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Cara e Anthony: una riflessione sull’autenticità degli influencer

Cara e Anthony: una riflessione sull’autenticità degli influencer

Nel frenetico mondo dei social media, dove ogni like e follower può tradursi in visibilità e profitto, la linea tra realtà e finzione si fa sempre più sottile. È il caso dell’influencer Cara, nota per il suo stile unico e i suoi celebri motti “subbito” e “zeetta”, che nel giugno 2024 si è trovata al centro di una vicenda che ha fatto molto discutere. Cara ha scoperto che il suo fidanzato Anthony ha una figlia di 10 anni, anch’essa influencer affermata su TikTok. Tuttavia, la scoperta non è stata solo personale, ma ha sollevato una serie di interrogativi sulla veridicità dei contenuti condivisi online.

La figlia di Anthony, benché giovane, aveva già accumulato un notevole seguito su TikTok grazie ai suoi racconti di vita quotidiana e alle esperienze apparentemente autentiche che condivideva con il pubblico. Tuttavia, alcuni creator hanno iniziato a mettere in dubbio la veridicità delle sue storie, sostenendo che molte di esse sembrassero troppo elaborate o addirittura inventate. Questi dubbi hanno scatenato un dibattito su quanto sia comune per gli influencer, specialmente quelli più giovani o in crescita, costruire una narrazione che possa attirare l’attenzione, anche a costo di esagerare o inventare.

Nel mondo dei social media, dove la competizione è feroce e la visibilità può portare a opportunità economiche significative, la tentazione di “abbellire” la realtà è forte. Spesso, le storie più drammatiche, emozionanti o scandalose attirano il maggior numero di visualizzazioni e commenti, e questo ha portato molti influencer a spingere sempre di più sui confini tra verità e finzione. La vicenda di Cara e Anthony ha messo in luce come questa dinamica possa diventare particolarmente problematica quando coinvolge bambini. La presenza o l’assenza di questi nei video e nelle storie online non solo solleva questioni etiche, ma mette in discussione la responsabilità degli adulti nel proteggere i più piccoli dalle pressioni e dalle aspettative di una vita sotto i riflettori.

Questa vicenda rappresenta un campanello d’allarme su come l’autenticità, un valore tanto proclamato quanto difficile da trovare sui social, possa essere compromessa. Se da un lato gli utenti dei social cercano contenuti che siano reali e relazionabili, dall’altro il sistema premia spesso chi riesce a catturare l’attenzione a ogni costo. La questione sollevata dal caso di Cara e Anthony è dunque più profonda e riguarda non solo il mondo degli influencer, ma anche il modo in cui tutti noi, come pubblico, consumiamo e reagiamo a ciò che vediamo online.

È necessario riflettere su quanto sia comune questa pratica di manipolare o inventare storie, specialmente quando coinvolgono bambini. C’è bisogno di una maggiore consapevolezza da parte del pubblico, che dovrebbe essere più critico e meno disposto a credere ciecamente a tutto ciò che viene presentato come reale. Allo stesso tempo, è essenziale che gli influencer comprendano la responsabilità che deriva dal loro ruolo pubblico e siano più trasparenti nelle loro narrazioni.

In conclusione, il caso di Cara e Anthony ci ricorda l’importanza di mantenere un sano scetticismo nei confronti delle storie che ci vengono presentate sui social media e di promuovere un uso più etico e responsabile di queste potenti piattaforme.




“Bio-On: Unfair game”, a Milano l’anteprima del documentario sull’unicorno

"Bio-On: Unfair game", a Milano l'anteprima del documentario sull'unicorno

Si è svolta recentemente a Milano la presentazione della video-inchiesta “Bio-On Unfair Game” che ha ripercorso le vicende travagliate di Bio-On, start-up italiana pioniera nella produzione di plastica biodegradabile al 100% senza impatto ambientale. La narrazione ha abbracciato l’epopea dell’azienda, dalla sua valutazione da capogiro – quasi 1,5 miliardi di euro in Borsa – al precipitoso declino seguito alla diffusione di dubbi sulla validità e sostenibilità del suo business model, che hanno generato una vera e propria tempesta finanziaria. In particolare, il fondo QCM in un video dichiarò senza mezzi termini che dietro a Bio-On c’era una scatola vuota e un progetto non sostenibile. Il processo è ancora in corso in questi mesi, ma in molti si interrogano su quale sia stata la verità. 

Paolo Galli, stretto collaboratore di Giulio Natta, premio Nobel per la chimica, ha difeso la credibilità scientifica dei brevetti di Bio-On. Le sue parole hanno ribadito il valore delle innovazioni portate dall’azienda nel campo dei materiali biodegradabili, sostenendo l’enorme errore strategico e ambientale che ha portato alla chiusura della start-up.

Alessandro Narducci ha offerto una testimonianza diretta sul senso di tradimento e contemporaneamente di speranza che ancora lega molti di coloro che avevano creduto in Bio-On. Dall’altra parte, l’avvocato Stefano Commodo ha annunciato azioni concrete a tutela degli investitori danneggiati, lanciando una notifica di interruzione di prescrizione a Consob e Borsa Italiana per mancata vigilanza sulla vicenda.

Luca Poma, esperto in gestione della reputazione e crisis management, ha messo in luce i meccanismi insidiosi delle campagne di black-PR volte al sabotaggio della reputazione aziendale. A suo giudizio, serve affrontare la vicenda attraverso una lettura critica sulle dinamiche che possono portare al discredito di innovazioni potenzialmente rivoluzionarie.

Marco Rivoira, noto imprenditore nel settore agro-alimentare, ha infine portato una testimonianza tangibile delle potenzialità concrete dei prodotti Bio-On, citando l’esempio di “ZeroPack”, frutto di una collaborazione che ha generato soluzioni di packaging completamente biodegradabili. 




LA DIRETTIVA EUROPEA CHE RIVOLUZIONA LE FILIERE PRODUTTIVE DEL TESSILE

LA DIRETTIVA EUROPEA CHE RIVOLUZIONA LE FILIERE PRODUTTIVE DEL TESSILE

Di cosa stiamo parlando?

Il Fast Fashion è la disponibilità costante di nuovi stili a prezzi molto bassi che ha portato  ad un forte aumento della quantità di indumenti prodotti utilizzati e poi scartati.

Il consumatore finale vive una bulimica esigenza di acquistare, anche condizionato dai modelli proposti dagli influencer.

L’acquisto è favorito dal prezzo decisamente contenuto e alla portata di tutti.

L’Unione Europea aveva elaborato fin dal 2022 una nuova strategia per rendere i tessuti più durevoli, riparabili, riutilizzabili e riciclabili: progettazione ecocompatibile,  informazione più chiara, un passaporto digitale per i prodotti.

Quali sono i punti di degrado delle risorse ambientali che questo modello di Fast Fashion provoca?

Consumo di acqua, impiego dei terreni adibiti alle coltivazioni del cotone, emissione diGas a effetto serra e di microplastiche.

Da fonti della Direzione Generale del Parlamento Europeo il settore tessile è stata la terza fonte di degrado delle risorse idriche e dell’uso del suolo.

Lo sapevate che per ogni cittadino della UE sono stati necessari in media 9 metri cubi di acqua, 400 metri quadrati di terreno e 391 chili di materie prime per fornire abiti e scarpe?

Un unico carico di bucato di abbigliamento in poliestere può comportare il rilascio di 700.000 fibre di microplastica che finiscono sia nella catena alimentare che nel fondo degli oceani.

E che dire del 10% delle emissioni globali di carbonio? Più del totale di tutti i voli Internazionali e del trasporto marittimo messi insieme!

Arriva la vecchia Europa!

La Corporate Sustainability Due Diligence Directive (Csddd), questo è il nome della Direttiva Europea di cui stiamo parlando, obbliga le aziende a controllare, gestire e minimizzare l’impatto negativo sull’ambiente e sui diritti umani.

La novità della legge è che questo processo dovrà coinvolgere i partners lungo tutta la catena del valore: fornitori, vendita, distribuzione, trasporto, stoccaggio e gestione dei rifiuti.

Sanzioni

Ci sarà una supervisione amministrativa da parte di ciascuno Stato attraverso una Autorità di vigilanza ed un meccanismo di responsabilità civile.

L’inadempimento alla normativa comporterà una sanzione fino al 5% del fatturato mondiale perché la legge si applica anche alle aziende che hanno sede fuori dalla UE se registrano un fatturato superiore a 450 milioni di euro all’anno, indipendentemente dal numero dei dipendenti.

Tempistiche

A partire dal 2027 le prime a doversi attrezzare saranno le imprese europee con più di 5.000 dipendenti ed un fatturato superiore ai 1.500 milioni di euro.

A partire dal 2028 sarà la volta delle imprese con oltre 3.000 dipendenti ed un fatturato superiore ai 900 milioni di euro e dal 2029 tutte le altre.

Come adeguarsi?

“Con un passaporto digitale”. Sarà una scheda scansionabile con un QR code che conterrà un grande numero di informazioni sul capo o accessorio per dimostrare di essere durevoli, riparabili, privi di sostanze nocive e realizzati nel rispetto dell’ambiente e dei diritti sociali.

L’obiettivo è quello di abbattere i rischi del green e del social washing.

La normativa contiene già alcune indicazioni importanti sul tipo di informazioni che i passaporti dovranno riportare, mentre si stanno definendo i campi-dati.

Se sono una PMI perché mi devo adeguare?

Iniziamo ad evidenziare il primo principio: i valori NON economici nelle aziende supportano la crescita sostenibile in coerenza con gli obiettivi comunitari.

Ma in concreto il comportamento virtuoso come giova all’azienda? Quale è il ritorno economico e ci potrà essere un ritorno economico?

Premesso che le PMI, se presenti nella catena di fornitura delle grandi imprese soggette a questi obblighi, saranno coinvolte in questo processo e potranno intercettare importanti risorse pubbliche e private grazie a strumenti finanziari ad hoc allineati, avranno in questo modo anche degli indici positivi per investitori, istituzionali e non, interessati a decarbonizzare i loro portafogli.

Né si dimentichi i concreti vantaggi per l’accesso al credito derivanti dall’adeguamento a tutta questa normativa.




Video-inchiesta “Il Caso Bio-on: UNFAIR Game (Giochi sporchi)”

UnFair Game il caso BioOn

La videoinchiesta (filmato integrale, 55′)


A questo link è possibile scaricare il comunicato stampa diramato il 14 giugno, a seguito dell’anteprima nazionale dell’inchiesta, tenutasi giovedì 13 giugno a Milano.

Breaking news!


Il nostro approfondimento sul caso Bio-on: “UnFair Game” sarà presentato in anteprima nazionale presso il Palazzo del Consiglio Regionale della Lombardia*, il 13 giugno alle h. 16.00.

* a questo link, l’originale comunicato stampa di presentazione dell’evento.

A seguito di un goffo tentativo di diffida a firma dello studio legale GOP Gianni & Origoni in rappresentanza del CEO del fondo off-shore che speculò sul crollo della start-up Bio-On, contribuendo a generare un danno per i risparmiatori, il Consiglio Regionale della Lombardia ha inspiegabilmente deciso di cedere all’intimidazione e ritirare il sostegno all’evento di presentazione. A questo link, il comunicato stampa di aggiornamento con tutti i dettagli.

La location è stata prontamente riprogrammata, invariati giorno ed ora: l’indirizzo verrà comunicato il prima possibile.

La partecipazione all’evento è gratuita previa registrazione.

Il teaser

Qui di seguito, un “teaser” di 80″…

La locandina originale




Nuova stretta contro il fast fashion, arriva la legge che obbliga alla sostenibilità e al rispetto dei diritti umani: “Incompatibile con il loro modello di business”

Alla fine l’Europa ce l’ha fatta. Dopo bocciature, ripensamenti e rinvii vari, l’Unione Europea ha finalmente adottato una legge storica che rivoluzionerà la sostenibilità delle filiere produttive. Il Parlamento europeo ha approvato la Corporate sustainability due diligence directive (Csddd), ovvero un pacchetto di regole che obbliga le aziende a controllare, gestire e minimizzare il loro impatto negativo sull’ambiente e sui diritti umani. La direttiva è stata accolta dal Consiglio dell’Unione Europea il 24 maggio, a un passo dalla fine del suo mandato, e sebbene il testo finale sia a dir poco “annacquato”, queste norme sono un passo decisivo verso un futuro più sostenibile. Prima di questa legge, infatti, solo le aziende più responsabili monitoravano i rischi e gli impatti della loro catena di approvvigionamento. Ora, tutti gli operatori del mercato, a cominciare dai più grandi, dovranno controllare, gestire e minimizzare il loro impatto negativo sull’ambiente e sui diritti umani. Neanche a dirlo, tra i settori più interessati dalla direttiva c’è quello della moda: ne abbiamo parlato con Francesca Rulli, ceo di Process Factory e ideatrice di 4sustainability, il metodo che attesta le performance di sostenibilità della filiera di un’azienda di moda.

Perla moda, cosa cambia ora?
Questa legge introduce chiaramente la responsabilità per le imprese di monitorare i rischi e gli impatti sociali e ambientali delle loro filiere di produzione. Il fashion & luxury è tra i settori interessati e sono coinvolte tutte le aziende che si avvalgono in maniera più o meno rilevante di filiere di produzione. La direttiva chiede di mapparle, valutare i loro rischi ambientali e sociali, costruire un sistema di monitoraggio efficace integrandolo nelle policy e procedure dell’organizzazione e costruire un sistema di reportistica per la trasparenza e la definizione delle azioni di miglioramento. Prima solo le aziende più orientate alla sostenibilità e con progetti volontari ambiziosi misuravano i rischi e gli impatti dei loro fornitori: ora, invece, dovranno provvedere al monitoraggio tutti gli operatori del mercato, a cominciare da quelli più grandi.

Cosa significa, nella pratica, “vigilare sul rispetto dell’ambiente e dei diritti umani nella filiera”?
La norma impegna le imprese interessate a identificare e, se necessario, a prevenire e porre fine o mitigare gli impatti negativi delle proprie attività su diritti umani e ambiente. Questo coinvolge anche i partner lungo tutta la catena del valore e quindi fornitori, vendita, distribuzione, trasporto, stoccaggio e gestione dei rifiuti… Le imprese devono rendere disponibili le informazioni relative alla loro politica di Due Diligence sull’European Single Access Point (ESAP), in modo che possano accedervi con facilità anche gli investitori. Parliamo di una vigilanza con doppio scopo: trasparenza verso gli investitori – volta come il Reporting di Sostenibilità a proteggere il patrimonio aziendale, sempre più collegato a logiche ESG – e trasparenza verso gli altri stakeholder, mirata alla riduzione degli impatti ambientali e sociali generati dalle filiere produttive.

Può fare un esempio di controlli che potranno essere fatti o di possibili infrazioni?
Poniamo il caso di un brand che raccoglie dati dai suoi fornitori relativi alle procedure di sicurezza, all’utilizzo della chimica e dell’acqua, ecc. Ce ne sono alcuni che lo fanno da anni, anche anticipando le indicazioni normative. È un processo che si svolge in più fasi e va dalla mappatura dei fornitori alla verifica dei dati raccolti. A livello di controlli e sanzioni, è prevista una supervisione amministrativa e un meccanismo di responsabilità civile. Ogni Stato membro dell’Unione Europea dovrà istituire un’autorità di vigilanza incaricata di verificare la conformità delle imprese agli obblighi previsti dalla Direttiva: queste saranno autorizzate ad avviare ispezioni e indagini e ad applicare sanzioni alle imprese inadempienti fino al 5% del loro fatturato netto mondiale. Le persone che subiscono un danno a causa di una violazione dei diritti umani o degli standard ambientali avranno la possibilità di intentare azioni legali entro cinque anni dalla violazione e, se necessario, di ottenere un risarcimento. Stessa cosa per i sindacati e le organizzazioni della società civile.

La legge si applica anche alle aziende che hanno sede al di fuori dell’Unione europea, tra cui le “famigerate” Shein e Temu?
Sì, si applica anche alle aziende che hanno sede al di fuori dell’Unione Europea, se registrano nell’UE un fatturato netto superiore a 450 milioni di euro nell’esercizio finanziario, indipendentemente dal numero di dipendenti. Rientrano nell’ambito di applicazione anche le aziende o le società madri di gruppi che hanno stipulato accordi di franchising o di licenza all’interno dell’Ue e, quindi, anche i giganti del commercio elettronico. Le aziende extra Ue che operano nel mercato europeo saranno soggette al monitoraggio da parte delle autorità competenti degli Stati membri in cui generano fatturato: questo significa che le autorità nazionali avranno il compito di garantire che le normative siano rispettate anche da queste entità. A livello di tempistiche per l’applicazione degli obblighi, le prime a doversi attrezzare (a partire dal 2027) saranno le imprese europee con più di 5.000 dipendenti e un fatturato superiore a 1.500 milioni di euro. Seguiranno le imprese con oltre 3.000 dipendenti e un fatturato superiore a 900 milioni di euro (a partire dal 2028) e a chiudere tutte le altre, a partire dal 2029. Insomma, i primi ad essere chiamati in causa saranno proprio i colossi dell’ultra fast fashion, che incarnano i modelli di produzione e consumo in assoluto più impattanti perché basati sul massimo profitto e zero responsabilità verso l’uomo e l’ambiente.

Le aziende del fast fashion sono pronte a questa nuova normativa?
Distinguerei tra fast fashion e ultra fast fashion. Alcuni brand del fast fashion si stanno muovendo per implementare politiche di sostenibilità coerenti con la rivoluzione normativa in atto e in qualche caso hanno già iniziato ad effettuare due diligence sui diritti umani e sull’ambiente, a sviluppare piani di transizione climatica e a migliorare la trasparenza nelle loro catene di approvvigionamento. Il livello di preparazione e di incisività, evidentemente, è molto variabile. Discorso diverso per le aziende dell’ultra fast fashion come Shein e Temu: il loro modello di business è talmente lontano dai principi posti da risultare incompatibile.

Cosa rischiano se non rispettano questi requisiti?
I rischi di non conformità, per dirne una, sono altissimi e comportano conseguenze importanti. Le autorità competenti degli Stati membri dell’Ue, infatti, possono imporre multe significative, con sanzioni finanziarie proporzionali al fatturato dell’azienda e dunque particolarmente onerose per le grandi aziende. La direttiva prevede inoltre restrizioni operative, inclusi divieti o limitazioni nell’accesso al mercato europeo dove i colossi dell’ultra fast fashion realizzano una grossa parte del loro fatturato. Danni reputazionali a parte, infine, c’è da considerare il rischio di azioni legali da parte di gruppi di interesse, Ong e altri attori, che potrebbero esporre ulteriormente le aziende non conformi.

La Francia sta pensando di tassare il fast fashion: può essere utile o replicabile?
Il disegno di legge presentato dalla parlamentare Anne-Cécile Violando si compone di soli tre articoli, ma con un peso specifico notevole. Il secondo, in particolare, introduce la tassa basata sul principio di EPR, che estende la responsabilità del produttore all’intero ciclo di vita del prodotto, prendendo in considerazione anche gli impatti generati dalla sua produzione e dal suo smaltimento. Il sovrapprezzo su ogni capo, in buona sostanza, dipenderà dall’impatto ambientale del capo stesso, calcolato a partire da una stima delle emissioni di CO2: maggiore l’impatto, maggiore la tassa. L’obiettivo è palese, anche perché si inserisce in un contesto coerente di iniziative tese da una parte a proteggere l’ambiente dagli effetti tristemente noti dell’over production, dall’altra a tutelare il settore tessile e della moda francese dalla pressione dei grandi gruppi stranieri. Rispetto alle iniziative di fonte europea, il disegno di legge francese ha il pregio di tassare chi produce senza tutele e vende poi i suoi prodotti a costi bassissimi in paesi dove c’è invece chi investe in percorsi seri di sostenibilità. Il solo aspetto a preoccuparmi è la decisione della Francia di muoversi da sola, invece che attendere la disciplina europea… Voglio credere però che si tratti solo di un modo per fare pressione velocizzando i processi decisionali e che tutti i paesi europei, alla fine, avranno norme fra loro armonizzate: per le imprese, altrimenti, che complessità enorme sarebbe doversi adeguare a norme diverse da Paese a Paese!

Un’altra novità in arrivo è il passaporto digitale di prodotto, che raccoglierà e comunicherà tutte queste informazioni: come funziona?
Sarà una vera e propria “carta d’identità” dei prodotti di moda e aiuterà i consumatori a conoscere dove e come è stato realizzato un prodotto. L’obiettivo è di abbattere i rischi di essere manipolati e dare meno opportunità ai brand di scadere – consapevolmente o meno – nel green e social washing. I campi-dati non sono stati ancora definiti con esattezza, ma la normativa contiene già alcune indicazioni importanti sul tipo di informazioni che i passaporti dovranno riportare. Da giugno 2027, i prodotti tessili e di abbigliamento commercializzati nel mercato Ue dovranno dimostrare infatti di essere durevoli, riparabili e riciclabili, privi di sostanze nocive e realizzati nel rispetto dei diritti sociali e dell’ambiente da filiere di produzione monitorate in termini di rischi ambientali e sociali. Ogni scheda si potrà scansionare con un QRCode o un chip RFID e conterrà un grande numero di informazioni sul capo o accessorio a cui è associato, informazioni che sarà responsabilità estesa del produttore assicurare.