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Ikea è il primo posto al mondo dove puoi pagare con il tempo che impieghi per arrivare al negozio

Ikea è il primo posto al mondo dove puoi pagare con il tempo che impieghi per arrivare al negozio

Un sogno che si avvera, poter entrare in negozio e pescare l’oggetto desiderato senza pagare un euro. Messa così sembra incredibile e impossibile, eppure c’è chi punta su questo apparentemente incomprensibile metodo di pagamento per incrementare gli affari.

E non si tratta di una piccola azienda o di una giovane startup in cerca di visibilità, perché gli acquisti pagati a tempo sono la nuova formula in vigore da Ikea, precisamente nel secondo store che gli svedesi hanno aperto a Dubai.

Perché pagare con il tempo

Come nella filosofia del gruppo, l’azienda ha scelto un luogo fuori città per lo store Jebel Ali, raggiungibile attraverso un percorso in mezzo al deserto di circa 40-50 minuti dal centro cittadino. Naturale, quindi, che la stragrande maggioranza di residenti e turisti preferisca recarsi presso il primo negozio della catena, più facile da raggiungere.

Ecco, allora, che per smuovere le acque serviva un’idea forte, di quelle capaci di attirare la curiosità delle persone e dei media. Detto e fatto, con la campagna progettata dall’agenzia pubblicitaria Memac Ogilvy, basata appunto sulla possibilità di acquistare prodotti tramite il tempo di percorrenza impiegato per arrivare al negozio.

Come funziona

Nello specifico, la procedura è molto semplice per i clienti, poiché una volta arrivati in cassa devono soltanto scegliere come pagare, con i cassieri che nell’elenco includono anche la variante temporale. Chi accetta (e del resto, chi non accetterebbe?) deve solo ripescare il più recente spostamento nella cronologia di Google Maps e mostrare lo smartphone all’addetto, che scala così la merce dal conto complessivo calcolando la distanza del tragitto.

La base di partenza per gli acquisti è stata varata partendo dal salario medio vigente nel più noto dei sette emirati arabi, pari a 105 dirham, che corrispondo a circa 29 dollari orari (poco meno di 27 euro), con ogni minuto di viaggio valutato l’equivalente di 48 centesimi di dollaro.

Cosa si può comprare

Impossibile dire se il valore sia troppo o troppo poco, anche perché non è questo il punto, bensì l’inedita opportunità offerta ai clienti, che in sostanza con un percorso di 50 minuti si possono assicurare uno dei più gettonati tavolini dell’azienda, mentre chi impiega due ore per recarsi a destinazione può mettere le mani su una classica libreria a sei ripiani (peraltro personalizzabili).

La mossa, ovviamente, è tutt’altro che improvvisata perché, se i consumatori possono acquistare articoli gratis, allo stesso tempo sono incentivati a frequentare più spesso il magazzino che, proponendo un catalogo per la casa senza eguali, garantirà alla società di Stoccolma un incremento delle vendite e maggiori ricavi.

Nuovi scenari

L’opzione “Acquista con il tuo tempo” è attiva per ora solo nello store di Dubai Jebel Ali e non ci sono indizi circa una possibile diffusione in altri negozi e paesi. La novità tuttavia apre due scenari rilevanti, dimostrando in primo luogo come le aziende possano sfruttare servizi digitali famigliari a centinaia di milioni di clienti.

Si dovrebbe ragionare, inoltre, se e come Ikea (e chi replicherà l’innovativo metodo) raccolga e utilizzi i dati che in consumatori rilasciano spontaneamente, accettando il pagamento a tempo, anche se il copywriter della campagna ha specificato che al momento il processo non prevede la raccolta dati della clientela.




Filosofia, etica e tecnologia: prendersi cura della “infosfera” costruendo sintesi tra umanesimo e scienza

Filosofia, etica e tecnologia: prendersi cura della “infosfera” costruendo sintesi tra umanesimo e scienza

Pensare l’infosfera”, dice Luciano Floridi, filosofo, professore di filosofia ed etica dell’informazione all’università di Oxford, dove dirige il Digital Ethics Lab. Ha intitolato così il suo ultimo libro, pubblicato da Raffaello Cortina e raccontato, nei giorni scorsi, in tre incontri al Teatro Parenti a Milano.

E sostiene che stiamo vivendo una “quarta rivoluzione”, dopo quelle avviate da Copernico, Darwin e Freud, legata alla diffusione del “digitale”, con tutto il carico dei Big Data e dell’Intelligenza Artificiale che amplia profondamente le dimensioni dell’Information and Communication Technology che abbiamo finora conosciuto e applicato ai processi economici e sociali.

Floridi spiega, dunque, che “l’infosfera rappresenta un nuovo modo di stare insieme, in tutti gli ambiti della vita, dall’educazione al business, dalla politica alla cultura, dal commercio alla salute e all’intrattenimento e ci pone delle sfide sconosciute, facendo del Novecento un mondo obsoleto”. Infosfera come “nuovo spazio”. Rispetto al quale “ci dobbiamo chiedere: come lo stiamo costruendo? Lo stiamo costruendo bene?”.

Pensiero e tecnologie digitali. Riflessione sul senso e il valore delle cose, delle azioni, delle scelte. Elaborazione di nuove idee adatte al cambiamento dei tempi. Floridi è molto chiaro: “La rivoluzione digitale ha effetti sulla nostra autonomia di persone: la nostra libertà, la nostra capacità di determinare le scelte dipende sempre più dai dati. E comincia anche a essere messa in discussione la nostra eccezionalità.

Come esseri umani ci siamo a lungo identificati con l’autodeterminazione e con l’intelligenza, che adesso sono entrambe sotto attacco. L’algoritmo di Netflix ci dice: guarda questo film, ti piacerà. E a scacchi non giochiamo più contro il computer, tanto sappiamo che vincerà lui. La filosofia può essere d’aiuto nel ripensare la nostra unicità” (la Repubblica, 6 febbraio: “Ci vorrebbe un Socrate dell’era digitale”).

Nel tempo controverso delle grandi trasformazioni, proprio per orientarsi di fronte alle questioni e alle scelte che la velocissima evoluzione tecnologica ci pone, emerge con forza il bisogno di una nuova consapevolezza umanistica. E tornano alla ribalta i filosofi. Così come gli intrecci di politica e affari, culture e sfide legate alla sicurezza e alle life sciences nel mondo globale rilanciano la necessità di avere geografi originali per riscrivere le mappe capaci di orientare il nostro cammino.

Filosofi e geografi, per il mondo nuovo. Poeti e letterati, perché nulla come la letteratura sa raccontare lo splendore e la tenebra nel cuore degli uomini (Shakespeare, più di tutti, ne è stato maestro). E storici, per affinare gli strumenti in grado di chiarire le relazioni tra passato e futuro, ricordando la lezione, tra gli altri, di un grande artista contemporaneo, Jannis Kounellis: “Il problema non è quello dell’antichità, ma dell’attualità. E non esiste nessuna attualità senza antichità. La si trova in tutto”.

Se queste sono riflessioni che si incrociano, nel mondo della cultura, della formazione, ma anche dell’economia e della scienza, non può non fare riflettere con una certa preoccupazione il fatto che nelle scelte degli studenti e delle loro famiglie, in vista delle iscrizioni alla scuola secondaria, restino sì in testa i licei, con il 59% delle preferenze (per l’anno scolastico 2020/2021) e un buon passo avanti rispetto al 53,5% dell’anno precedente, ma con un’affermazione straordinaria del liceo scientifico cosiddetto light, quello senza il latino. I dati si riferiscono alla Lombardia.

E in dettaglio documentano come sia aumentata la percentuale dei ragazzi che invece del latino e dell’ora di filosofia, preferiscono un maggiori numero di ore di scienza, di informatica o di discipline sportive o economico-giuridiche.

Perché? Una scuola più semplice ma anche più contemporanea, più adatta ai nostri tempi tecnologici. E più utile per trovare lavoro, si spiega. Questa idea dei ragazzi e delle loro famiglie si lega anche a una tendenza che cresce di peso negli ambienti dell’economia e dell’impresa: è necessario formare persone con gli strumenti adatti a rispondere all’offerta del mercato del lavoro.

Servono competenze scientifiche e tecnologiche, giovani con una formazione in grado di inserirsi nel mondo digitale, tecnici preparati per “Industria 4.0”, l’evoluzione digitale della nostra sofisticata manifattura.

Ci si trova di fronte a due tensioni diverse, entrambe con una certa dose di ragione.

Da tempo le imprese italiane lamentano, giustamente, una diffusa carenza di formazione tecnica e tecnologica. E il dato che ricorre in tutti i dibattiti è quello relativo agli Its, gli Istituti Tecnici Superiori, che qui da noi hanno poco più di 8mila iscritti, un numero davvero esiguo, soprattutto se confrontato con quello tedesco: 800mila.

Investire sulla formazione tecnico-scientifica, si dice nel mondo delle imprese, privilegiando gli istituti tecnici tradizionali, quelli “superiori” (come appunto gli Its) e i corsi di laurea “Stem”, l’acronimo che sta per science, technology, engineering e mathematics, poco frequentati in Italia.

Su un altro versante, molti insistono sull’importanza di un rilancio degli studi classici, per potere avere strumenti di comprensione di un mondo in cambiamento. Costruire conoscenze e non solo competenze.

E, di fronte al rapido usurarsi di tecnologie e contenuti professionali, data appunto l’evoluzione delle culture digitali, formare i giovani a “imparare a imparare”, per usare l’efficace definizione di Francesco Profumo, ex rettore del Politecnico di Torino e presidente del Cnr, prima di diventare ministro dell’Istruzione.

C’è una sintesi possibile? Forse, sta nella necessità di insistere sulla “cultura politecnica”, convergenza di saperi umanistici e conoscenze scientifiche. E di investire nel lungo periodo d’una formazione che abbia solide radici classiche, anche per i programmi degli Its e programmi aperti alle evoluzioni delle tecnologie e della scienza anche per i licei classici.

Costruire ingegneri filosofi (come si è detto spesso in questo blog) e tecnici sensibili alle domande di senso delle cose e non solo alla loro efficienza e produttività. Lavorando sulla formazione di persone consapevoli della “utilità dell’inutile”, riprendendo l’efficace titolo d’un bel libro di Nuccio Ordine, letterato attento ai temi della filosofia e della scienza.

Si torna così alla lezione di Floridi sulla “cura dell’ecosistema”, sull’etica che deve ispirare la relazione con la tecnologia. Un Nuovo Umanesimo da scienziati consapevoli e responsabili. Formati con robuste dosi di pensiero critico fin dai banchi di scuola.




Lettera di dimissioni dall’Osservatorio sulla Comunicazione di Impresa, OCPI – già CCI Club della Comunicazione d’Impresa

Osservatorio sulla Comunicazione di Impresa, OCPI - già CCI Club della Comunicazione d'Impresa

Al Presidente dell’Osservatorio sulla Comunicazione d’Impresa, OCPI
già CCI – Club Comunicazione d’Impresa

p.c. all’Direttivo del OCPI
p.c. all’Assemblea del OCPI 

Caro Presidente,

            ti indirizzo questa mia lettera, facendo seguito alle gentili interlocuzioni delle ultime settimane, con Te e con  vari membri del Direttivo dell’Associazione.

            In primo luogo, ci tengo sinceramente a complimentarmi per la Tua elezione a Presidente, certo come sono che saprai guidare magistralmente l’Associazione verso nuovi traguardi e verso un più evidente lustro per l’intera categoria dei comunicatori.

            Nel merito della governance dell’Associazione, ci tengo a condividere brevemente con te alcune riflessioni.

            Come avevo preconizzato in epoca non sospetta, all’epoca dell’avvio di questo percorso di riforma e rilancio del Club Comunicazione d’Impresa, per il quale ho con entusiasmo servito per anni, prima come socio e poi in seno al Direttivo per svariati mandati, le procedure di emendamento dello Statuto esistente hanno finito per penalizzare fortemente la componente maggioritaria dei professionisti della comunicazione, ovvero quella libero-professionale, che in base alle attuali regole statutarie perde completamente – e inspiegabilmente – il diritto di elettorato passivo, a tutto vantaggio della componente Confindustriale.

            La scelta di garantire il diritto di elettorato passivo solamente ai rappresentanti di realtà imprenditoriali affiliate a Confindustria, se da un lato garantirà all’Associazione un respiro “istituzionale” che diversamente non avrebbe mai potuto avere, dall’altro viola (giurisprudenza pacifica) le buone prassi in tema di garanzia di democraticità della struttura: come ben sappiamo, ogni clausola che limiti i diritti di elettorato per i Soci in regola con il pagamento della Quota sociale, è stata giudicata in più occasioni come illegittima, e quantomeno – aggiungo – del tutto inopportuna.

            Come penso tu sappia, è da tempo accolto in varie sentenze di Cassazione il principio di uguaglianza dei soci delle associazioni: essi debbono avere parità di diritti e di doveri, in quanto persone accomunate da un medesimo interesse o animate da uno stesso ideale. E’ vero, spesso in passato i “contratti” associativi hanno introdotto delle clausole che prevedono alcune differenziazioni fra gli associati (ad esempio molte associazioni distinguono diverse “categorie” di soci, e in questo non vi è nulla di male), ma la dottrina cita, comunemente, esempi di alcune disuguaglianze che sono certamente improprie, e tra esse la clausola che preclude agli associati l’elettorato passivo per le cariche direttive.

            A queste riflessioni di carattere più strettamente tecnico, aggiungo che il riservarsi il diritto di eleggere la totalità dei membri del Consiglio Direttivo da parte di Confindustria è anche un pessimo segnale, permeato da una neppure troppo velata arroganza, che vorrebbe i Soci non-confindustriali a fare da “parco buoi” pagando le quote associative senza poi potersi candidare al governo dell’Associazione. Tale caduta di stile pare ancor più discutibile se consideriamo che l’Associazione pretende in qualche modo di rappresentare iscritti provenienti dal mondo della comunicazione, dominio delle scienze sociali dove valori quali autenticità, coerenza, trasparenza e dialogo dovrebbero essere parole chiave imprescindibili. 

            E quanto rilevo – è bene precisarlo – è vero del tutto a prescindere dalla mia volontà o meno di ricandidarmi, in futuro, quale membro del Direttivo, ovvero di iscrivere una delle realtà imprenditoriali con le quali collaboro a Confindustria per poter a quel punto avere la possibilità di candidarmi: anche per rispetto alle altre organizzazioni no profit con le quali da tempo collaboro, non desidero, infatti, neppure avere la “tessera onoraria” di un organizzazione irrispettosa dei più elementari requisiti di democraticità interna.

Per questa ragione, Ti chiedo di dare lettura di questa mia lettera alla prossima Assemblea dei Soci, atto formale seguente al buon fine del quale vorrai accettare le mie irrevocabili dimissioni da membro del Direttivo dell’Associazione.

     Con immutata stima personale, e con i migliori auguri per il Tuo lavoro,

Luca Poma

La lettera in originale è scaricabile da questo link




VENDITA DI BORSA ITALIANA: UN CAPITOLO OPACO NEI RAPPORTI TRA ISTITUZIONI E CITTADINI

VENDITA DI BORSA ITALIANA

Il mese di Agosto 2020 rimarrà nella storia di Borsa Italiana come la data di un cambio di fronte nel rapporto tra Istituzioni e cittadini, nel nome – apparentemente – dell’interesse nazionale.

Nei giorni in cui per la prima volta Apple sfonda il tetto della capitalizzazione simbolica dei 2mila miliardi di dollari, in Italia si discute – finalmente – sul futuro di Borsa Italiana, che capitalizza meno di un terzo della blue chip di Cupertino.

A 24 anni dalla sua privatizzazione e a 14 anni dalla cessione alla Borsa di Londra (LSE), Piazza Affari è di nuovo in vendita: questa volta, però, è il London Stock Exchange a cercare un compratore.

Facciamo un passo indietro: il 6 agosto 2020 l’agenzia Reuters scriveva: “I partiti di governo vorrebbero aumentare i poteri a disposizione della Consob per blindare Borsa italiana, secondo un disegno di legge visto da Reuters.” C’era, quindi,un disegno di legge, anticipato a Reuters da una fonte affidabile, ma non diffuso tra la cittadinanza. L’attenzione del governo per Borsa Italiana e Mts, poi, si è manifestato anche nel Dl Agosto, che prevedeva un potenziamento del potere di Consob (dall’art 75) sul tema delle “Operazioni di concentrazione e salvaguardia della continuità d’impresa”, che introduce un potere di “veto” dell’Autorità di vigilanza sui mercati, nel caso di passaggio di proprietà di Borsa Italiana. A Consob, infatti, andranno notificati i passaggi di quote superiori al 10%, e l’ente di controllo potrà congelare i diritti di voto, nel caso in cui valutasse essere a rischio la sana e prudente gestione degli asset.

Vari articoli sui mass-media – invero non molti – hanno raccontato la progettata vendita di Borsa Italiana (BI), quasi a sbirciare dal buco della serratura. La sensazione è che il Governo stesse studiando il dossier da mesi, ma nella più completa riservatezza.

Venerdì 31 luglio, LSE ha manifestato l’ipotesi di vendere BI e la controllata MTS, società che gestisce il mercato secondario dei titoli di stato italiani. La settimana precedente, LSE aveva comunicato alla Commissione Europea di una revisione della fusione in corso tra LSE stessa e Refinitiv, titanico fornitore di dati e infrastrutture al mercato finanziario, fondato nel 2018 e posseduto da Blackstone Group LP (55% del capitale) e Thomson Reuters (45%). 

Pochi mesi prima, a novembre 2019 l’assemblea degli azionisti LSE aveva votato la proposta di acquisire Refinitiv, valutata 27 Md $. Operazione colossale, che potrebbe condizionare il futuro dei mercati finanziari mondiali: pare che a quel punto BI e MTS siano state considerate “di troppo”. Refinitiv porta infatti in dote Tradeweb Markets, con mission e capacità simili a MTS. Diverse Authority Antitrust devono dare il via libera all’operazione di fusione e dunque la concentrazione di MTS con Tradeweb Markets parrebbe di ostacolo. Gioca anche l’interesse di LSE di sganciarsi dalle forche caudine delle Autorità europee: la cessione di BI e MTS toglierebbe la classica castagna dal fuoco e – cosa sempre gradita di questi tempi – farebbe cassa.

La cosa curiosa è che la politica italiana la racconta un po’ diversamente, stressando molto il tema dell'”interesse nazionale”, in maniera così indeterminata da ricordare la storica gag del “sarchiapone” di Walter Chiari, parodia della irragionata omologazione, per cui è bastevole nominare la “bestia sarchiaponica” per costringere chiunque a confermare di conoscerla benissimo.

Raffaele Volpi, presidente del Copasir – Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica, sul suo profilo Facebook a fine luglio scrisse: “Invito il governo a considerare immediate e improrogabili valutazioni sugli strumenti utili da mettere in campo per intervenire in senso proattivo in questa vicenda. Ritengo importante che sia il nostro paese a decidere il destino di borsa italiana, evitandone smembramenti e riacquisendone il controllo potendone poi decidere alleanze e posizionamenti. Il governo non consenta ad altri di decidere su piattaforme finanziarie essenziali all’interesse del paese. Qualsiasi indugio farebbe ricadere sul governo elementi di grave responsabilità di inerzia rispetto ad una necessaria linea di consolidamento del sistema paese in un momento in cui vi è la necessità di traguardare il futuro con la solidità di tutta la filiera economico-finanziaria”.

In quel periodo, il tema era stato ripreso anche dalla politica, con il deputato del M5S,  Davide Zanichelli, membro della Commissione Finanze della Camera, che insieme ai colleghi Currò, Martinciglio, Raduzzi e Colletti ha depositato una “risoluzione in Commissione Finanze alla Camera per impegnare il Governo d intraprendere ogni iniziativa al fine di concertare un’offerta competitiva in grado di riportare Borsa Italiana all’interno dei confini del Paese e scongiurare l’eventualità di una suddivisione del gruppo. È fondamentale verificare che Borsa Italiana adotti un piano di investimenti atto a sviluppare ulteriormente i mercati dei capitali in Italia. Si tratta di un asset strategico che può giocare un ruolo importante nel panorama finanziario internazionale, a beneficio di tutte le realtà dell’indotto”.

Il vessillo dell’interesse nazionale sventola quindi altissimo: ma dietro le dichiarazioni di principio, varrebbe la pena chiedersi, c’è anche qualcosa di concreto?

A permettere a ognuno di darsi una risposta, come spesso accade può aiutare la storia. La pubblica Borsa Valori Italiana fu privatizzata nel 1998, su iniziativa del Governo Prodi, che di privatizzazioni (e svendite) se ne intendeva assai, ceduta per un tozzo di pane a banche e intermediari, e poi nel 2007 venduta a Londra a LSE, le banche realizzando, mal contati, appena un paio di miliardi di plusvalenze.

Nella City, BI ha generato quasi una rendita di posizione, ostacolo allo sviluppo della reale economia, perché se pingui sono i lucri della Borsa, tali costi sono ribaltati sul sistema del risparmio e sulle imprese che proprio nella Borsa cercano nuovo capitale di rischio. Da ricordare Enrico Mattei, quando ammoniva che l’energia di ENI doveva costare poco per innescare lo sviluppo nazionale, facendo esattamente il contrario delle 7 sorelle che massimizzavano i loro privati profitti. Tenere a mente questo insegnamento può fare la differenza tra “richiamarsi genericamente all’interesse pubblico”… e realizzarlo davvero.

Come illustravo in un pezzo pubblicato sul Fatto quotidiano scritto assieme a Giovanni Bottazzi, una Borsa moderna è di fatto una organizzazione complessa che ruota intorno a una piattaforma informatica, e dunque la piattaforma è il cuore dell’azienda. BI verrà ri-acquistata come guscio, svuotato della piattaforma? Non si sa, ed il punto appare di rilievo assoluto, specie se di “interesse pubblico” si parla.

Si ventila un prezzo di circa 3,3 Md €, che il mercato londinese punta a incassare per finanziare parte dei 27 miliardi di dollari necessari a comprare Refinitiv. L’operazione potrebbe andare in porto grazie a Euronext, la principale Borsa europea per capitalizzazione (oltre 4.300 miliardi, 8 volte Milano e più del doppio di Francoforte) che gestisce i mercati di Parigi, Amsterdam, Oslo, Bruxelles Lisbona e Dublino e che come primo azionista con l’8% ha Caisse des Depots e Consignations.

Per acquistare Borsa Italiana però ai franco-olandesi mancherebbe una parte della cifra chiesta da Londra: i soldi sarebbero offerti da Cassa Depositi e Prestiti – oggi diventata il bancomat di operazioni che lo Stato non vuole o puote fare direttamente con propri fondi, come l’acquisto di Autostrade-Atlantia – che investirebbe qualche centinaio di milioni di risparmio pur di garantire il ritorno sotto il controllo nazionale (formalmente privato, ma di fatto pubblico) di MTS il mercato dei titoli di stato.

Il progetto, come ho affermato in un mio precedente articolo scritto in collaborazione con Nicola Borzi e pubblicato sul Fatto Quotidiano, vedrebbe come azionisti un gruppo di soci italiani (Cdp e Intesa Sanpaolo in primis) al 50% e per l’altra metà Euronext, con la gestione in mano ai primi: ma c’è modo e modo di investire i risparmi dei clienti delle Poste. Siamo certi che sia opportuno farlo per riportare in Italia il controllo di uno strumento giudicato – oggi – “di interesse nazionale” come BI? Se Euronext effettuasse un aumento di capitale riservato a Cdp e ai soci italiani di Borsa, dandogli voce in capitolo nel nuovo gruppo, ancora passi; ma cosa ben diversa sarebbe invece finanziare Parigi senza contropartite di governance, favorendo – mediante un’operazione di rischio perfezionata grazie ai soldi dei risparmiatori italiani – una nazione straniera. Domande quanto meno lecite, che a quanto pare la politica non trova il tempo di farsi, o trova scomodo farsi.

Invero la sola equiparazione azionaria delle casse depositi e prestiti francese e italiana non pare affatto sufficiente se non accompagnata da un sistema di governance che preveda una equilibrata rappresentanza italiana nei ruoli chiave della nuova società-mercato nascente dalla fusione. Insomma, su questa bizzarra e poco chiara manovra di fine agosto i dubbi che circolano nella comunità dei tecnici e degli studiosi dei mercati finanziari sono numerosi. Primo tra tutti: dove sta realmente “l’interesse nazionale”?

Il momento storico particolarmente delicato imporrebbe inoltre ragionamenti approfonditi: quanto è costata al Paese la privatizzazione di BI e, soprattutto, come in futuro i mercati finanziari potranno servire al reale sviluppo dell’economia?

Rimangono di straordinaria attualità le parole di Federico Caffè: “Da tempo sono convinto che la sovrastruttura finanziario-borsistica (…) favorisca non già il vigore competitivo ma un gioco spregiudicato di tipo predatorio, che opera sistematicamente a danno di categorie innumerevoli e sprovvedute di risparmiatori in un quadro istituzionale che di fatto consente e legittima la ricorrente decurtazione o il pratico spossessamento dei loro peculi.”

Purtroppo questa vicenda appare – afferma Luca Poma, professore di Reputation management presso l’Università LUMSA di Roma e l’Università della Repubblica di San Marino – come l’ennesimo episodio in cui il gruppo di regolatori si fa trovare in buona parte impreparato sul tema della rendicontazione trasparente verso i cittadini su ciò che accade nell’ecosistema economico di interesse nazionale, e non solo. Da diversi anni ci si interroga e si dialoga sull’importanza dell’accountability, del “rendere conto”, della evidente (ma forse solo per alcuni) responsabilità da parte degli amministratori – specie coloro che che impiegano risorse finanziarie pubbliche – di rendicontarne l’uso, sia sul piano della regolarità dei conti sia su quello delle finalità e dell’efficacia della gestione. La letteratura scientifica a riguardo è corposa, mentre il principio della necessaria rendicontazione, illustrato in un’infinità di volumi e consolidato da numerose case-history, non è invece ancora stato interiorizzato da tutte le imprese e, con ancor maggiore evidenza, dalle istituzioni pubbliche italiane e dal mondo della politica. È responsabilità del Governo offrire ai cittadini un resoconto del proprio operato in modo chiaro, coerente, trasparente e facilmente interpretabile, e di trasmettere tali informazioni puntualmente ed efficacemente attraverso l’utilizzo di canali istituzionali dedicati: le istituzioni devono essere presenti e rispondere sollecitamente alle necessità informative, solo così – conclude Poma – si potrà instaurare un legame di reale fiducia tra istituzioni e cittadini. Sotto questi profili, la case-history di Borsa Italiana è ben lontana dal poter essere considerata una storia coerente con le prassi e i valori di riferimento.”

E a proposito della preziosa relazione tra cittadini e pubblica amministrazione, la Dott.ssa Giorgia Grandoni ricercatrice presso la start-up innovativa Reputation Management SRL, precisa: “Si tratta di qualcosa che ha a che fare con uno dei più semplici ed elementari tipi di ‘scambio’: offrire informazioni con chiarezza e trasparenza, in cambio di fiducia, e di quello che tra gli addetti ai lavori è definito good will, ovvero, la ‘licenza di operare’. Instaurare un dialogo pubblico alla luce del principio di accountability, direttamente tra cittadini e pubblica amministrazione, garantisce legittimità all’amministrazione pubblica e genera fiducia verso le istituzioni, cosa assai importante specie in un periodo storico delicatissimo come quello che viviamo oggi, nel quale si assiste alla crisi del sistema rappresentativo e a una generale sfiducia verso le istituzioni governative”.

Chiarezza, trasparenza, informazione diretta e completa, senso di responsabilità: parole chiave spesso purtroppo assenti dal panorama delle istituzioni pubbliche italiane, che in questa occasione mostrano una volta di più la corda, lontane anni luce rispetto a ciò che ogni cittadino italiano lecitamente si aspetta.




Prime considerazioni sulla piattaforma NBA. Modelli di comunicazione e processi di apprendimento.

Prime considerazioni sulla piattaforma NBA. Modelli di comunicazione e processi di apprendimento.

Sto seguendo con grande interesse sociale, politico, storico l’evolversi del concetto di platform che il mondo NBA sta sviluppando in queste settimane. Gli approcci analitici di cui sopra devono ancora attendere gli sviluppi, che stanno diventando anche concreti dopo le decisioni prese ieri, ma qualcosa si può già dire da un punto di vista comunicativo, soprattutto in relazione agli atleti, attori principali di quella che vuole diventare un’agenzia sociale influente (già per le elezioni presidenziali del 3 novembre).
I modelli comunicativi scelti dagli atleti sono essenzialmente tre.
Il primo è la keyword communication, ovvero il tentativo di passare messaggi attraverso parole chiave molto semplici da comprendere e contestualizzare. E da qui nascono le 29 keywords che si possono scegliere per le magliette, i badge, le spille, le frasi sui pannelli pubblicitari e tanto altro. Scelta perfetta in quanto la keyword communication, da sempre esistente nell’ecosfera della pubblicità e della propaganda, con il sistema di digital advertising imposto da google e con la logica di fruizione dei contenuti dei nuovi social media risponde pienamente al nostro attuale processo di ricezione-apprendimento-memoria, che richiama a sua volta la Fuzzy-trace theory. In pochissime parole la teoria dice che la cognizione avanzata umana e la relativa acquisizione di competenze vengono sempre più spesso dalle cosiddette gist representations, ovvero passaggi informativi intuitivi (come una delle scritte dietro la schiena degli atleti NBA), che sfocano il contesto e le interpretazioni possibili, ma riescono a far passare l’informazione principale e più importante.

Il secondo invece è la classica comunicazione del microfono aperto. Molti atleti utilizzano le interviste post-partita e i momenti in cui vengono intervistati dai pochi giornalisti presenti nel campus di Orlando per parlare dei temi sociali e politici. Anche in questo caso l’approccio è molto valido perché si passa dalle gist alle verbatim representations, che servono proprio a fissare soprattutto nella memoria a lungo termine le informazioni di base che hanno raggiunto l’audience con il primo modello. Servono ad eliminare quell’alone fuzzy che copre la foresta di parole chiave di cui siamo bombardati dagli schermi dei devices e quindi a mettere a fuoco i discorsi.

Infine, non potendo concretizzare in assemblee, cortei, comizi, adunate fisiche la discussione, perché chiusi nel campus di Orlando (quel FUCK THIS MAN!!!! di Lebron James su Twitter secondo me faceva riferimento anche alla clausura che frena per forza di cose i processi di discussione politica attivati con le parole. Come vediamo anche in Italia, è ancora molto importante la trasposizione fisica del leader tra la massa (non più piedinstallatto ma allo stesso livello, con il riverbero dei selfie, che servono da specchio e promessa, vabbé qui ci allunghiamo troppo), agli atleti non resta che far vibrare tutto attraverso i loro social media, ancora una volta veri e propri media agenti sull’opinione pubblica.

La strategia comunicativa dell’NBA è forte e centrata, soprattutto in una situazione di blocco della vita di relazione, ma c’è un piccolo appunto che spesso emerge. C’è un altro modello comunicativo forse ancora più forte degli altri tre che gli atleti NBA dovrebbero utilizzare di più, quello dell’esempio. Qui è semplice chiamare in causa lo psicologo canadese Albert Bandura e la teoria del modeling, secondo la quale non c’è apprendimento più significativo di quello che osserviamo nel comportamento di un altro individuo che funziona da modello. Attenzione, non parliamo di atleti da seguire come modelli di vita, per cui dovrebbero essere ligi, corretti, sempre educati, parliamo di modelli nel processo di apprendimento, in quanto quello che fanno gli atleti è fortemente significante per i temi in discussione, ovvero il razzismo e la violenza sociale. Attenzione di nuovo, non si è modelli in questo senso decidendo di devolvere tutto il proprio stipendio ad una fondazione benefica, parlo espressamente di modelli di comunicazione in un contesto nel quale sono gli atleti stessi a voler costruire un gigantesco modello di apprendimento che abbia un effetto sociale e politico (prima di tutto al voto di novembre).
Il “bitch-ass white boy” di Montrezl Harrell rivolto a Luka Doncic, lo scontro fisico a cui sono arrivati proprio Mavs e Clippers, la sfida di pura imposizione fisica fra Jimmy Butler e T.J. Warren o quella da playground fra Donovan Mitchell e Jamal Murray soprattutto in gara 1 sono dinamiche sempre esistite in NBA e nello sport americano in generale. Ma è proprio modificando queste dinamiche che si direbbe qualcosa di nuovo, modellando in maniera ancora più decisiva l’audience che segue. Mi rendo conto che si sta praticando uno sport ai massimi livelli possibili e per un traguardo che è un sogno per tutti, ma continuare a perpetuare con le azioni sul campo alcune leggi ormai classiche su cui si è fondata e si fonda la società statunitense non ha l’effetto shock che servirebbe per agire in profondità.

Officials separate the Dallas Mavericks and Los Angeles Clippers after the teams get into a scuffle during Game 1 of an NBA basketball first-round playoff series, Monday, Aug. 17, 2020, in Lake Buena Vista, Fla. (Kim Klement/Pool Photo via AP)

Per fortuna poi (da quel che si è capito anche grazie all’intervento di una finissima mente politica come quella di Obama) si è anche deciso di tornare a giocare. In estrema sintesi: esiste una piattaforma sportiva che agisce nella società senza l’azione sportiva?
Per me no. Giusto dare un segnale come quello dei Bucks e non solo, ma tornare a fare sport è necessario. Aggiungere la specificazione “di sport” accanto a “uomini” o “donne” non è una diminutio nella considerazione sociale. Anzi è solo nella dimostrazione assoluta del talento e della forza sportiva che gli atleti possono diventare modelli sociali da considerare. Picasso non si è rifiutato di dipingere “Guernica” per protestare contro i bombardamenti.