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Codebò investe nel green e presenta il suo primo Corporate Social Responsibility Report

Codebò investe nel green e presenta il suo primo Corporate Social Responsibility Report

Codebò, la più antica azienda ascensoristica italiana con una storia di oltre 100 anni, una tradizione familiare da cinque generazioni, oltre 7000 impianti gestiti e circa 1 milione di persone trasportate ogni giorno, ha presentato il suo primo report di Corporate Social Responsibility.

Il documento evidenzia come anche in un settore specialistico come quello della produzione e manutenzione di impianti di trasporto verticale sia possibile fornire un concreto e positivo contributo a tematiche di fondamentale importanza e scottante attualità, quali quelle della responsabilità sociale e del rispetto dell’ambiente.

“Oggi l’ascensore è il mezzo di trasporto più importante e più sicuro al mondo e ha una forte connotazione sociale, perché il superamento delle barriere architettoniche è un vantaggio per tutta la società. Abbiamo scelto volontariamente di intraprendere questo percorso di responsabilità sociale d’impresa perché come azienda ascensoristica il nostro obiettivo principale è da sempre quello di garantire la massima sicurezza nel trasporto di persone all’interno di edifici. Un impegno che oggi diventa in maniera ancora più importante una parte integrante della nostra attività produttiva, legandosi a temi come l’accessibilità, la sostenibilità e il risparmio energetico, per proteggere l’ambiente e migliorare la qualità della vita delle persone”, afferma Gianluca Codebò, Presidente dell’Azienda.

La sintesi di questi valori è tutta racchiusa nella sede torinese di Codebò, un edificio a rischio abbandono nella zona più industriale della città, che è stato completamente ristrutturato secondo i più avanzati criteri di ecosostenibilità: materiali rinnovabili, impianto fotovoltaico che consente la totale autosufficienza energetica della struttura, soluzioni all’insegna del risparmio energetico e dell’abbattimento di CO2, terrazza con orto pensile a disposizione dei dipendenti.

Al tempo stesso, tutti i diversi aspetti dell’attività rispecchiano i criteri aziendali di Corporate Social Responsibility: a partire dall’ottimizzazione dei consumi energetici degli ascensori prodotti, passando per progetti come la progressiva riconversione di tutto il parco auto con utilizzo di motori elettrici e le iniziative per rendere gli uffici sempre più plastic-free, fino alla grande attenzione dedicata alla qualità della vita dei collaboratori, sia per quanto riguarda l’ambiente stesso di lavoro, sia per una serie di servizi aggiuntivi a disposizione degli individui.

Un’attenzione che si è resa ancora più evidente in occasione dell’emergenza Coronavirus (durante la quale l’azienda ha continuato a garantire i servizi di manutenzione e assistenza tecnica) con la tempestiva fornitura di presidi completi di protezione personale a tutti i collaboratori e l’applicazione dello smart working per il personale impegnato in attività di ufficio, a cui ha fatto seguito l’attribuzione di un bonus a tutti i dipendenti, l’attivazione una polizza sanitaria assicurativa specifica per il sostegno economico in caso di eventuale contagio e la possibilità di effettuare un test sierologico direttamente a carico dell’azienda.

Un percorso che è comunque solo all’inizio: guardando al futuro, Codebò intende continuare la strada intrapresa, nel rispetto dell’Agenda Globale per lo Sviluppo Sostenibile promossa dalle Nazioni Unite, con una serie di nuovi progetti destinati a confermare e approfondire l’impegno dell’azienda per uno sviluppo sempre più sostenibile.




“Per fare la differenza basta un filo (di nylon)”

Ha creato un filo di nylon 100% rigenerabile, recuperandolo da reti da pesca e moquette. Ci ha impiegato anni (“e sono stati terribili”), ha affrontato difficoltà, ha speso molti soldi. Lo ha fatto per amore del Pianeta. A tu per tu con Giulio Bonazzi, Ceo di Aquafil, tra gli imprenditori italiani in ascesa

Può un’azienda tradizionale, che produce un prodotto neanche tanto sostenibile come il nylon, diventare un esempio di economia circolare tanto importante da rivoluzionare il settore dell’abbigliamento? Sembrerebbe di sì. Ad Arco di Trento, sul lago di Garda, c’è una multinazionale quotata in Borsa, con 2.900 dipendenti e mezzo miliardo di fatturato, che ha creato un filo di nylon 100% rigenerato e rigenerabile. In che modo? Recuperando la poliammide dai prodotti che la contengono: moquette, reti da pesca e altri materiali. L’azienda si chiama Aquafil, il nome del filato è Econyl, brevettato nel 2011, rappresenta il 38% dei volumi prodotti dall’azienda e sta attirando sempre di più l’attenzione dei brand dell’abbigliamento.

«La sostenibilità è l’unica possibilità per resistere nel medio-lungo termine» esordisce Giulio Bonazzi, 57 anni, presidente e amministratore delegato di Aquafil, azienda nata dai suoi genitori 55 anni fa. «Per vedere mamma e papà dovevo andare in ufficio o in stabilimento. A pranzo e a cena avevamo spesso come ospiti altri imprenditori. Mia madre era una grande imprenditrice, una persona straordinaria in azienda». Cresciuto con questi modelli, Bonazzi ha presto imparato a fare, a tenere duro, a combattere, superando difficoltà e scetticismi. «Ho attraversato momenti difficili, ma oggi che sto avendo degli importanti ritorni economici penso che rischi di più chi non cambia».

Com’è iniziata tutta questa storia?

«Aquafil è nata dai miei genitori nel 1965, quando io avevo appena due anni. La prima produzione di nylon 6 è avvenuta nel 1969. Ma non era la loro prima impresa: 9 anni prima i miei avevano dato vita a un’azienda di confezione di impermeabili di nylon, con 6 operai e 4 macchine da cucire. A quei tempi il nylon era una fibra innovativa e gli impermeabili sono stati tra i primi capi di abbigliamento a essere “confezionati”, cioè prodotti in modo industriale, in un mondo in cui i vestiti si facevano ancora dal sarto… In seguito i miei genitori hanno compiuto un percorso “a ritroso”».

In che senso?

«Dalla confezione sono passati alla tessitura: acquistavano il filato di nylon, lo tessevano e producevano impermeabili. Infine, dalla tessitura al filato. Ma a quel punto fare solo impermeabili non era più sufficiente: per realizzare economie di scala era necessario trovare altri prodotti per i quali fosse necessario il nylon 6. Fu così che mio padre, in Svizzera, nei laboratori della DuPont (l’azienda svizzera che nel 1936 ha inventato la poliammide, meglio conosciuta come nylon 66, ndr), venne a conoscenza della moquette, prodotto che utilizzava grandi quantità di filo di nylon, e cominciò a cercare clienti in questo settore».

Quale è stato il suo primo compito in azienda?

«Il mio primo compito da bambino consisteva nel piegare gli impermeabili e metterli nei sacchetti. Durante l’università (Bonazzi si è laureato in Economia e commercio a Venezia, ndr) aiutavo a caricare i tessuti sui camion. Dieci giorni dopo la laurea ho iniziato il mio periodo di istruzione in azienda: prima nel commerciale, poi nel prodotto. Mi mandavano all’estero dai clienti per capire come funzionava il settore della moquette. America, Belgio, Slovenia… ».

Com’è nata l’idea di Econyl?

«Il problema: il nylon si produce dal petrolio e impatta moltissimo sull’ambiente, soprattutto nelle prime fasi della sua produzione, che comprendono l’estrazione, la trasformazione e la produzione della cosiddetta “materia prima”, cioè quella che poi viene polimerizzata (il termine tecnico) per produrre il filo di nylon. La bella notizia? Il nylon 6 per sua natura può essere “depolimerizzato”, cioè con un solo passo indietro si ritorna alla materia prima, lo si riproduce esattamente com’è quando deriva dal petrolio. Può essere cioè rigenerato, con un minor impatto sull’ambiente».

Come le è venuta un’idea così?

«Io ho sempre “giocato” con l’idea di riciclare le materie prime, cioè trovare dai nostri fornitori materie prime da polimerizzare. A un certo punto ho pensato che potevamo polimerizzare gli scarti, in particolare le moquette usate e le reti da pesca».

Come si fa?

«Invece del consueto flusso “produzione- uso-discarica”, noi partiamo dal fondo, cioè dagli scarti: capiamo dove andarli a recuperare, li portiamo tutti in un luogo, li separiamo dai materiali che non possono essere rigenerati… Tutto questo ha un costo molto alto».

Dove prendete le reti da pesca?

«Le devi cercare, stringere accordi, spesso comprare perché altrimenti il loro destino è la discarica. Molte ci vengono fornite dai grandi allevamenti di salmone e branzino del Nord Europa, ma abbiamo anche stretto accordi con gruppi di volontari impegnati nel recupero delle reti dai fondali marini e sviluppato progetti specifici, per esempio con i pescatori delle Filippine o con gruppi di diversi volontari che recuperano le reti incagliate in relitti marini o nei fondali. Non tutte sono nylon 100%, alcune sono miste, quindi quando le riceviamo nel nostro stabilimento (in Slovenia), dobbiamo separare quelle solo nylon da quelle miste».

Quali problemi ha dovuto affrontare?

«Gli impianti di depolimerizzazione che avevamo non erano in grado di produrre materia prima dagli scarti: dovevamo costruirne uno nuovo, ma anche uno per la preparazione degli scarti. Parallelamente dovevamo anche cercare clienti che fossero interessati al prodotto, per potergli dare un valore. Non è stato facile, perché fino a che non lo abbiamo industrializzato il filato rigenerato era più costoso di quello vergine. Un progetto sul quale abbiamo lavorato 5 anni, dal 2005 al 2010 e che avevamo in parte sottovalutato».

Chi vi ha aiutato?

«Quando nel 2008 andavo dalle banche a chiedere i soldi mi davano del matto. È stato il private equity a credere al mio progetto. Econyl è stato lanciato nel 2011. Il primo settore a recepirlo è stato quello della moquette, qui ci sono aziende molto attente alla sostenibilità. I brand dell’abbigliamento sono arrivati dopo. A cominciare da Speedo, che ha realizzato parte della sua collezione di costumi, poi Adidas con una linea di costumi e di calze. Poi sono arrivati i brand della moda: Gucci, Stella McCartney, Prada, che ha annunciato che entro il 2022 tutte le sue borse in nylon saranno fatte interamente con Econyl. Napapijri, con il progetto nuovissimo della giacca Infinity, riciclabile al 100%. E ora Safilo per la prima volta ha utilizzato Econyl per la montatura di una linea di occhiali».

Strategia di marketing, o vera attenzione per l’ambiente?

«È il consumatore a richiedere ora prodotti sostenibili. Il problema è diventato una vera e propria emergenza. E il tessile-abbigliamento è il secondo settore più inquinante al mondo dopo il petrolio. Tutto quello che stiamo facendo è pochissimo in confronto all’enormità del problema».

Cosa fare per spingere verso un cambiamento reale?

«Occorrono tre cose. 1) Una buona legislazione. In Norvegia una legge ti dice come devi produrre le bottiglie di plastica, e se lo fai in modo diverso paghi una multa. Inoltre hanno introdotto nei supermercati le macchine per il vuoto a rendere: chi restituisce la bottiglia vuota riceve un coupon che può essere utilizzato per la spesa o dato in cassa in cambio di soldi. Il risultato è un tasso di riciclo del 97%. 2) L’educazione. Nel mondo siamo più di 7 miliardi: bisogna cambiare le proprie abitudini. Si pensi soltanto al cibo, responsabile del 20-30% di CO2 e che poi viene buttato via. 3) La riprogettazione di prodotti e processi. E qui entrano in gioco le piccole e medie imprese».

Saranno le piccole imprese i veri motori del cambiamento?

«Trasformare un’azienda da decine di miliardi di euro di fatturato da lineare a circolare è molto difficile, se inizi oggi forse ci riusciranno i pronipoti… questo perché all’inizio ci sono costi altissimi e i manager che si succedono ai vertici delle grandi aziende devono fare i conti con i risultati trimestrali (e vengono remunerati in base a questi), quindi hanno una visione più di breve periodo. Al contrario, per i piccoli e medi imprenditori è più facile ripensare i modelli o addirittura creare business nuovi e innovativi».

Ha fiducia nelle nuove generazioni?

«Moltissimo. Il futuro è loro. Già oggi i giovani che lavorano da noi partecipano con entusiasmo a tutte le novità, sono molto interessati all’economia circolare, a modi diversi di consumare, sono parte attiva della sharing economy».

Chi è stato il primo a credere in lei?

«Kelly Slater, il campione del mondo di surf, quando nel 2014 ha creato la sua azienda di abbigliamento (si chiama Outerknown, ndr) e la prima linea di beachwear, cercava fornitori e produttori “amici del mare”. Ha sentito parlare di noi, ed è voluto venire a vedere di persona il nostro stabilimento in Slovenia. Ha fatto un video che poi ha diffuso, per noi è stata una grande promozione».

Cosa insegna la sua storia?

«Che nella vita bisogna essere un po’ folli. Lo diceva anche Steve Jobs: Stay foolish, stay hungry. È bello svegliarsi al mattino e sapere che c’è sempre qualcosa da imparare e che si può imparare da chiunque, purché si rimanga aperti al cambiamento e si abbia fiducia nell’innovazione. Io ci credo».

INFO: www.aquafil.com

Tratto da Millionaire di aprile 2020.

nylon aquafil
L’apertura dell’articolo pubblicato su Millionaire di aprile 2020



Nasce 4sustainability, marchio green per aziende fashion&luxury

Nasce 4sustainability, marchio green per aziende fashion&luxury

Dalla sostituzione delle materie prime con alternative sostenibili all’eliminazione delle sostanze chimiche tossiche e nocive in produzione, dalla costruzione di un sistema di garanzia del materiale riciclato al miglioramento dello stato di benessere all’interno all’organizzazione. Sono nove le aree possibili di intervento di 4sustainability, il marchio di Process Factory che attesta l’adesione delle aziende del fashion&luxury alla roadmap per la sostenibilità.

“La sostenibilità è una scelta strategica che l’azienda integra nel proprio modello di business e che si traduce in interventi coerenti con la tutela dell’ambiente dei diritti della persona e della dimensione economica – spiega Francesca Rulli, ideatrice di 4sustainability – Una scelta etica che genera valore e opportunità di sviluppo”.

Sono già oltre 130 – spiega l’azienda – le imprese della filiera dei distretti italiani del tessile e della pelle e numerosi brand internazionali ad essersi affidati ai protocolli di 4sustainability per implementare azioni concrete per lo sviluppo sostenibile. “Abbiamo strutturato per primi, in Italia, un percorso espressamente dedicato alle aziende tessili e del comparto moda e in grado di impattare concretamente sull’organizzazione interna e di filiera per trasformare la sostenibilità da costo, quale veniva e viene ancora, in parte, percepita, a leva strategica di sviluppo capace di generare valore”, specifica Rulli.

In cosa consiste questo processo? “L’adesione alla roadmap 4sustainability si concretizza nell’implementazione di una o più iniziative, da realizzare attraverso il progetto, costruito su un protocollo standard, It tool e linee guida dedicati, e attività di training trasversali che precedono e/o seguono il completamento del progetto”, aggiunge l’imprenditrice.

La Roadmap per la sostenibilità consta di 9 aree di intervento, che rappresentano la mappa ideale per un impatto a 360 gradi: Monitoring 4sustainability (mappare e coinvolgere la filiera), Chemical Management 4sustainability (eliminare le sostanze chimiche tossiche e nocive dalla produzione), Training 4sustainability (formare le risorse), Recycle 4sustainability (costruire un sistema di garanzia del materiale riciclato), Csr 4sustainability (applicare sistemi di gestione certificabili), Materials 4sustainability (sostituire la materie prime tradizionali con alternative sostenibili), Climate 4S (introdurre processi che riducano le emissioni di CO2 in atmosfera, i consumi di acqua e di energia), People 4S (utilizzare strumenti per l’analisi e il miglioramento dello stato di benessere all’interno all’organizzazione), Reporting 4sustainability (rendicontare con metodo e trasparenza quanto realizzato).




La fine del tempo genera mostri di silicio

La fine del tempo genera mostri di silicio

A colloquio con Guido Brera, in libreria con la Nave di Teseo. “Non è un atto di accusa contro il cortisone di Draghi, ma contro il vuoto della politica che lascia spazio a chi con pazienza, si prenderà tutto”. E il coronavirus c’entra eccome.

Se i tassi di interesse – la misura del tempo in economia – sono ridotti a zero, il tempo è azzerato, non esiste più. E la fine del tempo genera mostri. Giganteschi mostri, prevalentemente di silicio, che possono permettersi di aspettare, di vedere gli altri animali morire, per poi accaparrarsi tutto il mercato. “Piattaforme tecnologiche, big player, società con sedi legali e fiscali virtuali, le aristocrazie digitali che hanno usato la grande opportunità dei tassi di interesse a zero per scaricare tutto il peso sulle economie reali, sulle persone in carne e ossa, sulle famiglie.” A sei anni da “I Diavoli”, best seller germinale a cavallo tra narrativa, finanza e geopolitica, che ha generato siti web, missioni di supporto al soccorso dei migranti e una serie tv in primavera su Sky, Guido Brera, fondatore del gruppo Kairos, gestione del risparmio, torna nelle librerie con “La fine del Tempo”, edito da La Nave di Teseo. “Un libro difficile”, che cerca di coniugare la lucidità delle tesi con il genere del thriller. Dove snodi narrativi ed esposizione di teorie “vanno in frantumi e danzano”, per dirla con un altro testo portato alle stampe con l’amico e premio Strega, Edoardo Nesi. 

Dedichi il libro a Federico Caffè, l’economista che sparisce lasciando l’orologio (il tempo…) sul comodino, in un aprile di molti anni fa, “nel più crudele dei mesi”, come ricordi citando “La terra desolata” di Thomas Stearn Eliot.PUBBLICITÀ

Perché Caffè è stato il grande sconfitto, aveva ragione, ma sparisce, keynesiano per eccellenza perde nei confronti della scuola di Chicago, degli alfieri del monetarismo e del liberismo. Tu immagina Caffè che torna oggi, e in sei mesi ricostruisce tutto quello che è accaduto. Come per il professor Wade, che nel mio libro perde la memoria e in sei mesi deve recuperare il senso delle cose che sono successe.

Il professor Wade e il suo avversario, il banchiere d’affari Dominic, in un dialogo illuminante che usa come metafora del Quantitative Easing una “nevicata”, raccontano due versioni contrastanti. Dominic dice che la nevicata ha congelato l’Apocalisse, il professore che la nevicata ha congelato le pareti della piramide sociale che le persone non riescono più a salire. Guido Brera da che parte sta?

Io sposo la linea del professore che è una sorta di vecchio Federico Caffè, però bisogna essere molto pragmatici, il Quantitative Easing è stato un’arma essenziale in un momento di disruption dei mercati finanziari causata da un ritiro trentennale della politica, dagli anni ’80. Il QE era necessario, ma non sufficiente, anzi prolungato produce anche degli effetti negativi. Come la neve si posa dappertutto, poi nelle zone di sole, dove ci sono più debolezze, dove ci sono le classi più deboli, si scioglie. Il QE che all’inizio sembra porre una coperta su tutto, poi si rivela un elemento di disequilibri, soprattutto perché con quei tassi così bassi nascono nuovi business, nuove forme viventi.

È un atto di accusa verso Draghi e il suo Quantitative Easing?

Draghi resta il più grande politico e statista che abbiamo avuto in Europa. Non è un atto di accusa verso la Banca Centrale europea, ma verso la politica che ha lasciato le banche centrali da sole a cercare di risolvere problemi con le loro armi. Peraltro la Bce è stata più illuminata di altre banche centrali. E qualunque banchiere centrale la vedrebbe come questo libro: la politica monetaria è cortisone, ma serve un qualcosa di più strutturato, serve una politica fiscale.  “La fine del tempo” è un atto di accusa al vuoto della politica, in prosecuzione con “i Diavoli”, che raccontava la finanza come strumento politico, qui racconto cosa hanno provocato quegli effetti prolungati di immissione di banconote nel sistema. 

E qui entra in campo quella che chiami “Tecnofinanza”. Per fare chiarezza, tracce di algoritmi e di supercalcolatori erano già nella crisi dei mutui, nel 2008, tu la correli temporalmente strettamente al “whatever it takes”, il celebre discorso di Draghi che è del 2012.

La Tecnofinanza è un’invenzione del libro. È tutto, è Uber, sono i rider, è ciò che questa enorme massa di liquidità ha incontrato e abbracciato, che in disperata ricerca di rendimenti, incontrando le nuove tecnologie crea dei business disruptive, ossia dirompenti ma anche distruttivi di tutto quello che c’è accanto a loro. Con algoritmi che regolano la vita degli altri, ma scaricando sugli altri i rischi di fare un’attività, con lavoro sottocosto per conquistare sempre più grandi fette di mercato.

Nel cuore del “La fine del tempo”, in più di un passaggio decisamente inquietante parli dei “capitali pazienti”. 

Il tempo non esiste più. Nel momento in cui i tassi di interesse – che misurano il valore del tempo – sono a zero, il tempo è azzerato. Tu puoi lanciare una corporate, un’azienda, proprio perché hai capitali pazienti. Mentre prima i grandi fondi di investimento, i fondi sovrani, le assicurazioni, avevano bisogno di un rendimento, ora con i tassi di interesse a zero una parte di allocazione dei capitali è andata verso i fondi di private equity, di venture capital, tutte attività nuove che hanno la mission di creare delle start up sovracapitalizzate, con appunto, dei capitali pazienti. Che possono perdere, anzi devono perdere nel breve per poi accaparrarsi tutte le fette di mercato, in un mercato dove c’è ancora economia reale, lenta, con vera sede fiscale, con reali costi dei lavoratori.

E qual è l’obiettivo di un business del genere?

Un monopolio in cui si prende tutto il banco e a quel punto, si alterano i prezzi.

La Cina per fronteggiare la crisi del coronavirus ha immesso sul mercato 100 milioni di yuan. Lo scenario si ripete?

Nel libro ho fatto l’esempio di Bacon, del suo Trittico della Crocifissione, che definisco “il più sconvolgente e oscuro canto della deformità umana”. Anche nel caso della Cina, come era stato per il Giappone, si creano delle scomposizioni mostruose tra il reale e il mercato. Il reale va male perché l’economia si ferma, così pompi liquidità e gli asset finanziari salgono. Ma attenzione, l’uomo che interferisce così pesantemente sul giusto equilibrio dei prezzi, alla lunga rischi di creare delle bolle importanti. 

Definisci la Cina la trappola evolutiva per eccellenza.

La globalizzazione in Cina è stata talmente veloce, con il globale vicino al locale, che la natura si ribella. “La fine del tempo” racconta questo, di un’accelerazione incredibile e di un mondo in trappola. Come il mercato reale, le imprese reali, i lavoratori, le famiglie, anche la natura violentata va in tilt quando un cambiamento avviene troppo velocemente. È esattamente quello che sta accadendo in Cina col coronavirus. Con l’urbanizzazione di 600 milioni di persone in pochi anni, un virus che prima poteva rimanere nelle campagne, ora da un mercato di quartiere in pochi giorni arriva a Tokyo. Troppe distanze in poco tempo. Questa è la fine del tempo.

La fine del
La fine del tempo



Ikea è il primo posto al mondo dove puoi pagare con il tempo che impieghi per arrivare al negozio

Ikea è il primo posto al mondo dove puoi pagare con il tempo che impieghi per arrivare al negozio

Un sogno che si avvera, poter entrare in negozio e pescare l’oggetto desiderato senza pagare un euro. Messa così sembra incredibile e impossibile, eppure c’è chi punta su questo apparentemente incomprensibile metodo di pagamento per incrementare gli affari.

E non si tratta di una piccola azienda o di una giovane startup in cerca di visibilità, perché gli acquisti pagati a tempo sono la nuova formula in vigore da Ikea, precisamente nel secondo store che gli svedesi hanno aperto a Dubai.

Perché pagare con il tempo

Come nella filosofia del gruppo, l’azienda ha scelto un luogo fuori città per lo store Jebel Ali, raggiungibile attraverso un percorso in mezzo al deserto di circa 40-50 minuti dal centro cittadino. Naturale, quindi, che la stragrande maggioranza di residenti e turisti preferisca recarsi presso il primo negozio della catena, più facile da raggiungere.

Ecco, allora, che per smuovere le acque serviva un’idea forte, di quelle capaci di attirare la curiosità delle persone e dei media. Detto e fatto, con la campagna progettata dall’agenzia pubblicitaria Memac Ogilvy, basata appunto sulla possibilità di acquistare prodotti tramite il tempo di percorrenza impiegato per arrivare al negozio.

Come funziona

Nello specifico, la procedura è molto semplice per i clienti, poiché una volta arrivati in cassa devono soltanto scegliere come pagare, con i cassieri che nell’elenco includono anche la variante temporale. Chi accetta (e del resto, chi non accetterebbe?) deve solo ripescare il più recente spostamento nella cronologia di Google Maps e mostrare lo smartphone all’addetto, che scala così la merce dal conto complessivo calcolando la distanza del tragitto.

La base di partenza per gli acquisti è stata varata partendo dal salario medio vigente nel più noto dei sette emirati arabi, pari a 105 dirham, che corrispondo a circa 29 dollari orari (poco meno di 27 euro), con ogni minuto di viaggio valutato l’equivalente di 48 centesimi di dollaro.

Cosa si può comprare

Impossibile dire se il valore sia troppo o troppo poco, anche perché non è questo il punto, bensì l’inedita opportunità offerta ai clienti, che in sostanza con un percorso di 50 minuti si possono assicurare uno dei più gettonati tavolini dell’azienda, mentre chi impiega due ore per recarsi a destinazione può mettere le mani su una classica libreria a sei ripiani (peraltro personalizzabili).

La mossa, ovviamente, è tutt’altro che improvvisata perché, se i consumatori possono acquistare articoli gratis, allo stesso tempo sono incentivati a frequentare più spesso il magazzino che, proponendo un catalogo per la casa senza eguali, garantirà alla società di Stoccolma un incremento delle vendite e maggiori ricavi.

Nuovi scenari

L’opzione “Acquista con il tuo tempo” è attiva per ora solo nello store di Dubai Jebel Ali e non ci sono indizi circa una possibile diffusione in altri negozi e paesi. La novità tuttavia apre due scenari rilevanti, dimostrando in primo luogo come le aziende possano sfruttare servizi digitali famigliari a centinaia di milioni di clienti.

Si dovrebbe ragionare, inoltre, se e come Ikea (e chi replicherà l’innovativo metodo) raccolga e utilizzi i dati che in consumatori rilasciano spontaneamente, accettando il pagamento a tempo, anche se il copywriter della campagna ha specificato che al momento il processo non prevede la raccolta dati della clientela.