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Addio buche, la strada è di plastica

Addio buche, la strada è di plastica

L’idea di costruire strade con la plastica riciclata che, rispetto all’asfalto, non solo è a impatto zero ma regge anche meglio le alte e basse temperature ed ha una durata ed una resistenza di circa 3 volte superiore, è venuta per primi agli indiani. La colla polimerica ricavata da rifiuti di plastica triturati ricopre in India oltre 33 mila km di strade e il governo vuole realizzare oltre 83 mila km. A Roma sulla via Ardeatina è stato realizzato il primo tratto al mondo con un supermodificante in grafene e plastica riciclata

Strade di plastica riciclata e senza buche. In India sono una realtà da quasi venti anni e presto potrebbero arrivare anche da noi. A questa soluzione, a dir poco geniale, stanno lavorando in molti nel mondo, e anche in Italia si stanno muovendo i primi passi. L’idea di costruire strade con la plastica riciclata che, rispetto all’asfalto, non solo è a impatto zero ma regge anche meglio le alte e basse temperature ed ha una durata ed una resistenza di circa 3 volte superiore, è venuta per primi agli indiani.

Nel 2002 questa tecnica, che permette in un solo colpo di risolvere l’inquinamento da plastica e il problema delle buche ‘lunari’ che disseminano il manto stradale, fu applicata per costruire la strada di Jambulingam, a Chennai. E la prova della sua riuscita nel tempo è che in quasi venti anni, nonostante i monsoni, il caldo e i fiumi di macchine, la strada non si è consumata, né ha sviluppato crepe o buche. Oggi, la colla polimerica ricavata da rifiuti di plastica triturati ricopre in India oltre 33.000 Km di strade e il governo vuole realizzare oltre 83.000 Km di nuove strade ‘plastificate’ entro i prossimi 5 anni.

E in occidente? Qui i tentativi di utilizzare bottiglie e tappi di plastica per costruire strade risalgono solo a pochi anni fa. Il primo ad avere l’idea di sostituire il materiale riciclato ai combustibili fossili presenti nell’asfalto è stato l’ingegnere scozzese Toby McCartney con la sua startup MacRebur. La ricetta vincente è un mix composto dai 3 ai 10 Kg di plastica riciclata per ogni tonnellata di asfalto, usato come collante al posto del tradizionale bitume ottenuto dai combustibili fossili. Con questo composto due anni fa la MacRebur ha ripavimentato una delle principali e più trafficate strade del borgo di Enfield a Londra e l’amministrazione londinese ha deciso di estenderne la sperimentazione ad alcune fermate degli autobus.

Il metodo McCartney è sbarcato anche oltre Europa, come Australia, America del Nord e Dubai. In Olanda, invece, nel 2017 la Kws, società del gruppo edilizio VolketWessel, ha realizzato a Zwolle una pista ciclabile di 30 metri con plastica riciclata pari a 218mila bicchieri oppure 500mila tappi. Per la costruzione è stato utilizzato il progetto Plastic Road, costituito da moduli prefabbricati composti da plastica riciclata che si incastrano tra loro costituendo una superficie stradale.

Questi moduli hanno la forma di una scatola cava, molto leggera, che può essere installata anche su un sottofondo sabbioso ed ha il duplice vantaggio di permettere il passaggio di tubazioni e cavi, che possono essere utilizzati anche per la ricarica dei veicoli elettrici, e facilitare gli interventi di manutenzione. Inoltre, in caso di pioggia, l’acqua viene raccolta all’interno evitando la possibilità di inondazioni. Ma anche l’Italia sta lavorando per realizzare le sue ‘strade di plastica’.

A Roma, per esempio, sulla via Ardeatina, è stato realizzato il primo tratto al mondo con un supermodificante in grafene e plastica riciclata, il Gipave, messo a punto da Iterchimica in collaborazione con Directa Plus, G.Eco (Gruppo A2a) e l’Università Bicocca di Milano. Questa tecnologia rende l’asfalto più resistente fino al 250%, salvaguardandolo dalle buche e rendendolo anche antismog e antighiaccio. Inoltre la possibilità di riuso dei materiali già presenti sulla strada rende le strade costruite con il Gipave riciclabili al 100%, riducendo così l’estrazione di nuovi materiali e l’impiego di bitume di primo utilizzo. Questo nuovo additivo è stato utilizzato recentemente anche per costruire una pista dell’aeroporto di Fiumicino, la prima al mondo di questo genere, per confermare in situazioni di grande stress gli ottimi risultati già ottenuti in ambito stradale.

Ma oltre alle strade, in Italia potrebbe essere di plastica anche il carburante per le auto. Per la verità a lavorare su questo progetto nel mondo sono in tanti. In Italia se ne sta occupando la Lifenergy di proprietà della Firmin, azienda leader nel settore dei prodotti petroliferi in Trentino alto Adige. Ed è qui infatti che nascerà il primo impianto su scala industriale per riconvertire la plastica non riciclabile in biocarburante utilizzabile nei motori esistenti, che sarà commercializzato direttamente nei distributori di proprietà della Firmin. Anche l’azienda svizzera Grt sta lavorando sulla trasformazione della plastica in carburante sintetico e i primi impianti dovrebbero sorgere proprio in Italia. Per ogni tonnellata di plastica riciclata si potranno ottenere 900 litri di combustibile, al costo di 25 dollari al barile, meno della metà del prezzo del petrolio.




Moda sostenibile, il futuro è sempre più green

Moda sostenibile, il futuro è sempre più green

L’industria globale della moda punta sulla sostenibilità, indicata come secondo obiettivo strategico, e sottolinea il comune impegno del settore nella creazione di un futuro completamente ‘green’.

E’ quanto emerge da una ricerca è stata effettuata da Economist intelligence unit (Eiu) per lo U.S. Cotton Trust Protocol basandosi su interviste con marchi come Adidas, H&M e Puma. Il nuovo report ‘La sostenibilità è di moda?’ arriva in un momento in cui l’industria si trova di fronte ad un bivio: decidere se continuare a investire nella sostenibilità o ritornare sui propri passi in considerazione della pandemia.

Da questa ricerca, emerge in primo luogo che per i big della moda, della vendita al dettaglio e del tessile la sostenibilità è fondamentale per la sopravvivenza del business. Per i leader della moda, della vendita al dettaglio e del tessile, la sostenibilità è fondamentale per il business. A dispetto della pandemia, infatti, i dati raccolti mostrano che per molti dei più grandi marchi fashion di rilevanza mondiale la sostenibilità è diventata un fattore cruciale per l’azienda.

La maggior parte dei top manager della moda, della vendita al dettaglio e del tessile intervistati (60%), ha individuato la svolta sostenibile come uno dei due principali obiettivi strategici per la propria attività, seconda solo al miglioramento della soddisfazione dei clienti (primo classificato col 64%). Ciò contrasta nettamente con il tradizionale obiettivo di ‘premiare gli azionisti’ che risulta oggi essere indicato solo da uno su sei (15%) degli intervistati come obiettivo principale.

I top manager affermano che stanno introducendo misure di sostenibilità in tutta la filiera produttiva

Ciò prevede, a partire dall’approvvigionamento di materie prime prodotte in modo sostenibile (65%), di adottare ormai un approccio basato sull’economia circolare e sulla riduzione dei gas serra (51% ciascuno) e investire in nuove tecnologie come la stampa 3D e la blockchain (41%). Nel complesso, la maggioranza (70%) è ottimista sul fatto che il fast fashion possa essere sia accessibile che sostenibile.

I dati contano

Un elemento chiave che emerge dalla ricerca è l’importanza della disponibilità di dati per essere più sostenibili. La raccolta di dati dell’azienda e della supply chain per misurare le prestazioni è, infatti, posta in cima alla lista delle priorità dal 53% dei top manager, seconda solo allo sviluppo e all’implementazione di una strategia di sostenibilità ambientale con target misurabili, posti in cima dal 58%.

E i dati non sono importanti solo nel breve periodo: il 28% dei top manager ha affermato che la disponibilità di dati affidabili è la chiave per traguardare gli obiettivi di sostenibilità nel prossimo decennio. Inoltre, il 73% ha dichiarato di sostenere parametri di riferimento e soglie globali come mezzo efficace per misurare le performance di sostenibilità e guidare il progresso del settore.

Tuttavia, i risultati rilevano che per i maggiori marchi di moda, rivenditori e aziende tessili è difficile ottenere dati di buona qualità. Mentre i capi azienda affermano di disporre di un buon numero di dati sulle pratiche di sostenibilità dei fornitori (65%), sui diritti dei lavoratori e sulla salute e sicurezza sul lavoro nella catena di fornitura (62%). Una percentuale significativa delle imprese (45%) non tiene traccia delle emissioni di gas serra prodotte durante la produzione e distribuzione dei prodotti, mentre il 41% non tiene traccia della quantità di acqua ed energia utilizzata per produrre le materie prime di cui si rifornisce.

In prospettiva, il 29% degli intervistati ha riscontrato che la mancanza di dati disponibili e facilmente accessibili potrebbe ostacolare il processo di collaborazione verso l’obiettivo della sostenibilità in tutto il settore. Come affermato da alcuni intervistati, “raccogliere dati è difficile, ma fondamentale”.

“È chiaro che i marchi stanno affrontando una dura sfida per portare avanti il loro impegno verso la sostenibilità. Allo U.S. Cotton Trust Protocol sappiamo che dati accurati e affidabili sostengono le aziende in questo lavoro. Non solo assicurano riscontri per dimostrare l’importante lavoro fatto e i progressi raggiunti, ma offrono anche una comprensione approfondita per un ulteriore miglioramento. Noi forniamo uno dei meccanismi più strutturati di raccolta dei dati disponibili per il cotone, materiale essenziale, al fine di garantire una trasparenza unica” afferma Gary Adams, President dello U.S. Cotton Trust Protocol.

La collaborazione apre la strada per ulteriori passi avanti

Un’altra constatazione chiave è che la moda, il commercio al dettaglio e il settore tessile non possono ovviamente guidare il cambiamento singolarmente: è necessaria la collaborazione. Tuttavia, quando si tratta di un supporto esterno che aiuti a guidare questo progresso, i top manager non percepiscono come essenziale l’introduzione di un’ulteriore regolamentazione.

Agli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile (Sdg) delle Nazioni Unite e alla regolamentazione governativa nel guidare il cambiamento della sostenibilità è stato attribuito lo stesso peso, entrambi sono citati da un quarto degli intervistati (24% ciascuno). I requisiti normativi sono stati classificati solo un terzo dei top manager (33%) intervistati tra i primi tre fattori che governeranno il progresso della sostenibilità nel prossimo decennio.

L’impatto del Covid-19

Questa determinazione verso la sostenibilità si scontra con l’incertezza generata dal Covid-19; va comunque fatto presente che, quando è stato chiesto il loro punto di vista sulla pandemia, poco più della metà (54%) degli intervistati ha affermato di ritenere che la pandemia potrebbe rendere la sostenibilità un fattore meno prioritario all’interno del settore.




L’importanza e i benefici di una cultura aziendale positiva

L’importanza e i benefici di una cultura aziendale positiva

Le ricerche sulla psicologia organizzativa dimostrano che gli ambienti lavorativi basati sulla pressione e sulla competizione spietata sono dannosi per la produttività delle aziende. Un ambiente positivo, invece, può apportare enormi benefici sia per le persone che per i risultati del business. Nonostante sia diffusa la convinzione che la pressione e lo stress siano un buon incentivo per spingere i lavoratori a performare di più e più velocemente, le organizzazioni spesso non prendono in considerazione i costi collegati a questo tipo di cultura lavorativa. Innanzitutto, le spese sanitarie: nelle aziende ad alta competitività sono maggiori del 50% rispetto ad altre organizzazioni. Il 60%-80% degli incidenti sul lavoro, poi, sono collegati a situazioni di stress, così come l’80% delle visite mediche, dato che lo stress sul lavoro è causa di forme di sindromi metaboliche e di malattie cardiovascolari. Allo stesso modo, lo stress causato dal fatto di ricoprire posizioni gerarchiche è causa di malattie. 

In secondo luogo, bisogna considerare il costo di uno scarso livello di coinvolgimento sul lavoro: le ricerche hanno dimostrato che quando non si è coinvolti si rischia di soffrire di stress. Questo ha dei costi per l’azienda, dal momento in cui un basso livello di coinvolgimento porta a un aumento del 37% dell’assenteismo, del 49% di incidenti e del 60% di errori. 

Il terzo costo da considerare è legato alla mancanza di fidelizzazione: le ricerche dimostrano che le persone che vivono una situazione stressante sono del 50% più inclini a cambiare lavoro, declinare una promozione o licenziarsi. I costi associati a questo fattore hanno a che fare con le spese necessarie per la ricerca di una nuova risorsa, la formazione, la perdita di produttività e di esperienza. Il Center for American Progress ha stimato che sostituire un lavoratore costa quanto il 20% del suo salario. 

Per questi motivi, spesso le aziende si preoccupano di fornire ai propri dipendenti benefit di vario tipo, dal telelavoro alla palestra aziendale, ma una ricerca di Gallup ha dimostrato che i lavoratori preferiscono il benessere sul lavoro ai benefit materiali. Il benessere sul luogo di lavoro dipende esclusivamente dalla presenza o meno di una cultura aziendale positiva, che si basa su 6 caratteristiche essenziali: cura per i colleghi, supporto e compassione, saper perdonare gli errori, saper ispirare gli altri, enfatizzare i lavori significativi e trattare gli altri con rispetto, gratitudine, fiducia e integrità. Per incentivare lo sviluppo di questi elementi, i capi possono agire rinforzando le relazioni sociali positive, mostrare empatia e fare la loro parte per essere concretamente d’aiuto. Una ricerca della NYU Stern School of Business ha infatti dimostrato che i leader che si mostrano più attenti e disposti al sacrificio riescono a creare un ambiente più cooperativo e produttivo. Infine, i leader dovrebbero incoraggiare le persone ad aprirsi con loro, specialmente riguardo ai propri problemi. Nel libro Give and Take, il professore della Wharton Adam Grant ha dimostrato che la generosità e la gentilezza di un leader sono driver importanti per l’efficacia aziendale. 

Mentre un clima lavorativo più rigido porta a un minor livello di salute generale tra i lavoratori, un ambiente di lavoro positivo contribuisce a migliorare diversi aspetti legati alla salute dei lavoratori, come ad esempio la frequenza cardiaca, la pressione sanguigna e il sistema immunitario. Quando i lavoratori sono più felici, questo si riflette anche sul servizio che viene offerto all’esterno. Di conseguenza, una cultura lavorativa positiva non migliora solo la salute dei singoli ma contribuisce a migliorare gli outcome legati ai clienti in termini di salute e soddisfazione.

Leggi l’articolo completo di Emma Seppälä e Kim Cameron su www.hbr-org.cdn.ampproject.org




Banche e sostenibilità: Millennials già superati, si punta sulla Generazione Greta

Banche e sostenibilità: Millennials già superati, si punta sulla Generazione Greta

I giovanissimi e il loro interesse per il climate change, stanno obbligando gli istituti a studiare nuovi business model. Gli esempi di Flowe (Mediolanum) e Hype (Sella)

Sono nativi digitali, seguono influencer e youtuber. Sono scesi in piazza per i Fridays for Future, consapevoli del fatto che la sostenibilità rappresenti l’unica strada per salvare il pianeta. La Generazione Greta sta contribuendo alla trasformazione dei business model di diverse attività, chiamate a ripensarsi e innovarsi in chiave green. Le banche sono tra le prime a rispondere alla sfida, perché per i più giovani anche il rapporto con la gestione del denaro è destinato a cambiare.

I numeri di Flowe

Oltre 23.000 app scaricate e 4.500 alberi piantati: in poco meno di due mesi dal lancio, Flowe, la banca digitale targata Mediolanum pensata proprio a misura di Generazione Greta, si dimostra un progetto capace di convincere grazie alla sua impronta verde. «Per la Next-Gen – spiega Ivan Mazzoleni, ceo & cultural energy orchestrator di Flowe – la sostenibilità non è un’opzione. Ha ben chiaro che non esiste un Pianeta B. Partendo da questa consapevolezza abbiamo realizzato la prima banca digitale al 100%, fruibile tramite app, che si propone di essere al tempo stesso uno strumento di educazione all’ambiente e all’innovazione».

Flowe è una società benefit del Gruppo Bancario Mediolanum, certificata carbon neutral, attenta ai consumi energetici: le auto aziendali sono ibride o elettriche. L’attenzione alla sostenibilità è il filo conduttore che lega gli utenti di un nuovo modello di banca, in prima fila nella costruzione di una comunità unita da valori green. «Il legame diretto con la natura è espresso anche attraverso la nostra carta in legno di foresta certificata. Un prodotto nuovo ed ecologico, al quale però abbiamo scelto di attribuire un costo di 15 euro per disincentivarne l’uso indiscriminato – racconta Mazzoleni –. La nostra carta è carbon free footprint, per ogni emissione, infatti, Flowe si impegna a piantare un albero, grazie alla collaborazione con la startup ZeroCo2».

Una app per tracciare l’impatto sul clima

Il percorso di educazione e sensibilizzazione degli utenti passa per l’intesa con la fintech Doconomy, che consente l’uso dell’indice Åland, con l’obiettivo di tracciare e calcolare l’impatto sul clima dei consumi del singolo cliente. Flowe è il quarto istituto finanziario dopo Bank of Åland, Nordea e Bank of the West, e il primo Imel italiano, ad adottarlo. La app è disponibile in due versioni: Fan, gratuita, e Friend, con un canone mensile di 10 euro che consente di accedere a contenuti extra come videolezioni su temi ambientali e la possibilità di bilanciare il consumo di CO2 legato alle proprie transazioni, piantando un albero grazie alla collaborazione con ZeroCO2.

Hype e il banking digitale

Che si tratti di una generazione destinata a cambiare modelli aziendali e di consumo emerge con forza anche da uno studio, di inizio anno, promosso dall’ufficio studi di Hype (gruppo Sella), soluzione di banking digitale per una gestione semplice ed efficiente del denaro che funziona attraverso una app. L’analisi ha messo a confronto l’approccio ai consumi di Millennials e Generazione Z (o Generazione Greta), partendo dai dati relativi all’utilizzo di Hype nella gestione del denaro e negli acquisti di beni e servizi relativamente ai due cluster di clienti appartenenti all’oltre milione di clienti attivi.

Primo dato significativo è la frequenza giornaliera di accesso all’app: 0,68 volte al giorno per i giovanissimi della Generazione Z e 0,57 volte per i Millennials: una differenza che rappresenta un chiaro indicatore di come i giovanissimi ricorrano con maggiore naturalezza alla propria mobile bank.

Risparmiare per Obiettivi

Le principali voci di utilizzo di Hype mostrano come entrambe le generazioni abbiano comportamenti simili, con una spiccata propensione all’utilizzo della soluzione come abituale strumento di pagamento. Una delle funzioni più utilizzate di Hype è quella degli Obiettivi, che consente l’accantonamento progressivo di cifre destinate ad una finalità preimpostata.

Per la Generazione Z, il principale obiettivo di risparmio riguarda l’acquisto di prodotti elettronici o software, i Millennials sono orientati verso il consumo “analogico”, presentando come principale voce di risparmio la categoria “Veicoli e trasporti”, con un peso relativamente significativo anche della voce “Viaggi e Vacanze”.




L’ornitorinco, ovvero come l’architettura dell’informazione influenza la User Experience

L’ornitorinco, ovvero come l’architettura dell’informazione influenza la User Experience

I primi esemplari arrivarono imbalsamati dall’Australia. E molti credettero a un fake. Abili imbalsamatori cinesi avevano infatti la capacità di creare animali immaginari assemblando parti di animali diversi. Becco d’anatra, corpo di talpa, zampe palmate… c’è voluto quasi un secolo perché gli etologi si accordassero sulla collocazione da dare all’ornitorinco – sì stiamo parlando proprio di questo simpatico animale. Che sembra effettivamente un puzzle di altri animali. Scoperto in Australia sul finire del Settecento, l’ornitorinco ha rappresentato per più di ottant’anni un vero e proprio rompicapo per gli studiosi di mezzo mondo.

Oggetti ornitorinchidi

L’ornitorinco è una specie di mascotte per chi si occupa di organizzazione dell’informazione. Anche molti prodotti, servizi, documenti con cui abbiamo a che fare quotidianamente si comportano come l’ornitorinco, anche se il loro aspetto appare meno bizzarro. Difficile trovare una collocazione univoca che metta tutti d’accordo. Vuoi per l’intrinseca complessità dell’oggetto da classificare, vuoi per la molteplicità dei punti di vista da cui si può considerare l’oggetto stesso. 

Come dire che l’ornitorinco è negli occhi di chi guarda. E così ciascuno tenderà a privilegiare un aspetto anziché un altro: chi vedrà più l’anatra chi più la talpa. Questo perché i nostri diversi bisogni e modelli mentali determinano modalità altrettanto diverse di ricercare l’informazione.

Quando usare cosa

Per questo non esistono classificazioni giuste o sbagliate, ma solo più o meno appropriate agli obiettivi, al contenuto, al pubblico. Sono questi che dovrebbero guidarci nella scelta del criterio di organizzazione. Tuttavia, anche in assenza di regole assolute, possiamo individuare alcune linee guida di massima.

Le tassonomie

Se c’è un bisogno prevalente (o pochi bisogni prevalenti), le tassonomie possono funzionare bene. Le tassonomie sono alberi gerarchici formati da classi che si ramificano progressivamente a partire da una classe principale. In questi sistemi, ogni oggetto ha una collocazione univoca, appartiene a una classe soltanto: ciò rende le tassonomie molto rigorose, ma anche molto rigide.

Esempi: ne sono un esempio la classificazione di Linneo usata in scienze naturali; la classificazione decimale Dewey adottata da gran parte delle biblioteche e degli OPAC europei; il file system del computer a cartelle e sottocartelle.

Le faccette

Se invece i bisogni o i modelli mentali da soddisfare sono molteplici, allora occorre guardare a sistemi di organizzazione a faccette. Le tassonomie considerano l’oggetto da classificare come un tutt’uno indivisibile, e come tale lo collocano all’interno di un’unica classe-contenitore. Viceversa, la classificazione a faccette scompone l’oggetto da classificare in molteplici proprietà, ciascuna delle quali riflette un aspetto/faccia dell’oggetto. In tal modo le chiavi di accesso all’informazione sono plurime, capaci di soddisfare altrettanti modelli mentali.

Esempi: Gran parte dei cataloghi e-commerce è strutturata a faccette, proprio per l’estrema versatilità di questo sistema.

Le poligerarchie e i sistemi misti

Tassonomie e faccette sono i due estremi di uno spettro che comprende altre forme di organizzazione. Come le poligerarchie o i sistemi misti. Le poligerarchie condividono le stesse caratteristiche delle tassonomie salvo che qui l’oggetto classificato può appartenere a più di una classe. Le poligerarchie correggono così l’eccessiva rigidità delle tassonomie assicurando anche maggiore elasticità.

Esempi: sono poligerarchici i primi livelli dei cataloghi Amazon, eBay, Yoox e molti altri. Ma i primi livelli soltanto. Perché la struttura di questi siti di e-commerce è mista: poligerarchica nei livelli superiori, a faccette in quelli inferiori (una volta che si è selezionata una categoria merceologica relativamente omogenea). Nel caso di cataloghi molto ampi, le tassonomie aiutano a fare una prima scrematura di massima, le faccette a raffinare la ricerca all’interno del comparto selezionato.

Organizzare l’informazione è stabilire una “visione del mondo”

Non esistono classificazioni giuste o sbagliate, ma soltanto più o meno aderenti a un certo scopo. Molti studi confermano che l’idea di una classificazione scientifica, definita come tale sulla base di una serie di regole a-priori è un’utopia. Viceversa ogni classificazione è sempre inevitabilmente una commistione di razionale ed empirico. Più che a una coerenza aprioristica essa risponde alla salienza: cioè alla capacità di essere funzionale allo scopo per cui è stata concepita.

Ne consegue che nessuna organizzazione dell’informazione è neutra. Organizzare in un certo modo uno spazio informativo significa dare forma a quello spazio, attribuirgli un’identità e un senso. Significa modellare l’esperienza di chi attraversa quello spazio. Così ogni architettura dell’informazione crea una visione del mondo, influenza la nostra percezione della realtà, e plasma inevitabilmente la nostra esperienza.