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Di quale leader avremo bisogno nella “nuova normalità”?

Di quale leader avremo bisogno nella “nuova normalità”?

Nelle ultime settimane, lo smart working è stato al centro delle conversazioni sul business, e l’adattamento al lavoro da casa sta anche mettendo in luce i difetti delle aziende. Le tensioni culturali e le rotture tra le funzioni dei team sono intensificate dal lavoro da remoto. Il carattere e la resilienza delle persone sono messi alla prova, così come la nozione di leadership in sé. 

La maggior parte dei leader è stata formata per guidare un’azienda in tempi di normale lavoro, non di incertezza e ambiguità. Questa crisi ci ricorda che il mondo non è prevedibile e lineare, e che il nostro modello di leadership attuale non funziona più. Il coronavirus, infatti, sta mostrando l’incapacità dei leader di prepararsi a un disastro e di adattarsi prontamente alla situazione di emergenza. Molti Capi di Stato hanno fallito nell’adattarsi e nell’agire rapidamente, e un approccio del tipo “command & control” ha solo peggiorato le cose. Come sostiene Manley Hopkinson, un officiale della Marina durante la prima Guerra del Golfo, “è di vitale importanza che i leader resistano alla tentazione di centralizzare il controllo. La tentazione dei leader, in un momento di crisi, è quella di porsi al centro di tutte le attività, ma ciò di cui abbiamo bisogno è esattamente l’opposto”. Per collaborare in tempi di crisi serve avere un’intesa comune, fiducia e feedback. La pandemia da COVID-19 mette in risalto che la malsana idea di leadership che si è diffusa – un leader romanzato e descritto da film, libri di management, citazioni e discorsi motivazionali – non funziona più. Ci siamo fatti un’idea sbagliata dei leader, e tendiamo a scegliere come leader delle persone che si dimostrano forti, determinate e al controllo delle cose. Le ricerche mostrano che in realtà avremmo bisogno di tutt’altro: essere sicuri di sé non rende le persone competenti. L’arte di essere un leader ha poco a che fare con la singola persona e si concentra di più sul fatto di portare a termine delle azioni. Essere un leader significa possedere un set di comportamenti, non essere un supereroe. Potenzialmente, tutti potrebbero – e dovrebbero – essere un leader del cambiamento. La leadership collettiva è ciò di cui abbiamo bisogno in questi tempi incerti. Abbiamo bisogno di una rivoluzione, e di creare un nuovo modello di leadership. Il primo passo è quello di sbarazzarci delle etichette, e di concentrarsi sulle meta-abilità, perfezionando quelle abilità che ne incrementano o attivano altre. Ecco le più importanti:

  1. Aumentare la consapevolezza di sé: per aumentare le performance dei team, è necessario migliorare la propria consapevolezza, in modo da contribuire allo sviluppo di una leadership efficace e migliorare le performance. 
  2. Essere empatico: l’empatia è il saper comprendere profondamente ciò che stanno attraversando le altre persone. È parte della natura umana, ed aiuta a incrementare il livello di intimità e di fiducia. 
  3. Promuovere la sicurezza psicologica: tutte le voci delle persone in gioco devono essere ascoltate, e le persone devono sentirsi a loro agio nell’esprimere i propri pensieri, soprattutto quelli meno popolari, per poter poi agire su di essi.
  4. Adottare l’umiltà intellettuale: un leader umile desidera scoprire la verità, non vincere una discussione. L’umiltà come meta-abilità ispira collaborazione, apprendimento e favorisce migliori performance. 
  5. Sviluppare una leadership collettiva: guidare un’azienda non è un’attività individuale. La leadership collettiva favorisce la concezione di vivere in una società globale, in cui il benessere di tutti conta in egual modo. 
  6. Bilanciare l’onestà con l’ottimismo: l’idea che i leader devono proteggere gli altri è pericolosa. Non abbiamo bisogno di eroi, ma di persone umane che non considerano gli altri come anelli deboli. Edulcorare la verità può essere controproducente per la fiducia che i collaboratori ripongono nel leader. 

Serve una rivoluzione nella leadership, per liberarsi delle etichette e iniziare a creare un nuovo modello di approccio a questa nuova situazione e sviluppare queste meta-abilità è fondamentale per essere efficaci.

Leggi l’articolo completo di Gustavo Razzetti su www.liberationist.org




Sciacca e l’economia della bellezza

Sciacca e l’economia della bellezza

Dalla Sicilia il racconto di un’intera comunità che, per la rinascita economica, scommette sulla narrazione della propria identità

La crisi che sta travolgendo ogni settore economico e produttivo, in Italia e nel mondo, non risparmia turismo e cultura. In uno scenario pandemico di costante incertezza, ci si muove come tra le macerie di uno tsunami ancora in corso, come se vedessimo intorno a noi le cose distruggersi, ma senza la possibilità di evitarlo.

Da Sciacca, nel Sud Occidentale della Sicilia, in provincia di Agrigento, arriva un racconto diverso, quello di una comunità intera che, da oltre un anno, ha iniziato un percorso inedito per trasformarsi in una destinazione turistica di primo livello attraverso lo strumento del Museo Diffuso, dove il patrimonio identitario è il valore da offrire al mondo. Un museo a cielo aperto i cui proprietari, responsabili, sono le persone che vivono sul territorio, agiscono da comunità e si organizzano come una DMO-destination marketing organization (come da definizione dell’Organizzazione Mondiale del Turismo), attraverso una governance dei processi chiara e condivisa, dove etica e profitto non sono più in contrasto, ma diventano un obiettivo sostenibile.

Un esperimento sociale e organizzativo inedito anche per le dimensioni, visto che Sciacca è una cittadina di 45mila abitanti e non un paesino di qualche centinaio di anime. Una comunità che decide di organizzarsi e di dotarsi degli strumenti per essere competitiva tutta insieme, non più per singoli settori, facendo dell’identità di un territorio e delle persone che lo vivono il fulcro attorno a cui tutto ruota.

LE ORIGINI E LA VISIONE

Il tutto “è iniziato come un Think Tank per la valorizzazione del centro storico” − spiega Viviana Rizzuto, presidente dell’associazione di promozione sociale “Ecomuseo dei 5 Sensi”, organizzazione che si è da subito resa operativa e aperta a quanti volessero contribuire al progetto. “Questo percorso ha prodotto 56 protocolli d’intesa con associazioni, enti, scuole e istituzioni. Parliamo di migliaia di persone rappresentate. E soprattutto di tante categorie professionali e singoli operatori che hanno iniziato a confrontarsi in una visione comune”.

Una visione chiaramente descritta nella home del nuovo sito web del progetto, online dallo scorso 22 aprile: “Benvenuto in un Museo a Cielo Aperto fondato sull’IDENTITÀ e sulla BELLEZZA. Qui tutto è NARRAZIONE. Le porte del centro storico sono gli ingressi del museo, le strade sono i corridoi, le piazze sono le sale di esposizione, le botteghe degli artigiani, le finestre dei residenti, le vetrine dei commercianti sono le teche attraverso le quali scoprire il più grande tesoro della nostra terra: le PERSONE.” Un sito web che vuole essere il manifesto di un progetto collettivo, declinato su varie pagine che raccontano le sfumature di un percorso condiviso, economico e sociale.

“Le persone diventano il centro del progetto e la narrazione diventa lo strumento principale per valorizzare e offrire al mondo un’identità variegata come un mosaico. Fondamentale anche per far crescere tra gli abitanti la consapevolezza del valore di ciò che ci circonda, che troppo spesso diamo per scontato. Prima di tutto scoprire il nostro valore, poi valorizzarlo e infine condividerlo con gli altri”.

A parlare è Emilio Casalini, giornalista e conduttore RAI, autore del libro “Rifondata sulla Bellezza. Viaggi, racconti e visioni alla ricerca dell’identità celata” (Spino editore, 2016), che da anni si occupa di strumenti di narrazione dell’identità, come testimoniato dal suo programma “Generazione Bellezza”, andato in onda su Rai3 e di cui avevamo raccontato qui.

“Quando ho parlato la prima volta con Viviana Rizzuto, nel giugno 2019, ho avuto un brivido perché per la prima volta questa visione era portata avanti non da un singolo, come spesso mi è capitato di vedere in giro per l’Italia, ma da una comunità intera. Una grande comunità. Si tratta di un cambio di scala importante perché, per poter funzionare, ha bisogno di una visione e di un metodo, chiaro e replicabile ovunque. Tutti diventano testimoni della molecola di bellezza che caratterizza la loro esistenza e identità. Tutti ne diventano responsabili. È uno straordinario cambio di livello di coscienza collettiva”.

IL PROGETTO DIVENTA REALTÀ

In pochi mesi il piccolo Think Tank si è trasformato in una grande associazione, poi in un ecomuseo tra i primi undici riconosciuti ufficialmente dalla Regione Sicilia e, mentre l’Italia intera era bloccata dalla pandemia, in una Cooperativa di Comunità iscritta alla Camera di Commercio dal 3 aprile scorso, con un nome che è tutto un programma: “Identità e Bellezza”. La comunità quale soggetto giuridico ed economico per gestire la destinazione e l’offerta turistica. Anche se parlare di puro turismo, in un contesto come questo, è alquanto riduttivo. E lo spiega ancora una volta la presidente Viviana Rizzuto, una sicura carriera da manager internazionale fino a un paio di anni fa, quando ha deciso di fare rientro nella sua terra d’origine con le competenze apprese e scommettere tutto: “È una piccola rivoluzione, almeno per noi che la stiamo vivendo perché non parliamo di “turismo”, ma di condividere la nostra storia e la nostra quotidianità con chi la trasforma in ben-essere. E soprattutto perché non ci siamo mai limitati a dire COSA si deve fare, ma siamo passati subito al COME, impegnandoci in prima persona nel farlo. Non deleghiamo più, ci prendiamo tutta la responsabilità sulle nostre spalle. E lo facciamo come comunità. Con metodo. Connettiamo tutto e tutti. Oneri e onori. Ci prendiamo il rischio e il privilegio di scrivere il nostro futuro”.

Basta scorrere le varie pagine del sito web per comprendere i capisaldi del progetto. Sostenibilità ambientale spinta, come descritto nei disciplinari che tutte le strutture ricettive aderenti hanno accettato: le saponette usa e getta, ad esempio, sono messe al bando, sostituite da sapone naturale a chilometro zero. Cibo come narrazione dove le colazioni, i menù dei ristoranti e gli aperitivi dei bar sono a base di prodotti locali connettendo gli agricoltori, le loro storie e i loro volti con i fruitori finali. Esperienze preparate con cura e offerte ai viaggiatori coinvolgendo tutte le tradizioni, da quelle artigianali della ceramica, del corallo e del carnevale a quelle enogastronomiche, partendo dalle case degli abitanti e terminando tra i pastori con cui mungere il latte, trasformarlo in ricotta e infine in un cannolo o in una cassata. Iniziare la giornata con un marinaio o facendo il pane in un forno comunitario e concluderla davanti al teatro greco di Eraclea Minoa. Tutto connesso come in un grande racconto collettivo.

LE SFIDE

Un’altra piccola rivoluzione, come spiega Emilio Casalini, che in questo progetto crede senza riserve al punto da esserne diventato il direttore creativo. “Uno dei tanti mali del turismo italiano è la compartimentazione dei settori che spesso si snobbano e non sfruttano l’immenso potenziale di narrazione reciproca che possiedono. Cultura e turismo ne sono l’esempio massimo, ma vale anche per agricoltura, architettura, artigianato, tutti ancora troppo sconnessi. Solo enogastronomia e turismo hanno costruito ottime filiere. Gli altri non hanno ancora capito l’immenso margine di crescita che si potrebbe ottenere creando una vera, operativa e continua sinergia tra musei, ristoratori, scuole, agricoltori, accoglienza alberghiera ed extralberghiera, artigiani, commercianti. Ed è quello che stiamo preparando nel grande laboratorio di Sciacca. Unire i saperi dei marinai con quelli degli archeologi, dei cuochi con gli artigiani, gli studenti con gli anziani. Qui ti accoglierà la leggenda di Dedalo, il grande architetto Ateniese che dopo essere scappato da Creta giunse qui con le sue ali di cera, simbolo di libertà, di coraggio e di visione. Qui tutto è narrazione”.

La sfida è quindi collettiva. Imparare a conoscersi per raccontarsi bene. “È la sfida per imparare a collaborare piuttosto che a pestarsi i piedi. È la sfida per unire tutti i puntini, anche quelli che sembrano meno importanti”. E nella sezione dedicata all’accoglienza, infatti, sono presenti i commercianti, il titolare del negozio di abbigliamento o il tabaccaio, che diventano un infopoint diffuso, un tassello del territorio che connette tutti gli altri. Così come gli altri connettono lui.

E che si tratti di una sfida ne sono consapevoli tutti, a partire dalla presidente Viviana Rizzuto: “Nessuno di noi ha la garanzia del successo di questo percorso. Ma tutti abbiamo la certezza del fallimento se non si proveranno strade nuove, dove la paura lascia il posto al coraggio. Il coraggio di stare insieme. Sembra paradossale, invece è una delle cose più difficili. Perché devi rinunciare al tuo ego e accettare una visione collettiva. Ma è anche la sfida che tutto il nostro Paese dovrebbe accettare. Certezze oggi ne abbiamo davvero pochissime. Siamo fragili e la stagione turistica di quest’anno sarà un periodo di sopravvivenza in cui limitare i danni: resistere nel rifugio quando il temporale è più forte di te”. E nel rifugio lavorare per essere pronti quando questo sarà passato.

Una comunità forte, coesa e unita da un obiettivo comune, quella di Sciacca, dotata del necessario pragmatismo per affrontare il presente e mantenendo una visione di lungo termine. Una comunità che, ispirandosi alla giustizia sociale, nei prossimi mesi saprà proteggere anche i più deboli, condividendo le poche risorse che arriveranno.

In un momento in cui ci si domanda quale sia il futuro che possiamo e dobbiamo scrivere per l’Italia, dalla provincia più povera della nazione arriva la sfida che guarda al futuro cambiando strategia, meccanismi e protagonisti. Rimettendo al centro, anche dell’economia e dello sviluppo, l’uomo.




L’attività di lobbying nel dopo-emergenza Coronavirus

L'attività di lobbying nel dopo-emergenza Coronavirus

Come cambia il lavoro dei lobbisti nella fase 2 e in vista della fase 3.  Lo smart working e il rapporto “a distanza“ con la politica e i Palazzi. La maggiore trasparenza e la carta della tempestività. Gli obiettivi sempre più misurabili.

Siamo tutti in attesa di capire come andrà la fase 2 e come andranno le tappe successive. Certo è che nulla sarà come prima: l’emergenza sanitaria ha cambiato abitudini e schemi. La crisi economica ci impone nuove regole e approcci. Siamo chiamati a convivere con il rischio ancora per un tempo indefinito. Anche l’attività di lobbying, dunque, esce da questa fase di lockdown ritarata e modificata.
Che cosa è cambiato e che cosa dovrà cambiare per adeguarsi al nuovo scenario?
 

Modalità operative interne. Come per tutti i settori questi due mesi hanno imposto nuove modalità operative interne. Lo smart working ha consentito di acquisire maggiore competenza e consapevolezza nella gestione da remoto di parte del nostro lavoro, quello di analisi, di monitoraggio legislativo, di drafting. La distanza fisica ha determinato uno sforzo di collaborazione e di condivisione tra team e persone e un utilizzo di strumenti digitali per favorire lo scambio tempestivo di informazioni e allineamento in progress. Chi fa lobbying non potrà prescindere nel prossimo futuro da questa evoluzione operativa. Sarà necessario, anzi, investire in piattaforme e mezzi che facilitino accesso e consultazione tra personale e clienti.
 
Interazione con i decisori e partecipazione ai processi decisionali. Gli incontri in galleria dei Presidenti o negli uffici istituzionali per rappresentare le istanze sono un ricordo ormai lontano. Abbiamo sperimentato il ricorso esclusivo a strumenti digitali, in un processo di partecipazione alle decisioni condotto a distanza. Non è stato scontato e automatico. Sono emersi i limiti di un sistema caratterizzato da una reciprocità ancora ridotta. Sarà necessario che istituzioni e politici si aprano ancora di più, di quanto fatto in questa prima fase (audizioni in videoconferenza), a nuove modalità di confronto continuative con i portatori di interesse. Lobbisti e decisori dovranno convergere su nuovi strumenti per sostituire gli incontri e favorire modalità alternative di dialogo e scambio tra istituzioni e imprese. La distanza fisica non deve trasformarsi in marginalizzazione.
 
Accesso alle informazioni e reciprocità. L’attività di intelligence e di confronto nella fase di definizione dei provvedimenti senza possibilità di incontri e con interazione a distanza impone uno sforzo nell’implementazione di procedure standardizzate e trasparenti. La fase di emergenza economica che durerà a lungo porterà necessariamente a consolidare un patto tra politica/istituzioni e interessi privati/corpi intermedi. La dialettica tra questi mondi costruttiva e propositiva sarà la prerogativa e la condizione per provvedimenti efficaci e decisioni consapevoli. Questo richiede uno sforzo, ora più che mai, di apertura e di condivisione. L’accesso alle informazioni ha sempre rappresentato un limite del nostro sistema istituzionale. Il post coronavirus sarà, in tal senso, un’opportunità per fare un passo avanti (senza burocratizzare i processi anzi semplificandoli) sul terreno della reciprocità e della collaborazione a parità di accesso informativo tra lobbisti e decisori.
 
Competenza e tempestività. L’emergenza ha consolidato e rafforzato quella che ormai è stata definita democrazia istantanea. La situazione attuale impone tempi rapidi e decisioni veloci. La capacità di risposta della politica non deve però trasformarsi in avventatezza. Alla tempestività va affiancata la competenza. I lobbisti dovranno approfondire dossier, studiare e saperne di più dei propri clienti e interlocutori. Vinceranno la competenza e l’immediatezza. Non ci sarà spazio per proposte velleitarie o per network da tartina. Dovranno essere capaci nell’individuazione del messaggio da veicolare ed efficaci nella condivisione dell’istanza. I decisori dovranno essere aperti ad accogliere suggerimenti e informazioni. Dovranno, anzi, maturare sempre di più la consapevolezza dell’importanza di un confronto continuativo e tempestivo tra le parti. I lobbisti non possono sostituirsi alla politica ma, in una fase di emergenza, potranno sicuramente rappresentare un supporto utile per una democrazia istantanea ma con processi decisionali consapevoli e veloci. Non sbrigativi e inefficaci.
 
Obiettivi misurabili. La crisi economica impone una ridefinizione di budget e una cautela negli investimenti. Ai lobbisti, che saranno necessari “misuratori della meteorologia legislativa”, si chiederà sempre di più un servizio “misurabile”, collegato al conseguimento di obiettivi di policy e di business. L’attività di monitoraggio e proattività è già da tempo inserita in un contesto più ampio che coinvolge anche i tempi e i processi di attuazione delle norme. Le società di lobbying saranno sempre più chiamate ad assumere un ruolo di decodificatori e risolutori di problematiche concrete. Le aziende investiranno su obiettivi chiari e professionalità.
 
Strategie di advocacy e digitale. Il lockdown ci ha imposto nuove modalità di costruzione del consenso. Il digitale è entrato nella quotidianità di tutti. Sono diverse le dinamiche cognitive e di influenza sociale. Nella definizione di strategie integrate di advocacy e comunicazione non si potrà non tener conto di questo cambiamento. Sarà necessario ridefinire la “messa in scena” complessiva, sia nei format sia nella costruzione di un corretto apparato simbolico. Il digitale rappresenterà un’opportunità e una necessità per processi di lobbying efficaci. 

Giusy Gallotto, CEO di RETI




New York, al via la rivoluzione green per i grattacieli

New York, al via la rivoluzione green per i grattacieli
New York, al via la rivoluzione green: il comune taglia le emissioni dei grattacieli

La Grande Mela si fa verde e fa da battistrada al Green New Deal. Non si chiama così, ma il Climate Mobilization Act è di fatto questo per New York. È stato approvato nei giorni scorsi dal consiglio comunale d’una metropoli affollata da 8,4 milioni di residenti con tutti i loro servizi e attività una significativa «carbon footprint», un’impronta dell’impatto ambientale, anche se stando all’Ufficio del censimento la città ha perso 40mila abitanti nell’ultimo anno tirando il fiato da una crescita che durava dal 2010.

Di più, il passaggio dell’Atto – una combinazione di dieci proposte di legge in aperta sintonia con la riduzione delle emissioni da effetto serra voluta dall’Accordo di Parigi dell’Onu – è avvenuto quasi all’unanimità, 45 voti contro due, tra gli applausi. Forse prevedibili in una metropoli tradizionalmente progressista, ma segno della determinazione a trasformare il «pacchetto» in realtà, sfidando un’amministrazione Trump che e livello federale ha invece dato platealmente l’addio a Parigi.

L’iniziativa era oltretutto men che scontata. È stata considerata «molto aggressiva» persino dal sindaco democratico della città Bill de Blasio, che pur flirta con una candidatura alle presidenziali del 2020 in un partito dove avanzano le correnti più di sinistra sotto le bandiere, neanche a dirlo, di programmi sociali e economici battezzati Green New Deal. De Blasio l’ha però sposata – firmandola in occasione dell’Earth Day – rivendicandone i benefici sia per l’ambiente (la città ha sofferto la sua quota di danni da clima estremo) che per lo sviluppo di un intero nuovo modello economico sostenibile. Una firma apposta nonostante la strenua e influente opposizione di alcune lobby di business – su tutte quella immobiliare dato che il cuore della riforma riguarda proprio giri di vite sull’edilizia e i suoi consumi energetici.
A chi si domandasse il rilievo del settore per New York, basti citare un dato: i palazzi, in una città densamente popolata e «verticale» come New York, sono oggi responsabili di oltre due terzi delle emissioni totali di anidride carbonica. E a chi chiedesse conto di celebrità e delicatezza degli immobili messi in discussione basti ricordare che c’è la Trump Tower, sì, quella al centro anche di altre «emissioni» potenzialmente tossiche, quelle politiche del Russiagate per la Casa Bianca.

«Il cambiamento climatico pone una minaccia esistenziale a New York City – ha fatto sapere l’amministrazione di de Blasio – E rendere i palazzi più sostenibili e efficienti è un elemento chiave della soluzione del problema». Gli obiettivi sono ambiziosi. I calcoli del comune prevedono che l’abbattimento delle emissioni sarà equivalente a eliminare un milione di auto dalle strade entro il 2030, con vantaggi per la salute a cominciare dalla lotta all’asma e in grado di prevenire oltre 40 decessi e cento ricoveri in pronto soccorso ogni anno.
Il progetto ha a cuore esplicitamente anche l’impatto economico, che vede nell’insieme a sua volta nettamente positivo. Entro quella stessa data del 2030, le proiezioni parlano della creazione di 27.600 nuovi impieghi «ecologici» grazie alla riforma. Studi di alcune non profit quali Align appaiono ancora più ottimisti: 23.627 posti di lavoro diretti nelle costruzioni per adattare i palazzi e grattacieli ai nuovi criteri e 16.995 indiretti ogni anno per manutenzione e gestione, manifattura e servizi.

L’iniziativa prende di mira anzitutto l’edilizia, vecchia e nuova, perché è su questa che la città ha completa giurisdizione – al contrario di altri campi di impatto ambientale dove ha voce in capitolo lo Stato di New York, più moderato seppur esso stesso governato dai democratici. Campi che vanno dal trattamento delle acque al trasporto pubblico, dal traffico (dove lo Stato ha tuttavia previsto un congestion pricing) ai sacchetti di plastica (ora quelli mono-uso, con qualche eccezione, sono stati messi al bando).

In buona sostanza, la neo-legislazione cittadina impone a molti palazzi di ridurre le loro emissioni a partire al 2024, fino ad arrivare a tagli del 40% in data 2030. Il costo delle modifiche prescritte? Stando alle autorità all’incirca 4 miliardi di dollari a carico dei proprietari di immobili. «Sarà la piu grande rivoluzione nella storia del real estate di New York City – ha dichiarato John Mndyck, Ceo dell’Urban Green Council, un’associazione che raggruppa ambientalisti e costruttori – Sarà difficile e richiederà miliardi, ma nasceranno tecnologie e modelli di business per portarla a termine».

La mossa più consequenziale ha un soprannome che la dice lunga, Dirty Buildings Bill, la legge per i grandi palazzi sporchi. Ben 50.000 di questi – parte importante dei palazzi di dimensioni superiori ai 25.000 piedi quadrati che rappresentano il 2% dell’edilizia cittadina ma metà delle sue emissioni dannose – sono nel mirino per un taglio delle emissioni del già citato 40% entro dieci anni e fino all’80% entro il 2050. Un taglio che avverrà attraverso molteplici modifiche, quali nuove finestre e nuovi sistemi di isolamento termico. Violare i nuovi requisiti costerà caro: le multe previste sono di milioni di dollari l’anno, calibrate sulla base della gravità delle irregolarità. Accanto alla Trump Tower, noti immobili che dovranno adeguarsi o pagare comprendono dagli storici Empire State Building e Chrysler fino allo One World Trade Center. Nonché grandi ospedali, che però con istituzioni religiose e case popolari hanno ottenuto alcune esenzioni suscitando le ire degli altri giganti del real estate.
Non finscono qui i cambiamenti. La rete di leggi varata ordina alla città di condurre uno studio di fattibilità entro il 2021 – e di aggiornarlo ogni quattro anni – per prevedere la chiusura di 24 centrali elettriche a gas e petrolio e sostituirle con fonti rinnovabili e meccanismi per l’accumulo e la conservazione di energia in eccesso. Su nuovi palazzi e costruzioni di piccole dimensioni verranno poi installati «tetti verdi», con una combinazione variabile di vegetazione, pannelli solari, mini-turbine a vento.

La complessa matematica, come la chiama il New York Times, della legge si basa su dati sui consumi energetici dei palazzi raccolti ormai da anni e che la citta’ ha usato per creare veri e propri benchmark e per estrapolare le emissioni per piede quadrato. Limiti diversi riguarderanno in futuro differenti tipologie di immobili, quali uffici o complessi residenziali. A titolo di esempio l’Empire State Building adesso produce 6,27 chilogrammi di anidride carbonica l’anno per piede quadrato; nel 2030 stando ai nuovi standard dovrà aver ridotto le emissioni a 4,53 kg. Una nuova agenzia cittadina, l’Office of Building Energy and Emissions Performance, potrà tuttavia alterare la matematica e esaminare ricorsi per concedere flessibilità a palazzi che abbiano inquilini di business dalle comprovate necessità di elevati consumi energetici, quali media, tecnologia e aziende di life sciences.

Una specifica misura ambientale condanna infine il fracking, la fratturazione idraulica: vieta la concessione di permessi necessari all’importazione di gas naturale attraverso la Williams Pipeline, un gasdotto che arriva dalla Pennsylvania (una delle controverse patrie del fracking americano assieme al Texas). Il fracking e’ dal 2014 vietato nello stato di New York, ma l’import di gas cosi estratto era stato stato proposto citando la necessità di ovviare ad una produzione di energia più «sporca». La riforma comolessiva avrà ancora delle appendici: in arrivo è un ulteriore provvedimento, che resta da votare ma dato per certo: la conversione di tutti gli scuolabus in veicoli elettrici nel giro di vent’anni, capitolo dello sforzo cittadino di trasformare l’intero trasporto pubblico newyorchese su gomma entro il 2040.




“Per ogni Greta c’è un membro della Generazione Z che non indosserà mai lo stesso capo due volte”

"Per ogni Greta c'è un membro della Generazione Z che non indosserà mai lo stesso capo due volte"

La generazione dei nati tra il 1995 e il 2010 già vale un terzo del mercato del lusso. Il direttore del Polimoda: “Questi giovani hanno il potere di condizionare la moda del futuro”

Hanno il potere di mettere in crisi la moda per i prossimi decenni: sono i ragazzi della Generazione Z, quelli nati tra il 1995 e il 2010. Sono i primi veri nativi digitali, non ricordano il mondo senza Internet e computer e sono un vero grattacapo per gli stilisti. Hanno gusti e preferenze ben definiti: per scoprirli il New York Times ha chiesto a tre giovanissimi di mostrargli i loro acquisti. La conclusione? L’apparenza batte la qualità: la Generazione Z, secondo il giornale americano, predilige “outfit carini e poco costosi, purché sembrino belli su Instagram”. “Questi ragazzi non condizioneranno la moda in futuro, lo fanno già”, spiega ad HuffPost il direttore di Polimoda Danilo Venturi.

“Per ogni Greta Thunberg o studente che salta la scuola per unirsi alle proteste per il clima, c’è un altro membro della Generazione Z che compra vestiti poco costosi con il suo smartphone – si legge sul NYT -. Le scelte di acquisto, alimentate dalla cultura degli influencer e soddisfatte da una nuova ondata di brand ultra fast fashion, come Fashion Nova, Pretty Little Thing e Missguided (quest’ultimo responsabile di un bikini venduto a una sola sterlina, che ha registrato il tutto esaurito in Gran Bretagna), si basano più su come un determinato outfit possa apparire sui social piuttosto che nel mondo reale”.L’HUFFPOSTRicevi le storie e i migliori blog sul tuo indirizzo email, ogni giorno. La newsletter offre contenuti e pubblicità personalizzati.Sottoscritto!Grazie per aver effettuato l’iscrizione! A breve riceverai una mail di conferma.

Lo dimostra l’inglese Mia Grantham, 16 anni: la giovane ha confessato al NYT di non avere alcuna intenzione di indossare lo stesso vestito due volte: da qualche tempo ha iniziato ad avere un piccolo seguito su Instagram e non vuole in alcun modo deludere i suoi followers. Le piace indossare abiti rossi: ne ha almeno 14 diversi. Si addormenta facendo lo scrolling delle pagine dedicate allo shopping, che consulta per almeno 10 o 15 minuti alla fine della giornata. Ha sottoscritto un abbonamento annuale tramite l’applicazione del suo brand preferito, Pretty Little Things, che le permette di ricevere i vestiti il giorno dopo l’ordine. “Quanti capi credi di aver acquistato nel 2019?”, alla domanda del NYT risponde: “Un centinaio”.

Ma quando un vestito può dirsi “vecchio”? La giovane Grantham non ha dubbi: se è un paio di jeans che indossiamo a casa possiamo tenerlo anche per sempre, se è un vestito col quale intendiamo uscire e farci vedere dagli altri dopo due volte è già da buttare. E se il ricambio è così frequente, quanto è disposta a spendere la sedicenne per i suoi capi? “Ovviamente – dice al NYT – cerco di spendere il meno possibile”.

La storia di Mia Grantham non è isolata, ma è lo specchio di come alcuni giovani della Gen Z concepiscano lo stile. Il loro occhio è sempre puntato verso i social network, il vero palcoscenico sul quale i vestiti indossati fanno il loro debutto: “Scatto dei selfie ogni volta che esco, nella mia camera da letto e poi con i miei amici o il mio ragazzo”, dice la giovane. Ammette di non pensare mai alla fine che faranno quegli abiti una volta buttati via, ma afferma di conoscere il fenomeno della moda sostenibile: “So che diversi brand stanno creando dei capi sostenibili. Molti sono simili a quelli della collezione classica, ma costano di più. Se devo essere onesta, penso: ‘Perché dovrei pagare di più, quando posso avere la stessa cosa a meno?’”.

Se la Generazione Z detta la moda, i brand obbediscono

Secondo uno studio di Bain&Co, le nuove generazioni, la Y (quelli nati tra il 1980 e il 1995) e la Z, già valgono un terzo del mercato del lusso e guideranno la crescita del mercato fino ad arrivare a coprire nel 2035 l’80% dei consumi. Impossibile, dunque, non prenderli in considerazione. Così la pensa il direttore del Polimoda, Danilo Venturi che ad HuffPost spiega: “La Generazione Z non condizionerà la moda, lo fa già. Questi ragazzi vivono in un mondo privo di limiti spazio/temporali che produce in loro valori e comportamenti in favore dell’uguaglianza di razza, cultura e orientamento sessuale, dall’altra parte però genera anche un senso di inquietudine e a tratti di vera e propria depressione. Alcuni brand si sono accorti di questo mutamento radicale ed hanno adeguato le loro best practice, altri usano temi come la sostenibilità semplicemente per fare marketing, altri ancora non si sono accorti di nulla. In Polimoda queste tendenze prendono forma quotidianamente grazie alla presenza di 2300 studenti provenienti da 70 diverse nazioni, un laboratorio di idee a completa disposizione di aziende, istituzioni e di chiunque voglia produrre progresso, a patto che ciò a avvenga a favore e insieme agli studenti stessi”.

La Generazione Z rivoluzionerà il modo di fare shopping

A mano a mano che cresceranno, i membri della Gen Z cambieranno il loro modo di fare shopping: secondo Federica Levato, analista di Bain, questi giovani non saranno affatto frivoli nei consumi. Se è vero che da una parte è forte la tentazione rappresentata dal fast fashion, dall’altra è plausibile che, avendo assistito all’instabilità economica vissuta dai millennials che lavorano, i membri della Gen Z facciano acquisti più ragionati, intelligenti e che possano durare nel tempo. Inoltre, essendo nativi digitali, hanno un utilizzo più equilibrato dello smartphone e hanno rivalutato il ruolo del prodotto e del negozio fisico. Daranno importanza all’economia circolare, all’ambiente, alla sostenibilità e chiederanno ai brand un impegno culturale e calato nello spirito del tempo. In conclusione, secondo la Levato, quello che vogliono è un prodotto “eccellente ma anche buono, secondo logiche etiche e responsabili”.