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Smart working o start hyping? Il lato oscuro del lavoro a distanza

Smart working o start hyping? Il lato oscuro del lavoro a distanza

Oggi avete usato la vostra stampante 3D? Avete ricevuto un pacco da un drone? Guidato (o almeno visto) un’auto che si guida da sola? O per lo meno full-electric? Usato, anche indirettamente, l’intelligenza artificiale o la blockchain? No? Eppure siamo nel 2020 e, a guardare articoli e dichiarazioni di qualche anno fa, a quest’ora queste tecnologie avrebbero dovuto far parte del nostro quotidiano.

Ogni anno ha la sua “buzzword”, la sua parola magica di cui tutti parlano e che sembra pregna di un futuro luminoso e prossimo. E quest’anno, complice il COVID, pare proprio che questa parola sia “smart working”. A sentire e leggere molti, pare che l’ufficio sia oramai cosa del passato, e che il futuro porterà inarrestabile il lavoro da casa; le sedi aziendali non esisteranno più, o al massimo ci staranno solo server e robot.

Chi si oppone a questa visione o anche solo cerca di ridimensionarla viene presto tacciato di essere un miope retrogrado o un vile guardiano di quell’ancien régime prossimo a essere spazzato via dalla inarrestabile innovazione del momento (la “cancel culture” esisteva anche prima di Black Lives Matter, e il “tech hype” è un suo regno storico). È successo – di nuovo – anche al sindaco di Milano Beppe Sala ieri.

Eppure non è la prima volta che ci si convince che il lavoro in ufficio è un arnese del passato. In almeno tre occasioni – dopo lo shock petrolifero del ’79 che quadruplicò i prezzi della benzina, negli anni ’90 quando le e-mail e gli scanner presero piede, e verso metà dei 2000 con la diffusione di Skype e similari – ci si convinse che oramai il lavoro da casa era l’inevitabile futuro, salvo poi tornare sui propri passi.

Anzi, a guardare solo a pochi mesi fa, la direzione certa del futuro sembrava esattamente opposta, con le imprese più in vista che facevano a gara per rosicchiare spazi e minuti al tempo libero e domestico; con le mense, i caffè, le palestre, i teatri e i ping pong in azienda.

La farsesca storia della “start-up” di sub-affitto immobiliare WeWork, ritenuta solo l’anno scorso un “unicorno” da 47 miliardi di dollari di valore e poi collassata e dimenticata in un batter d’occhio, è in proposito particolarmente significativa.

I pericoli di farsi prendere da questi trend sono principalmente due: concentrarsi molto sui benefici nel breve periodo, adottando troppo e troppo rapidamente processi e strumenti che poi non si sa governare o far crescere; e sviluppare una narrazione tossica ed escludente per chi è incapace o impossibilitato a beneficiare dell’innovazione del momento.

Ecco, questo c’è da dire anzitutto riguardo lo smart-working (o agile working, o tele-lavoro: non sono la stessa cosa ma ci siamo capiti): la maggioranza delle persone non lavora in un ufficio o con un computer, ma nella manifattura, nella logistica, nella cura, nella ristorazione, nel turismo… Tutti ambiti in cui la maggioranza dei lavoratori a distanza può fare ben poco, mentre non pochi di loro fanno affidamento proprio sulla presenza dei colleghi negli uffici per lavorare e per guadagnare.

Ma anche tra chi può – o potrebbe – operare in smart-working o in tele-lavoro, ci sono degli impedimenti “attitudinali”. Non tutti sono inclini a lavorare da soli e per obiettivi. C’è tanta gente che (per fortuna!) non ha molto di quello “spirito imprenditoriale” necessario per auto-gestirsi, ma – per esempio – ha metodo e attenzione per i dettagli, nonché bisogno di ricevere compiti e confrontarsi per lavorare bene.

E poi, infine, ci sono quelli per cui lavorare da casa diventa una specie di incubo, perché non hanno spazi o mezzi adeguati per farlo, o esigenze familiari o sanitarie che rendono il lavoro da casa molto complicato da gestire, o perché se non sono in ufficio con i colleghi e col capo che ogni tanto passa proprio non riescono a concentrarsi.

Fatta quindi l’abbondante tara sull’accessibilità dello strumento a breve termine, vi è poi da ragionare sulle implicazioni a lungo termine. Per esempio c’è il rischio che lo smart-working, invece di rapporto di delega e quindi di fiducia, diventi uno strumento di controllo pervasivo sui lavoratori. Non è difficile immaginare grandi aziende che sviluppino piattaforme software onnicomprensive in cui monitorare ogni momento il comportamento dei dipendenti, un po’ come fanno oggi molti siti con gli utenti.

Vi è poi anche il rischio di una massiccia perdita di capacità contrattuale politica e di rappresentanza da parte dei lavoratori. Oggi i sindacati sembrano piuttosto favorevoli al lavoro a distanza, ma come coltivare e far crescere il senso di comunità e di solidarietà tra lavoratori che nemmeno si incontrano nei corridoi o chiacchierano in mensa? Anzi, c’è il rischio che – come in parte accaduto con le e-mail – esso aumenti lo scarica-barile di compiti e responsabilità: d’altronde, è molto più facile appioppare colpe e incombenze a un indirizzo di posta che al collega che sta dall’altra parte della scrivania.

Ma anche i datori dovrebbero preoccuparsi. Ora, spaventati dai costi di sanificazione e dai rischi di nuove chiusure causa focolai, nonché irretiti dall’idea di poter risparmiare moltissimi costi fissi, spingono per il lavoro a distanza. Ma dovrebbero riflettere sul fatto che così rischiano di diventare sempre più dei semplici “datori di stipendio” invece che datori di lavoro, poiché saranno sempre meno quelli che detengono i mezzi di produzione e quindi il controllo sul proprio processo produttivo.

Anche perché la cultura aziendale – così giustamente ritenuta fondamentale e celebrata fino all’anno scorso – è molto difficile da coltivare con i lavoratori a casa: se io lavoratore mi gestisco da solo e uso i miei mezzi per mandarti, con i miei tempi e i miei modi, i risultati che mi chiedi, e per forza di cose sono sempre meno in grado di vedere il contributo che do nel processo, sei un cliente più che un datore di lavoro. E alla lunga non mi sento di fare per te più dello stretto necessario.

Tutto questo vuol dire che lo smart-working è solo una moda passeggera? Ovviamente no. Può portare benefici a molte persone e alla comunità, aumentando la flessibilità e la responsabilizzazione di moltissimi lavoratori, così come può ridurre sensibilmente inquinamento e sprechi. 

In generale, può essere una grande occasione per instaurare un nuovo clima di fiducia e un rapporto di forza più sano tra datori e lavoratori. Inoltre, in Italia potrebbe essere una straordinaria opportunità per favorire la fusione delle piccole e medie imprese nel management, quello sì in buona parte possibile a distanza.

Tanti possibili benefici, quindi. Ma, come abbiamo visto, anche tanti rischi. E il modo più facile di incorrere nei rischi invece di cogliere le opportunità è fare le cose di fretta, fuori scala e senza pensare alle implicazioni profonde, generando poi disillusione e conflitto. Non caschiamoci.

I grandi cambiamenti sono complessi e richiedono tempo, oltre che prove ed errori. E comunque non cambiano mai tutto per tutti. I rapporti con i colleghi, l’ambiente di lavoro sono per miliardi di persone fattori fondamentali di costruzione della propria identità sociale e anche personale. 

Siamo persone diverse in ambienti diversi: è uno dei principi chiave del nostro essere umani. E le persone, si sa, cambiano, ma molto, molto lentamente.  




AZIENDE PETROLIFERE: LA STAGIONE DELLE MENZOGNE NON FINISCE MAI

AZIENDE PETROLIFERE: LA STAGIONE DELLE MENZOGNE NON FINISCE MAI

Ci risiamo: nuova stagione, nuova campagna globale di pubbliche relazioni.

Nel decimo anno dalle vicende della piattaforma petrolifera Deepwater Horizon, il colosso mondiale dell’estrazione di petrolio BP – British Petroleum torna a guadagnare spazio sui mass-media con una raffinata operazione finalizzata a tentare di riconquistare la benevolenza dell’opinione pubblica.

Procediamo per passi, richiamando qualche dettaglio del disastro ambientale marittimo più tragico di tutti i tempi.

Il 22 aprile 2010, mentre la piattaforma stava completando la perforazione del pozzo Macondo al largo della Louisiana, nel Golfo del Messico, un’esplosione innescò un violentissimo incendio, che uccise all’istante 11 operai, causando diverse decine di feriti. L’incidente, da ciò che emerse dagli atti del processo, venne causato da evidenti negligenze da parte del personale incaricato della sorveglianza dell’impianto, nonché dalla mancata sostituzione di un pezzo meccanico usurato del valore di poche centinaia di migliaia di euro.

Tutti i tentativi di bloccare la fuoriuscita di “marea nera” fallirono, e lo sversamento di petrolio greggio in mare supero le 700.000 tonnellate: BP riuscì ad arginare il problema solo dopo 3 lunghi mesi. Co-responsabile del disastro, fu la multinazionale americana Halliburton, gruppo statunitense che opera in 120 paesi, specializzato nello sfruttamento dei giacimenti petroliferi, strettamente legato a Dick Cheney, ex vicepresidente degli Stati Uniti.

Gli effetti negativi sull’ambiente, sulla fauna e la flora marina, sono stati dichiarati “incalcolabili”. Ma anche per l’uomo vi sono – e vi saranno – conseguenze: intensificazione delle malattie respiratorie e delle patologie della pelle, e soprattutto aumento dell’incidenza di tumori e aumenti statistici degli aborti spontanei, a causa del petrolio e delle sostanze chimiche disperdenti rilasciate sul luogo del disastro, che contamineranno la popolazione locale nel breve e medio termine per via inalatoria e orale, soprattutto come conseguenza dell’accumulo degli idrocarburi nella catena alimentare.

Nel 2012, durante il processo, la BP raggiunse un accordo con il dipartimento di Giustizia statunitense per il pagamento di una penale di 4,5 miliardi di dollari, dichiarandosi colpevole di undici capi d’accusa, per negligenza e colpa grave. Il 2 luglio 2015, inoltre, gli Stati americani colpiti dal disastro hanno raggiunto un accordo con la BP riguardo ai danni ambientali provocati dall’incidente, a seguito del quale la BP dovrà risarcire circa 18,7 miliardi di dollari nell’arco di 18 anni.

Tra l’altro, alcune documentazioni video hanno confermato che alcune spiagge inquinate dal petrolio non erano state ripulite come promesso dalla BP durante i processi, bensì solamente ricoperte con sabbia pulita al fine di nascondere l’inquinamento. BP, infine, durante il procedimento giudiziario si è dichiarata colpevole del capo d’accusa di “ostruzione al Congresso”, a seguito delle evidenti reticenze di suoi alti dirigenti nel collaborare con trasparenza alle indagini. La Halliburton, infine, co-imputata con la BP, ha anche ammesso di aver “intenzionalmente distrutto delle prove chiave dopo il disastro”.

Come aziende del genere possano pretendere di restare sul mercato, incuranti del pregiudizio arrecato al rapporto di figucia con gli stakolder, resta per me un mistero.

Interessante ricordare come qualche anno prima del disastro, la BP modificò il proprio pay-off rinominandolo in “Beyond Petroleum”, ovvero “al di là del petrolio”, facendo anche un rebranding del suo famoso “scudo verde”, modificandolo nel simbolo dell’elio, una specie di margherita con dei raggi verdi e gialli, per enfatizzare il focus aziendale sull’ambiente e sulle fonti di energia rinnovabili.

La società, nel decennio tra il 2000 e il 2010, fu molto attiva sul fronte della responsabilità sociale, partecipando a diversi concorsi e venendo anche ben classificata in ranking internazionali importanti sul fronte ambientale. Per contro, il risultato delle varie commissioni d’inchiesta sul caso fu unanime: alla base del disastro, c’è stato il malfunzionamento di un sistema di sicurezza di un impianto del tutto inadeguato, malfunzionamento causato da una strategia di sistematica e miope riduzione dei costi.

Siamo quindi dinnanzi ad aziende “Giano bifronte”, che da un lato si danno pitturate di verde per apparire sostenibili agli occhi dei cittadini, nel tentativo, spesso fragile, di ridurre i rischi per il loro business, e dall’altro perseguono invece senza sosta business ben poco sostenibili per il futuro del pianeta, a volte pregiudicando la sopravvivenza di interi ecosistemi.

È appena utile ricordare ad azionisti e manager il fortissimo pregiudizio sul valore di borsa dell’azienda generato da questi comportamenti: è difficile farsi una ragione dell’arroganza e supponenza di un sistema industriale “a doppio binario”, che da un lato massimizza in modo sfacciato l’impatto pubblicitario delle proprie politiche “green” ed ecosostenibili, e dall’altro – contemporaneamente e schizofrenicamente – per risparmiare misere somme di denaro causa danni incalcolabili di lungo periodo all’ecosistema e all’uomo. 

Tornando all’attualità, sul sito della BP dedicato alla responsabilità sociale si legge tuttora che l’azienda “lavora per evitare, mitigare e minimizzare gli impatti ambientali in tutti gli scenari in cui opera”. Ebbene, approfondiamo come.

In un articolo per la London Review of Books, Meehan Crist, ricercatore in scienze biologiche alla Columbia University, racconta appunto della nuova campagna di relazioni pubbliche lanciata dalla BP a livello globale, lanciata al fine di mettere in risalto l’impegno del gruppo sul tema delle energie rinnovabili e per un “futuro più verde e pulito”. Lo sforzo pubblicitario di BP si inserisce nella più ampia azione di propaganda dell’American Petroleum Institute, che riunisce oltre 600 aziende nel settore del mondo degli idrocarburi, e che ha lanciato “Energy for Progress”, un imponente programma che ha come scopo – riporta Crist – “convincere l’opinione pubblica che l’industria dei combustibili fossili, dopo aver per decenni speso miliardi di dollari in azioni di lobbismo e disinformazione per disincentivare uno sforzo orientato alla tutela del clima, ora è un partner affidabile nella lotta al cambiamento climatico”.

Limitandosi all’apparenza, parrebbe che l’industria petroliferia stia investendo massicciamente un soluzioni green al fine di cambiare il proprio modello di business: non è così, se consideriamo, analizzando i bilanci pubblici della BP, che l’azienda – player di sicuro riferimento nel settore – investe nel comparto delle tecnologie rinnovabili appena il 3% dei propri investimenti in ricerca e sviluppo; ed è peraltro un’azienda apparentemente “virtuosa”, se consideriamo che dall’analisi pubblicata a gennaio dall’Agenzia Internazionale dell’Energia, la media del comparto di ferma a un misero 1%.

Il problema pare essere l’impossibilità di rendere “redditizi” questi progetti green. Non più tardi di 2 anni fa, l’allora CEO di BP Bob Dudley, dichiarò: “Se qualcuno ci dicesse, ecco 10 miliardi di dollari, investiteli nella produzione di energia verde, noi non siamo sicuri di poter riuscire a farlo”. L’interesse degli azionisti è centrale nella vecchia ed obsoleta filosofia “shareholder value”, ed è quindi ancor oggi l’ossessione dei top manager delle multinazionali che operano in settori maturi quali quello petrolifero. La Crist nel suo articolo afferma: “Se l’interesse degli azionisti, ovvero massimizazre il profitto, entra in conflitto con il bene comune, il profitto vince sempre. Il problema non è solo la BP, ma è strutturale: la BP è legalmente obbligata ad agire nell’interesse degli azionisti”

In questo, non sono d’accordo con la Crist, e con me buona parte del mondo accademico più attento agli sviluppi culturali – e anche giuridici e giurisprudenziali – nel settore della corporate social responsibility e del reputation management.

Le opportunità di una maggiore crescita di redditività e vantaggio competitivo derivanti dal inserimento di preoccupazioni sociali e ambientali come parte integrante della strategie di business di un’azienda, è confermato da una crescente mole di evidenze scientifiche, incluso il celebre lavoro di Robert G. Eccles, Ioannis Ioannou, and George Serafeim, del quale avevo parlato in un mio precedente articolo: fare bene, e fare del bene, acquisendo consapevolezza sul ruolo sociale delle industrie all’interno delle reti sociali, in poche parole fa guadagnare di più. Tanto che gli obblighi giuridici di redditività “a qualunque costo” verso gli azionisti, sottolineati da alcune sentenze in USA negli anni ’80 e ’90 del secolo scorso, sono stati poi rivisti e attenuati da sentenze successive, che hanno tenuto conto e inserito nei loro ragionamenti anche più ampi concetti quali quelli relativi alla stakeholder value, ovvero alla necessità di contemperare con equilibrio gli interessi di tutti i pubblici dell’azienda, e non solo degli azionisti, lavorando per la creazione di un reale valore condiviso tra tutti gli stakeholder.

Come sottolineato da Michael Porter, quando gli investitori ignorano le proprie responsabilità sociali e falliscono nel riconoscere la forte connessione che esiste tra la strategia aziendale, lo scopo sociale e il ritorno finanziario, “essi mettono implicitamente in discussione il ruolo del capitalismo come strumento utile per il progresso della società: in un particolare periodo storico nel quale l’ineguaglianza economica è aumentata e i bisogni sociali sono più evidenti che mai, ignorare la possibile sinergia tra il successo aziendale e il progresso sociale incoraggia le critiche e mette a rischio il futuro stesso del capitalismo”.

A ciò aggiungo che gli stessi grandi investitori – ad esempio l’enorme fondo di investimento Blackrock – richiamano all’ordine le aziende, chiedendo espressamente di farsi carico di queste preoccupazioni, pena il disimpegno dei fondi stessi dalla compagine azionaria.

Per non poche multinazionali, tuttavia, questa consapevolezza è ancora tutta da raggiungere. Vi è tuttavia un rilievo della Crist totalmente condivisibile: quello che pone l’attenzione sull’accusa degli ambientalisti, secondo i quali le aziende del settore petrolifero spendono milioni di dollari ogni anno per costose campagne di pubbliche relazioni finalizzate ad alterare la percezione che l’opinione pubblica ha del loro operato.

La ONG ClientHearth ha citato in giudizio proprio la BP, sostenendo che le sue campagne pubblicitarie e di propaganda siano una “cortina fumogena”: un vero e proprio bombardamento di messaggi finalizzati a convincere la cittadinanza che in combustibili fossili, in quanto necessari al progresso, sono in definitiva una cosa positiva.

Ad esempio, attraverso la diffusione di campagne atte a sensibilizzare il pubblico sull’importanza dell’impronta ecologica individuale, quasi a voler dire: “Siete voi che inquinate, con i vostri comportamenti quotidiani, non noi…”.

Ricordo a tal proposito una mia visita, un paio d’anni fa, al bellissimo Maritime Museum di Rotterdam, in Olanda, il museo del mare il cui percorso espositivo si conclude con una serie di laboratori didattici ed esperienziali proprio sui consumi individuali e familiari, e su come abbatterli: lodevole azione di sensibilizzazione, che avrebbe ancor più senso fosse promossa dalla locale Università, invece che finanziata dall’associazione olandese dei produttori di idrocarburi, della quale la BP è azienda di punta, e da varie aziende produttrici di infrastrutture petrolifere, come risulta se solo si ha la pazienza di scorrere l’elenco delle sponsorship.

Il confine tra la sensibilizzazione del cittadino su temi importanti e di sicuro interesse, e per contro il tentativo di spostare sugli utenti finali le responsbilità per le problematiche derivanti dal cambiamento climatico, è sottile e assai sdrucciolevole: è dal 2015 che la BP tenta di percorrere questa strada, con il supporto di importanti agenzie di pubbliche relazioni a livello globale, sgomitando per cercare di aumentare la propria “licenza di operare”, anche se le previsioni strategiche in tal senso paiono essere di molto precedenti.

È dalla fine degli anni ’90 che le aziende petrolifere immaginano strategie di questo tipo. In un report dal titolo “Scenari di gruppo 1998-2020”, la multinazionale petrolifera Shell immaginava infatti questo scenario: “In seguito agli sconvolgimenti climatici, una coalizione di ONG ambientaliste promuove un’azione legale collettiva contro il governo Statunitense e i produttori di idrocarburi, con l’accusa di aver ignorato quello che gli scienziati dicono da anni: che bisogna fare qualcosa. Si diffonde la reazione sociale all’uso dei combustibili fossili, e gli individui diventano vigilanti ambientali, proprio come una generazione prima erano diventati acerrimi nemici del tabacco. Aumentano le campagne di azione diretta contro le aziende, e i giovani consumatori, in particolare, esigono che si agisca”. Sempre secondo questo documento Shell, “la reputazione è la chiave del successo”: le compagnie petrolifere devono reagire al cambiamento climatico convincendo le persone che esse “stanno rendendo un mondo migliore, diffondendo il capitalismo di mercato e (…) plasmando le problematiche ambientali ovunque si trovino

Metodo assai curioso di porre al centro l’importanza – indiscutibile – della reputazione, rimuovendo in toto uno dei pilastri fondamentali del reputation management che è quello dell’autenticità: come scrive la giornalista esperta in temi ambientali Emily Atkin, “non solo sapevano degli enormi danni provocati dal loro modello di business alla vita sulla Terra, ma sapevano anche, da decenni, in che modo i danni causati dai loro prodotti potevano cambiare il panorama politico legale e culturale”. Non sono spaventati, avverte la Atkin: “Sono pronti”.

Mentre tutto ciò accade, qualcuno coraggiosamente tenta di resistere, non solo con proclami ma con gesti concreti: il celebre quotidiano britannico The Guardian, ha rinunciato ad ogni pubblicità pagata da compagne del mondo dei combustibili fossili.

Benvenuti nel decennio della propaganda 2.0: spregiudicata e alterante, come è sempre stata, ma oggi ancor più disorientante, perché sempre più “tinta di verde”, lupo omicida travestito, abilmente, da agnello amico dell’ambiente.

Bibliografia/sitografia

(selezione bibliografica a cura della Dott. sa Giorgia Grandoni):




Roger McNamee, ex mentore di Zuckerberg: ‘Facebook va boicottata, il suo business model è basato su complottismo, odio e disinformazione’

Roger McNamee, ex mentore di Zuckerberg: ‘Facebook va boicottata, il suo business model è basato su complottismo, odio e disinformazione’

Raggiungere Roger McNamee è particolarmente difficile in questi giorni. La California brucia, l’emergenza Covid non dà tregua e i media lo inseguono per dichiarazioni e interviste, ma questa non è una novità. Lo è invece il suo tentativo di esportare il boicottaggio contro Facebook, #StopHateForProfit, anche in Europa, per segnare un nuovo punto nella lotta al modello di business dei giganti della Silicon Valley.

Chiamatela eterogenesi dei fini: sono passati 14 anni da quando il 64enne che ama definirsi musicista e hippy, ma che è noto soprattutto per essere uno dei venture capitalist di maggior successo d’America, consigliò a un allora giovanissimo Mark Zuckerberg di non accettare l’assegno da 1 miliardo di dollari che Yahoo era pronta a pagare per Facebook. Il social network allora fatturava 20 milioni all’anno e l’offerta era francamente spropositata, ma McNamee aveva intuito le potenzialità dell’idea di Zuckerberg. Da allora, e per un decennio, i due sono stati quasi inseparabili. L’idillio, ha scritto McNamee nel libro Zucked (Penguin Random House), si è rotto quando si è accorto che qualcosa di strano stava succedendo sulla piattaforma, prima che le interferenze sulla Brexit e sull’elezione del presidente Donald Trump diventassero cosa nota.

Incapace di far cambiare idea a Zuckerberg sull’esigenza di trasparenza, l’ex mentore e azionista si è trasformato nell’arco di qualche anno in uno dei più fieri critici delle pratiche del suo ex pupillo, denunciandone comportamenti scorretti e frequentazioni poco consone, ultima quella col presidente Donald Trump.

La California è stata un gran posto per un sacco di tempo, ma non lo è più. Viviamo una situazione da pazzi per via di questo presidente e del suo governo. Persino l’incapacità di rispondere all’emergenza Covid ha a che vedere anche con Facebook: il social network ha dato risalto a quelli che dicono che le mascherine sono un fatto politico e non essenzialmente sanitario”, esordisce quando lo raggiungiamo al telefono, in un giorno di fine luglio che marca l’ennesimo record di contagi e le consuete politiche sul presidente. “Ma d’altronde abbiamo quello che ci meritiamo: siamo stati stupidi e arroganti. Potrebbe finire davvero male”.

Male come?

Penso che Zuckerberg e Trump abbiano un accordo: non si sono stretti la mano, ovviamente, ma è un patto implicito. Per un business come Facebook o Google, per chi fornisce prodotti e servizi onnipresenti e utilizzati da tutti, è essenziale rimanere allineati col potere, a costo di passare qualche guaio pubblico. L’allineamento passa per la scelte di specifiche persone. Facebook ha assunto un signore che si chiama Joe Kaplan e lo ha messo a capo della divisione operativa di Washington. Kaplan è un uomo di estrema destra: è stato assunto per fare lobbying sul partito repubblicano ma la verità è che sono stati i repubblicani a utilizzarlo per fare lobbying su Facebook.

Cosa è successo?

Kaplan ha consentito a Facebook di avere entrature eccezionali nel governo, perché il suo migliore amico è Brett Kavanaugh, nominato giudice della Corte Suprema proprio da Trump. Durante l’udienza di conferma della nomina, Kaplan e la moglie erano seduti subito dietro Kavanaugh, come dire che l’uomo non ha alcuna timidezza nel manifestare la sua vicinanza. Infatti, man mano che il comportamento di Trump diventava più allarmante, Facebook adottava policy esplicitamente a suo favore. Gli altri big lo fanno in modo meno palese: YouTube o Twitter danno grande spazio alle teorie dell’estrema destra, ma cercano di essere meno spudorati. Facebook no. E poi, come scoperto dai giornali, Zuckerberg ha avuto, almeno due conversazioni private con il presidente…

Siamo più chiari: quale sarebbe il supporto “esplicito?”

Ecco un esempio. L’estate scorsa Judd Legum, un reporter di Popular Information,  ha scoperto che il comitato per la rielezione di Trump stava facendo circolare su Fb pubblicità che sono illegali stando alla legge americana. Era una specie di concorso: “Puoi vincere una cena col presidente ma solo se rispondi entro la mezzanotte di stasera”. L’annuncio è rimasto visibile per 30 giorni consecutivi: la storia del rispondere entro mezzanotte era quindi decisamente falsa. Non solo: Legum non è riuscito a trovare un solo vincitore del contest. L’unica ragione per farlo era accumulare dati personali.

In Italia, due anni fa, è stato fatto qualcosa di molto simile: il VinciSalvini…

Ma i “Terms of service” di Facebook, le regole interne, vietano espressamente pubblicità che mentano. Però sapete cos’ha fatto Facebook in questa occasione? Non ha vietato le pubblicità, ma ha cambiato le regole… Questo è il patto implicito tra Trump e Zuckerberg: nessun altro ha fatto qualcosa del genere.

Ci faccia un altro esempio.

Qualche giorno fa Trump ha scritto un post in cui diceva che il voto per posta [che è una delle modalità ammesse dalla legge americana, ndr] significa frode. Facebook ha messo un appunto sotto al testo che dice: “Questo post contiene informazioni riguardo il voto”! A voler essere maligni, lo si può prendere come un endorsement della strampalata teoria del presidente.

La domanda ovvia è perché: qual è l’interesse di Zuckerberg, specie considerato che Trump potrebbe anche non essere rieletto?

In America abbiamo un detto: If it bleeds, it leads. Significa essenzialmente che le cose più truculente, o che fanno arrabbiare, sono quelle che funzionano meglio. Ecco, questo vale nel giornalismo, ma anche per i social network: devi far “scaldare” la gente. Gli algoritmi privilegiano i contenuti che fanno scaldare gli utenti e si sa ormai che questi sono l’hate speech, la disinformazione e le teorie cospirative. Con questi temi si scatenano dibattiti e “lotte” virtuali.

Qual è il punto?

Che dibattiti, commenti, lotte virtuali – quello che nel marketing si chiama engagement – trascinano i ricavi, perché catturano l’attenzione. Il modello di business delle piattaforme, a partire da Facebook, si basa su questo tipo di contenuti. Per questo nonostante le protesta pubblica contro certe voci, i big della Valley decidono sempre di ignorarla fino all’ultimo.  E quando saranno costretti a dare retta ai critici, cercheranno di farlo con il minimo danno possibile per se stessi: potranno silenziare una persona, ma lasceranno spazio a decine di altri propagatori di odio o di teorie cospirative.

D’altronde, dare a Zuckerberg il diritto di decidere chi può dire cosa è pericoloso.

Il problema non è che qualcuno scriva un post: il primo emendamento consente a tutti la libertà d’espressione. Il punto è che quel contenuto divisivo viene amplificato intenzionalmente dall’algoritmo, anche se sappiamo che può avere conseguenze pericolose. Le teorie cospirative, l’odio e la disinformazione sono una componente essenziale del business model di Facebook. Questo è il motivo per cui il legislatore dovrebbe chiedersi se è giusto che queste aziende continuino a esistere così come sono oggi.

Pensa che la politica ci stia riflettendo seriamente?

Dobbiamo sperarlo. Nessuno ha la palla di cristallo, ma nell’ultimo mese è successo qualcosa di grosso. In America stiamo vivendo una tragedia legata al coronavirus, visto che siamo stati i peggiori al mondo a gestire la situazione, il che produrrà anche una crisi economica di proporzioni bibliche. In contemporanea, la brutalità della polizia nell’omicidio di George Floyd ha scatenato una risposta inedita: oggi il 77% delle persone crede davvero che Black Lives Matter, che le vite dei neri contino. Non era mai successo qualcosa del genere, in 40 anni: per la prima volta la gente inizia a pensare che il modo in cui questo Paese ha funzionato non è corretto e che va riformato, in molti aspetti, dal mercato alla polizia.

In Europa nel frattempo hanno fatto molta notizia il boicottaggio lanciato contro Facebook e la protesta dei dipendenti contro il loro capo.

Capiamoci, la protesta è stata molto piccola. Ma è stata comunque una prima volta: nessuno aveva mai manifestato apertamente per i fatti legati alla Brexit, per le interferenze russe, persino per quello successo in Birmania, tutte cose in cui Facebook ha avuto un ruolo.

Lei è stato estremamente vicino a Zuckerberg, ed è in parte responsabile della sua fortuna. Non si era accorto prima dei “difetti”, chiamiamoli così, del suo ex pupillo?

Non ho mai detto e non penso che Zuckerberg sia un uomo orribile. Ma ho deciso di essere un attivista, cioè di cercare di mostrare alle persone quello che davvero sta succedendo dentro a Facebook.. Voglio scatenare quella discussione pubblica che le aziende della Silicon Valley proprio non vogliono. Finora hanno vinto loro. In America l’impostazione dominante è che la moralità non conta, quando si parla di affari. È vero in qualsiasi settore, ed è stato così per decenni, ma il settore in cui operano Facebook o Google ha più impatto di qualsiasi altro. È necessario che inizino a essere responsabili verso i loro lavoratori, verso la nazione, verso la società tutta.

Il boicottaggio come sta andando? Zuckerberg sembra piuttosto tranquillo.

Abbiamo avuto più di 1.000 aziende aderenti. La novità è che ci stiamo preparando a lanciarlo anche in Gran Bretagna, come testa di ponte per l’Europa. Gli investitori sono quelli che fanno i ricavi di Facebook: dovrebbero mobilitarsi anche in Italia, senza aspettare che siamo noi da qui a organizzarlo. 

Se non fosse che Facebook e Instagram sono gli strumenti migliori per decine di migliaia di piccole imprese, in Italia.

È verissimo che Zuckerberg ha la piattaforma per la pubblicità migliore al mondo, ed è vero che è un monopolio: per questo dovrebbe essere regolamentato. Credo che in Europa – dove siete stati più attenti e capaci di intervenire che nel resto del mondo – qualcuno si aspetti una soluzione globale ai problemi di Facebook. Io credo invece che voi abbiate maggiore consapevolezza di noi, e che dopo la Brexit dovreste proibire quantomeno le pubblicità di tipo politico. Almeno finché le cose non cambieranno. 




Osservatorio Immagino: la CSR nel carrello della spesa vale 3,8 miliardi di euro

Osservatorio Immagino: la CSR nel carrello della spesa vale 3,8 miliardi di euro

Avere comportamenti etici e comunicarli ai consumatori si conferma una strategia vincente per le aziende del largo consumo. Loghi, “bollini” e claim che certificano l’origine delle materie prime, le modalità produttive, il rispetto dell’ambiente e dei lavoratori sono percepiti come rassicuranti dagli shopper e i marchi che ne hanno fatto uso hanno ottenuto maggiore spazio sugli scaffali della grande distribuzione.
Lo rileva la settima edizione dell’Osservatorio Immagino di GS1 Italy, realizzato in collaborazione con Nielsen, che ha preso in esame un paniere di 111.639 prodotti di largo consumo che sviluppano l’82% del fatturato italiano di ipermercati e supermercati.

Italianità

L’immagine rassicurante più diffusa sulle confezioni è la bandiera del paese d’origine (prevalentemente quella italiana): si trova sul 13,4% dei prodotti del paniere Immagino (+0,5% rispetto al 2018), e pesano il 14,6% del giro di affari complessivo che è pari a 36 miliardi di euro. Le vendite hanno riguardato principalmente affettati, pasta di semola, surgelati, sughi, detersivi per stoviglie e preparati avicunicoli.

Fonte: Osservatorio Immagino Nielsen GS1 Italy, ed. 1, 2020

Responsabilità sociale

Un ruolo importante lo svolgono anche le certificazioni legate alla Corporate social responsibility (CSR) presenti sul 7,4% dei prodotti che costituiscono il 10,6% delle vendite (3,8 miliardi di euro).

In particolare, l’Osservatorio Immagino ha individuato otto certificazioni dell’area CRS. Le più rilevanti per giro d’affari sono FSC (Forest Stewardship Council), che ha sviluppato il maggior incremento delle vendite (+1,0% annuo), Sustainable cleaning (+0,4%), relativa alla detergenza, e Friend of the sea (+0,3%), riferito ai prodotti ittici ottenuti in modo sostenibile.

Nei 12 mesi analizzati hanno aumentato la loro presenza sui prodotti le certificazioni Ecocert (+19,6% delle vendite) che certifica l’origine naturale o biologica delle materie prime impiegate in alimenti, cosmetici, detersivi e tessuti; UTZ (+16,2%), che garantisce la produzione sostenibile di the, caffè e cioccolato; Fairtrade (+8,5%), che garantisce il rispetto di migliori condizioni dei lavoratori nei paesi in via di sviluppo, ed Ecolabel (+4,4%) che attesta il ridotto impatto ambientale delle aziende che hanno ottenuto l’utilizzo del logo. Al contrario i prodotti presentati in etichetta come Cruelty free (esenti da test sugli animali) hanno accusato una flessione delle vendite di -3,4%, principalmente per la riduzione dell’offerta nei cibi per cani, nelle salviette per bimbi, nei dopo shampoo, nelle creme trattamento corpo e nei prodotti per la pulizia del viso.

Marchi europei

Si allarga l’offerta di prodotti biologici provenienti dall’Unione europea, riconoscibili dal logo EU Organic che arriva al 6,8% del paniere dell’Osservatorio Immagino, in particolare formaggio grana, uova, panificati senza glutine, surgelati vegetali e frutta secca sgusciata. Si registra però un rallentamento della crescita del valore delle vendite (+2,1% annuo rispetto a +6,2% del 2018 sul 2017).

Il marchio CE è invece presente solo sul 2,1% dei prodotti del largo consumo con un’incidenza dell’1,6% del valore delle vendite. Rispetto al 2018 l’offerta di beni dotati di questo riconoscimento è salita di +4,9% ed è aumentato il giro d’affari soprattutto di uova di Pasqua, dentifrici e prodotti per incontinenti.




Coca-Cola Hbc Italia punta sull’ecodesign, no a limiti su uso plastica riciclata

Coca-Cola Hbc Italia punta sull'ecodesign, no a limiti su uso plastica riciclata

Eco-design, ovvero la progettazione di imballaggi con un impiego sempre più efficiente dei materiali di cui sono composti: Coca-Cola Hbc Italia ci crede e infatti bottiglie e lattine, già da sempre al 100% riciclabili, hanno visto ridursi le quantità di plastica, vetro ed alluminio necessarie per produrle rispettivamente del 20%, 25% e 15%. E’ una delle azioni del principale imbottigliatore e distributore dei prodotti a marchio The Coca-Cola Company in Italia, raccontate nel 16esimo Rapporto di Sostenibilità “Siamo di casa”, pubblicato oggi. Un documento che certifica i risultati dell’azienda in tutte le aree del business, dal rapporto con le comunità locali all’ambiente, dalla presenza sul mercato al benessere delle circa 2.000 persone che lavorano tra gli uffici, i cinque stabilimenti e nella forza vendita.

Particolare attenzione alle sfide ambientali, dove gli investimenti dell’azienda vanno nell’ottica di un continuo miglioramento sia nelle diverse fasi del processo produttivo. “La sfida alla sostenibilità ci vede in prima linea proprio in virtù del rispetto verso i territori in cui operiamo. L’ecodesign rappresenta una frontiera importante su cui vogliamo continuare a investire per progettare ed è per questo che ci auspichiamo che il Parlamento e il Governo decidano di rimuovere il limite massimo all’uso di plastica riciclata al 50%, presente solo in Italia, così da permetterci di essere ancora più sostenibili e portare a reale compimento il concetto di economia circolare”, dichiara Vitaliy Novikov, amministratore delegato di Coca-Cola Hbc Italia.

Il decreto del 20 settembre 2013, n.134, infatti, impedisce alle imprese del settore di utilizzare plastica riciclata per più del 50%, limite che – fa sapere Coca-Cola Hbc Italia – impedisce quanto avviene già negli altri Paesi Europei dove la plastica utilizzata nelle bottiglie non è solo riciclabile ma anche riciclata, un freno a investimenti in sostenibilità e un limite ai principi di economia circolare a cui si ispirano le direttive Europee in tema di plastica monouso.

Anche per quanto riguarda i processi industriali, l’azienda pone la sostenibilità al centro, sia che si tratti della fase di produzione delle bevande, in cui viene utilizzata energia elettrica proveniente al 100% da fonti rinnovabili, sia che si tratti della logistica, dove il miglioramento dei flussi ha permesso un risparmio di oltre 1.400 tonnellate di CO2 solo nel corso dell’ultimo anno, o della presenza sul mercato dove l’introduzione di frigovetrine eco-friendly ad alta efficienza energetica hanno permesso di risparmiare oltre 3.700 tonnellate di CO2 nel 2019.

Il Rapporto di Sostenibilità, redatto e certificato secondo i parametri di rendicontazione internazionale più avanzati del GRI Standards, è disponibile integralmente sul sito www.lanostraricetta.it.