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«Sei sicuro di aver letto l’articolo?»: la domanda di Twitter che mette in crisi chi condivide senza approfondire

«Sei sicuro di aver letto l’articolo?»: la domanda di Twitter che mette in crisi chi condivide senza approfondire

Il test mira a «promuovere una discussione informata». La condivisione di un contenuto può «innescare una conversazione, quindi potresti volerlo leggere prima di twittarlo»

Twitter fa un altro passo nella direzione della lotta alla disinformazione. Il microblog della società ha annunciato tramite il suo account che testerà una nuova funzione attraverso cui suggerirà agli utenti di pensarci bene prima di twittare o ritwittare un articolo di cui non conoscono il contenuto. Ogni volta che un utente si accingerà a condividere un link a un contenuto che non ha in realtà aperto comparirà un messaggio nel quale Twitter chiederà se non si abbia l’intenzione di leggerlo prima di postarlo.

«La condivisione di un articolo può innescare una conversazione, quindi potresti volerlo leggere prima di twittarlo», ha spiegato il social network. Il test, evidenzia Twitter Support, intende «aiutare a promuovere una discussione informata».

Il problema degli utenti che condividono articoli di cui non hanno letto il contenuto non è nuovo: come ricorda il Guardian, uno studio del 2016 portato avanti dalla Columbia University e dalla fondazione Microsoft ha dimostrato che il 59% dei link postati su Twitter non è mai stato cliccato. Per il momento, il test riguarderà gli utenti Android di Twitter impostato in lingua inglese. In ogni caso, l’avviso non impedirà, a chi vorrà, di condividere il contenuto anche senza averlo letto.

«Stiamo cercando di incoraggiare le persone a rivedere il loro comportamento e a ripensare il loro linguaggio prima di postare», aveva dichiarato a maggio Sunita Shaligram, a capo della policy del sito sulla fiducia e sulla sicurezza. «Perché spesso agiscono nella foga del momento e potrebbero dire qualcosa di cui si poi potrebbero pentirsi».




Tesi sulla gentilezza? «Ecco perché fa bene anche alle aziende»

Tesi sulla gentilezza? «Ecco perché fa bene anche alle aziende»

Giampietro Vecchiato, intervenuto dopo Franco Locatelli alla diretta streaming venerdì mattina, ha affidato la tesi sul tema alla studentessa Marta Grigoletto. E la psicologa Milani aggiunge: «La gentilezza non è un orpello ma una necessità»

La gentilezza all’interno di una azienda fa la differenza. Anche in termini di business. Lo ha spiegato il professor Giampietro Vecchiato, docente di Teoria e Tecnica delle Relazioni Pubbliche presso l’Università degli Studi di Padova e di Udine, intervenuto durante la Civil Week Lab, nella seconda parte del panel dedicato alla gentilezza dopo il professor Franco Locatelli che della gentilezza è diventato una icona. Ci ha infatti accompagnato durante i lunghi mesi del lockdown quando ogni giorno alle 18 la protezione civile comunicava il bollettino sulla pandemia. «La gentilezza – ha detto – porta con sé empatia, attenzione e disponibilità all’ascolto. Con la gentilezza si attenuano i conflitti e le ostilità» che sicuramente non giovano al business. «Già da tempo – ha proseguito durante la diretta streaming – stavo studiando le ricerche in corso nel mondo su questo tema, perché hanno verificato con i numeri che questo porta anche vantaggi economici».

Ha anche affidato a una sua studentessa Marta Grigoletto una tesi sul tema. E Marta ha confermato che ha fatto molte interviste e anche in Italia ci sono sempre più aziende che hanno iniziato a introdurre il tema della gentilezza, come nei paesi del Nord Europa. Vecchiato ha poi concluso: «Abbiamo intenzione di proseguire l’indagine e capire quali sono gli effetti di questo nuovo approccio aziendale».

Alla diretta ha partecipato anche la psicologa svizzera Cristina Milani, presidente del World Kindness Movement e fondatrice di due organizzazioni no profit Gentletude Switzerland e Gentletude Onlus. «La gentilezza- ha detto – non è un orpello ma una necessità. Deve essere studiata, diffusa, insegnata. Non è solo legata al concetto di galateo, buone maniere, ma deriva dalla capacità di gestire le proprie emozioni, di restare in equilibrio, non farsi trascinare reagendo alle situazioni, invece essere proattivi. Comporta un grosso lavoro su se stessi, così da imparare a rispondere in modo adeguato alle situazioni. Non significa non avere problemi, bensì affrontarli in un altro modo».




L’Arte Di Saper Ascoltare: Nessuno Ascolta Più, Tutti Vogliono Parlare

L’Arte Di Saper Ascoltare: Nessuno Ascolta Più, Tutti Vogliono Parlare

Viviamo nell’era della comunicazione veloce, trasversale, ma una breve osservazione ci basta a capire che la velocità non è sinonimo di genuinità. A volte la colpa di una cattiva comunicazione è da imputare ad un messaggio formulato male, carico di emozioni approssimative, di idee confuse o di pensieri indefiniti, altre volte siamo noi a peccare di superficialità sia nel parlare che nell’ascoltare. Perché anche l’ascolto è parte integrante del processo comunicativo. Senza l’ascolto, il dialogo diventa monologo. E se in questi tempi possiamo parlare di tutto con tutti, sono pochi quelli che sono ancora in grado di ascoltare veramente.

L’ascolto attivo è alla base di una comunicazione sana

L’ascolto autentico non è un processo passivo, è attivamente ricettivo: accogliamo e processiamo le informazioni ricevute dal nostro interlocutore (e non quelle prodotte dal nostro chiacchiericcio mentale), poniamo attenzione alle parole e ai silenzi, a ciò che viene detto e non detto e come queste cose non dette vengono espresse attraverso la posizione del corpo, le mimiche facciali, i sospiri,…

L’ascolto è una parte importante dell’interazione tra due persone. Se nessuno ascolta, la parola non ha nessuna utilità. Se nessuno accoglie l’informazione, quest’ultima perde di valore, di significato, perché ha senso solo se il messaggio crea un ponte tra le persone, un ponte tra me e l’altro. Se manca questo ponte, o se una “riva” viene a mancare, non c’è comunicazione, ecco perché saper ascoltare è importante tanto quanto sapersi esprimere.

L’ascolto può essere passivo, come quando ci limitiamo a sentire la voce dell’altro senza prestargli una reale attenzione, oppure può essere attivo, come quando accogliamo le informazioni ricevute dall’altro nella loro complessità, facendo attenzione all’intero spettro comunicativo del messaggio che ci viene dato: ascoltiamo la voce e le sue intonazioni, ascoltiamo le parole e anche le pause, i silenzi, ascoltiamo il corpo con i suoi gesti, le sue posizioni.

“AMO ASCOLTARE. HO IMPARATO UN GRAN NUMERO DI COSE ASCOLTANDO ATTENTAMENTE. MOLTE PERSONE NON ASCOLTANO MAI.”
(ERNEST HEMINGWAY)

Cosa possiamo imparare grazie all’ascolto

Ascoltare è un’arte che s’impara col tempo, che si perfeziona grazie all’esperienza. Ci permette non solo di diventare dei buoni ascoltatori ma dei migliori comunicatori. Ogni volta che prestiamo davvero attenzione all’altro e ci permettiamo di accogliere dentro di noi le informazioni che ci manda, il nostro mondo si arricchisce. Essere in posizione di ascolto rappresenta una grande opportunità di crescita: l’attenzione volta al nostro interlocutore ci permette di cogliere le sfumature che un ascoltatore superficiale avrebbe bellamente ignorato cogliendo un messaggio parziale, approssimativo e forse falsato del tutto. Ascoltando con attenzione l’altro si colgono con più facilità le diverse gradazioni emotive che si manifestano nell’esperienza della vita umana, si scopre l’altro facendo la differenza tra la persona reale che si esprime a noi e l’immagine mentale, statica, che abbiamo di lei. Ascoltare ci permette di rompere l’immagine e cogliere il costante cambiamento della persona che abbiamo di fronte a noi.

“PARLARE È IL MODO DI ESPRIMERE SE STESSO AGLI ALTRI. ASCOLTARE È IL MODO DI ACCOGLIERE GLI ALTRI IN SE STESSO.”
(WEN TZU)

Mettendosi in profondo ascolto dell’altro, si esce lentamente da una visione manichea del mondo e dell’esperienza che ne possiamo fare, scorgendo al di là delle differenze personali che potremmo vedere dopo un primo approccio piuttosto superficiale, una matrice comune a tutti noi che ci permette di comprendere l’altro e il suo sentire e di relazionarsi a lui con più autenticità, con più umanità.

Ascoltare significa creare spazio (e vale anche per l’ascolto interiore)

Il primo passo da compiere per mettersi in ascolto dell’altro è essere presente, con consapevolezza. Questo tipo di presenza richiede di calarsi nel momento, di scendere dalla mente al corpo, di attivare i propri sensi in quanto la comunicazione non si basa esclusivamente sulla parola detta, ma anche sul linguaggio del corpo e sul come si esprime questo messaggio, perciò non basterà aprire le orecchie e “stare a sentire” (basterebbe semmai ad un ascolto superficiale e passivo), bisognerà aprire anche gli occhi e il proprio essere all’altro, esserci; a volte, occorrerà anche aprire le proprie braccia per permettere all’altro di schiudersi, senza la paura di essere giudicato, o ferito.

È vero, può sembrare difficile mettersi in ascolto, e lo è ancora di più se non ci siamo mai messi in ascolto di noi stessi, se non ci siamo mai fermati a fare chiarezza sulle nostre emozioni, se non siamo mai riusciti a cogliere le sfumature tra le sensazioni, le emozioni, i sentimenti. Saper ascoltare è un’arte che si affina col tempo perché più siamo in grado di ascoltarsi e più riusciamo ad ascoltarci.

Più siamo in grado di creare spazio dentro di noi, per noi stessi e più saremo in grado di farlo anche per gli altriperché non avremo la necessità di occupare spazio in continuazione come se non ci sentissimo ascoltati, accolti da nessuno (nemmeno da noi). Se sappiamo che ogni volta che ne abbiamo bisogno, siamo in grado di crearci una stanza interiore dove poter esprimerci senza la paura di sentirsi giudicati, o feriti (da noi stessi in primis), allora saremo in grado di non occupare con avidità lo spazio tra noi e l’altro con le nostre parole, di non riversarci in disordine tutti i nostri pensieri repressi come se fossero un fiume in piena: dopo esserci messi in ascolto di noi stessi, saremo in grado di accogliere il nostro silenzio per fare posto all’altro. Ed è in questo spazio che nasce il dialogo.

Bibliografia

  • FERNALD, Peter S.; PETER, S. Carl Rogers: un terapeuta verbale centrato sul corpo. ACP Rivista di Studi Rogersiani, 2001.
  • ROGERS, Carl R. Terapia centrata sul cliente. Edizioni la meridiana, 2007.

Sandra “Eshewa” Saporito
Autrice e operatrice in discipline Bio-Naturali
www.risorsedellanima.it




Abbiamo chiesto ai finti fan stranieri di Salvini cosa pensano di Salvini

Abbiamo chiesto ai finti fan stranieri di Salvini cosa pensano di Salvini

La pagina Facebook del leader leghista si è riempita di like di utenti che si chiamano José Reyes Paez, Feki Moala, Ferencné Tompos o Vaiokgs Liopk. Sono dei bot o la popolarità di Salvini è così globale? Un’indagine per scoprirlo

Facciamo insieme un minuto di visualizzazione creativa: fingiamo di chiamarci Aitor Antônio Honorio De Medeiros, di essere un uomo brasiliano sui settant’anni, residente in un piccolo paesino dell’entroterra, e di avere soltanto 61 amici su Facebook, tutti brasiliani. La nostra bacheca è trascurata, parrebbe che usiamo poco i social, e la nostra immagine del profilo sembra scattata per sbaglio, come se un hacker russo si fosse intrufolato nella nostra camera frontale mentre stavamo cercando di capire come sbloccare lo schermo dello smartphone per chiamare nostra nipote. La lista della pagine che seguiamo, però, è nutrita e variegata; abbiamo interessi inaspettati: life-coach americani, schemi piramidali di prodotti dimagranti, blog di saponette artigianali, cantautori folk, lo studio di avvocati “Brito & Brito”, e Matteo Salvini. Ecco: sembrano esserci moltissimi Aitor su Facebook.Nonostante sulla copertina della pagina del segretario della Lega campeggi un gigantesco “Prima gli Italiani”, Salvini ha moltissimi fan stranieri di questo tipo. Almeno stando ai like sotto i suoi post. Brasiliani (soprattutto), filippini, egiziani, ucraini, tonganiani: migliaia di utenti che ogni giorno vanno a sbirciare la novità della vita di un sovranista italiano, e che mettono mi piace ai suoi contenuti. Sarà che il populismo è in crescita a livello globale, ma perché questo cross-liking non ha corrispettivi italiani? 

È noto che a molti italiani piacciano politici come Putin o Trump, ma a differenza di Salvini sono attori giganti nello scenario internazionale, e sbirciando sui loro social non ho notato una particolare presenza di pubblico italiano. Centinaia di brasiliani, invece, ci tengono a manifestare il loro apprezzamento per la collezione di vecchie musicassette dei Cugini di Campagna dell’ex Ministro dell’Interno. È peculiare e affascinante, no? Così ho deciso di passare un po’ di tempo a studiare i profili di questo bacino internazionale di fan di Salvini, per capire chi sono, e cosa li ha spinti a seguire il progetto politico della Lega.

Mi sono imbattuto, ad esempio, in José Reyes Paez, un utente piuttosto indicativo nella ratio dei profili che ho visitato: non è specificata la sua provenienza, ma visto che quasi tutti i suoi 49 amici vivono a Maracaibo, si potrebbe supporre che sia venezuelano. L’unica foto caricata da José è quella di un uomo anziano, fotografato in penombra sotto un albero, di cui non si riesce a scorgere appieno il volto. Non posta mai niente, non ci sono informazioni su di lui, e ha messo mi piace soltanto a cinque pagine: il musicista evangelico Roberto Orellana, una classifica musicale messicana chiamata “Pasión Ranchera”, l’organizzazione religiosa “Iglesia Cristiana Evangélica Emmanuel”, la pagina di meme religiosi “Sombrereños SOMOS TODOS”, e Matteo Salvini.

Oppure Feki Moala, un uomo che vive a Nukuʻalofa, la capitale del Tonga. I suoi interessi sembrano non seguire alcuna logica: ha messo mi piace a Salvini, alla guida spirituale indiana Sant Rajinder Singh Ji Maharaj, al rabbino israeliano Yitzhak Batzri, alla pagina di Dr Zwig (che si autodefinisce psicologo-musicista), all’agenzia di rappresentanza sportiva Bsynergie Sports, e a un’infinità di pagine sul mindfulness. Però il suo profilo sembra realmente attivo: le sue foto e post hanno molti commenti, anche se ha solo 165 amici, e lui interagisce.

Quindi ho pensato di mettere alla prova i follower stranieri di Salvini e la loro conoscenza delle dinamiche della politica italiana. Senza fare distinzioni in base alla provenienza. Così gli ho chiesto l’amicizia e ho attaccato bottone, pronto a rivolgergli una serie di domande che avevo preparato: come avevano conosciuto Matteo Salvini e la Lega? Cosa pensavano degli scandali legati a Renzo Bossi e del caso Palamara? Credevano o meno nell’alleanza con Giorgia Meloni? Gli piacevano le felpe con i nomi delle città usate da Salvini?

Purtroppo nessuno dei vari Celina Lopes, Ferencné Tompos, o Vaiokgs Liopk mi ha mai risposto: credo che non ci toglieremo mai il sospetto, insomma, che Salvini si sia comprato un sacco di profili fake, tramite qualche bot mestierante che ammorba i server dei paesi tropicali. Oppure mi sbaglio, e la mia è solo una congettura capziosa e pretestuosa: forse ci sono molti abitanti di Tanguro, in Brasile, che hanno a cuore la causa secessionista del Veneto; forse l’avversione spocchiosa per Roberto Speranza del leader leghista è condivisa anche da molti abitanti di El Salvador. O forse questi utenti, con tutti i caffè e le pizze che Salvini carica, lo hanno semplicemente scambiato per un food blogger.




Flessibilità e creatività: senza l’una non c’è l’altra

Flessibilità e creatività: senza l'una non c'è l'altra

La flessibilità si è guadagnata in tempi recenti una cattiva fama, cresciuta quanto più le offerte di lavoro “flessibile” sono andate confondendosi con quelle di lavoro precario e non garantito. Così oggi “flessibilità”, nella mente di molti, evoca immediatamente il fenomeno deteriore e spesso odioso del precariato, e sembra qualcosa da evitare a ogni costo. 
È un peccato: la flessibilità in sé, intesa come attitudine, proprietà o caratteristica che riguarda l’adattabilità a situazioni o condizioni diverse, non ha certo connotati negativi.

FUORVIANTE. Una sorte analoga è capitata ancora prima alla creatività, e ai termini e alle pratiche correlate. Si è parlato di “finanza creativa” per intendere finanza opaca e truffaldina, e di soluzioni “creative” per intendere soluzioni inefficaci, poco praticabili o del tutto campate per aria. Anche questa è un’interpretazione fuorviante.

IL SENSO AUTENTICO. Però, se non recuperiamo il senso più autentico e profondo dei due concetti, ci perdiamo qualcosa di importante e di utile, specie di questi tempi di cambiamenti non semplici. Dunque, vale la pena di provare a farlo. Tra l’altro, i due concetti sono strettamente correlati.
Ormai la comunità scientifica internazionale si è allineata su una definizione di creatività che incrocia due criteri fondamentali: per poter essere definito creativo, un ritrovato dev’essere nuovo, cioè inedito. E dev’essere appropriato e utile (cioè, la collettività deve potergli riconoscere qualche tipo di valore: o economico, o estetico, o etico). 

QUELLO CHE CREATIVO NON È. La definizione può sembrare vaga e, nella misura in cui deve potersi applicare all’infinita gamma delle invenzioni, delle scoperte, delle produzioni e dei comportamenti possibili in qualsiasi campo, per molti versi lo è. 
Ma, se non altro, ci aiuta a discriminare efficacemente ciò che di sicuro non è creativo perché già esiste e dunque non è nuovo (per esempio, l’invenzione di una pizza guarnita con pomodoro, mozzarella e basilico). Oppure perché non ha utilità né valore (per esempio, l’invenzione di una pizza guarnita con chiodi, lucido da scarpe e candeggina). 

RUOLO CENTRALE. Le nuove idee nascono nella mente delle singole persone: per questo la creatività è, e rimane, un fenomeno squisitamente psicologico e individuale. Ovviamente, lo sviluppo delle idee creative, e la loro traduzione in ritrovati innovativi, è invece di norma un fenomeno che coinvolge gruppi, o intere comunità.
Se osserviamo come funziona la mente delle persone che sanno praticare il pensiero creativo, eccoci all’intersezione fra creatività e flessibilità, intesa come attitudine psicologica e stile comportamentale. 
La flessibilità di pensiero gioca un ruolo centrale nell’abilità di generare idee nuove che è tipica delle persone molto creative. Permette di usare categorie mentali diverse e alternative per riorganizzare l’esperienza. Aiuta a superare gli schemi e a formulare ipotesi, interpretazioni e soluzioni originali, osservando fatti e problemi da prospettive differenti. La flessibilità comportamentale aiuta ad affrontare efficacemente i cambiamenti, e ad adattarvisi modificando i propri modi di agire.

I CONTESTI E IL VALORE. Torniamo alla pizza alla candeggina: poiché a determinare il riconoscimento di un valore sono i contesti, di sicuro la proposta di quella pizza non ha alcun valore se siamo in pizzeria ed è ora di cena. Però potrebbe forse averne all’interno di una performance d’arte concettuale. O in uno sketch televisivo che prende in giro i cuochi e (rieccoci) la “cucina creativa”. E può aver valore perfino, in qualità di esempio, in questo articolo.

PRECONDIZIONE. Giusto per concluderlo, l’esempio: saper ragionare in modo flessibile è una precondizione della creatività. E se il nostro problema fosse esattamente quello di riuscire a cavare del buono dall’invenzione di una pizza alla candeggina (cioè: se la scommessa fosse trasformare qualcosa che non è creativo in qualcosa che lo è) avremmo bisogno, appunto, di una grande flessibilità mentale per immaginare contesti plausibili (se ve ne vengono in mente altri, scriveteli nei commenti).

FLESSIBILI, CREATIVI E SODDISFATTI. Dai, ora lasciamo perdere la pizza e parliamo di faccende più serie. Essere flessibili è un tratto di personalità, correlato con l’apertura al cambiamento. Con la capacità di esprimere le proprie potenzialità anche, e soprattutto, in situazioni fuori dalla norma. Con il benessere individuale e più in generale con il grado di soddisfazione per la propria vita.  

TROVARE ALTERNATIVE. Essere flessibili aiuta a immaginare alternative a una condizione non ottimale, o ad adattarsi più agevolmente e come meglio è possibile quando, di alternative, non ce ne sono proprio (volete un esempio recente? Pensate ai due mesi che tutti abbiamo dovuto passare restando chiusi in casa).
Essere flessibili aiuta anche ad affrontare meglio e più efficacemente le crisi, senza lasciarsi travolgere dall’ansia o dalla rabbia, e senza sentirsi sovrastati dallo stress. 

AFFRONTARE I CAMBIAMENTI. In realtà, tutti sappiamo essere, almeno un po’ flessibili (e, dunque, almeno un po’ creativi) quando affrontiamo quotidianamente i cambiamenti dell’ultimo minuto e riusciamo a ristrutturare la nostra giornata e le nostre attività. 
O quando, magari all’improvviso, sappiamo trovare un modo alternativo, e più semplice, per fare qualcosa che abbiamo sempre fatto: un nuovo percorso. Una nuova procedura. Un nuovo modo per organizzarci. Siamo flessibili quando riusciamo a trasferire da un campo a un altro una pratica che si è rivelata fruttuosa.

BIMBI E MOTORI. A proposito di trasferire soluzioni da un campo all’altro, ecco il mio esempio favorito: i medici di terapia intensiva del Great Ormond Street Hospital for Children, un noto ospedale pediatrico londinese, hanno il problema di ottimizzare le complesse procedure di indirizzamento dei piccoli pazienti al reparto di terapia intensiva. 
È un complicato sistema di azioni che devono essere eseguite bene, in fretta, da molte persone insieme. Per ottimizzarle, e dimostrando una notevole flessibilità di pensiero, i medici chiedono aiuto ai tecnici del pit stop della Ferrari. Il know-how Ferrari viene così trasferito dai circuiti di Formula 1 alle corsie. Il risultato è un protocollo più efficace, oggi adottato in molti altri ospedali.

SCIMMIE E TOPI. Il dono della flessibilità non è esclusivo di noi esseri umani. Hanno comportamenti flessibili le scimmie cappuccine e anche i topi (non a caso una delle specie di maggior successo sul pianeta). In un recente esperimento, un gruppo di scienziati ha insegnato ai topi come guidare piccole auto per procurarsi del cibo. 
Diciamolo: guidare non è esattamente un comportamento da topi. Eppure, questi ce l’hanno fatta. La cosa interessante è che i topi medesimi, dopo aver appreso le basi della guida, hanno ridotto i propri livelli di stress. E hanno accettato facilmente nuovi compiti più impegnativi.

NUOVE SFIDE E NUOVI STIMOLI. L’altra cosa interessante è che i topi cresciuti in ambienti più ricchi di stimoli hanno imparato prima a guidare, e meglio. 
Ho il fondato sospetto che questo funzioni anche con gli esseri umani: più siamo esposti a nuove sfide e a nuovi stimoli (o più sappiamo considerare come uno stimolo e una sfida i cambiamenti che ci coinvolgono), più diventiamo flessibili, più sappiamo essere creativi, meglio riusciamo a gestire gli eventi, più risorse abbiamo per provare a migliorare le cose.