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Parte il cantiere per costruire il perimetro nazionale di cybersecurity

Parte il cantiere per costruire il perimetro nazionale di cybersecurity

Duecento persone al lavoro. Primo compito: scegliere asset e infrastrutture che hanno la priorità in caso di attacco hacker

Confidenzialità e integrità. Sono questi i due criteri con cui il governo sceglierà quali aziende e infrastrutture devono stare all’interno del perimetro nazionale di sicurezza cibernetica. Ossia gli asset da proteggere per primi dai rischi di attacchi informatici. A spiegare l’evoluzione della strategia cyber italiana è Roberto Baldoni, vicedirettore generale del Dipartimento delle informazioni per la sicurezza (Dis). A Itasec, la più grande conferenza italiana dedicata alla cybersecurity (che si è chiusa ad Ancona il 7 febbraio), il numero due dei servizi segreti con delega proprio alla galassia digitale traccia i prossimi passi dei piani nazionali.

Il perimetro nazionale oggi è un grande cantiere”, spiega l’accademico oggi ai piani alti di piazza Dante. Il primo lavoro è esaminare asset e funzioni dello stato, valutare l’impatto che potrebbero avere se fossero vittime di un attacco e stabilire le priorità: chi ha la precedenza a entrare nel perimetro. “Applicheremo un criterio di gradualità – spiega Baldoni -. Si parte con un numero ragionevole di asset e soggetti ict”. Già nove gruppi sono al lavoro per fare questa scrematura: intorno ai tavoli sono riuniti duecento tra tecnici e giuristi di 20 amministrazioni.

A differenza della direttiva europea Nis, sempre sulla cybersecurity, che ha come principio base per stabilire gli asset da proteggere il blocco del servizio (e ha già portato in Italia a censire 465 operatori dei servizi essenziali), il perimetro sarà più restrittivo. Non si ragionerà solo in termini di danni che un attacco hacker può provocare se mette ko un servizio fondamentale per la vita quotidiana, come l’energia elettrica. Ma anche di quelli causati dalla violazione della confidenzialità e dell’integrità di un asset. Che sono condizioni sufficienti per finire nel perimetro. È il caso, per esempio, di infrastrutture legate allo spazio o delle industrie high-tech.

In parallelo, per Baldoni occorre sviluppare una rete di laboratori di certificazione. Non solo a supporto del ministero dello Sviluppo economico, per effettuare nei tempi gli scrutini tecnologici che il rafforzato golden power impone su tecnologie come il 5G. Ma anche, secondo il cyberzar, per arruolare esperti da spedire a Bruxelles a lavorare a standard produttivi per l’high tech adatti alle aziende italiane. Per Baldoni “ora occorre ragionare su un’autonomia nazionale strategica digitale: è chiaro che ci sono tante tecnologie, ma dobbiamo capire quelle fondamentali per il nostro Paese e portarle avanti”.

Il 2020 sarà l’anno della costruzione dei cyberteam nei ministeri, dalla Difesa agli Interni. Ma tra le sfide Paolo Prinetto, professore del Politecnico di Torino e presidente del Laboratorio nazionale di cybersecurity, espressione del Consorzio interuniversitario nazionale per l’informatica (Cini), elenca la costruzione di centri di cybersecurity regionali, sull’esempio di quello toscano, per il sostegno alle amministrazioni locali. E la costituzione di cyber range, “poligoni di tiro” per le esercitazioni. Oltre alla scommessa di portare in Italia il centro europeo di ricerca e competenza sulla cybersecurity, previsto dalla direttiva Nis.




Moda? È ora di mettersi il vestito buono (cioè green)

Per le aziende del fashion non impegnarsi sui principi della sostenibilità oggi significa perdere profitti. Gli investitori guardano ai bilanci «verdi» e i Millennial cominciano a preferire i capi etici

Le ragioni di una scelta

Più che una scelta, ormai è una necessità. Non impegnarsi sui principi della sostenibilità ambientale può far perdere denari alle aziende della moda: 45 miliardi di euro i profitti a rischio entro il 2030, ha calcolato Barclays nel report «Green is the new black» di gennaio. Messa così, la svolta verde può diventare concreta. «Oggi anche un pubblico diverso guarda da vicino alla sostenibilità finanziaria: investitori e analisti», dice Marie-Claire Daveu, a capo della Sostenibilità e e degli affari istituzionali di Kering, il gruppo guidato da François-Henri Pinault che raduna marchi come Gucci e Yves Saint Laurent, Bottega Veneta e Balenciaga, Alexander McQueen e Brioni e che per il terzo anno di fila, il 26 gennaio scorso, è stato incluso nella «A list», la lista delle celebrità, dell’organizzazione non profit Cpd per il cambiamento climatico. Ma in Italia si stanno muovendo anche aziende come Ferragamo, Moncler e Y-Nep (Yoox), ex startup come la Wrap di Matteo Ward o aziende innovative come Aquafil che ricicla reti da pesca raccolte in mare. «Il rischio socio-ambientale incide sulla capacità di crescita – dice Lorenzo Solimene, partner associato di Kpmg – . Se vuoi essere competitivo nel tempo e dare continuità alla tua azienda devi avere un modello di business orientato a questi principi». Solimene indica tre ragioni che spingono le imprese della moda a impegnarsi sull’ambiente: l’interesse crescente degli investitori, l’attenzione dei Millennial e la regolamentazione. Capitolo investimenti: quelli nei settori della responsabilità sociale ormai coprono il 49% di tutti gli investimenti finanziari (fondi, Borsa) in Europa, nota il rapporto «La sostenibilità nel settore fashion» di Kpmg. Nel mondo sono aumentati del 34% nel 2016-2018 a 31 trilioni di dollari. Per essere scelti, bisogna essere sostenibili. A essere buoni si può anche risparmiare, in prospettiva: basti pensare ai costi futuri dei cambiamenti climatici, a partire dall’acqua che è essenziale nel tessile e potrà scarseggiare. Attrezzarsi per tempo riduce il danno. Capitolo Millennial: le nuove generazioni di consumatori sono sempre più attente alla sostenibilità. Il 72% dei ragazzi fra 15 e 20 anni (la Generazione Z) e il 73% di quelli fra i 21 e i 34 anni sono disposti a pagare un sovrapprezzo pur di avere un capo etico, dice un’indagine Nielsen dell’ottobre 2019 su 30 mila consumatori in 60 Paesi. Le regole, infine: sono più stringenti. Per esempio, il bilancio sociale (impatto su ambiente, occupazione, territorio) dal 2018 è obbligatorio per le società d’interesse pubblico o con più di 500 dipendenti. Una spinta viene anche da Ursula von der Layen, la neopresidente della Commissione Ue che ha lanciato il suo Green new deal, con tanto di fondo da 100 miliardi per la transizione equa. Restano alcuni nodi, in generale: in testa la tracciabilità dei capi e la filiera non sempre chiara del low cost.

Gucci, un bilancio «senza carbone»

Non solo abiti per Sanremo 2020. Il direttore creativo di Gucci, Alessandro Michele, ha vestito da santi e regine l’eccentrico cantante Achille Lauro. Ma non sono previsti travestimenti negli ultimi bilanci del marchio, uno dei big della moda che sulla sostenibilità si sta impegnando di più. Tre mesi fa l’amministratore delegato Marco Bizzarri (nella foto) ha scritto una lettera aperta ai suoi omologhi delle grandi aziende per chiamarli a misurare, evitare, ridurre ed eventualmente compensare le emissioni di Co2. Un invito a riunirsi nella «Carbon neutral challenge», la sfida della produzione senza emissioni di anidride carbonica. «Abbiamo introdotto pratiche come l’uso di fibre organiche, di nylon rigenerato, la rinuncia alla pelliccia – dice Antonella Centra, capo della sostenibilità – . E il 12 settembre Gucci ha annunciato che compenserà tutte le emissioni di gas serra generate dalle proprie attività e dalla catena di fornitura». Il 30 gennaio il gruppo Kering, di cui Gucci fa parte, ha presentato il Rapporto di sostenibilità con i primi risultati: -14% gli impatti sull’ambiente complessivi nel conto economico ambientale nel 2015-2018. L’obiettivo è ridurli del 40% entro il 2025.

Marina Spadafora, l’equità nell’armadio

Coordinatrice di Fashion Revolution in Italia, consulente di moda etica pluripremiata, Marina Spadafora (nella foto) ha in cantiere un libro, coautrice Luisa Ciuni: «La rivoluzione comincia dal tuo armadio». Uscita prevista il 19 marzo con Solferino Libri. «Tre le regole per un armadio sostenibile – dice la stilista -. Uno, prima di fare un acquisto informarsi sulle pratiche di responsabilità sociale dell’azienda che lo produce; due, comperare vintage e dare una seconda possibilità ai capi d’abbigliamento; tre, andare dai piccoli sarti portando il tessuto». Ma come capire se il produttore è etico? Il 29 aprile Fashion Revolution, che quel mese compirà sette anni, presenterà la Mappa della sostenibilità. «Sarà sul sito di Fashion Revolution Italia, con i negozi di abbigliamento che vendono prodotti certificati», dice Spadafora. Che in questo periodo è impegnata in Africa, fra l’Etiopia e l’Egitto dove lavora al progetto Cottonforlife con Filmar, azienda cotoniera italiana, e l’Unido. Insieme, stanno trasformando campi di cotone in campi di cotone organico. «Al Cairo, poi, con Unido teniamo corsi di perito tessile ai ragazzi, per sensibilizzarli sui temi della sostenibilità».

Matteo Ward, blockchain in etichetta

Ha portato le sue magliette alla Starbucks di Milano, Chicago, New York e al Museo Ferragamo. Ha stretto accordi con Yoox, Biffi e 10 Corso Como. Matteo Ward (nella foto), con la sua Wrad, è l’enfant prodige della moda sostenibile. Ha inventato con Perpetua un sistema per recuperare la grafite scartata dalla lavorazione industriale, usandola per tingere i tessuti. Ora studia una blockchain per calcolare e comunicare l’impatto ambientale dei capi: il progetto gli ha dato accesso al fondo dalla Regione Lombardia, con il Politecnico di Milano e partner come Mood, 1TrueID, White Milano. Lavora poi a una fibra in grafite e spalmabile per tessuti tech ecologici. «In tre anni abbiamo raggiunto ricavi per quasi mezzo milione e il pareggio – dice – . L’obiettivo è toccare il milione entro il 2022, stiamo raccogliendo nuovi soci». Altre mete: coinvolgere 12 mila studenti quest’anno in un progetto educativo. E portare in tutti i reparti di terapia intensiva neonatale in Italia il progetto Me&Te con Tm Project. Lanciato in novembre, prevede «l’uso di fibre sostenibili che riducono dell’85% la proliferazione batterica».

Lanificio Leo, i plaid di design dalla Sila

Il Lanificio Leo ha 147 anni, è nella Calabria della Sila ed è guidato da Emilio Leo, architetto di 45 anni (nella foto). La quarta generazione. La sua sostenibilità si misura nell’esserci rimasto, in quella terra, e «non abbiamo cercato subito l’utile ma l’aggregazione culturale», dice Leo, amministratore delegato e azionista: «Abbiamo fatto ripartire la fabbrica nel 2008 recuperando ciò che c’era, come i telai dalla fine dell’800 agli Anni 60». Ci sono anche macchine innovative, qui, ma la produzione, di nicchia e design con filati certificati – plaid, sciarpe, arazzi – segue il tempo che ci vuole. Fondata dal nonno Antonio, la fabbrica è rimasta ferma 15 anni. Emilio Leo l’ha rilanciata superando «difficoltà burocratiche e locali, come quella di far capire il messaggio». Ora il Lanificio partecipa alla Design Week e a progetti della Triennale di Milano, in gennaio è stato a Parigi alla fiera del décor Maison et objet, è stato finalista al Premio Guggenheim Impresa e cultura. Ha aperto cinque negozi al Sud, ma il 20% dei ricavi viene già da clienti stranieri. Finanziato da Banca Etica, ha un piano al 2023: diventare grande, sostenibilmente.




Basta pulizie in hotel: la scelta ‘ecologica’ delle grandi catene fa bene ai conti, ma taglia migliaia di posti di lavoro

Basta pulizie in hotel: la scelta ‘ecologica’ delle grandi catene fa bene ai conti, ma taglia migliaia di posti di lavoro

Prima c’è stato il ‘riciclo’ degli asciugamani, ora la rinuncia alle pulizie (quotidiane). Gli hotel del Nord America fanno un altro passo verso l’”ospitalità sostenibile” con programmi come ‘Make a Green Choice‘, ‘Greener Stay‘ e ‘Green for Green‘, che tengono sempre in maggiore considerazione il rispetto dell’ambiente.

e strutture alberghiere di Stati Uniti e Canada che aderiscono alle iniziative, infatti, hanno deciso di premiare con incentivi, voucher e punti fedeltà i clienti che rinunciano alle pulizie in camera durante la loro permanenza. Un’ulteriore mossa verso una filosofia ‘verde’, dopo quella di riutilizzare gli asciugamani per tutto il soggiorno, invece di riceverne di puliti ogni giorno.

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In realtà tali programmi sono presenti nel settore da anni: Starwood ad esempio, che ora è parte del gruppo Marriott International, ha puntato su questa scelta ecologica già nel 2009. Tuttavia, come spiegano gli osservatori, la pratica si è  diffusa molto nell’ultimo periodo anche alle strutture di fascia media. “Potremmo essere arrivati all’inizio di un passaggio culturale che prende le distanze dalle pulizie come pratica quotidiana”, afferma al Washington Post Paul Bagdan, docente di gestione del turismo alla Johnson & Wales University: “Le persone stanno iniziando a dire ‘ok, non ne ho bisogno‘”.

Secondo Bagdan, incoraggiare gli ospiti a rinunciare alle pulizie giornaliere ha diversi vantaggi per gli hotel. Anzitutto consente di adottare misure rispettose dell’ambiente utilizzando meno acqua, elettricità e prodotti per la pulizia. Ma li aiuta anche a risparmiare sui costi della manodopera, e incoraggia gli ospiti a iscriversi a programmi a premi, che hanno un valore per le catene.

Nel colosso Marriott International, ad esempio, 23 dei 30 marchi del gruppo ora aderiscono al programma ‘Make a Green Choice‘. A seconda del marchio, gli ospiti ricevono tra i 250 e i 500 punti al giorno se rinunciano alle pulizie. Per il portavoce Jeff Flaherty in totale  – in Usa e Canada – sono oltre 2.800 hotel ad offrire tale opzione. “Il programma è cresciuto in popolarità nel corso degli anni e continuiamo a fare passi avanti, ad esempio con il lancio della scelta di piantare alberi in collaborazione con la Arbor Day Foundation”, sottolinea.

Se questi piani permettono di fare passi avanti nella protezione dell’ambiente, però, rischiano pure di avere effetti negativi sul fronte dei dipendenti degli alberghi. A segnalarlo è il sindacato Unite Here in un rapporto dove si afferma che il personale che si occupa delle pulizie ha perso ore di lavoro a causa di questi programmi. Inoltre, si evidenzia come le camere dei clienti che aderiscono alle iniziative ‘verdi’ sono molto più sporche di quelle pulite quotidianamente e richiedono più tempo e prodotti per essere sistemate. E si parla anche di una questione di sicurezza, visto che gli addetti alle pulizie sono i primi ad accorgersi di eventuali problemi. Timori a cui il Walt Disney World Resort della Florida, che ha introdotto il piano ‘Service Your Way’ negli ultimi due anni, risponde avvertendo gli ospiti che i lavoratori possono comunque entrare nelle stanze per questioni di “manutenzione, sicurezza o altro“, anche se loro decidono di rifiutare le pulizie.




Chi insegnerà educazione ambientale nelle scuole? Docenti formati da ENI. L’indignazione di insegnanti e associazioni

Chi insegnerà educazione ambientale nelle scuole? Docenti formati da ENI. L’indignazione di insegnanti e associazioni

È senz’altro importante che a scuola si parli di educazione ambientale ma è alquanto curioso che a formare i docenti italiani sul tema sia ENI. Lo hanno annunciato l’azienda e l’ANP, Associazione Nazionale Presidi, che hanno stipulato un accordo per l’avvio di un programma di incontri gratuiti, in collaborazione con l’ente formativo Dirscuola, su 4 macro-tematiche: cambiamento climatico, rifiuti, efficienza energetica e bonifica dei siti contaminati.

In breve Eni e Anp organizzeranno in tutta Italia dei seminari sulle tematiche ambientali, per affiancare le scuole e formare i docenti supportandone la capacità progettuale. Insomma anziché rilanciare la scuola, come modello di organizzazione che si basa sull’applicazione di un nuovo paradigma ecologico, ci sono Dirigenti Scolastici che consentono ad Eni addirittura di formare i docenti sulle tematiche ambientali.

Il programma è stato avviato perché la legge n.92 del 20 agosto 2019 prevede che l’anno scolastico 2020/2021 inserisca “l’insegnamento dell’educazione civica, comprensivo dell’educazione ambientale, nelle scuole di ogni ordine e grado in Italia“. Una decisione importante e significativa per il nostro paese, che è addirittura il primo al mondo ad aver introdotto la sostenibilità come materia scolastica, purtroppo del tutto vanificata dal coinvolgimento di un’azienda come l’Eni. Tanti buoni propositi che avrebbero potuto davvero fare la differenza, e renderci orgogliosi del nostro paese, e che invece, come al solito, si sono rivelati inutili. D’altronde è paradossale che a insegnare “sostenibilità” a scuola sia una delle aziende che inquinano di più, accusata di enormi disastri ambientali. Sarebbe come assegnare la cattedra di matematica a un docente che non sa contare fino a 10!

A denunciare per prime quello che può sembrare un grande ossimoro sono state le insegnanti di Teachers For Future Italia, collettivo facente parte del movimento Fridays for Future, che raggruppa insegnanti di ogni ordine e grado particolarmente sensibili ai temi ambientali. Lo hanno fatto con un comunicato in cui dichiarano di aver accolto positivamente la decisione dell’Italia di rendere obbligatorio lo studio dei cambiamenti climatici, chiarendo però da subito che

sarebbe stato necessario rivoluzionare totalmente il ruolo che ha la scuola nella nostra società, nel senso che essa non poteva più permettersi di riprodurre il modello di sviluppo dominante.

E invece, ecco arrivare la sconcertante notizia dell’accordo stipulato tra Anp ed Eni, appresa da un comunicato dell’Associazione Nazionale Presidi, secondo il quale

il Presidente Antonello Giannelli, e il chief services & stakeholder relations officer Eni, Claudio Granata, hanno presentato ieri presso la sede Eni di Roma, il programma congiunto di incontri sui temi della sostenibilità ambientale dedicato alle scuole italiane.”

Programma che prevede, come premesso, degli incontri gratuiti per docenti sui temi ambientali, da cui Teachers for Future Italia ha preso le distanze dato che Eni

continua a fare un uso sfrenato dei combustibili fossili” ed “è responsabile di immani devastazioni ambientali, dello sfruttamento dei paesi poveri, di corruzione e greenwashing“.

Le insegnanti del movimento hanno quindi invitato i docenti a boicottare l’iniziativa, sottolineando che

Eni è e resta il simbolo assoluto del sistema che il nostro movimento vuole cambiare per ottenere giustizia climatica e ambientale e per combattere l’ecocidio.”

https://www.facebook.com/photo.php?fbid=10218487605414523&set=a.1927283874907&type=3&theater

A Tachers for Future Italia hanno iniziato a fare eco anche varie associazioni ambientaliste, dichiarandosi molto preoccupate. Tra queste Greenpeace, Kyoto Club e Legambiente, che hanno a loro volta evidenziato il paradosso sottolineando che l’Eni è un’azienda privata che fa profitti sfruttando i fossili, tutt’altro che estranea all’inquinamento ambientale:

“Appare paradossale che sia proprio l’Eni, che ha responsabilità non irrilevanti proprio su due dei temi che riguarderanno le attività di insegnamento, “cambiamenti climatici” e “territori da bonificare“, ad essere chiamata dai Presidi a svolgere un ruolo chiave in questo percorso formativo. Percorso che, invece, dovrebbe essere svolto da soggetti terzi, rappresentanti degli interessi collettivi e non di un’azienda privata che, non solo fa profitti sfruttando i fossili – di cui si dovrebbe ridurre drasticamente il consumo, se vogliamo evitare l’aumento esponenziale delle temperature nel nostro Pianeta – ma che, in questi anni è stata responsabile di grandi impatti ambientali sul nostro territorio.  “

Basti pensare al diesel definito “green” di uno spot che lo spacciava per sostenibile nonostante fosse, come sottolineato dall’Antitrust, altamente inquinante. E al lungo dossier di Legambiente incentrato proprio su Eni che la definiva “nemica del clima” lanciando un allarme sul “pericolo che l’azienda rappresenta, se le sue politiche non cambieranno direzione di marcia”. L’ENI nel 2018, secondo il dossier, ha prodotto 1,9 milioni di barili al giorno, il numero più alto mai registrato dalla compagnia, (+5% di produzione rispetto al 2017). Per non parlare dei disastri ambientali di cui è stata accusata, come a Gela in Sicilia, e dello sfruttamento a suo carico di uno dei giacimenti on shore più grossi d’Europa, in Val d’Agri, Basilicata.

Oltre alle associazioni citate, anche Italian Climate Network, associazione da anni impegnata in percorsi di educazione con i ragazzi grazie al Progetto Scuola e nel programma gratuito #EmergenzaClima per docenti, ha espresso la stessa preoccupazione, sottolineando che l’educazione ambientale dovrebbe essere condotta da soggetti competenti, che rappresentino gli interessi collettivi.

Tutte queste associazioni chiedono che l’Eni venga rimpiazzata al più presto da esperti super partes, che di certo non mancano dato l’alto numero di associazioni e organizzazioni non governative che portano avanti, già da anni, programmi di educazione ambientale. E noi ci uniamo all’appello.




Così i ragazzini su TikTok hanno boicottato Trump a Tulsa

Così i ragazzini su TikTok hanno boicottato Trump a Tulsa

Gli utenti del social network in voga tra i più giovani, riferisce il New York Times, si sono registrati in massa all’evento “per fare uno scherzo” facendo prevedere agli organizzatori una grande affluenza, per poi non presentarsi. E hanno incoraggiato i loro follower a fare altrettanto

Non si sa quanto seriamente, il New York Times scrive che dietro il parziale insuccesso della kermesse di Donald Trump a Tulsa in Oklahoma, ci potrebbero essere almeno in parte anche centinaia di utenti adolescenti di TikTok e fan del K-pop, il pop coreano.

Così i ragazzini su TikTok hanno boicottato Trump a Tulsa

Gli utenti del social network in voga tra i più giovani, riferisce il New York Times, si sono registrati in massa all’evento “per fare uno scherzo” facendo prevedere agli organizzatori una grande affluenza, per poi non presentarsi, e hanno incoraggiato i loro follower a fare altrettanto. La tendenza si è rapidamente diffusa su Tik Tok, con i video in questione che hanno totalizzato milioni di visualizzazioni. A invitare a prenotare biglietti per poi non andare all’appuntamento elettorale anche i fans del K-Pop. Nella ricostruzione del NYT si ricorda che Brad Parscale, a capo del comitato per la rielezione di TheDonald, ha scritto lunedì su Twitter che c’era oltre un milione di richieste di biglietti, tanto da rendere necessario programmare eventi fuori dall’arena per consentire a tutti di partecipare.

donald trump tulsa

Gli utenti di TikTok e i fan dei gruppi di musica pop coreana hanno affermato di aver prenotato centinaia di migliaia di biglietti per il raduno . Dopo che l’account ufficiale della campagna Trump @TeamTrump ha pubblicato un tweet in cui chiedeva ai sostenitori di registrarsi per biglietti gratuiti utilizzando i loro telefoni l’11 giugno, gli account dei fan di K-pop hanno iniziato a condividere le informazioni con i follower, incoraggiandoli a registrarsi per l’appuntamento e poi dare buca. Anche la CNN aveva parlato nei giorni scorsi, ma un video in cui una donna aveva raccontato di aver prenotato ma di non avere intenzione di andare è stato reso privato sul social network cinese. Lo YouTuber Elijah Daniel ha confermato la storia, sostenendo però che molti utenti hanno cancellato i loro post dopo 24 a 48 ore per nascondere il loro piano: “La maggior parte delle persone che li ha creati li ha cancellati dopo il primo giorno perché non volevamo che la campagna di Trump se ne accorgesse”, ha dichiarato Daniel.

Tik Tok ha battuto Trump a Tulsa?

Mary Jo Laupp, 51enne di Fort Dodge nell’Iowa ha pubblicato un video invitando a prenotare per l’appuntamento elettorale di Trump che è diventato virale con più di 700mila mipiace e 2 milioni di visualizzazioni. Secondo lei almeno 17mila biglietti sono stati prenotati e alcune persone l’hanno contattata per farle sapere che anche altri avevano fatto la stessa cosa.

https://www.tiktok.com/@maryjolaupp/video/6837311838640803078

Erin Hoffman, diciottenne che abita nello stato di New York, ha dichiarato di aver appreso da un amico su Instagram la campagna sui social media e di averla diffusa su Snapchat, ricevendo in cambio annunci di prenotazione di biglietti da parte dei suoi followers. Anche Mary Garcia, studentessa della California, ha dichiarato di aver utilizzato un numero Google Voice per iscriversi alla manifestazione, ma anche due delle sue amiche che si sono iscritte hanno utilizzato i loro numeri reali ed avevano ricevuto messaggi dalla campagna di Trump.

A saldare il tutto sarebbe intervenuto anche il gruppo di hacker Anonymous. L’ipotesi del complotto globale sembra, però, solo parte della spiegazione, spiega l’agenzia di stampa AGI. Negli Stati Uniti il sistema della partecipazione ai comizi + semplice: si prenotano on line i biglietti, che sono gratuiti ma possono anche costare dai 15 ai 40 dollari, e non vanno a esaurimento. Nell’arena, o nello stadio, entra chi arriva prima. Migliaia di persone, in passato, sono rimaste fuori dai comizi di Trump. Davanti a centinaia di migliaia di prenotazioni fantasma, una parte dei fan veri avrebbe dovuto trovare accesso con più facilità. Invece non c’era quasi nessuno neanche per strada. Nel pomeriggio gli organizzatori hanno lanciato l’appello per dire che c’era ancora posto, ma non è arrivato nessuno, nonostante Tulsa e Oklahoma siano feudi trumpiani. Non sarà un evento come Tulsa a cambiare la storia delle elezioni americane, dove Trump è strafavorito. Ma quella del trolling forse sì.