Luca Poma, Giorgia Grandoni e Alessio Garzina Crash Reputation
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Luca Poma, Giorgia Grandoni e Alessio Garzina Crash Reputation 50 + 1 casi di crisi reputazionali con contributi di Nicola Menardo e Alberto Pirni, pp. 236, € 18, Engage, Bologna 2024
Lo dimostrano i molti studi recenti sulla reputazione, fiorenti anche a livello accademico a partire da quelli della filosofa Gloria Origgi: in un mondo iperconnesso in cui i confini tra pubblico e privato sembrano sempre più sfumarsi, la salvaguardia della propria reputazione individuale e d’impresa è un fatto di sempre maggiore attualità. Il volume curato da Luca Poma, Giorgia Grandoni e Alessio Garzina non ignora nessun aspetto della questione, aprendosi con tre testi dal carattere teorico ma presentando poi, come da sottotitolo, un corposo schedario di casi reali.
La Prefazione firmata dall’avvocato Nicola Menardo, partner di Grande Stevens Studio Legale e docente di diritto penale, inquadra anzitutto i rischi derivanti da qualsivoglia “processo mediatico” per chi non sia attrezzato a difendere la propria corporate reputation o brand reputation. Il saggio introduttivo di Alberto Pirni, che insegna etica ed economia presso la Scuola superiore Sant’Anna di studi universitari e di perfezionamento di Pisa, ripercorre la storia del concetto e mette in luce – sviscerandoli con acume – i significati molteplici che concorrono a definirlo e le implicanze che ne derivano.
Infatti, per tutte le organizzazioni, personalità o istituzioni pubbliche proteggere il valore intangibile della propria reputazione è qualcosa di ben più importante che curare la propria “immagine” perché tale valore è tanto immateriale quanto concreto in termini patrimoniali: i tre curatori definiscono infatti la reputazione come “il corretto allineamento tra identità e immagine”, proprio quello che va in crisi rischiando di compromettere l’avvenire di un marchio aziendale nel suo complesso, o la credibilità di un singolo professionista o influencer, quando si palesa lo sforzo di essere percepiti in modo diverso (migliore) da come si è realmente.
Chiarite tali dinamiche, il volume si propone come una guida pratica, con schede di agile consultazione (una delle quali sarebbe stata composta da ChatGPT e chi legge viene sfidato a riconoscerla!) a illustrare altrettante case history autentiche. Ogni scheda è composta da brevi paragrafi intitolati Sintesi dell’accaduto, Gestione della crisi, Cosa non è andato bene, Cosa si sarebbe potuto fare meglio: si va dalla Costa Crociere alle prese con il naufragio della Concordia al “dieselgate” della Volkswagen, dalle performance imperfette della piattaforma di streaming DAZN al “pandorogate” di Chiara Ferragni, alle défaillance di marchi quali Nike o Ryanair; ma anche dalla gestione della pandemia da covid19 del governo italiano alle critiche suscitate dalla campagna del Ministero del Turismo “Open to Meraviglia”. Ognuna di queste crisi di comunicazione, talvolta deflagrate in scandali veri e propri, può essere istruttiva al fine di riconoscere un campanello d’allarme e quindi riuscire a prevenire le crisi reputazionali o almeno gestirle nel modo migliore possibile. Inoltre, diversi casi mostrano come una reazione pronta e una strategia di comunicazione efficace possano consentire di trasformare un momento di difficoltà in una opportunità, persino in una crescita reputazionale. Tra gli esempi di quest’ultimo genere si segnala l’episodio di una possibile contaminazione del prodotto Nesquik, che Nestlé nel 2012 seppe gestire in modo ben coordinato a livello internazionale.
Crash reputation è dunque una lettura particolarmente indicata per addetti ai lavori ma fruibile da chiunque e arricchita da tre ore di contenuti video extra, a cura della società di formazione imprenditoriale Open Source Management, che si raggiungono grazie ai qr code stampati tra le pagine del libro.
Crisi di reputazione: è ora di ridisegnare il perimetro del rischio?
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La lettura del bel volume dell’amico e collega Daniele Chieffi, dal titolo Crisi reputazionali ai tempi dell’Infosfera, lettura che consiglio a chiunque voglia aggiornare le proprie conoscenze in tema di Crisis communication in particolare negli ecosistemi digitali, mi ha stimolato – tra le tante – una riflessione che ho urgenza di condividere, oltre a convincermi – finalmente, ed era ora! – che può esistere qualche elemento di distonia tra i punti di vista miei e di Daniele, nella prassi sempre così sorprendentemente allineati.
Battute a parte, partiamo dalla lettura di alcune affermazioni contenute nel libro, parti del modello di risposta alle crisi reputazionali proposto da Daniele (i grassetti sono miei):
“La crisi non è ciò che è, ma è ciò che sembra essere agli stakeholder e all’audience, e per affrontarla è necessario agire sulla percezione del fatto e non sul fatto in sé (…) Viene abbandonata la visione meccanicistica della crisi come relazione causa-effetto, e si ribalta la prospettiva: non è il fatto in sé a innescare la crisi, bensì la percezione che gli stakeholder hanno di quel fatto (…)”
Daniele – con il quale per primo ho condiviso il senso di queste mie riflessioni prima di pubblicarle, dibattendone con lui appassionatamente quanto rispettosamente, confronto che è parte di un processo di crescita continua che dovrebbe essere una delle cifre della nostra professione – riprende a più riprese questo concetto nel suo volume, supportandolo anche con ricchi e puntuali riferimenti bibliografici, incluso peraltro, e di questo l’ho ringraziato, il corposo volume sulla Crisis communication edito da Il Sole 24 Ore – a firma mia e del fraterno amico Piero Vecchiato – nell’ormai lontanissimo fine 2011, ed entrato nelle librerie – circostanza singolare ma del tutto casuale – proprio nei giorni del naufragio della Costa Concordia.
Come non essere d’accordo? La percezione è l’ingrediente principale del “piatto”: un incidente, una vicenda giudiziaria, una breccia informatica, un furto di proprietà intellettuale, saranno tanto più gravi tanto più la pubblica narrazione si impadronirà di loro, tracimando magari oltre i mass-media convenzionali e attivando e animando – terrore di ogni CCO e di ogni Crisis manager – gli ecosistemi digitali e le conversazioni online, che si svilupperanno attorno a quel fatto fino a condizionare i giudizi valoriali che gli stakeholder daranno su quanto accaduto, dando così un contribuito esiziale, nel peggiore dei casi, alla distruzione di valore per il brand.
Tuttavia, a mio avviso, in quest’epoca sempre più – per citare Zygmunt Bauman – incerta e liquida, è arrivata l’ora di riflettere sul concetto stesso di crisi reputazionale, sul tema del rischio, sulle sopracitate dinamiche legate alla percezione dei fatti, e sulla nozione di non conformità, a mio avviso strettissimamente correlata alle crisi, anche – perché no – con lo scopo di ridisegnare in parte alcuni fondamentali della materia e della professione.
Occorre però fare una breve premessa. Il lavoro portato avanti negli ultimi anni dal valido team aggregatosi nei corridoi e nelle aule dell’Università LUMSA di Roma, dove dal 2016 si tiene il primo corso verticale in Reputation management in Italia, ben illustrato in un volume scritto a quattro mani nel 2021 con la talentuosa Giorgia Grandoni, ha generato – incrociando e analizzando i dati di letteratura e l’attività professionale di un ventennio – un tool predittivo dei rischi reputazionali eccezionalmente efficace: un vero e proprio assessment in grado di individuare eventuali non conformità aziendali, identificare in anticipo possibili scenari di crisi, e suggerire le opportune raccomandazioni correttive. Le prime somministrazioni di questo strumento, delle quali si sono giovate alcune imprese di medie dimensioni italiane, hanno confermato un’intuizione che ritengo preziosa e quanto mai pertinente a questo nostro ragionamento, ovvero che l’approccio al management della crisi non può che essere multistakolder anche del tutto a prescindere dalla eventuale eco che la crisi stessa è in grado di generare, o ha già generato, nell’infosfera.
Anticipo qualche collega, che certamente – e non del tutto a torto – obietterà: se manca la pubblica deflagrazione della crisi, la chiara evidenza della stessa, e il conseguente impatto sui mass-media convenzionali e/o digitali, siamo ancora nell’ambito del rischio, e non della crisi vera e propria.
No, permettetemi di dissentire, e, brevemente, di argomentare: l’urgenza di ridisegnare il confine del nostro sguardo quando parliamo di crisi reputazionali è ormai irrinunciabile, e non solo perché l’approccio figlio della logica Aristotelica (“o è crisi, o non è crisi, e se non ha impatto sulla percezione degli stakeholder, non è crisi…”) è ormai del tutto inadeguato a descrivere la complessità nella quale siamo, obtorto collo, quotidianamente immersi, ma anche e soprattutto perché è estremamente miope l’occhio dello specialista medico che guarda solo all’organo di sua competenza (rectius, del comunicatore che misura l’impatto della crisi dall’effetto che essa genera su una sola audience, la pubblica opinione): perché, molto semplicemente, non è quello l’unico stakeholder il cui stato di salute della relazione è da presidiare e tutelare per costruire buona reputazione.
Qualche esempio concreto vissuto in casi che ho trattato nel recente passato, per ragioni professionali o accademiche: è crisi anche se non è deflagrata pubblicamente quella dell’agenzia di consulenza all’interno della quale i dipendenti vivono un clima tossico e contraddistinto da violenze sessuali o psicologiche, in quanto trattasi di non conformità resa evidente dal più banale degli assessment reputazionali anche senza che lo scenario abbia ancora generato conversazioni online; come anche è crisi, pur senza essere stata portata alla pubblica evidenza, la ripetuta violazione degli standard della Legge 231 da parte dell’organizzazione stessa; o, ancora, la pressione eccessiva e soffocante sui collaboratori a fini di performance che porta i migliori talenti a fuggire altrove, ed è crisi anche se nessun giornalista se ne è ancora interessato.
Torniamo allora, dicevo, ai fondamentali, a quella definizione che demmo nel 2011:
“Crisi è quell’evento inaspettato che, se non adeguatamente governato, può generare pregiudizio ai rapporti con uno o più stakeholder o alla business continuity”.
Ebbene, ogni non conformità acclarata genera de facto pregiudizio alla business continuity, perché lacera il clima interno e nuoce alla produttività, perché aumenta il distacco dalla concorrenza, perché contribuisce a far chiudere l’organizzazione in se stessa vittima di una coazione a ripetere un errore, perché le impedisce di attrarre i migliori talenti, o perché riduce l’interesse per l’impresa da parte di nuovi investitori: queste non sono forse lesioni alla continuità del business, in grado di limitare la licenza di operare dell’organizzazione? Se si, sono crisi, e non solo rischio, anche se non hanno ancora generato rumore online o sui mass-media tradizionali.
Di qui, la necessità di mappare non solo i rischi potenziali, al fine di mitigarli, ma tutte le eventuali non conformità già esistenti, che a mio avviso rientrano nel perimetro di crisi – riadattandone la definizione, ovvero meglio valorizzandone quella originale – pur non avendo pubblica evidenza, come un tumore non ancora diagnosticato che però già sta erodendo l’organismo dall’interno, quindi ne sta danneggiando l’operatività tangibilmente.
“Viviamo in un delicato equilibrio dinamico sull’orlo del caos”, disse nel 1990 Chris Langton, del Santa Fe Institute, principale centro al mondo di studio delle scienze della complessità. Il caos, in fondo, è la zona intermedia tra ordine e disordine, ed è lo stato abituale di qualunque elemento presente in natura, come ha giustamente ricordato in una bella TEDx di dicembre 2024 il professor Alberto Felice De Toni, ingegnere economico gestionale ed ex Magnifico Rettore dell’Università di Udine: “troppo ordine genera morte per fossilizzazione, e troppo disordine è morte per disintegrazione. Dobbiamo imparare a surfare proprio all’orlo del caos”. È necessario quindi interrogarci sull’ipotesi che i contorni di ciò che è crisi e ciò che non lo è possano essere molto più sfumati di quanto le nostre rigide menti cartesiane possano aver percepito fino ad oggi.
E su questi temi, in prospettiva, lo straordinario Lofti Zadeth – come sostengo da anni – aveva già detto tutto, a Berkeley, con la sua eccezionale folgorazione sulla logica fuzzy a insiemi sfumati, o a infiniti valori di verità, ben illustrata nel suo lavoro Fuzzy Sets.
Era il 1965, esattamente 50 anni fa: a distanza di mezzo secolo, l’urgenza di riscoprire questo approccio, questo mindset, è massima, se vogliamo attrezzarci in modo efficace per affrontare le nuove impegnative sfide che ci attendono.
Zadeth, L; Fuzzy sets, Information & Control, Volume 8, Issue 3, June 1965
INCHIESTA EL PAIS SU GENIUS: IL NOSTRO FACT CHEKING
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La “multinazionale tascabile” dell’apprendimento Genius, con 53 sedi in 6 nazioni, continua ad essere vittima di una campagna di diffamazione e di fake news che – attraverso decontestualizzazione di fatti veri, ricostruzioni malevole e accostamenti maliziosi – dipinge in modo distorto la realtà aziendale fino a colpire nel vivo il valore del brand, tentando di pregiudicarne la reputazione.
Inaspettatamente, il primo quotidiano spagnolo, El Pais, ha pubblicato un articolo sull’azienda – che gli avvocati specializzati ritengono diffamatorio – e che abbiamo sottoposto a un intenso fact-cheking, per verificarne la correttezza e completezza del contenuto, la genuinità delle fonti e il rispetto al diritto al contraddittorio. Nel video linkato qui sotto, contenente un’intervista al nostro direttore editoriale, potrete apprezzare il risultato del nostro lavoro…
Il contenuto dell’intervista è fruibile anche in versione solo Audio:
Chi desidera conoscere nel dettaglio il più ampio contesto nel quale si è sviluppata questa campagna diffamatoria di fake news, può anche leggere questa nostra inchiesta pubblicata la scorsa estate.
Chi volesse invece approfondire il profilo della persona all’origine di questa campagna di blackPR, ai danni di questa azienda e non solo, può acquistare su Amazon questa pubblicazione, redatta da un collega giornalista d’inchiesta indipendente.
Tutti i contenuti sono disponibili anche in lingua spagnola (Castilliano) su questa pagina.
INVESTIGACIÓN DE EL PAÍS SOBRE CURSO GENIO: NUESTRA VERIFICACIÓN DE HECHOS
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La “multinacional de bolsillo” de la formación Genius, con 53 oficinas en 6 países, sigue siendo víctima de una campaña de difamación y de fake news que – mediante la descontextualización de hechos verídicos, reconstrucciones maliciosas y yuxtaposiciones traviesas – distorsiona la realidad corporativa hasta el punto de golpear el corazón del valor de la marca, comprometiendo su reputación.
Inesperadamente, el principal diario español, El País, publicó un artículo sobre la empresa -que los abogados especializados consideran difamatorio – y que sometimos a una intensa verificación de datos, para verificar la exactitud e integridad del contenido, la autenticidad de las fuentes y el respeto. por el derecho a ser escuchado. En este vídeo, que contiene una entrevista a nuestro director editorial, podéis apreciar el resultado de nuestro trabajo…
El contenido también se puede utilizar en la versión de solo audio:
Y también podéis descargar la transcripción de la entrevista en formato PDF en este enlace.
Se desean conocer en detalle el contexto más amplio en el que se desarrolló esta campaña difamatoria de noticias falsas también pueden leer esta investigación nuestra publicada el verano pasado (articulo traducido en castillano).
Cualquiera que desee profundizar en el perfil de la persona detrás de esta campaña de blackPR, en detrimento de esta empresa y más allá, puede adquirir esta publicación en Amazon, escrita por un colega periodista de investigación independiente (Actualmente sólo está disponible en italiano).
La versión italiana de todos los contenidos está disponible en esta página.
Turismo e web marketing: i fondamentali per hotel e strutture turistiche
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Il settore turistico è uno dei più dinamici e competitivi al mondo, mentre il web marketing è ormai diventato una componente essenziale per il successo di hotel e strutture ricettive. In Italia, il turismo rappresenta una parte rilevante dell’economia, ma le sfide legate alla digitalizzazione e all’evoluzione delle abitudini dei viaggiatori richiedono strategie sempre più al passo con i tempi.
Dopotutto gli investimenti nel marketing digitale sono in continua crescita; essi riflettono l’importanza dell’uso delle piattaforme online, dei canali social e dei motori di ricerca per attrarre e fidelizzare clienti.
Allo stesso tempo, la personalizzazionedell’esperienza utente e i temi della sostenibilità stanno trasformando il panorama del turismo, spingendolo a ripensare gli approcci. In questo clima dinamico, ci sono varie web-agency per hotel che aiutano piccole e grandi organizzazioni turistiche a farsi notare e a competere ad alti livelli.
L’importanza della digitalizzazione nel turismo
Il mercato dei viaggi online, secondo una ricerca di Statista, è in forte espansione, con una crescita prevista entro il 2025 del 93% rispetto al 2020, portando il valore globale a circa 830 miliardi di dollari. Questo trend evidenzia come la maggior parte dei viaggiatori utilizzi piattaforme digitali per cercare, confrontare e prenotare le proprie vacanze.
Per le strutture ricettive, questo significa che la presenza online deve essere ottimizzata. Avere un sito web funzionale, mobile-friendly e ben posizionato sui motori di ricerca è fondamentale per attirare sempre nuovi visitatori. Allo stesso tempo, la gestione delle recensioni sui portali come TripAdvisor e Google My Business può influenzare le decisioni di prenotazione.
Alcune strategie di web marketing per hotel e strutture turistiche
Le strategie di web marketing devono essere pianificate con cura per ottenere risultati concreti., e ta le azioni principali che le strutture dovrebbero considerare, troviamo SEO e content marketing, social media marketing, pubblicità mirata ed email marketing.
SEO e Content Marketing
Ottimizzare il sito web per i motori di ricerca e produrre contenuti di qualità, come blog e guide di viaggio, aiuta a migliorare la visibilità organica, mentre la presenza di informazioni utili e coinvolgenti attraggono i viaggiatori e creano un legame di fiducia.
Social Media Marketing
Le piattaforme come Instagram, Facebook e TikTok offrono opportunità ricchissime per raccontare storie e promuovere le esperienze offerte dalla struttura. I contenuti visivi, come video e immagini, sono particolarmente efficaci per ispirare i viaggiatori.
Pubblicità mirata
Le campagne pubblicitarie online, soprattutto quelle basate su annunci PPC (pay-per-click) e retargeting, consentono di raggiungere un pubblico specifico e massimizzare il ritorno sugli investimenti.
E-mail Marketing
Personalizzare le comunicazioni con i clienti attraverso l’e-mail marketing, aiuta a fidelizzare la clientela e a incentivare nuove prenotazioni.
Infine, integrare esperienze autentiche e sostenibili nel pacchetto promozionale della struttura può attrarre viaggiatori sempre più attenti all’ambiente e alla cultura locale.
Le sfide e le opportunità per il futuro
Le strutture turistiche italiane affrontano numerose sfide e, tra queste, figurano il climatico e l’overtourism, entrambi fenomeni che richiedono una gestione più attenta e sostenibile dei flussi turistici. Al tempo stesso, la digitalizzazione progressiva della società implica l’adozione di nuove tecnologie e l’aggiornamento delle competenze del personale per poterle sfruttare al meglio.
I dati di CDP, mostrano una crescente domanda per viaggi personalizzati ed esperienze uniche. I Millennials e la Generazione Z, principali promotori della spesa turistica futura, risultano infatti ricercare autenticità e innovazione.
Prepararsi a questi cambiamenti richiederà investimenti strategici e un’attenta pianificazione: sforzi importanti, certo, ma che nel medio e lungo periodo, mostreranno i loro effetti benefici su popolarità del brand e fatturato