Tiffany annuncia la tracciabilità totale di ogni diamante, dalla miniera al consumatore
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Da ottobre ogni pietra superiore a 0,18 carati avrà una “carta di identità”: è il primo marchio di gioielleria a rendere noto ogni dettaglio su provenienza e lavorazione del singolo prezioso
«What’s next for the jewellery and watch supply chain?», ovvero: «Qual è il prossimo passo che farà la filiera dei gioielli e degli orologi?». È la domanda scelta dal Responsible Jewellery Council (Rjc)per introdurre gli aggiornamenti sulle attività svolte in agosto: l’Rjc è un’organizzazione internazionale che un obiettivo primario, costruire una filiera responsabile che vada dalla miniera all’utilizzatore finale passando per le lavorazioni e per la rete commerciale. Tra i temi da molti anni al centro delle attività del Rjc ma anche di associazioni come il Cibjo (spesso definita “l’Onu della gioielleria”), guidata dall’italiano Gaetano Cavalieri, c’è la filiera dei diamanti.
L’impegno di Tiffany
Proprio sui diamanti è arrivato l’annuncio di Tiffany, tra i leader mondiali del settore, nonché più antico marchio americano del lusso (dallo scorso agosto in portafoglio al colosso Lvmh). Da sempre impegnato sul fronte della sostenibilità ambientale e sociale e, più in generale, su quello della Csr (corporate social responsibility), a ottobre Tiffany farà un ulteriore passo avanti in materia di tracciabilità dei diamanti, rendendo noto l’intero percorso di lavorazione dei propri diamanti approvvigionati di recente registrati singolarmente (a partire da 0.18 carati).
Primato di settore Rivelare il Paese in cui ogni pietra viene lavorata e montata su un gioiello rappresenta un primato nel settore, che fa seguito a quanto annunciato da Tiffany nel 2019, ovvero che l’azienda sarebbe diventata il primo gioielliere di lusso a livello globale a indicare la provenienza (regione o Paesi di origine) dei propri diamanti registrati singolarmente. Portando la trasparenza ad un nuovo livello e rendendo noto l’intero percorso di lavorazione dei propri diamanti, Tiffany rafforza l’impegno del brand volto a garantire che ogni fase nella creazione dei suoi gioielli contribuisca al benessere delle persone e del pianeta.
L’organizzazione interna
Da tempo Tiffany ha figure e dipartimenti dedicati alla Csr, come Anisa Kamadoli Costa, Chief Sustainability Officer dell’azienda, che ha spiegato la scelta sulla tracciabilità: «I nostri clienti meritano di sapere che un diamante Tiffany rispetta gli standard più elevati, non solo per quanto riguarda la qualità, ma anche la responsabilità ambientale e sociale. Crediamo che la tracciabilità dei diamanti sia il modo migliore per garantirle entrambe».
Un certificato dettagliato
Le informazioni relative alla regione o Paese d’origine, al luogo in cui ogni diamante è stato tagliato, lucidato, classificato e certificato e poi montato su un gioiello, verranno condivise con i clienti di Tiffany per ogni diamante approvvigionato di recente registrato singolarmente. Queste informazioni potranno essere comunicate da qualsiasi esperto Tiffany e saranno inoltre contenute all’interno del Tiffany Diamond Certificate.
Il know how sui diamanti
Tra i gioiellieri di lusso di livello globale, Tiffany è l’unico a possedere e gestire cinque laboratori di lavorazione dei diamanti in tutto il mondo. E’ lì che gli oltre 1.500 artigiani di Tiffany assicurano che l’eccellenza del taglio sia rispettata ossessivamente, per esaltare al massimo brillantezza, dispersione e scintillio delle pietre – non soltanto il peso in carati. I laboratori (tutti di proprietà) si trovano in Belgio, Mauritius, Botswana, Vietnam e Cambogia, mentre a New York c’è il Tiffany Gemological Laboratory e in Nord America ci sono altri cinque laboratori di produzione di gioielli.
Dal diamante grezzo al gioiello
«Raccontare il percorso di lavorazione dei diamanti Tiffany riflette decenni di investimenti nella nostra supply chain – spiega Andrew Hart, senior vicepresident Diamond and Jewelry Supply di Tiffany –. Tra i gioiellieri di lusso Tiffany è l’unico ad approvvigionarsi direttamente di diamanti grezzi (nella foto in alto) estratti in modo responsabile, a lavorare e montarli, rispettando i propri standard nei propri laboratori».
Le attività della fondazione
Grazie a un modello di biusiness che negli ultimi 20 anni ha portato a una pressoché completa integrazione verticale, Tiffany può certificare, in tema di Csr, sicurezza e salubrità degli ambienti di lavoro, sviluppo economico delle comunità e tracciabilità delle filiere (non solo quella dei diamanti). A questo impegno si aggiungono le attività filantropiche portate avanti dalla Tiffany & Co. Foundation, che in 20 anni ha donato oltre 85 milioni di dollari per progetti di sostenibilità ambientale e sociale.
Disinformazione made in China: tutte le sue armi di propaganda e censura
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Lo sforzo propagandistico della Cina per l’affermazione globale della propria egemonia si è intensificato negli ultimi dieci anni. Eventi come il coronavirus hanno poi reso evidente l’incedere di Pechino verso metodologie di disinformazione in stile russo. Una panoramica su strumenti e tattiche utilizzati
In che modo i Paesi come la Cina, con capacità di propaganda a spettro completo possono utilizzare il loro sistema autoritario di controllo totale delle risorse comunicative e della cultura nelle moderne operazioni di (dis)informazione.
Questo il tema ampio al centro dello studio congiunto sulle operazioni di informazione a spettro completo della Cina, analizzato dall’Hoover Institution e dall’Osservatorio Internet di Stanford e di cui sono autrici Renèe Diresta, Carly Miller, Vanessa Molter, Jhon Pomfret e Glenn Tiffert.
Un ricco white paper, pubblicato il 20 luglio scorso che intende porsi alla stregua di una ricognizione degli effetti delle innovazioni tecnologiche sulle strategie e sulle tattiche consolidate alla base dell’ambizioso programma della Cina volto, contemporaneamente, tanto al consolidamento del suo monopolio interno come all’estensione della propria influenza in tutto il mondo.
Il documento, contrapponendo a tratti le attività della Cina a quelle della Russia, si concentra a tal fine sull’analisi di tre casi studio:
L’apparato di propaganda “visibile” della Cina è ben radicato e la gestione della verifica dei contenuti informativi sia interna che esterna rimane una priorità assoluta per il PCC. Censura, insomma.
Gli obiettivi di controllo sulle informazioni della Cina abbracciano tanto operazioni di influenza negli ecosistemi tradizionali quanto nei social media.
Oltre alle sue ampie capacità manifeste, la Cina ha opzioni di comunicazione meno attribuibili o non attribuibili ma dalle quali può comunque attingere per influenzare l’opinione pubblica globale.
Entriamo dunque nel merito della ricerca condotta dagli studiosi americani ripercorrendone i tratti salienti.
L’apparato di propaganda “visibile” della Cina (censura)
Non a caso Xi Jinping, riprendendo con maggiore enfasi e ambizione le tesi dei suoi predecessori, Mao Zedong primo fra tutti, ha sin da subito ribadito quanto il controllo strategico dell’informazione rappresentasse una delle tre “armi magiche” – insieme all’Armata rossa e all’indottrinamento ideologico del Partito – a disposizione della nazione cinese affinché la stessa potesse prosperare divenendo leader indiscusso della globalizzazione.
Nel massiccio apparato di propaganda del Presidente Xi – oggi definito anche dal perimetro dei due principali programmi di sovranità e censura della rete, Great Firewall e Golden Shield – due organizzazioni occupano un posto di rilievo strategico particolare:
Il Dipartimento centrale di propaganda (CPD) – ovvero l’organo del Partito istituito nel 1924 e modellato sulla base del Dipartimento di Agitazione e Propaganda del Comitato Centrale del Partito Comunista dell’Unione Sovietica.
Il CPD collabora nel controllo e monitoraggio dei contenuti divulgabili con le altre organizzazioni statali tra cui l’Amministrazione generale della stampa e della pubblicazione (GAPP), l’Amministrazione statale di radio, film e televisione (SARFT).
Si conforma alle linee direttive imposte dal Ministero dell’industria dell’informazione (MII), dal Ministero della Pubblica Sicurezza (MPS), dall’ Amministrazione generale delle dogane e dallo State Secrecy Bureau (SSB).
Il Fronte Unito – ossia la coalizione oggi composta dagli otto partiti minori legalmente autorizzati dalla Cina, oltre alla Federazione dell’Industria e del Commercio, diretto dal PCC tramite il Dipartimento del Lavoro del Fronte Unito.
Fortemente sostenuto dal Presidente Xi, il Fronte Unito, riceve una spinta particolarmente ambiziosa, nell’alveo della strategia ad ampio spettro che coinvolge l’ambiente informativo cinese, ponendosi al centro di un piano di potenziamento della proprie risorse, tanto umane quanto finanziarie, che passa in primis attraverso l’identificazione e il controllo manifesto o segreto dell’azione e del credito mediatico attribuibile a particolari gruppi di persone, anche residenti all’estero, reputati particolarmente “sensibili”: rappresentanti di spicco dei “nuovi media”, gruppi influenti di intellettuali, accademici, icone della cultura pop, campioni sportivi e uomini d’affari. Il fine è quello di orientarne l’influenza in senso collaborativo a vantaggio del consenso popolare e della capacità di tenuta “egemonica” del Partito comunista cinese all’interno come all’estero, quanto piuttosto di censurarne le manifestazioni di pensiero “anti-Cina”.
Dunque, una sorta di quartier generale la cui sede generale si trova al 135 Fuyou Street di Pechino. Da lì i suoi svariati uffici, coprendo quasi tutte le aree definite minacciose dal partito comunista (membri delle otto parti minori della Cina, individui senza affiliazioni di partito, intellettuali non del PCC, minoranze etniche, individui religiosi, soggetti privati non appartenenti all’economia pubblica, studenti stranieri e di ritorno all’estero, cittadini di Hong Kong e Macao, popolazione taiwanese della RPC, cinesi d’oltremare) e disponendo di un arazzo ricco e variegato di metodi per raggiungere gli obiettivi prestabiliti dal partito, si pongono a presidio e promozione del “soft power cinese“, il potere persuasivo globale perseguito dalla Cina.
Il Dipartimento del Lavoro del Fronte Unito gestisce anche il China News Service, una delle più grandi reti mediatiche del PCC con dozzine di uffici all’estero. E a sua volta il China News Service gestisce alcuni media esteri come il Qiaobao negli Stati Uniti e il Pacific Media Group in Australia e diversi account WeChat con decine di migliaia se non centinaia di migliaia di follower.
“Il sostegno popolare e l’equilibrio di potere sono la chiave per determinare la causa del partito e del popolo, ed è la più grande politica. Il Fronte Unito (…) è un’importante arma magica per rafforzare la posizione dominante del partito (…) e per realizzare il Sogno cinese del grande ringiovanimento della nazione”, Xi Jinping, alla riunione di lavoro del Front United Central del 2015.
E tanto vale nella sfera pubblica cinese, quanto più, a livello internazionale, nella diffusione dei contenuti che “chiosano” sul ruolo della Cina e sulle questioni relative al Paese.
Proprio il rafforzamento della “sfera ideologica” nel contesto di quella che la Cina stessa definisce una “guerra globale dell’informazione” viene esplicitamente identificato dal Comitato centrale del Partito comunista tra gli obiettivi cardine, imprescindibili per l’affermazione della supremazia del Paese, nonché baluardi contro i pericoli derivanti dalla minaccia delle avverse forze occidentali: dai valori universali e fondamentali espressione della democrazia costituzionale di matrice neoliberalista, alla concezione occidentale dell’ecosistema informativo che sfida il principio cinese secondo cui i media e il sistema editoriale dovrebbero essere soggetti alla disciplina del Partito.
“Le attuali iniziative della Cina in materia di diffusione, stampa e propaganda digitale attingono a un profondo serbatoio di esperienza” riporta testualmente il white paper, con ciò alludendo al fatto che le capacità di propaganda della Cina non sono nuove: il PCC combina propaganda palese con tattiche segrete nel corso di quasi un secolo.
L’esempio concreto richiamato dal documento si riporta al contesto della Guerra di Corea del 1950-1953 dove la sia la Corea democratica che la Cina accusarono gli Stati Uniti di usare la guerra biologica e batteriologica a difesa della loro posizione militare. Accuse che sebbene respinte come bufala da Washington e dall’OMS, persistono ancora in alcuni ambienti.
A maggior ragione dopo le pubblicazioni ritenute dagli studiosi americani come “dirette” dal PCC e riportanti copiose testimonianze oculari, fotografie e pesanti confessioni, documentate da prigionieri di guerra nordamericani. Il riferimento è ad un rapporto d’indagine del 1952, di 60 pagine e oltre 600 immagini e documenti pertinenti – sponsorizzato dal World Peace Council e condotto da una Commissione scientifica internazionale (ISC) guidata sorprendentemente da Sir Joseph Needham, uno dei più eminenti scienziati britannici del tempo – riportato recentemente in auge nel 2018 e reso esaminabile qui per chi volesse approfondire.
Una sorta dunque di antecedente storico inerente il tema epidemiologico che ancora oggi si rivela particolarmente prolifico in fatto di esempi concreti citabili a supporto delle teorie manipolatorie e disinformative, basate su ricostruzioni calcolate e teorie non supportate da fatti e circostanze inconfutabili, artificiosamente costruite e diffuse a servizio degli interessi politici ed economici di parte delle varie fazioni.
Gli obiettivi di controllo sulle informazioni della Cina
Sotto la leadership del Presidente Xi, la repressione di qualsiasi voce dissenziente ha ricevuto una svolta ulteriormente restrittiva e rigorosa. Non è un mistero che la Cina detenga oggi il maggior numero di giornalisti incarcerati ponendosi al primo posto nella classifica dei Paesi con il maggior numero di reporter reclusi, prima di Turchia, Arabia Saudita ed Egitto. Una situazione che lo stesso Comitato per la protezione dei giornalisti (Cpj) definisce “in costante peggioramento”. E altrettanto significative in tal senso risultano le numerose “espulsioni” dei giornalisti occidentali ritenuti “ostili”: dal Wall Street Journal, Bloomberg, al New York Times. Minacce e costrizioni, dunque, tutt’altro che impercettibili.
Peraltro le velleità fatte proprie dal Comitato centrale del Partito comunista, sono altrettanto note e ben scandite all’interno di un documento conosciuto come Document 9 diffuso dal canale web Chinafile.com: “Per non consentire la diffusione di opinioni che si oppongono alla teoria o alla linea politica del Partito, dobbiamo rafforzare l’educazione sulla prospettiva marxista dei media per garantire che la leadership nei media sia sempre saldamente controllata da qualcuno che mantiene un’ideologia identica al Comitato centrale del Partito, sotto la guida del Segretario Generale Xi Jinping”.
Oltre che tradotte nella recente revisione del Codice per i Giornalisti cinese.WEBINARIntelligenza Artificiale, Data Analysis e Image Recognition: i vantaggi concreti per l’aziendaBig DataIntelligenza ArtificialeE-mail
Consente l’invio di comunicazioni promozionali inerenti i prodotti e servizi di soggetti terzi rispetto alle Contitolari che appartengono al ramo manifatturiero, di servizi (in particolare ICT) e di commercio, con modalità di contatto automatizzate e tradizionali da parte dei terzi medesimi, a cui vengono comunicati i dati.
Un percorso di fedeltà e obbedienza che per i numerosi giornalisti, reporter e direttori dei media statali cinesi significa anche doversi sottoporre a periodiche e tassative verifiche del loro grado di affidabilità e lealtà, attraverso il superamento di un autentico esame nazionale voluto da Xi Jinping quale presupposto imprescindibile per poter svolgere la relativa attività giornalistica.
Il risultato di tanto è chiaro: queste le prime pagine di sei importanti quotidiani cinesi, datati 26 ottobre 2017.
Oggi la situazione non è diversa.
Il Quotidiano del Popolo, l’agenzia di stampa Xinhua, il canale televisivo CCTV, solo per citare alcuni tra i più rappresentativi, sono costantemente esposti ed impegnati nella tattiche imposte dalla “guerra dell’informazione” (in cinese 话语 战) intrapresa da Xi.
Ed è una guerra che rompe gli argini dell’ecosistema interno e tradizionale dei media per assumere un rilievo di primo piano anche a livello internazionale, occidentale e social-mediatico digitale.
Se dunque da una parte, a livello internazionale, i media tradizionali sostenuti dal PCC, in aderenza alla tattica nota sin dai tempi di Mao del “prestito di barche per andare in mare” – che sta ad indicare la possibilità di sfruttare le risorse altrui per raggiungere i propri obiettivi – hanno incrementato il numero degli accordi di cooperazione con determinate agenzie di stampa estere (anche ben note testate giornalistiche italiane) che consentissero loro di pubblicare e diffondere contenuti in lingua inglese o cinese, approvati dal partito e destinati ai milioni di lettori fuori dalla Cina; dall’altra, sul fronte digitale, a cominciare dal 2009 e con maggiore enfasi dal 2015, Twitter, Facebook e altre piattaforme social occidentali hanno registrato un significativo incremento di account riconducibili a personalità del PCC, ambasciatori, diplomatici, redattori, giornalisti cinesi e “relativi affiliati” riconducibili allo Stato cinese.
Ne deriva una complessa infrastruttura mediatica e un ampio apparato di comunicazione in lingua inglese con numerosi account asserviti alle ragioni del PCC in grado di veicolare messaggi mirati e raggiungere, influenzare e persuadere centinaia di milioni di utenti social in tutto il mondo.
Un insieme di operazioni di informazione dirette al pubblico straniero non più limitate solo ad un inquadramento positivo della Cina, sollevando dubbi su eventi e narrazioni avverse allo stato cinese – come le storie che miravano a descrivere che le proteste di Hong Kong del 2019 fossero episodi diretti e collegati alla CIA o le smentite relative all’esistenza dei campi di detenzione uiguri – bensì orientate a piani molto più ambiziosi tesi ad influenzare le prospettive globali eventi occorsi al di fuori dei suoi confini cinesi.
I tweet di Zhao Lijian, portavoce del ministero degli Esteri cinese, sulle origini del Covid-19 a marzo, sono esemplari in tal senso e segnano una salto di qualità significativo nelle operazioni di disinformazione intrattenute nei social media dalla Cina, certamente oggi più coordinate rispetto al passato.
Numerosi rapporti, tra cui il report CNAS, il noto think tank di Washington DC e quello del Servizio europeo per l’azione esterna (SEE), evidenziano, in particolare, la “convergenza trilaterale delle narrative di disinformazione” di portata globale promossa da Cina, Iran e Russia sulla pandemia Covid-19 sottolineando come in tal modo gli sforzi propagandistici risultino efficacemente “moltiplicati” in modo altamente coordinato pur in presenza di obiettivi di politica estera distanti.
Una triade, dunque, che si estende da Mosca a Teheran e Pechino, convintamente impegnata nella collettiva diffusione di contenuti tesi a rappresentare il virus come un’arma biologica occidentale; riportare false informazioni sulle azioni in difesa della salute pubblica nell’UE come negli USA; instillare dubbi sulle organizzazioni filo-americane e sostenere un modello alternativo stimolando allo stesso tempo risposte “solidali”.
Come sottolinea il White Paper, i canali della disinformazione durante la pandemia sono stati molteplici: a partire dalle dichiarazioni fuorvianti e dalle teorie complottiste su esperimenti nascosti ideati in occidente, rese da funzionari governativi, spesso portavoce dei leader statali e diffuse dalle reti mediatiche come Russia Today o CCTV, fino alla ricondivisione delle stesse attraverso gli account e le reti di troll cinesi e russe appositamente pensate per i canali dei social media. Questi ultimi evidentemente incapaci di porre un limite alla marea di notizie false ma invece utili per il targeting degli annunci su misura per dirigere i contenuti a specifici destinatari e ricevere feedback per ottimizzare ed orientare i contenuti futuri.
Il tutto ovviamente amplificato dalla costante opera di censura e repressione condotta dallo stato cinese: Li Wenliang, Xu Zhangrun, Chen Qiushi, Fang Bin e innumerevoli altri medici, giornalisti e attivisti sono stati messi a tacere, arrestati e intimiditi. Numerose applicazioni come “Pipi Gaoxiao” rimosse dagli app store e soppresse poiché contrarie alle indicazioni contenute nella direttiva appositamente emessa dal Cyberspace Administration of China.
Altrettanto sono significativi gli altri due casi studio considerati nel documento. Quello relativo alle proteste di Hong Kong iniziate nel giugno 2019, dove la campagna di disinformazione statale è arrivata a comprare intere pagine sul Financial Times e altri media globali, e dove lo stesso Twitter ha rimosso quasi 1000 account sia reali che automatizzati e sospeso altre 200mila pagine sospettate di diffondere informazioni non verificate provenienti dalla pur frettolosa campagna del governo cinese contro i manifestanti di Hong Kong definiti in quegli articoli un “nemico pubblico” al servizio delle forze politiche filo-americane.
E l’altro riferito alle elezioni del 2020 a Taiwan dove l’intero contesto elettorale è stato influenzato e “manipolato” dalla strumentalizzazione di due importanti storie veicolate da specifici account Twitter falsi, reti di troll attive soprattutto su Facebook e l’app di messaggistica LINE, oltre ad alcuni canali YouTube.
La prima relativa alle confessioni sulla campagna propagandistica gestita dalla Cina nelle elezioni del novembre 2018, rese da un presunto agente della RPC, Wang “William” Liqiang, che ha riferito del complesso piano di disinformazione che ha gestito per conto del Partito comunista cinese: 200.000 account di social media falsi e 20 società Internet per attaccare il Partito Democratico Progressivo a vantaggio del partito del Kuomintang, il Partito Nazionalista Cinese più confacente agli interessi di Pechino, oltre a ingenti risorse finanziarie assegnate dal PCC alle agenzia di stampa di Taiwan per promuovere la campagna del Partito nazionalista.
La seconda riguardante le nuove rivelazioni attinenti alla campagna disinformativa che vedeva Taiwan scossa dalle notizie riportate in un falso rapporto in cui si affermava che i viaggiatori di Taiwan, bloccati all’aeroporto internazionale di Kansai di Osaka durante un tifone, fossero stati salvati dagli autobus inviati dall’ambasciata cinese a condizione che si fossero identificati come cinesi in spregio all’indipendenza della loro nazione insulare.
L’ufficio economico e culturale di Osaka venne accusato dai media di Taiwan di essere indifferente alla difficile situazione dei suoi cittadini bloccati e il suo direttore generale Su Chii-cherng, vittima tanto delle critiche quanto della disinfomazione si suicidò.
Al controllo e alla censura dei media statali, tutti strettamente allineati, si accompagnano le tattiche disinformative ad ampio spettro, artatamente veicolate dagli account veri e dai profili automatizzati falsi presenti nei social sia cinesi che occidentali: dalla condivisione di storie positive volte a promuovere l’immagine e l’azione del Partito Comunista Cinese (PCC), alla riscrittura della storia in modo favorevole al PCC, fino alla diffusione di annunci mirati per diffondere messaggi propagandistici prestabiliti e visioni denigratori sugli avversari politici. Stati Uniti in primis.
A tal riguardo si segnala l’interessante approfondimento di cui sono autrici le stesse Vanessa Molter e Renee DiResta intitolato “Pandemics & Propaganda: How Chinese State Media Creates and Propagates CCP Coronavirus Narratives” che completa, integrandola, l’indagine contenuta nel documento in esame Telling China’s Story: The Chinese Communist Party’s Campaign to Shape Global Narratives.
Le opzioni di comunicazione “taciute” della Cina
La capacità di propaganda e disinformazione condotta dalla Cina evidenzia oggi ampia consapevolezza delle potenzialità derivanti dall’utilizzo di troll, specie in forma di farm, bot e cyborg impiegati in senso favorevole al mantenimento del controllo dei cittadini e della legittimazione del potere governativo.
L’intero spettro dell’opera di disinformazione di Pechino, veicolata dai media ad esso collegati, fa in tal senso segnare un salto di natura quantitativa e qualitativa profondamente rilevante proprio per le significative conseguenze registrate a livello politico e geopolitico.
In questo senso i social vengono ritenuti percorsi preferenziali usati per deviare il dibattito come veri e propri distrattori sociali.
Una sorta di “censura inversa” che si oppone al dissenso politico anticinese con il rumore creato dall’effetto cascata dei post governativi.
Si stima che il governo fabbrichi e pubblichi circa 448 milioni di commenti sui social media all’anno orientati a creare disinformazione e a reprimere il dissenso attraverso storie positive compiacenti con il governo di Xi.
Un’intensa attività che si sospetta essere coordinata da oltre 2milioni di persone incaricate e addestrate dal governo cinese per inserire di nascosto un numero enorme di pseudonimi e altri scritti ingannevoli nel flusso di post sui social media, come se fossero le opinioni autentiche della gente comune.
Lo studio di Harvard
Uno studio condotto dai ricercatori di Harvard si pone alla base delle risultanze riportate del White Paper dell’Hoover Institution.
Il richiamo è in particolare all’esercito di oltre 300 mila commentatori online, grandemente coordinato e di diversa estrazione sociale, diretto e organizzato dal PCC, noto come “50c party” alludendo al costo di 50 centesimi cinesi pagato dal governo per ogni post.
Il gruppo di ricercatori di Harvard, composto da Gary King, Jennifer Pan e Margaret Roberts partendo dall’esame di un file reso pubblico dall’hacker “Xialon” nel dicembre 2014 – contenente l’archivio degli account appartenenti ai 50c Party corredato di e-mail trapelate dal 2013 al 2014 relative a post riconducibili a questi ultimi e oggetto di corrispondenza con l’Ufficio Propaganda Internet di Jiangxi, provincia a sud-est della Cina – è riuscito a dimostrare che circa il 52,7% dei post appare su siti governativi. I restanti 212 milioni di post vengono inseriti nel flusso di circa 80 miliardi post totali su siti di social media commerciali, tutti in tempo reale.
Stime che, qualora fossero corrette, evidenzierebbero come una grande parte dei commenti dei siti Web governativi e almeno un contenuto su 178 presenti sui social cinesi vengano “creati” dal governo con lo scopo di “promuovere l’unità e la stabilità attraverso la pubblicità positiva”.
La disinformazione cinese e russa: analogie e divergenze
Il coordinamento delle due potenze Cina e Russia rilevato nelle campagne di disinformazione e censura rivolte verso l’Occidente mostra molti punti di contatto, alcuni dei quali assimilabili anche ad altri Stati a libertà di espressione limitata quali Iran e Arabia Saudita.
E, tuttavia, evidenzia anche aspetti peculiari quanto ai rispettivi obiettivi: mentre la Cina ambisce al ruolo di egemonia globale nell’ordine internazionale e al consolidamento indiscusso delle logiche del PCC, sfruttando a tal fine sistemi di comunicazione altamente persuasivi ispirati al rafforzamento della “sfera ideologica”, a cui si aggiungono censura interna e repressione; la Russia punta piuttosto alla destabilizzazione dei propri avversari politici alimentando caos, sospetti e crisi di fiducia, servendosi allo scopo del modello noto come “guerra ibrida”. Guerra ibrida sta ad indicare una strategia dove ai tradizionali strumenti bellici, si affianca un piano di disinformazione costantemente attivo, olistico e onnicomprensivo, dalla portata più ampia possibile: dal controllo dei mass media, delle sfere politiche, degli apparati militari, dell’intelligence e del settore energetico, fino alle operazioni in ambiente cyber.
Chiaramente la divergenza di obiettivi perseguiti dai due stati asiatici influenza allo stesso tempo anche le rispettive strategie propagandistiche e disinformative sia manifeste che celate. Tanto però non impedisce, l’evidente comunanza di tattiche e metodi di azione.
Uno dei punti di contatto più evidenti è rappresentato dalle operazioni introdotte attraverso le piattaforme social, specie occidentali. Non a caso proprio l’esame dei casi studio riportati nel report Telling China’s Story ha reso evidente le analogie tra Cina che Russia quanto alla diffusione di “teorie del conflitto multiplo” e all’amplificazione di “siti web complottistici”, combinate all’uso coordinato di account social, Twitter in prima linea, riconducibili a diplomatici e ambasciate e all’azione (dis)informativa dei media del regime in grado di assicurare ulteriore slancio all’influenza mediatica delle teorie complottistiche.
Conclusioni
Le risultanze dell’analisi, condotta da Renée DiResta, Carly Miller, Vanessa Molter, John Pomfret e Glenn Tiffert, confermano come lo sforzo propagandistico del Partito Comunista Cinese teso all’affermazione della propria egemonia in ottica globale si è intensificato negli ultimi dieci anni. E gli eventi storici di rilevanza internazionale dell’ultimo periodo, tra cui la ricaduta del coronavirus, hanno reso evidente l’incedere del percorso di Pechino verso metodologie di disinformazione in stile russo.
Gran parte dell’attività propagandistica rimane palese e a basso livello tecnologico, tuttavia le indagini e gli studi sulle tattiche segrete, applicate dallo stato cinese in più paesi tra cui Stati Uniti, Argentina, Serbia, Italia e Taiwan, con i contenuti pertinenti spesso forniti nelle lingue locali, hanno reso manifesti i progressi quantitativi e qualitativi raggiunti dalla Cina nelle proprie campagne di disinformazione.
Senza dubbio nella nuova era della disinformazione cinese un ruolo di primo piano è assunto dalle piattaforme digitali e dalla loro particolare attitudine a “prestare il fianco” a tattiche tecnologicamente avanzate basate sull’impiego di “bot” automatizzati oltre che reti di troll.
Se dunque da una parte piattaforme come Facebook e Twitter rimangono campi di battaglia strategici fondamentali; dall’altra recenti studi indicano uno slittamento delle operazioni di disinformazione verso messaggi di testo e applicazioni di messaggistica crittografate e chiuse ritenute roccaforti maggiormente protette per loro caratteristiche intrinseche rispetto al palcoscenico offerto dai social media.
Una tendenza quest’ultima che ben si sposa con i progressi tecnologici realizzati dalla Cina nel campo dell’intelligenza artificiale, rivelatisi abili alleati nella creazione e diffusione di “enormi volumi di contenuti” destinati alla pubblicazione in batch e alla condivisione degli stessi su più piattaforme, specie di messaggistica “chiusa” come LINE.
Tutte circostanze che, anche, il rapporto di Recorded Future e l’analisi dell’Australian Strategic Policy Institute, documentano in modo esauriente e con dovizia di particolari.
I difensori del PCC continuano a riferire che l’insieme di queste iniziative rappresenti lo sforzo necessario e legittimo di Pechino nell’impresa volta a “raccontare bene la storia della Cina”.
Di fatto, tanto le suddette prospettive di crescita delle tecniche della disinformazione cinese, quanto i potenziali rischi che ad esse si accompagnano, non lasciano dubbi sul fatto che quanto sino ad ora emerso, compresi gli esempi citati nel white paper non sia altro la punta dell’iceberg di un percorso inesorabile e difficilmente arginabile di sorveglianza sistematica, manipolazione e censura presieduto da uno dei regimi più repressivi del mondo e con un’economia tra le più promettenti del mondo.
Una minaccia e insieme una sfida esorbitante per i governi democratici e gli individui in quanto tali.
E una prova delicata anche per lo Stato cinese e per le proprie radicate velleità di nazione simbolo di “ascesa pacifica e benigna” a vantaggio dell’intero continente asiatico e dello scenario mondiale.
Perché tanti incompetenti diventano leader?
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Un libro di Chamorro-Premuzic analizza il fenomeno del rapporto tra competenza e leadership e punta il dito sui processi di selezione: «Premiano le qualità sbagliate»
Politici impreparati. Ministri privi di un curriculum all’altezza del ruolo. Boiardi che passano con disinvoltura da un incarico all’altro, senza conoscere neppure uno dei delicatissimi settori cui di volta in volta sono preposti. Dirigenti che rendono la vita impossibile a decine e decine di loro sottoposti, ostacolandone produttività e carriera… Se il nostro giudizio non fosse offuscato dai demoni del politicamente corretto, se un velo d’ipocrita perbenismo non c’impedisse di cogliere il reale volto delle cose, non faticheremmo molto a riconoscere che è proprio questo – la presenza di tanti incompetenti in posizione di comando – il vero demone che da anni ha preso in ostaggio il futuro del nostro paese. Lo certificano i dati. In uno studio condotto nel 2011 su un campione di circa 14.000 lavoratori, «i rispondenti hanno valutato positivamente appena il 26 per cento dei loro capi». Stesso dicasi per i governi e i capi di stato: «circa il 60 per cento delle persone nel mondo ritengono che il loro paese sia sulla strada sbagliata, per colpa dei loro leader».
Prendiamo l’Argentina. Un secolo fa «era non solo la terra delle opportunità ma anche uno dei paesi più ricchi del mondo, con un PIL pro capite più alto di quello della Francia e della Germania. Eppure da allora l’Argentina è stata in costante declino, qualificandosi come uno dei pochi paesi del mondo in permanente moto retrogrado. La ragione principale? Un cattivo leader dopo l’altro».
Se dai governi passiamo al mondo del lavoro, il quadro non cambia: lo scarso impegno, la perdita di entusiasmo generata da leader intrattabili, incapaci e pieni di sé si traducono «in una perdita di produttività annua di circa 500 miliardi di dollari». A questo bisogna aggiungere che il 75 per cento delle persone che abbandonano la propria occupazione lo fa proprio a causa dell’ansia, della frustrazione generata da superiori mediocri, arroganti che creano problemi invece di risolverli; un fenomeno, questo del turnover, che comporta anch’esso una perdita stimata tra il 10 e il 30 per cento del monte salari annuo.
Eppure, a guardarsi intorno, ce ne sarebbero di persone competenti, esperte, adatte a guidare governi, imprese e istituzioni: perché costoro siedono in panchina, mentre tanti mediocri s’issano baldanzosi in plancia di comando? La colpa, spiega Tomas Chamorro-Premuzic, professore di Business Psychology all’University College di Londra e alla Columbia University (Perché tanti uomini incompetenti diventano Leader? Egea, pp. 188, € 25), è tutta da imputare all’inadeguatezza dei processi di selezione. «Quando gli uomini vengono selezionati per occupare posizione di vertice – spiega l’esperto di talent management – gli stessi aspetti che consentirebbero di predire il loro fallimento sono comunemente scambiati per indicatori di potenziale o di talento per la leadership e, come tali, persino esaltati». Ad esempio, «caratteristiche come l’eccessiva fiducia in sé stessi e il narcisismo dovrebbero essere interpretate come segnali di pericolo. Invece, ci spingono a dire: “Ah, che tipo carismatico! Ha la stoffa del leader”».
Insomma, i nostri sistemi di selezione esaltano «le caratteristiche del maschio alfa e cioè il protagonismo rispetto all’umiltà, l’estroversione rispetto alla sobrietà, la voce grossa rispetto all’understatement, l’azzardo rispetto alla saggezza». Il problema? Queste caratteristiche, se sono utili a imporsi come leader, sono del tutto inadatte per guidare un paese, un’impresa o una comunità di persone.
Prendiamo il caso di Justine, una persona reale ma con falso nome, la cui vicenda è esemplificativamente rievocata da Chamorro-Premuzic proprio per illustrare le tante distorsioni che insidiano i nostri sistemi di selezione: «(Justine) è un’esperta contabile belga brillante e curiosa, che ha passato gli ultimi quindici anni lavorando come responsabile finanziario di una grande organizzazione non governativa. Benché si sia prodigata costantemente al di là delle aspettative e sia vista dal suo capo come uno degli elementi più preziosi del team, raramente promuove sé stessa…preferisce concentrarsi sul proprio lavoro…lasciando che i risultati parlino da soli».
Purtroppo, quella adottata da Justine, è una strategia di assai dubbia efficacia in un mondo come quello delle progressioni di carriera, le cui ruote girano completamente all’incontrario rispetto a ciò che il buon senso (e le evidenze empiriche) imporrebbero: «Justine ha visto molti dei suoi colleghi passarle davanti, anche quando non sono in gamba come lei, ma, grazie alla sicurezza di sé e alla loro assertività, trasmettono l’impressione di essere non solo più competenti, ma anche più motivati e dotati delle attitudini tipiche del leader. E poiché possono continuare a fare affidamento su persone come Justine per mandare avanti la baracca, la loro incompetenza è spesso mascherata dal contributo silenzioso ma efficace di una Justine».
La cui vicenda ci consente di chiamare in causa il primo dei false friends dei processi di selezione: la sicurezza in sé, un attributo che molto spesso i cacciatori di teste e i selezionatori associano alla competenza e al potenziale di leadership. Eppure, evidenzia Chamorro-Premuzic, tra i due attributi (sicurezza di sé e competenza) non vi è alcuna correlazione. Al contrario, centinaia di studi hanno empiricamente documentato che esiste «una sovrapposizione inferiore al 10 per cento tra quanto le persone pensano di essere intelligenti (sicurezza in sé) e i punteggi reali dei test di intelligenza (competenza)».
Tradotto: la maggior parte degli individui tende a sovrastimare i propri talenti; e paradossalmente quelli che eccellono in questa pratica (aprendosi così numerose prospettive di carriera) sono proprio gli individui meno preparati. In fondo, chi sa è consapevole della limitatezza del sapere e per questo è in grado di riconoscere i propri limiti; al contrario, chi non sa (o sa poco) ritiene di sapere tutto e per questo si culla in una sicumera del tutto disfunzionale e fuori luogo. Il problema? Stante la distorsione dei nostri processi di selezione, molto spesso accade che i capi che ostentano maggiore sicurezza (e incompetenza) siano preferiti a quelli più competenti, umili e laboriosi che, proprio a causa di questi attributi, appaiono più cauti e insicuri agli occhi dei selezionatori. In tempi non sospetti lo aveva già evidenziato Bertrand Russell: «la causa fondamentale del disastro è che nel mondo moderno gli stupidi sono arroganti e pieni di sé mentre gli intelligenti sono pieni di dubbi».
La stessa cosa vale per il carisma, altro falso amico dei procacciatori di talenti. In molti pensano che questa caratteristica sia un ingrediente essenziale per una leadership di valore. Eppure, anche in questo caso, le evidenze empiriche ci dicono tutt’altro; ci dicono che i leader più efficaci, in politica come nel mondo delle imprese, non sono quelli più carismatici, ma quelli dotati di perseveranza e modestia, che approcciano la realtà in modo umile e sono pronti ad ammettere i propri errori.
Insomma, come Chamorro-Premuzic evidenzia a più riprese nel suo libro, «c’è un’enorme differenza tra i tratti della personalità e i comportamenti che occorrono per essere scelti come leader (sicurezza di sé, narcisismo, carisma) e i tratti e le competenze che occorrono per essere capaci di dirigere» (competenza e onestà). Ne deriva che se vogliamo far emergere dei buoni leader, cioè dei leader esperti, emotivamente stabili, consapevoli dei propri limiti e dotati di una buona dose di umiltà ed empatia, dobbiamo profondamente ripensare gli attuali criteri di selezione, poiché sono proprio quest’ultimi, per come sono oggi strutturati, a escludere, in modo del tutto distorto, tutti coloro (in particolare le donne) che invece avrebbero le caratteristiche adatte per essere un buon leader.
Ci riusciremo? Qualche dubbio è lecito nutrirlo. Spesso infatti i leader, più sono mediocri e incompetenti, più tendono a circondarsi, quando sono al potere, di persone mediocri e incompetenti; tendono, cioè, a creare un ambiente tossico, in cui la mediocrità si autoperpetua proprio «come fanno i batteri e i parassiti negli ambienti inquinati e contaminati».
Come l’architettura dell’informazione plasma l’esperienza. La storia del Vietnam Veterans Memorial
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In che modo l’architettura dell’informazione concorre a creare l’identità di uno spazio fisico o digitale, a generare significato e plasmare l’esperienza che ne facciamo? La storia del Vietnam Veterans Memorial è in questo senso emblematica.
Il Vietnam Veterans Memorial
Il Vietnam Veterans Memorial è un complesso monumentale costruito per celebrare la memoria dei soldati americani morti nella guerra del Vietnam. Sorge a Washington, nei giardini del National Mall, a poca distanza dal Lincoln Memorial.
Il fulcro del complesso è il Vietnam Veterans Memorial Wall, un muro di granito nero disposto a V, su cui sono incisi i nomi di più di 58mila soldati caduti in Vietnam. Il progetto è dell’architetto Maya Lin, vincitrice del concorso per il memoriale a soli 21 anni, quando ancora frequentava l’università. Il muro progettato da Maya Lin è concepito come un taglio, una ferita nella terra, a evocare il dolore causato dalla guerra.
L’organizzazione dei nomi
L’ordinamento dei nomi sulla superficie del muro è stato oggetto di un acceso dibattito. La proposta iniziale, sostenuta da più parti, era quella di elencare i nomi alfabeticamente: l’ordine alfabetico avrebbe aiutato a localizzare facilmente il nome di una persona. In effetti questa è la soluzione più ovvia che verrebbe in mente. Ma questa soluzione andava incontro a due problemi: l’omonimia e, soprattutto, il significato del memoriale stesso.
La lista dei caduti conta infatti 600 “Smiths” e 16 “James Jones”. L’organizzazione alfabetica avrebbe reso il Vietnam Veterans Memorial Wall un elenco telefonico scolpito nel granito, distruggendo così l’unicità della perdita che ogni nome porta con sé. E più in generale, avrebbe depotenziato l’impatto emotivo del monumento: in una parola, la sua esperienza.
Un’organizzazione dei nomi per grado militare sarebbe stata anche peggiore, perché avrebbe creato una gerarchia fra i nomi stessi.
L’organizzazione dei nomi come sensemaking
Fin dall’inizio Maya Lin – l’architetto progettista del muro – si è battuta per ordinare i nomi in base alla data della morte. Dopo una lunga discussione, questo è il criterio che alla fine ha prevalso. (Tuttavia, per soddisfare anche la ricerca alfabetica, alle due estremità del muro è stato collocato un elenco alfabetico, che per ogni nome indica la relativa posizione nel muro).
Una soluzione apparentemente controintuitiva, ma molto più aderente al significato dell’opera. Il criterio cronologico preserva infatti l’unicità della persona e della perdita. Nello stesso tempo crea una relazione significativa fra i nomi stessi (persone morte nello stesso anno, spesso combattendo una accanto all’atra), e fra i nomi e la storia. Mostra inoltre come il bilancio delle vittime sia salito in modo considerevole col protrarsi della guerra.
Il Vietnam Veterans Memorial Wall è composto infatti da due lastre triangolari di granito che si congiungono nel punto di massima altezza formando un angolo di 125 gradi, conferendo al muro la caratteristica struttura a V. Il design e il layout del muro sono descritti minuziosamente nel sito del Vietnam Veterans Memorial Fund. L’altezza variabile del muro rende immediatamente percepibile l’incremento del numero dei morti con il prolungarsi del conflitto, con un picco negli anni centrali della guerra, e una progressiva decrescita negli ultimi anni.
Queste scelte si sono rivelate vincenti. Dopo le polemiche iniziali, il Vietnam Veterans Memorial è diventato il monumento più visitato di Washington. Nel 2007, l’American Institute of Architects ha classificato il memoriale al decimo posto della America’s Favorite Architecture.
Vietnam Veterans Memorial (crediti: National Park System, U.S. Department of the Interior).
Nessuna organizzazione dell’informazione è neutra. Organizzare in un certo modo uno spazio informativo significa dare forma a quello spazio, attribuirgli un’identità e un senso. Significa modellare l’esperienza di chi abita o attraversa quello spazio.
In questo senso ogni architettura dell’informazione crea una visione del mondo, influenza la nostra percezione della realtà, e plasma inevitabilmente la nostra esperienza. Genera significato – sensemaking.
Placemaking
Strettamente correlato a quello di sensemaking, è il concetto di placemaking. Potremmo considerarlo quasi un sinonimo, o una particolare declinazione del sensemaking nell’ambito dei luoghi – dove per luogo si intende qualunque spazio abitato, fisico o digitale che sia. Il concetto di placemaking è mutuato dall’architettura e dalla psicologia ambientale. In che senso l’architettura, e anche quel particolare tipo di architettura che è l’architettura dell’informazione, “costruisce luoghi”, ne plasma l’identità e il senso?
La chiave è nella differenza fra spazio e luogo. Anche se li usiamo spesso come sinonimi, spazio e luogo non sono la stessa cosa. Lo spazio è la base materiale della nostra esperienza, del nostro esserci e abitare: è un’entità oggettiva, impersonale, indifferenziata. Il luogo è invece il risultato della nostra esperienza di uno spazio, del nostro abitarvi; va oltre lo spazio fisico, include ricordi, esperienze, comportamenti: è personale, soggettivo, comunitario.
Nel caso specifico dell’architettura dell’informazione, il placemaking è “la capacità di un particolare modello di organizzazione dell’informazione di ridurre il disorientamento, costruire un senso del luogo, aumentare la leggibilità e il wayfinding negli ambienti digitali, fisici e cross-canali” (Resmini & Rosati, Pervasive Information Architecture).
Crypto art da 100mila dollari: vendita record per opera d’arte su blockchain
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SI TRATTA DELL’OPERA D’ARTE DIGITALE DI MATT KANE CHE CAMBIA OGNI GIORNO IN BASE ALLA VOLATILITÀ DEI PREZZI DI BITCOIN: FA PARTE DEL MOVIMENTO ARTISTICO EMERGENTE CHE INSERISCE I LAVORI IN UN SISTEMA DI AUTENTICA VIRTUALE
Per la prima volta un pezzo di crypto art è stato venduto per 100mila dollari sulla piattaforma Async Art, dove si crea, raccoglie e scambia arte programmabile in grado di evolversi nel tempo, reagire ai suoi proprietari o seguire un prezzo di borsa. Si tratta di Right Place & Right Time di Matt Kane, un’opera d’arte digitale che cambia ogni giorno in base alla volatilità dei prezzi di bitcoin. Al contrario di un’opera digitale “classica”, i lavori in cryptoart – sempre file digitali, e dunque, per loro natura, copiabili all’infinito senza perdita di qualità – vengono però inseriti in un sistema di autentiche gestito da un software che sfrutta la tecnologia blockchain Ethereum e gli acquirenti pagano in valuta digitale.
Right Place and Right Time by Matt Kane
COS’È LA CRYPTO ART?
“Crypto art è un movimento artistico emergente, che fa leva sulla provenienza comprovata e sulla scarsità di opere d’arte sulla blockchain”, spiega ad Artribune l’artista nato a Chicago, dapprima autore di opere di pittura ad olio e poi trasformatosi in sviluppatore web. “La mia opera d’arte ha appena fatto una vendita record di 100 mila dollari, pagata in 262 criptovalute ethereum. L’opera d’arte digitale cambia ogni giorno in base alla volatilità dei prezzi di bitcoin. Maggiore è la volatilità quel giorno, più bella è l’astrazione!”. L’opera d’arte non è solo un’immagine statica, ma continua a generarne una nuova ogni giorno in quanto composta da 24 livelli sincronizzati con l’azione dei prezzi di bitcoin delle 24 ore precedenti: si ha così un’opera d’arte generativa, sempre diversa. Gli artisti digitali stanno cominciando a sfruttare gli NFT, ovvero opere d’arte digitali sotto forma di token non fungibile (NFT), non interscambiabili. “Quando un artista conia una NFT, è come firmare il proprio lavoro e rilasciare un certificato di autenticità non falsificabile“, continua Kane.
OPERE D’ARTE COME BITCOIN
“Chiunque può guardare la blockchain pubblica e vedere chi ha coniato l’NFT di un’opera d’arte e la storia della sua proprietà e delle sue vendite“. Il patrocinio di TokenAngels, uno dei principali collezionisti di NFT e crypto art, ha permesso all’artista di sperimentare una nuova economia: quella dove il collezionista di un’opera d’arte generativa guadagna un interesse finanziario sulle sue successive variazioni. “Da un anno colleziono crypto art e la scorsa settimana si è svolta questa vendita record (la precedente era di 55mila dollari)”, ci racconta TokenAngels. “Il progetto è molto serio e durerà 10 anni”. Quest’opera – già pronta per essere presentata a Roma nell’ambito di un convegno prima della mostra Renaissance 2.0 2.0curata da Eleonora Briziil 20 ottobre nel complesso di San Salvatore in Lauro con artisti come il duo Hackatao, tra i primi in Italia a sperimentare la cryptoart – promette, infatti, di diventare uno dei pezzi più significativi del movimento, coniugando la parte materiale con quella digitale: di questo NFT sono stati creati appena 210 esemplari. “Il collezionista riceve il 21% delle entrate dei singoli NFT e delle vendite di stampa e ci saranno solo 210 NFT coniati”, conclude Kane. “Speriamo che la nostra partnership, una novità assoluta tra artista e collezionista, sia fonte di ispirazione per le future collaborazioni”.