accoglie lo straniero»).

Franca B., di Foggia, pubblica vignette degne della campagna di Abissinia e sfoggia, a mo’ di immagine di copertina, un cuore verde diviso a metà: in una delle due parti sbuca “il Capitano” . Da Bolzano a Canicattì, è un tripudio di pasionarie dell’uomo forte in divisa cangiante. «Salvini ti adoro», «Non mollare, noi non molliamo», «Sei bello come il sole». Impiegate, commesse, infermiere, insegnanti, professioniste. Hanno tutte nel demiurgo della chiusura dei porti il proprio eroe personale. Soraya G. è una modella ligure, e la sua passerella social è un monocolore di “frasi celebri” e foto-video salviniani. Barbara S., una bancaria del centro Italia amante dei cammini religiosi, indica la via: «Il nostro Capitano sarebbe fascista? È troppo buono, direi io. I veri discriminati siamo noi italiani. A mali estremi, estremi rimedi. Ruspa! E non solo…”




Fashion³: tecnologia e sostenibilità

Fashion³: tecnologia e sostenibilità

Il brand Fashion³ – Fashion Cube -, ecosistema creato nel 2017 e costituito da marchi tessili orientati alla vendita in negozio che fanno i capo al Gruppo Mulliez (Jules, Brice, Bizzbee, Pimkie, RougeGorge, Grain de Malice/Orsay), ha deciso di ottimizzare i propri cicli di produzione, promuovere la qualità e ridurre il time to market.

Grazie alla creazione di soluzioni tecnologiche innovative nelle fasi di progettazione, produzione e distribuzione dei prodotti, Fashion³ propone un nuovo modello di sviluppo a rifiuti zero per i marchi tessili del gruppo.

La riprogettazione del processo viene effettuata in modo rapido e adattata alle esigenze specifiche di ogni brand. La prima fase di implementazione prevede l’installazione di un sistema centralizzato per i team di produzione, sotto la supervisione dei gruppi di acquisto di ogni brand. La seconda fase consisterà nell’integrazione di nuovi processi di acquisto per ogni entità.

L’obiettivo è snellire i processi di produzione ma anche migliorare la comunicazione con marchi e distributori partner grazie all’utilizzo di una tecnologia innovativa. Il nuovo sistema riesce infatti ad analizzare con precisione il comportamento d’acquisto e rispondere in modo più mirato alle esigenze dei clienti.

Cosa c’è di nuovo

Siamo di fronte ad un caso di processo di trasformazione digitale che mira ad adottare soluzioni per ridurre l’impatto ambientale e migliorare la sostenibilità sociale. Una scelta in linea che gli obiettivi che ogni impresa responsabile dovrebbe avere.




Addio buche, la strada è di plastica

Addio buche, la strada è di plastica

L’idea di costruire strade con la plastica riciclata che, rispetto all’asfalto, non solo è a impatto zero ma regge anche meglio le alte e basse temperature ed ha una durata ed una resistenza di circa 3 volte superiore, è venuta per primi agli indiani. La colla polimerica ricavata da rifiuti di plastica triturati ricopre in India oltre 33 mila km di strade e il governo vuole realizzare oltre 83 mila km. A Roma sulla via Ardeatina è stato realizzato il primo tratto al mondo con un supermodificante in grafene e plastica riciclata

Strade di plastica riciclata e senza buche. In India sono una realtà da quasi venti anni e presto potrebbero arrivare anche da noi. A questa soluzione, a dir poco geniale, stanno lavorando in molti nel mondo, e anche in Italia si stanno muovendo i primi passi. L’idea di costruire strade con la plastica riciclata che, rispetto all’asfalto, non solo è a impatto zero ma regge anche meglio le alte e basse temperature ed ha una durata ed una resistenza di circa 3 volte superiore, è venuta per primi agli indiani.

Nel 2002 questa tecnica, che permette in un solo colpo di risolvere l’inquinamento da plastica e il problema delle buche ‘lunari’ che disseminano il manto stradale, fu applicata per costruire la strada di Jambulingam, a Chennai. E la prova della sua riuscita nel tempo è che in quasi venti anni, nonostante i monsoni, il caldo e i fiumi di macchine, la strada non si è consumata, né ha sviluppato crepe o buche. Oggi, la colla polimerica ricavata da rifiuti di plastica triturati ricopre in India oltre 33.000 Km di strade e il governo vuole realizzare oltre 83.000 Km di nuove strade ‘plastificate’ entro i prossimi 5 anni.

E in occidente? Qui i tentativi di utilizzare bottiglie e tappi di plastica per costruire strade risalgono solo a pochi anni fa. Il primo ad avere l’idea di sostituire il materiale riciclato ai combustibili fossili presenti nell’asfalto è stato l’ingegnere scozzese Toby McCartney con la sua startup MacRebur. La ricetta vincente è un mix composto dai 3 ai 10 Kg di plastica riciclata per ogni tonnellata di asfalto, usato come collante al posto del tradizionale bitume ottenuto dai combustibili fossili. Con questo composto due anni fa la MacRebur ha ripavimentato una delle principali e più trafficate strade del borgo di Enfield a Londra e l’amministrazione londinese ha deciso di estenderne la sperimentazione ad alcune fermate degli autobus.

Il metodo McCartney è sbarcato anche oltre Europa, come Australia, America del Nord e Dubai. In Olanda, invece, nel 2017 la Kws, società del gruppo edilizio VolketWessel, ha realizzato a Zwolle una pista ciclabile di 30 metri con plastica riciclata pari a 218mila bicchieri oppure 500mila tappi. Per la costruzione è stato utilizzato il progetto Plastic Road, costituito da moduli prefabbricati composti da plastica riciclata che si incastrano tra loro costituendo una superficie stradale.

Questi moduli hanno la forma di una scatola cava, molto leggera, che può essere installata anche su un sottofondo sabbioso ed ha il duplice vantaggio di permettere il passaggio di tubazioni e cavi, che possono essere utilizzati anche per la ricarica dei veicoli elettrici, e facilitare gli interventi di manutenzione. Inoltre, in caso di pioggia, l’acqua viene raccolta all’interno evitando la possibilità di inondazioni. Ma anche l’Italia sta lavorando per realizzare le sue ‘strade di plastica’.

A Roma, per esempio, sulla via Ardeatina, è stato realizzato il primo tratto al mondo con un supermodificante in grafene e plastica riciclata, il Gipave, messo a punto da Iterchimica in collaborazione con Directa Plus, G.Eco (Gruppo A2a) e l’Università Bicocca di Milano. Questa tecnologia rende l’asfalto più resistente fino al 250%, salvaguardandolo dalle buche e rendendolo anche antismog e antighiaccio. Inoltre la possibilità di riuso dei materiali già presenti sulla strada rende le strade costruite con il Gipave riciclabili al 100%, riducendo così l’estrazione di nuovi materiali e l’impiego di bitume di primo utilizzo. Questo nuovo additivo è stato utilizzato recentemente anche per costruire una pista dell’aeroporto di Fiumicino, la prima al mondo di questo genere, per confermare in situazioni di grande stress gli ottimi risultati già ottenuti in ambito stradale.

Ma oltre alle strade, in Italia potrebbe essere di plastica anche il carburante per le auto. Per la verità a lavorare su questo progetto nel mondo sono in tanti. In Italia se ne sta occupando la Lifenergy di proprietà della Firmin, azienda leader nel settore dei prodotti petroliferi in Trentino alto Adige. Ed è qui infatti che nascerà il primo impianto su scala industriale per riconvertire la plastica non riciclabile in biocarburante utilizzabile nei motori esistenti, che sarà commercializzato direttamente nei distributori di proprietà della Firmin. Anche l’azienda svizzera Grt sta lavorando sulla trasformazione della plastica in carburante sintetico e i primi impianti dovrebbero sorgere proprio in Italia. Per ogni tonnellata di plastica riciclata si potranno ottenere 900 litri di combustibile, al costo di 25 dollari al barile, meno della metà del prezzo del petrolio.




Moda sostenibile, il futuro è sempre più green

Moda sostenibile, il futuro è sempre più green

L’industria globale della moda punta sulla sostenibilità, indicata come secondo obiettivo strategico, e sottolinea il comune impegno del settore nella creazione di un futuro completamente ‘green’.

E’ quanto emerge da una ricerca è stata effettuata da Economist intelligence unit (Eiu) per lo U.S. Cotton Trust Protocol basandosi su interviste con marchi come Adidas, H&M e Puma. Il nuovo report ‘La sostenibilità è di moda?’ arriva in un momento in cui l’industria si trova di fronte ad un bivio: decidere se continuare a investire nella sostenibilità o ritornare sui propri passi in considerazione della pandemia.

Da questa ricerca, emerge in primo luogo che per i big della moda, della vendita al dettaglio e del tessile la sostenibilità è fondamentale per la sopravvivenza del business. Per i leader della moda, della vendita al dettaglio e del tessile, la sostenibilità è fondamentale per il business. A dispetto della pandemia, infatti, i dati raccolti mostrano che per molti dei più grandi marchi fashion di rilevanza mondiale la sostenibilità è diventata un fattore cruciale per l’azienda.

La maggior parte dei top manager della moda, della vendita al dettaglio e del tessile intervistati (60%), ha individuato la svolta sostenibile come uno dei due principali obiettivi strategici per la propria attività, seconda solo al miglioramento della soddisfazione dei clienti (primo classificato col 64%). Ciò contrasta nettamente con il tradizionale obiettivo di ‘premiare gli azionisti’ che risulta oggi essere indicato solo da uno su sei (15%) degli intervistati come obiettivo principale.

I top manager affermano che stanno introducendo misure di sostenibilità in tutta la filiera produttiva

Ciò prevede, a partire dall’approvvigionamento di materie prime prodotte in modo sostenibile (65%), di adottare ormai un approccio basato sull’economia circolare e sulla riduzione dei gas serra (51% ciascuno) e investire in nuove tecnologie come la stampa 3D e la blockchain (41%). Nel complesso, la maggioranza (70%) è ottimista sul fatto che il fast fashion possa essere sia accessibile che sostenibile.

I dati contano

Un elemento chiave che emerge dalla ricerca è l’importanza della disponibilità di dati per essere più sostenibili. La raccolta di dati dell’azienda e della supply chain per misurare le prestazioni è, infatti, posta in cima alla lista delle priorità dal 53% dei top manager, seconda solo allo sviluppo e all’implementazione di una strategia di sostenibilità ambientale con target misurabili, posti in cima dal 58%.

E i dati non sono importanti solo nel breve periodo: il 28% dei top manager ha affermato che la disponibilità di dati affidabili è la chiave per traguardare gli obiettivi di sostenibilità nel prossimo decennio. Inoltre, il 73% ha dichiarato di sostenere parametri di riferimento e soglie globali come mezzo efficace per misurare le performance di sostenibilità e guidare il progresso del settore.

Tuttavia, i risultati rilevano che per i maggiori marchi di moda, rivenditori e aziende tessili è difficile ottenere dati di buona qualità. Mentre i capi azienda affermano di disporre di un buon numero di dati sulle pratiche di sostenibilità dei fornitori (65%), sui diritti dei lavoratori e sulla salute e sicurezza sul lavoro nella catena di fornitura (62%). Una percentuale significativa delle imprese (45%) non tiene traccia delle emissioni di gas serra prodotte durante la produzione e distribuzione dei prodotti, mentre il 41% non tiene traccia della quantità di acqua ed energia utilizzata per produrre le materie prime di cui si rifornisce.

In prospettiva, il 29% degli intervistati ha riscontrato che la mancanza di dati disponibili e facilmente accessibili potrebbe ostacolare il processo di collaborazione verso l’obiettivo della sostenibilità in tutto il settore. Come affermato da alcuni intervistati, “raccogliere dati è difficile, ma fondamentale”.

“È chiaro che i marchi stanno affrontando una dura sfida per portare avanti il loro impegno verso la sostenibilità. Allo U.S. Cotton Trust Protocol sappiamo che dati accurati e affidabili sostengono le aziende in questo lavoro. Non solo assicurano riscontri per dimostrare l’importante lavoro fatto e i progressi raggiunti, ma offrono anche una comprensione approfondita per un ulteriore miglioramento. Noi forniamo uno dei meccanismi più strutturati di raccolta dei dati disponibili per il cotone, materiale essenziale, al fine di garantire una trasparenza unica” afferma Gary Adams, President dello U.S. Cotton Trust Protocol.

La collaborazione apre la strada per ulteriori passi avanti

Un’altra constatazione chiave è che la moda, il commercio al dettaglio e il settore tessile non possono ovviamente guidare il cambiamento singolarmente: è necessaria la collaborazione. Tuttavia, quando si tratta di un supporto esterno che aiuti a guidare questo progresso, i top manager non percepiscono come essenziale l’introduzione di un’ulteriore regolamentazione.

Agli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile (Sdg) delle Nazioni Unite e alla regolamentazione governativa nel guidare il cambiamento della sostenibilità è stato attribuito lo stesso peso, entrambi sono citati da un quarto degli intervistati (24% ciascuno). I requisiti normativi sono stati classificati solo un terzo dei top manager (33%) intervistati tra i primi tre fattori che governeranno il progresso della sostenibilità nel prossimo decennio.

L’impatto del Covid-19

Questa determinazione verso la sostenibilità si scontra con l’incertezza generata dal Covid-19; va comunque fatto presente che, quando è stato chiesto il loro punto di vista sulla pandemia, poco più della metà (54%) degli intervistati ha affermato di ritenere che la pandemia potrebbe rendere la sostenibilità un fattore meno prioritario all’interno del settore.




L’importanza e i benefici di una cultura aziendale positiva

L’importanza e i benefici di una cultura aziendale positiva

Le ricerche sulla psicologia organizzativa dimostrano che gli ambienti lavorativi basati sulla pressione e sulla competizione spietata sono dannosi per la produttività delle aziende. Un ambiente positivo, invece, può apportare enormi benefici sia per le persone che per i risultati del business. Nonostante sia diffusa la convinzione che la pressione e lo stress siano un buon incentivo per spingere i lavoratori a performare di più e più velocemente, le organizzazioni spesso non prendono in considerazione i costi collegati a questo tipo di cultura lavorativa. Innanzitutto, le spese sanitarie: nelle aziende ad alta competitività sono maggiori del 50% rispetto ad altre organizzazioni. Il 60%-80% degli incidenti sul lavoro, poi, sono collegati a situazioni di stress, così come l’80% delle visite mediche, dato che lo stress sul lavoro è causa di forme di sindromi metaboliche e di malattie cardiovascolari. Allo stesso modo, lo stress causato dal fatto di ricoprire posizioni gerarchiche è causa di malattie. 

In secondo luogo, bisogna considerare il costo di uno scarso livello di coinvolgimento sul lavoro: le ricerche hanno dimostrato che quando non si è coinvolti si rischia di soffrire di stress. Questo ha dei costi per l’azienda, dal momento in cui un basso livello di coinvolgimento porta a un aumento del 37% dell’assenteismo, del 49% di incidenti e del 60% di errori. 

Il terzo costo da considerare è legato alla mancanza di fidelizzazione: le ricerche dimostrano che le persone che vivono una situazione stressante sono del 50% più inclini a cambiare lavoro, declinare una promozione o licenziarsi. I costi associati a questo fattore hanno a che fare con le spese necessarie per la ricerca di una nuova risorsa, la formazione, la perdita di produttività e di esperienza. Il Center for American Progress ha stimato che sostituire un lavoratore costa quanto il 20% del suo salario. 

Per questi motivi, spesso le aziende si preoccupano di fornire ai propri dipendenti benefit di vario tipo, dal telelavoro alla palestra aziendale, ma una ricerca di Gallup ha dimostrato che i lavoratori preferiscono il benessere sul lavoro ai benefit materiali. Il benessere sul luogo di lavoro dipende esclusivamente dalla presenza o meno di una cultura aziendale positiva, che si basa su 6 caratteristiche essenziali: cura per i colleghi, supporto e compassione, saper perdonare gli errori, saper ispirare gli altri, enfatizzare i lavori significativi e trattare gli altri con rispetto, gratitudine, fiducia e integrità. Per incentivare lo sviluppo di questi elementi, i capi possono agire rinforzando le relazioni sociali positive, mostrare empatia e fare la loro parte per essere concretamente d’aiuto. Una ricerca della NYU Stern School of Business ha infatti dimostrato che i leader che si mostrano più attenti e disposti al sacrificio riescono a creare un ambiente più cooperativo e produttivo. Infine, i leader dovrebbero incoraggiare le persone ad aprirsi con loro, specialmente riguardo ai propri problemi. Nel libro Give and Take, il professore della Wharton Adam Grant ha dimostrato che la generosità e la gentilezza di un leader sono driver importanti per l’efficacia aziendale. 

Mentre un clima lavorativo più rigido porta a un minor livello di salute generale tra i lavoratori, un ambiente di lavoro positivo contribuisce a migliorare diversi aspetti legati alla salute dei lavoratori, come ad esempio la frequenza cardiaca, la pressione sanguigna e il sistema immunitario. Quando i lavoratori sono più felici, questo si riflette anche sul servizio che viene offerto all’esterno. Di conseguenza, una cultura lavorativa positiva non migliora solo la salute dei singoli ma contribuisce a migliorare gli outcome legati ai clienti in termini di salute e soddisfazione.

Leggi l’articolo completo di Emma Seppälä e Kim Cameron su www.hbr-org.cdn.ampproject.org