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Mi sono perso la Giornata Mondiale della Risata. E non ci trovo nulla da ridere.

Mi sono perso la Giornata Mondiale della Risata. E non ci trovo nulla da ridere.

Mi accontenterei di risate,
anche registrate.

Laugh track ovunque, come se
non ci fosse un domani, come sottofondo animato per i nostri talk show
casalinghi ma anche per le nostre digressioni apocalittiche al supermercato e durante
le file alla posta, dove diventiamo detrattori, giudici, presidenti del
Consiglio, allenatori della Nazionale, papi & cardinali, talent scout e
chef.

L’ingegnere del suono
americano Charles Douglass quando inventa le risate registrate ignora che
diventeranno una consuetudine nella programmazione mainstream degli Stati Uniti.
Accompagneranno generazioni nella costruzione dell’assenso, persino del
divertimento a comando e nell’autoconsolazione patriottica.

La risata ha poteri curativi
importanti e non ha effetti collaterali. Anzi, parrebbe migliorare la
circolazione e l’ossigenazione del sangue e la produzione di endorfine. Il
cortisolo si riduce sensibilmente a supporto, persino, delle difese
immunitarie.

Patch Adams, fondatore del
Gesundheit Institute e ideatore della clownterapia, sosteneva che la buona
salute è questione di risate.

Mark Twain sosteneva che “contro
l’assalto delle risate, nulla può resistere”.

In effetti, con dodici muscoli
si altera a piacimento l’intero pattern espressivo umano, diventiamo indocili,
mettiamo in crisi certezze altrui e pungoliamo l’establishment.

E per fare il broncio? Ne
occorrono settantadue, decisamente antieconomico.

Ho scoperto per caso la Giornata
Mondiale della risata
che, in questo sfortunato 2020, è caduta il 3 maggio,
nel lockdown generale, dove c’era ben poco di cui ridere – direte voi, diranno
gli altri.

Eppure, entrando a passi
felpati nella Fase 2, con tutte le cautele del caso, si sente l’esigenza (quasi
fisica) di abbandonare i toni apocalittici e lo psicodramma collettivo della
nostra società dello spettacolo.

Non tanto per la volontà
(quasi persino voluttà) di ‘buttarla di caciara’, quanto per ridimensionare
il mood declinista, catastrofista, immanentista dei mesi precedenti l’arrivo
del virus.
Dove la sintassi si destreggiava con armi di distruzioni di
massa.

Alle nostre latitudini, dov’è
che si apprendono stile & prestanza nel confronto pubblico? Nei talk
show
– ovviamente – dove l’infotainment e il politainment sono governati da
media logic e dallo share; dove gli ‘elettori fluttuanti’ sono pane demoscopico
irrinunciabile, sorpresi nelle loro tentazioni di voyeurismo e tanaturismo.

Care ‘very important person’ del
momento (mi riferisco ai fluttuanti citati), la balistica del priming si
collega al processo di agenda building: fatevene una ragione, è il destino di
tutti noi!

Adeguati o inadatti, preparati
o ignoranti, attenti o distratti, siamo entrati nei mondi di Carta Bianca,
Agorà, Ottoemezzo, L’aria che tira, La Gabbia, Piazza Pulita, Virus, Matrix,
Annozero, Ballarò, Porta-a-Porta, Milano Italia, Profondo Nord, Omnibus
Servizio Pubblico, DiMartedì, Che tempo che fa (quanti ne dimentico tra
presenti e passati?) e da lì non ne siamo più usciti.

Ricordate ‘Faccia a faccia’, il
rotocalco televisivo condotto da Enzo Biagi o ‘Tribuna elettorale’ o ancora ‘Bontà
loro’, condotto da Maurizio Costanzo?

Vanaglorismo? Macché.

Bourdieu parlava di censura
invisibile e di violenza simbolica, i più intemperanti di dumbing down, i più
incarogniti di effetti Manchurian, io (sommessamente) di distrazioni incaute
di massa.

Gli elettori fluttuanti hanno
potuto contare su piazze televisive dove farsene una ragione, per poi trovare
conferma nei bias della cultura digitale.

Figurarsi il 47% dei
cosiddetti analfabetici funzionali: pane per i loro denti affilati.

Ma torniamo ai cosiddetti political
debate shows che imperversano più tonici che mai.

Ma è così dappertutto? Per
esempio, nella tv britannica? Uno solo e si chiama “Question Time”.

“Sì, ma loro sono algidi,
mentre noi italiani siamo focosi, urlatori, passionali”.

Sia. Ma se con i canali tv
nazionali presenti sulle principali piattaforme (nel 2017 erano 361), che fanno
capo a 59 editori, si riuscisse a trovare un accordo di massima su una pausa
da ricostruzione
che riveda il linguaggio, le tassonomie, il mood generale,
non potremmo riuscire a sotterrare l’ascia di guerra per ritrovare gli
anticorpi di una comunicazione razionale e meno emotiva?

Non consolatoria e nemmeno intimista.

Pervicacemente contro la
ciarla e l’avventurismo, in vista di un futuro che riscatti i dolori individuali
e collettivi, prendendoci tutti insieme la responsabilità della ripartenza.

Con il ricorso alle energie
migliori del bel Paese, della nostra provincia, alle esperienze delle nuove
professioni o dei nuovi lavori, con l’ottimismo tipico di chi deve scrollarsi
di dosso calcinacci, polvere e morchie varie. Con l’utilizzo della retorica –
stavolta necessaria – del ‘tutti-per-uno’.

In mancanza di ciò: autopunizione,
rinuncia alla mediazione e alla interpretazione di ciò che accade attorno a
noi. Silenzio.

E dunque il necessario ricorso
alle risate. Per iniettare dosi omeopatiche di endorfine nelle relazioni
ordinarie, in quelle istituzionali, nella politica locale, nella stampa locale.

Risate pericolose,
irriverenti, destabilizzanti, cauterizzanti,
come
quelle descritte da Arthur Schopenhauer ne ‘Il mondo come volontà e
rappresentazione’ o quelle di Friedrich Nietzsche ne ‘La gaia scienza’.

Altrimenti?

Avrà avuto ragione Michel
Houellebecq
, a proposito di questo virus banale, senza qualità: “Non ci
risveglieremo, dopo il lockdown, in un nuovo mondo; sarà lo stesso, ma un po’
peggio”.




Talent Show. Il riciclaggio curricolare tra HR e Irresponsabilità sociale d’impresa

Talent Show. Il riciclaggio curricolare tra HR e Irresponsabilità sociale d’impresa

“Neolaureato”: condizione a tratti
angosciante, per i più, satura di insicurezze dovute all’inevitabile passaggio
dal certo all’incerto, dal caldo conforto dello status di “studente” a quello
di “disoccupato”. Momento di bilanci e di paure, e dalla forzata convivenza con
la spiacevole sensazione di dubbio: “Sarò
abbastanza fortunato? Troverò lavoro? Le aziende mi chiameranno?”

La situazione dei giovani all’ingresso
del contesto lavorativo non pare affatto incoraggiante. Secondo i dati Istat
2019, il tasso degli under 25 senza un impiego è pari al 27,1%. Nel confronto internazionale
rimaniamo purtroppo ben distanti da paesi come la Germania, stabile al 5% di disoccupazione
giovanile, e siamo in fondo alla classifica Eurostat, nella quale a far peggio
di noi ci son solo Spagna e Grecia.

Il problema della disoccupazione giovanile,
o meglio degli inoccupati, sembra affondare le radici nell’insufficiente investimento
in formazione e orientamento nelle scuole in Italia, nonché nell’esiguità dei
fondi dedicati all’istruzione, motivo per il quale il nostro Paese quest’anno
si è posizionato ultimo in Europa in questa classifica. Ma cosa accade invece a
quei giovani laureati che invece un lavoro lo trovano?

Per la maggior parte di essi, la strada
è solo una: lo stage. Più propriamente definito dalla legge come “tirocinio
formativo”, questa formula assai precaria di avvio al mercato del lavoro consiste
in un periodo di’inserimento all’interno di un contesto lavorativo con la
finalità di consentire al tirocinante/stagista di acquisire un’esperienza
pratica in un determinato settore produttivo. Il Ministero del lavoro, per
incoraggiare l’assunzione dei giovani italiani, finanzia il programma Bonus Garanzia Giovani, che prevede una serie d’incentivi e agevolazioni
per le aziende che assumono giovani tra i 16 ed i 29 anni. Lo stage – che così
delineato appare come un’opportunità per i giovani di accedere al mondo del
lavoro e di mettere in pratica quanto studiato durante gli anni di formazione –
ha purtroppo un lato oscuro, che spinse il giornalista Beppe Severgnini a
definire l’Italia, con una frase poi divenuta celebre, come “una Repubblica fondata sullo Stage”. Cosa
accade?

Concentriamoci sulla nozione di “Human Resource”: il
capitale umano, ovvero la consapevolezza che le vere risorse di un’azienda non
siano (solo) le macchine, i fondi o gli stanziamenti di denaro, ma piuttosto le
persone. Ne consegue che se l’organizzazione, azienda o impresa si prende cura
del proprio capitale umano, lo rispetta e investe in esso, nel suo sviluppo e
benessere, la crescita strategica e di profitto dell’organizzazione è
assicurata. A conferma di questa teoria, vi sono numerosi studi e ricerche,
oltre che storie d’eccellenza ante litteram come quella di Adriano Olivetti,
che con la sua idea d’impresa rappresenta ancora oggi un caso d’eccellenza continua
a fare scuola a tutto il mondo. Sulla base di questo ragionamento, può non
apparire così spaventoso per il giovane neolaureato immergersi lungo il
complesso iter di ricerca del lavoro.

Sfortunatamente per i giovani, l’entusiasmo
iniziale viene sostituito presto da una disillusione profonda. I career day,
eventi nei quali le aziende “si mettono in mostra”, ognuno nel proprio apposito
stand, spesso e volentieri si rivela essere solo una vetrina utilealle imprese per farsi conoscere: una
pura strategia di posizionamento, che non è volta affatto alla ricerca dei
cosiddetti migliori talenti, e stesse
aziende che si autoproclamano come attente, sostenibili e orientate al futuro,
non riescono nemmeno a ipotizzare un onesto e concreto piano di crescita per la
forza lavoro in entrata. E i colloqui?

Non tutte le ciambelle riescono col buco, dice
l’adagio popolare, così come non tutti i colloqui possono avere esito positivo.
Certo, i rifiuti fanno parte della crescita e possono essere utili come
feedback per il futuro, per comprendere cosa si può migliorare nel modo di
presentarsi, e per affinare le tecniche migliori per mostrare il proprio potenziale
al recruiter. Ma per far sì che ciò avvenga, sarebbe opportuno essere
notificati del rifiuto in modo circostanziato, attraverso un feedback dall’azienda.
Scontato direte voi: purtroppo non pare esserlo per le aziende. E non parliamo solo
di piccole realtà, magari impreparate a gestire le procedure di assunzione del
personale, ma anche dei veri e propri colossi del business.

Ad esempio, aziende come BNL gruppo Paribas –
peraltro, almeno formalmente, blasonatissima nel campo della responsabilità
sociale d’impresa – dopo un colloquio con esito negativo ben si guarda dal garantire
alcun tipo di feedback, nemmeno il semplice invio di una mail “precompilata”
alla potenziale risorsa per informarla di quanto deciso. Nella maggior parte
dei casi, le imprese discutono di talento, di significato, di employer branding, e poi nemmeno si prendono
la briga di congedare un candidato ringraziandolo per l’interesse ed il tempo
speso nei confronti dell’azienda stessa.

Episodi del genere non si contano. Nel mese di
dicembre scorso, la Enginereeng – azienda quotata in borsa nell’ambito settore
del software e servizi IT, specializzata nella digital transformation in particolare per i settori finanza,
pubblica amministrazione, utilities e industria – era alla ricerca di una
risorsa per una posizione di stage in HR. L’impresa ha iniziato il suo processo
di selezione del personale, contattando potenziali talenti selezionati
attraverso uno screening nel frequentatissimo portale di ricerca Almalaurea. Sfortunatamente per il
ragazzo contattato, l’entusiasmo iniziale di aver ricevuto la telefonata da
parte della nota azienda è spento rapidamente a seguito di una brevissima
chiacchierata in cui il recruiter, che
dopo aver spiegato che stavano contattando i neolaureati con i profili migliori
da varie università per procedere con un processo di selezione (piuttosto
lungo), dichiarava senza troppe cerimonie che sarebbe comunque stato impossibile
per la risorsa essere inserita in azienda dopo i canonici 6 mesi di contratto, “per questioni di budget”. Eccovi un
esempio lampante e concreto del sopracitato lato
oscuro dello stage
, che prende il nome di “Stage Rolling”: l’utilizzo di stagisti neo-laureati ne più ne meno
come manodopera a basso costo.

È un tipo di stage che non è mai volto alla
definitiva assunzione, ma che si rinnova invariabilmente ogni sei mesi. Consiste
in un vero e proprio riciclaggio di stagisti, persone fresche di studi, dai
brillanti CV e con un alto livello di competenze in entrata, che finito il
contratto di stage vengono mandati via per passare “ai prossimi”, permettendo
così alle aziende di risparmiare notevolmente sui costi della forza lavoro (uno
stagista dopo 5 anni di università viene pagato in media tra i 500 e gli 800
euro mensili, contro i circa 1.300 di contratto a tempo determinato standard),
ma perdendo contemporaneamente moltissimo sul versante di crescita del capitale
umano, sulla motivazione della forza lavoro e – tra l’altro – spendendo
notevolmente in termini di energia e tempo per formare di volta in volta le
nuove leve, in una specie di poco produttiva e illogica coazione a ripetere. Per lo stagista, i possibili “vantaggi” sono
esclusivamente quelli di guadagnare un’esperienza da inserire sul CV, consapevole
di dover cercare un’altra sistemazione al più presto.

Le aziende che praticano (abusandone) questa
modalità di stage sono molte nel contesto italiano, basta una velocissima
ricerca sul portale Google per scoprirlo, 
evidenza che di certo, tra l’altro, non contribuisce al rafforzamento
della reputazione d’impresa. A conferma di quanto appena esposto, i dati della
ricerca Excelsior
che conferma che solo uno stagista su 10 viene poi assunto in azienda:
in media, su 1.000 giovani che cominciano uno stage, solo 106 vengono assunti
(con qualsiasi tipo di contratto), e 894 verranno invece lasciati a casa senza
ricevere una proposta di lavoro ne, spesso, una qualunque giustificazione, se
non, nella migliore delle ipotesi, meramente formale.

Per combattere questo trend tutt’altro che
virtuoso da parte delle imprese, sono nate intriganti realtà come “La Repubblica degli stagisti”, una vera e propria testata giornalistica online,
nata nel 2009, che si occupa di approfondire la tematica dello stage in Italia,
dando una voce alla categoria dei giovani stagisti, oltre che – per onesta
intellettuale – segnalare le aziende che si distinguono positivamente,
redigendo ogni anno una classifica delle più oneste dal punto di vista dei
pagamenti, della trasparenza e del tasso di assunzione a fine stage.

Le questioni della disoccupazione e del precariato
giovanile in Italia sono assai dibattutte, e vengono
raccontate prevalentemente attraverso i numeri dei tagli al personale e delle
ore di straordinari non pagate, o della flessione degli stipendi. Ma quali sono
le conseguenze di questa infausta realtà sui giovani italiani?  Un mix di stress, insicurezza e solitudine, rappresentanti
ormai il fulcro di un mercato del lavoro sempre più incerto e competitivo. Ad
approfondire questo tema è anche l’Ordine degli Psicologi dell’Emilia-Romagna, che ha denunciato l’asprezza dell’attuale
sistema di recruitment, alienante per i giovani, in cui l’ansia per il futuro
può facilmente tradursi in “inadeguatezza,
depressione, stati d’ansia o panico accompagnati da una sintomatologia
psicosomatica
”. Le parole di Anna Ancona, Presidente dell’Ordine, definiscono
in modo chiaro l’attuale situazione: «Una
condizione di precariato lavorativo non rende instabile solo la situazione
economica, ma mina anche lo stato psicologico delle persone. Perché non possono
emanciparsi dalla famiglia di origine e costruire una propria realtà, ma si
ritrovano a vivere forzatamente in una sorta di “adolescenza sospesa”. I
giovani si trovano a volte in condizioni comparabili all’indigenza, con
conseguente frustrazione e perdita dell’identità sociale; quasi sempre, quando
hanno un lavoro, sono comunque sottopagati
». L’impatto negativo
dell’attuale panorama non tocca solo la società e il benessere materiale dei
cittadini, ma anche la salute mentale dei giovani italiani.

Consapevoli di ciò, le aziende – che abilmente
riempiono la descrizione delle loro vision
e mission aziendali con parole come purpose, talent o sostenibilità – non paiono
assumersi la loro fetta di responsabilità per questo spiacevole stato di cose.

Il termine responsabilità
racchiude in sé l’impegno dell’impresa a rispondere pubblicamente di tutti i
propri comportamenti e risultati sul piano etico e sociale. Oggi, operare in modo
genuino su temi come quello della sostenibilità vuol dire essere virtuosi non
solo su temi come la salvaguardia ambientale, argomento tanto vitale quando facile nella sua capacità di attrarre
consenso sul brand, ma anche di inserire preoccupazioni di carattere etico su
temi di estrema attualità come quello del precariato giovanile. Il libro verde della Commissione
Europea definisce la Corporate Social
Responsibility
come “l’integrazione
su base volontaria, da parte delle imprese, delle preoccupazioni sociali
e ambientali nelle loro operazioni commerciali e nei loro rapporti con le parti
interessate”.
Allo stato attuale, poche imprese sembrano comprendere
pienamente il significato di questo termine, distinguendosi invece per quella
che pare piuttosto essere un’ “irresponsabilità sociale d’impresa”.

Storie come quella di Olivetti ci hanno
insegnato che un ascolto sincero nei confronti del proprio “capitale umano” – a
tutti i livelli, dal neoassunto stagista al dirigente – oltre che generare benessere
e conseguentemente aumento di produttività per l’azienda ed engagement da parte
di tutti gli stakeholder, gioverà all’intera comunità, innescando una reazione
a catena virtuosa e profittevole.

Al contrario, la mancata attenzione nei
confronti dei giovani evidenzierà una distonia tra l’immagine e l’identità
d’impresa, con il conseguente – e inevitabile – danno alla reputazione e
pregiudizio alla credibilità, non solo agli occhi dei futuri talenti, ma
dell’intero pubblico dell’organizzazione.

Oggi le aziende hanno una possibilità
che non dovrebbero lasciarsi sfuggire: grazie all’ascolto e al dialogo
costruttivo con le giovani generazioni hanno lo straordinaria opportunità, in
prospettiva, di poter di costruire e migliorare, insieme, il futuro della
società nella quale tutti viviamo.




MAGHI, FATTUCCHIERE E UTILI IDIOTI

MAGHI, FATTUCCHIERE E UTILI IDIOTI

Abstract

Con eccessiva facilità e superficialità, antiche
credenze popolari vengono classificate come “pseudo-scienze”, e generano negli
uomini di scienza più ortodossi ilarità e scetticismo. In realtà, è la scienza
stessa a venire incontro alla tradizione, confermando con studi scientifici varie
convinzioni popolari. Più in generale, l’atteggiamento arrogante e supponente tipico
di alcuni divulgatori scientifici è anti-scientifico in se, in quanto riferito
a un approccio alla comunicazione scientifica absoleto, datato, inefficace e
superato da nuove evidenze, prima tra tutte il modello
PEST – Public
Engagement with Science and Technology.

Ancient popular beliefs are classified as
“pseudo-sciences” and generate hilarity and skepticism in the most
orthodox scientists With excessive ease and superficiality. In truth, it is
science itself that meets tradition, confirming various popular convictions
with scientific studies. More generally, the arrogant and opinionative attitude
of some scientific popularizers is anti-scientific in itself, as it refers to
an obsolete, outdated, ineffective approach to scientific communication, first
of all the PEST – Public Commitment to science and technology.

Keyword

Scienza, pseudo-scienza, tradizioni popolari, cure naturali, EBM, divulgazione scientifica, metodo Burioni, PUS, PEST.
Science, pseudoscience, popular traditions, natural therapies, EBM, scientific dissemination, “Burioni method”, PUS, PEST

Testo

Negli ultimi secoli, la scienza ha prodotto innumerevoli scoperte che
hanno di gran lunga migliorato la qualità della vita dell’uomo, pur generando
un certo autocompiacimento tra gli addetti ai lavori.

Tuttavia, le correlazioni significative tra velocità e
modalità della comunicazione contemporanea sono ormai cosa acclarata: bolle informative[1], annegate
nell’oceano digitale della post-verità; analfabetismo funzionale e di ritorno;
eccesso di velocità; iper-semplificazione ai limiti dell’idiozia; incapacità di
comprendere il contesto.

Tutti questi elementi, compongono il pantano nel quale con difficoltà ci
muoviamo ogni giorno, di device in device, di connessione in connessione: un
mondo farcito di fake-news, tanto più pericolose tanto più toccano il più
delicato dei temi, quello della salute, e – più estesamente – quello appunto della
scienza, una delle poche certezze sulle quali ancora possiamo contare a questo
mondo.

Non sappiamo più da che parte girarci, tra “pseudo-scienza”, maghi,
naturopati, fattucchiere, pillole magiche, integratori portentosi, erbe
miracolose, medicine complementari e “non convenzionali”, e chi più ne ha più
ne metta, anche perché – ammettiamolo – la frenesia nella quale siamo immersi
non da molto tempo per distinguere. Meglio una cesura netta, quindi, per
sicurezza: indicizzato o non indicizzato? Peer-review? Pubblicazione
internazionale oppure no? Diversamente, ve ne prego, non fatemi perdere tempo.

E meno male che ci sono Wired, Focus, Next Quotidiano, e altre riviste “guardiane”
dell’ortodossia, diversamente quel poco di “resistenza” alle male pratiche
sanitarie sarebbe ancora più difficile da opporre. Basta fare un’innocente
navigazione per trovare veramente di tutto.

Ecco a titolo di esempio una breve carrellata di recenti assurdità pseudo-scientifiche
reperite in rete in questi giorni, sedetevi comodi e divertitevi:

  • per combattere i virus – in base a un’antica
    credenza giapponese – basterebbe una lunga passeggiata nel bosco;
  • La lavanda, comunemente utilizzata come deodorante
    per la biancheria, è un aroma naturale che può essere un ottimo alleato per la
    gestione dell’ansia;
  • dolore al ginocchio? Vuol dire che il tempo sta
    cambiando, secondo una leggenda tramandata di nonna in nonna che pensavamo
    francamente di esserci lasciati alle spalle da mezzo secolo, ma che ancora
    sopravvive su vari siti di naturopatia e di rimedi olistici, qualunque cosa
    questa parola voglia dire;
  • soffrite di qualche forma di depressione? Macché psicoterapista
    o psichiatra, date i soldi agli albergatori, e prendetevi una vacanza appena
    arriva la primavera e quasi sicuramenti si risolverà;
  • la luna può influenzare le piante (oltre a quelle, nient’altro?);
  • sono diverse le credenze popolari che svelerebbero
    prima del tempo il sesso del nascituro: mamma stressata durante la gravidanza?
    È più probabile che il fiocco sarà rosa;
  • grande classico, evergreen, “una mela al giorno
    toglie il medico di torno” (le banane invece non aiutano?);
  • basta essere innamorati per aiutare a prevenire
    l’influenza, altro che vaccini!
  • il consumo di pesce – una volta alla settimana –
    può rendere il sonno dei nostri bambini più piacevole… e addirittura renderli
    più intelligenti!
  • raffreddore? Ci pensa il rimedio della nonna per
    eccellenza, il brodo di pollo!
  • vuoi curare efficacemente un tumore? Non
    dimenticarti per nessuna ragione il Tasso (la pianta, non l’animale, ma in
    ognuno dei due casi si pattina sul bordo della denuncia penale per abuso di professione
    medica);
  • hai un malessere generalizzato, sei a disagio? C’è
    speranza per te: ascolta musica!
  • soffri di un disturbo mentale o fisico? Una visita
    a un museo può certamente esserti d’aiuto.
  • hai un’infiammazione? Niente di meglio che un po’
    d’incenso (qui sforiamo nel mistico…);
  • la notte porta consiglio (magari bastasse dormire…!).

Potremmo continuare a lungo, e spesso la gentilezza di un commento del
tipo “Nessuna
prova scientifica conferma l’utilità di questo rimedio per un problema di tal
genere”
serve a poco. Ben venga
allora il “metodo Burioni”: la scienza non è democratica, sei un ottuso
cretino, e l’unica soluzione è dirtelo, condannarti alla pubblica derisione, e immediatamente
dopo bannarti dalla pagina.

Dal canto mio, però, avevo già sollecitato il dibattito[2] su
quanto rischi di rivelarsi fallace l’applicazione acritica del metodo
“Evidence-base Medicine”, difeso ad oltranza – a volte rabbiosamente – da certi
“sacerdoti della morale scientifica”: ovvio, è l’uomo che sbaglia e truffa, non
certamente la scienza di per sé, ma un approccio meno arrogante e dogmatico –
specie da parte degli uomini di scienza – è probabilmente consigliato.

E se oltre che arroganti, fossimo davvero
paladini del metodo scientifico,
scopriremmo anche dell’altro.

Lo Shinrin-Yoku, il “bagno di foresta”, è praticato da secoli dai
giapponesi, i quali empiricamente gli hanno sempre attribuito benefici sulla
salute. La Nippon Medical School dell’Università di Tokio[3] ha
compiuto analisi su un campione di soggetti, scoprendo che l’interazione con la
natura è indispensabile agli esseri umani per mantenere un buon equilibro
psicologico ed emotivo, e – come l’epigenetica e gli studi hanno dimostrato –
questo riduce la produzione di ormoni dello stress – cortisolo e noradrenalina
– e aumenta anche la produzione di linfociti NK, quelli attivi contro i virus,
migliorando quindi le performance del sistema immunitario, il quale è
influenzato positivamente dai monoterpeni, i composti organici dall’odore di
resina emessi dagli alberi. “I linfociti
NK si moltiplicano infatti ogni qual volta vengono esposti a queste sostanze”,

ha confermato il Prof. Quing Li, che ha anche spiegato come per ottenere
effetti benefici non basti certo una “passeggiatina”: “Per arrivare a una dose minima attiva di monoterpeni, servono da 10 a
12 ore di passeggiata nell’arco di 3 giorni, con l’accortezza di scegliere
boschi che garantiscono un alto livello di questi elementi attivi, come foreste
di lecci, faggi e castagni, che specie in primavera-estate ne emettono anche
fino a 10 volte le normali conifere
”. Ma pensa tu questi giapponesi
bislacchi, che lo dicevano da un migliaio di anni. Cialtroni fino a ieri, ma
oggi che lo dice la scienza…

Il legame con la natura sembra fondamentale per il benessere
psicologico ed emotivo dell’uomo. Non a caso ci piace inalare il profumo dei
fiori, con cui, se possibile adorniamo la casa. Comunissimo l’utilizzo della
lavanda, deliziosa pianta ornamentale, che grazie al suo odore intenso viene
tradizionalmente utilizzata come deodorante per la biancheria ma anche come
repellente per insetti, bagni tonificanti ed infusi rilassanti. E se vi dicessimo
che l’olio essenziale di lavanda è un prezioso alleato nella gestione
dell’ansia? A dimostrarlo una ricerca condotta da un team di ricerca italiano[4] tra cui
figura Fabio Firenzuoli medico esperto in fitoterapia e fitovigilanza,
responsabile del CERFIT, Centro di Ricerca e Innovazione in Fitoterapia e
Medicina integrata. La ricerca, pubblicata sulla rivista Fitoterapia 33, era
volta a verificare l’efficacia della pianta nella riduzione dell’ansia procedendo
con una revisione sistematica della letteratura disponibile al fine di sintetizzarne
i risultati per verificare se l’uso tradizionale poggiasse su una base di evidenze
scientifiche. I risultati delle meta-analisi hanno mostrato che l’olio
essenziale di lavanda risulta efficace nel ridurre l’ansia se assunto per via
orale sotto forma di medicinale. Inoltre dalla ricerca è emerso che anche la
sola inalazione dell’aroma di olio essenziale di lavanda si dimostra efficace
nel ridurre l’ansia conseguendo che il tradizionale uso che se ne fa risulta
appropriato, utile ed un forte alleato per combattere lo stress.

Dolore al ginocchio e meteo? Il nesso tra dolori fisici e cambiamenti climatici è sempre stata una credenza popolare, ma – come hanno confermato vari studi pubblicati su riviste scientifiche e ben riassunti in chiave divulgativa in un lungo reportage dell’autorevole Wall Street Journal[5] – l’emicrania può aumentare quando piove, l’umidità può influire sui dolori muscolari e il freddo può incidere sulla circolazione sanguigna, aumentando il rischio di problemi cardiovascolari. Ma come ci vedevano lungo le nostre nonne!

Fatevi poi un nodo al fazzoletto per ricordarvi quando cadrà il prossimo
equinozio di primavera, giorno che segnerà l’inizio della stagione mite: il
freddo si allontanerà e le giornate si allungheranno. È da sempre credenza
comune che tutti questi fattori contribuiscano ad allontanare la tristezza: Giancarlo
Cerveri, psichiatra del Fatebenefratelli di Milano, ha confermato –
citando vari studi – come la primavera porti beneficio soprattutto per chi
soffre di “forme di depressione con un tipico andamento ciclico”[6],
grazie a una maggiore
esposizione alla luce solare, la quale provoca nel nostro organismo
maggiore produzione di serotonina, che come è noto è un potente modulatore
dell’umore, riducendo nel contempo la presenza di ormoni responsabili dello
stress, nonché aumentando la produzione di vitamina D, che ha effetti benefici
sul nostro corpo rinforzando le difese immunitarie, mediante un aumento della
produzione di globuli bianchi e un miglioramento generale del metabolismo.

E la luna? Oltre che riuscire ad alzare di metri il livello del mare,
pare avere qualche influsso anche sulle piante, che pur non avendo ovviamente
un complesso sistema nervoso centrale come gli animali, rispondono visibilmente
ai cambiamenti dell’ambiente che le circonda. Ad esempio “cercano” la luce, in
quanto massimizzare lo sfruttamento di essa per una pianta vuol dire vivere
meglio e crescere più in fretta, e i riflessi luminosi lunari durante la fase
di luna piena raggiungono un’intensità di 0.25 Lux, pari a una lampadina da 40
Watt posta a dieci metri di distanza; ma le piante sono sensibili anche alla
gravità – quella terreste sicuramente, ma ricordate? Metri di mare su e giù
ogni 6 ore… – come dimostrano i più recenti studi scientifici sul tropismo
vegetale[7].

La forma della pancia, la voglia di cibi particolari, malesseri
gravidici più o meno forti: le credenze popolari che svelerebbero prima del
tempo il sesso del nascituro sono tante e diverse, tramandate da una tradizione
orale mai supportata da fondamenti scientifici. Tuttavia, nel caso di una
recente ricerca, è proprio la scienza che identifica lo stress della futura
mamma come indice dell’arrivo di un maschietto o di una femminuccia. Ad
affermarlo uno studio pubblicato sulla rivista PNAS[8], the
Proceedings of the National Academy of Sciences, e condotto presso la Columbia
University Vagelos College of Physicians and Surgeons. La ricerca prevedeva un
campione di 187 gestanti, tra i 18 ed i 45 anni, alle quali è stato misurato in
modo “oggettivo” il livello di stress -sia fisico che mentale- utilizzando 24
indicatori diversi.Secondo i
ricercatori il fenomeno si spiegherebbe a livello embrionale: gli embrioni
maschi risultano più sensibili allo stress ambientale, mentre quelli femminili
sarebbero più resistenti. Dunque, vi è più probabilità che nasca una bambina
qualora la gestante fosse particolarmente stressata. Il 17% di loro soffriva di
stress psicologico -ansia e depressione in particolare- e il 16% di stress
fisico, con ipertensione o apporto calorico giornaliero molto elevato. La
maggioranza, il 67%, si sentiva rilassato. Tutte le donne visitate durante i 9
mesi hanno poi riempito un questionario con 27 indicatori e sono state
intervistate nuovamente dopo il parto. È emerso che in presenza di stress
fisico (caratterizzato da indicatori quali un eccessivo introito calorico
giornaliero o la pressione del sangue alterata) il rapporto tra i nati maschi e
femmine è 4/9, in favore delle femmine; se lo stress è psicologico
(caratterizzato, ad esempio, da disturbi depressivi e ansia) il rapporto è di 2
nati maschi ogni 3 femmine. La coordinatrice della ricerca Catherine Monk ha
affermato che “L’utero materno è il primo ambiente ‘condizionante’. Ha la
stessa importanza di quello in cui il figlio sarà allevato in futuro”, ricordando
come questo fenomeno sia stato osservato anche dagli esperti di demografia,
aggiungendo un dato significativo: “E’ stato evidenziato che nelle
catastrofi storiche, come gli attentati terroristici dell’11 settembre, il
numero di nati maschi è diminuito”.

Certamente non basterà una mela, per far riprendere queste mamme dallo
stress del parto…ma certamente le manterrà più in salute. L’equipe di dietisti
dell’Humanitas Gavazzeni di Milano[9] sottolineano
come la mela sia un frutto dalle capacità depurative, diuretiche – grazie
all’elevata quantità di potassio che contiene – e regolatore dell’attività
intestinale, poiché contiene fibre solubili e insolubili che regolano
l’intestino contrastando problemi come la stitichezza o, a al contrario, la
diarrea grazie alla presenza di tannino e alle pectine, che hanno proprietà
astringenti e protettive. Inoltre, la presenza di vitamina PP nel frutto aiuta
a regolare la permeabilità dei capillari e dei vasi linfatici, prevenendo
malattie come l’aterosclerosi e l’infarto. É ricca di flavonoidi – composti con
elevate capacità antiossidanti – che combattono la produzione di radicali
liberi e, quindi, l’invecchiamento precoce. Nella polpa, poi, si trova anche il
fitosterolo che contribuisce a bloccare l’assorbimento del colesterolo
alimentare, abbassando nel sangue la quota di colesterolo cattivo. Una delle ultime
ricerche coordinata dal Prof. Marco Romano[10], della
Divisione di Gastroenterologia del Centro Interuniversitario per la Ricerca su Alimenti,
Nutrizione e Apparato Digerente della II Università degli Studi di Napoli,
infine, non esclude che mangiare 2 mele al giorno possa svolgere un’azione
preventiva nell’insorgenza del tumore gastrico: i ricercatori hanno infatti
dimostrato che somministrando per via orale estratti di mela Annurca, si
avrebbe un significativo effetto protettivo a livello gastrico contro il danno
indotto dai radicali liberi o dai farmaci anti-infiammatori, grazie al
contenuto nella mela Annurca di composti anti-ossidanti quali catechina e acido
clorogenico.

E dopo aver contribuito a dare alla luce un pupo, i genitori non si
“dimentichino” dell’importanza dell’amore l’uno per l’altro: gli studi
scientifici[11]
dimostrano come un sentimento così piacevole come il sentirsi innamorati sia un
potente immunostimolante, in grado di rafforzare il nostro sistema immunitario
e incoraggiarlo a lavorare correttamente. L’innamoramento la fisiologia
endocrina e nervosa, aumentando la produzione di ossitocina/vasopressina, che
ci aiutano ad essere meno ansiosi, di feniletilamina, una vera e propria
scarica positiva per l’organismo che così aumenta la quantità di ormoni
sessuali, melatonina che aiuta il riposo e argina l’invecchiamento precoce,
norepinefrina, che stimola l’attenzione, e dopamina, un neurotrasmettitore che
ci rende più attivi ed euforici. Niente male, per quello che pareva essere solo
uno stato dell’umore!

E non discostandoci dalla cura degli infanti, i consigli alimentari delle
nostre mamme e nonne non differiscono da ciò che divulgano gli studi delle
scienze alimentari. Ad esempio il saggio ammonimento “mangia il pesce che ti fa
bene” garantiva ai bambini di dormire meglio ed essere più intelligenti. A
rivelarlo una ricerca svolta presso la University of Pennsylvania[12] e
pubblicata sulla rivista edita da Nature “Scientific Reports”.
La ricerca infatti afferma che il consumo di pesce
una volta a settimana nel piatto dei più piccoli migliora il sonno e potrebbe
aumentare il quoziente intellettivo. In passato diversi studi hanno collegato
la carenza di sonno a minori capacità cognitive nei bambini, nonché a disturbi
anti-sociali. Altri studi hanno collegato il consumo di grassi omega-3, di cui
è ricco il pesce, a migliore qualità del sonno e miglioramento dei disturbi
anti-sociali. I ricercatori Usa in questo studio hanno voluto vedere se in
qualche modo il pesce – proprio perché ricco di omega-3 – potesse rappresentare
un fattore nutrizionale chiave per migliorare sonno e capacità mentali del
bambino. La ricerca ha coinvolto 541 bambini di 9-11 anni in Cina, il 54% dei
quali maschi. I bambini hanno compilato questionari alimentari per valutare la
frequenza di consumo del pesce. I piccoli dovevano dire quante volte
mangiassero il pesce, da circa una volta a settimana a mai o quasi mai. I
rispettivi genitori nel frattempo hanno compilato un altro questionario, sulla
qualità del sonno dei loro bambini, rispondendo a domande su durata del sonno,
frequenza dei risvegli notturni, sonnolenza diurna. Infine i bambini sono stati
sottoposti a un test classico per misurare il quoziente intellettivo. Ebbene, è
emerso che i bimbi che dichiaravano di mangiare pesce almeno una volta a
settimana (a parità di altri fattori influenti quali condizioni socioeconomiche
della famiglia e livello di istruzione dei genitori) dormivano meglio e avevano
in media 4,9 punti in più di quoziente intellettivo rispetto ai coetanei che
non consumavano quasi mai il pesce. Secondo i ricercatori il nesso tra consumo
di pesce e intelligenza passa proprio per gli effetti positivi esercitati dal
consumo di questo alimento sul sonno che contribuirebbe, quindi, (attraverso il
suo contenuto in omega-3) a un migliore sviluppo cognitivo.

E ancora, come non dare ascolto alle nonne? il brodo di pollo, una
“coccola” nelle fredde giornate invernali, può essere anche una vera e propria
“medicina” in caso di raffreddore. Ha infatti un effetto antinfiammatorio, che
può alleviare le infezioni delle alte vite respiratorie. A evidenziarlo è uno
studio del Nebraska Medical Center di Omaha[13], negli
Usa, pubblicato sulla rivista Chest. Gli studiosi hanno preso in esame
specificamente il movimento dei neutrofili – un tipo di globuli bianchi nel
sangue, scoprendo che tale movimento risultava ridotto in presenza del brodo di
pollo, cosa che suggerisce un possibile meccanismo anti-infiammatorio che
potrebbe almeno teoricamente alleviare i sintomi del raffreddore. Infatti, la
riduzione del movimento dei neutrofili potrebbe ridurre l’attività nel tratto
respiratorio superiore che causa sintomi simili a questo così diffuso malanno
di stagione. Lo studio è stato condotto in laboratorio e non sull’uomo, perciò gli
studiosi avvertono che resta da vedere se si possano assorbire le sostanze che
sembrano avere effetti benefici in laboratorio. Tuttavia, può valere la pena di
provare: la versione dell’autore dello studio Stephen Rennard include gallina
stufata, una confezione di ali di pollo, 3 cipolle, 1 patata dolce grande, 3
pastinaca, 2 rape, 11 o 12 carote, 6 gambi di sedano, un mazzetto di
prezzemolo, sale e pepe a piacere. Anche un altro studio, condotto diversi anni
fa, aveva riscontrato dei benefici del brodo di pollo (anche grazie all’aroma e
alle spezie) nel riuscire a “pulire” le cavità nasali.

Tranquillizziamo anche i fan di Wired, i quali probabilmente già
invocavano l’arresto per abuso di professione medica: che la pianta del tasso
abbia proprietà antitumorali non lo dice chi scrive, bensì il Dott. Maurizio
Grandi, oncologo italiano di fama internazionale, che cita ricerche pubblicate
su Journal of American Chemical Society[14]:
il tassolo è un metabolita con un’efficacia statisticamente significativa, che
si esplica nella fase mitotica attraverso l’inibizione della depolimerizzazione
dei microtubuli, strutture intracellulari costituite da una classe di proteine chiamate “tubuline”.
Al di là dei tecnicismi propri del linguaggio dei ricercatori, è scientificamente
dimostrato che questo principio attivo – sia quello “naturale” che l’omologo
sintetizzato il laboratorio – è utile per integrare terapie anti-tumorali per
varie neoplasie, come canciroma ovarico, tumore mammario e melanoma.

Che dire poi di quei malesseri generalizzati
forse dovuti allo stress? C’è chi corre dal medico, e chi si attacca alle
cuffie, avendone ben d’onde. Da Beethoven ai Led
Zeppelin, ascoltare la musica preferita fa innescare il meccanismo di rilascio della
dopamina, e induce il cervello a rilasciare maggiori quantità di quell’ormone,
che genera a sua volta sensazioni di benessere, come ha confermato uno studio
scientifico della McGill University di
Montreal pubblicato su Nature
Neuroscience[15],
che
ha utilizzato scanner cerebrali su persone all’ascolto della loro musica
preferita paragonando i dati con quando i medesimi soggetti ascoltavano la
musica preferita da qualcun altro. Inoltre, la musica può essere un’efficace terapia analgesica,
aiutando a ridurre
il dolore cronico postoperatorio, come conferma un articolo su Journal Advanced Nursing[16], ed è efficace come i farmaci
ansiolitici: uno studio pubblicato sulla Revista
Espanola de Anestesiologia y Reanimacion[17],
ha
evidenziato come a metà dei pazienti sottoposti ad operazioni chirurgiche sia
stato assegnato l’ascolto della loro musica preferita e a metà l’assunzione di
farmaci ansiolitici, mentre gli scienziati registravano i dati relativi
all’ansietà e ai livelli dell’ormone umano dello stress, il cortisolo, con il
risultato che i pazienti che ascoltavano musica avevano la stessa diminuzione
dell’ansia e livelli di cortisolo rispetto a quelli trattati con i farmaci, con
buona pace dei produttori di ansiolitici, ai quali suggeriamo dosi massicce di…
musica.

L’arte e la cultura fanno bene
alla salute. Questo in Canada sembra un concetto largamente accolto dalla
comunità scientifica. Il primo novembre dello scorso anno, infatti, è stato
dato il via alla prima iniziativa al mondo che permette ai medici di
prescrivere una visita al museo come terapia per malattie del corpo e della
mente[18].
“Ci sono sempre più
prove scientifiche del fatto che la terapia dell’arte fa bene alla salute
fisica”, ha dichiarato la dott.ssa Hélène Boyer, vicepresidente dei Medici
francofoni del Canada e capo del gruppo di medicina di famiglia presso il CLSC
St-Louis-du-Parc. “Aumenta il nostro livello di cortisolo e il nostro
livello di serotonina. Quando visitiamo un museo
secerniamo ormoni e questi ormoni sono responsabili del nostro benessere. Le
persone tendono a pensare che questo sia positivo solo per problemi di salute
mentale. Che questo sia utile solo per le persone che sono depresse o che hanno
problemi di tipo psicologico. Ma non è così. È buono per i pazienti con
diabete, per i pazienti in cure palliative, per le persone con malattie
croniche. Dagli anni ’80 prescriviamo esercizi per i nostri pazienti perché
sappiamo che l’esercizio aumenta esattamente gli stessi ormoni. Ma quando ho pazienti
con più di 80 anni, ovviamente non posso prescrivere un esercizio per loro
“.Il Montreal Museum of Fine Arts ha dato via ad un progetto
pilota che dal novembre 2018 permette ai medici che sono membri di Médecins
francophones du Canada di inviare pazienti in visita al MMFA, consentendo agli
ammalati, accompagnati da operatori sanitari o familiari, di godere della
salute e dei benefici di un viaggio nell’arte. A ciascuno dei medici sono consentite fino a 50
prescrizioni museali nel corso del progetto pilota. Ogni prescrizione
consentirà l’ingresso per un massimo di due adulti e due bambini di età pari o
inferiore a 17 anni e sarà utilizzato per affrontare un’ampia varietà di
problemi fisici e di salute mentale. “L’idea è quella di migliorare il
‘benessere emotivo’ dei pazienti facendo appello alla loro sensibilità
artistica”, spiega Nathalie Bondil, direttore generale del Museo delle
Belle Arti di Montreal, “La nuova frontiera della cultura nel ventunesimo
secolo è fare quello che le attività fisiche hanno fatto per la salute
dell’uomo nei secoli passati”.

In ultimo, anche
se potrà generare stress ai più ortodossi, sottolineiamo come almeno un
vantaggio la “fede” lo dia: l’incenso in effetti cura le infiammazioni[19],
a prescindere dall’opinione dei saccenti utenti del web che non più tardi di
pochi giorni fa si sono scatenati in un thread di discussione su una nota
pagina Facebook “anti-complotto”, dando del ciarlatano a un utente che ne aveva
raccomandato l’uso. Gli acidi boswellici contenuti
nell’incenso, infatti, interagiscono con diverse differenti proteine che fanno
parte delle reazioni infiammatorie, ma soprattutto con un enzima che è
responsabile della sintesi della prostaglandina E2.

Se questo articolo vi ha disorientato, ricordatevi che la
notte porta consiglio: potete dormirci sopra e rileggerlo domani. Risolvere di mattina un problema lasciato in sospeso la sera precedente,
infatti, è un’esperienza comune, come sottolinea il noto precitato proverbio. “Questo detto popolare corrisponde
decisamente al vero”,
ha spiegato Angelo Gemignani, dell’Istituto di
Fisiologia Clinica del CNR. “Un
esperimento pubblicato su ‘Nature’[20]
ha dimostrato che il sonno facilita in modo significativo le capacità di
intuito: una notte di sonno, rispetto a un periodo di uguale durata di veglia,
agevola nel 60% dei soggetti sottoposti a test la risoluzione precoce di un
semplice problema”,
e uno studio pubblicato su ‘Biological
Psychiatry’[21]

ha rilevato un meccanismo analogo nel caso di ricordi emozionali. “Gli autori hanno ipotizzato che il REM,
la fase del sonno in cui si sogna, possa favorire a livello cerebrale un
ambiente fisiologico ideale per il miglioramento delle connessioni neurali alla
base della memoria emozionale”
, conclude il ricercatore.

Per concludere la nostra analisi – anche alla luce delle riflessioni che
quanto abbiamo illustrato sopra dovrebbero aver stimolato – occorre a questo
punto riflettere sul ruolo della comunicazione in scienza, e sul corretto
atteggiamento da tenere per chi ha l’ambizione di rivestire il ruolo del
“divulgatore”. Per farlo, torniamo per un attimo all’Inghilterra della
Thatcher, anni caratterizzati da crisi economica, malcontento popolare e
rifiuto delle “elites”, incluse quelle scientifiche.

Come ci ricorda un bell’articolo del medico e pubblicista Roberta Villa pubblicato sull’edizione italiana di Wired, in quel contesto, gli scienziati capirono “quanto poteva essere importante uscire dai loro laboratori ed entrare in contatto con la società, e lo fecero nel modo al loro più consono: mettendosi in cattedra”. Nel 1985, la Royal Society, che riunisce la crème del mondo scientifico di Oltremanica, produsse un documento intitolato The Public Understanding of Science[22]. In 46 pagine di analisi e proposte concrete, il testo rifletteva le basi dell’approccio che negli anni successivi avrebbe dominato la comunicazione della scienza: il cosiddetto deficit model. Secondo questa teoria piuttosto datata, che oggi, dopo oltre trent’anni, qualcuno in Italia vorrebbe rispolverare, l’ostilità di parte del pubblico nei confronti di alcuni avanzamenti della scienza dipenderebbe dalla mancanza delle informazioni necessarie per comprenderla e apprezzarla: “se i ricercatori, la scuola, i media, gliele fornissero – scrive la Villa – la gente imparerebbe ad apprezzare il valore culturale della scienza, non meno che dell’arte o della letteratura, tutti acquisirebbero una conoscenza sufficiente per condividere e sostenere le richieste dei ricercatori, anche a livello politico, i finanziamenti alla ricerca finalmente aumenterebbero. Nei campi in cui queste nozioni hanno poi un impatto sulla vita concreta delle persone, dalla salute all’agricoltura, dalla chimica all’ambiente, colmare il gap tra esperti e gente comune dovrebbe bastare a far cambiare anche i comportamenti, sulla base delle nuove nozioni acquisite“. Nel tempo però, è apparso evidente che le cose sono un po’ più complicate di così.

Le informazioni che riceviamo sono infatti accolte ed elaborate in maniera diffrente anche in relazione al nostro background culturale e socialeal nostro sistema di valori e credenze, alle esperienze che ciascuno di noi ha avuto direttamente, di cui è stato testimone, o che gli sono state raccontate. Ogni comunicatore – in particolare se si occupa di scienza – sa bene che di tutte queste cose deve tenere conto, adeguando il messaggio e il suo tono al target che desidera raggiungere e al canale che sta utilizzando. “Mettersi in cattedra”, quindi, può andar bene in un’aula universitaria, dinnanzi a studenti che per il semplice fatto di essere lì riconoscono al professore un’autorità e un potere, ovvero questo approccio dall’alto al basso può essere rassicurante per persone confuse e con pochi strumenti culturali, che trovano un punto di riferimento forte a cui affidarsi; ma per contro può diventare invece controproducente se si ha a che fare con un pubblico più colto e mediamente preparato, come molti dei genitori che, proprio per aver cercato di informarsi il più possibile per valutare le scelte sanitarie più opportune per i propri figli, “sono incappati in fonti inattendibili che hanno instillato in loro dubbi o paure”, come ci ricorda sempre Villa nel suo articolo.

Andrea Grignolio, storico della medicina, nel suo libro “Chi ha paura dei vaccini?”[23] porta a riflettere su quante circostanze sociali e individuali, oltre ai bias neurocognitivi, hanno favorito la diffusione di atteggiamenti esitanti nei confronti delle vaccinazioni. Se un genitore ha timori profondi legati a una sua alterata percezione del rischio, ad esempio in seguito a scandali che hanno realmente coinvolto aziende farmaceutiche oppure rappresentanti di istituzioni sanitarie che si sono rivelate corrotte, ha perso fiducia in queste autorità; oppure se è rimasto segnato dal racconto o dall’esperienza personale di una  disabilità erroneamente attribuita a una vaccinazione, non sarà certo facendogli una lezione di immunologia, deridendolo o insultandolo che gli si potrà fare cambiare idea. “Le evidenze – aveva dichiarato a Wired proprio Grignolio in un’intervista – ci dicono che sfidare le persone esitanti o contrarie ai vaccini non serve, come accennato sopra: il rischio è quello di radicalizzare le posizioni contrarie. Limitarsi a dire “Non è così, io ho ragione e tu torto”, è sbagliato, rischia di diventare uno scontro di identità in cui le nuove informazioni non fanno che aumentare le posizioni contrarie”.La sfida, molto più difficile, consiste quindi nel fornire a chiunque, in relazione alle sue possibilità, gli strumenti per fare scelte consapevoli e, possibilmente, scientificamente fondate: questo è l’empowerment del cittadino e del paziente, un nuovo modello, che prevede il coinvolgimento del pubblico non più visto come un “contraltare passivo” da riempire di informazioni, ma come un interlocutore attivo, con il quale interagire a vantaggio di entrambe le parti. Queste considerazioni sanciscono il passaggio dal vecchio modello PUS al nuovo modello PEST: Public Engagement with Science and Technology.

“Si tratta di un cambiamento totale di prospettiva”, sostiene giustamente Villa, che vede comuni cittadini collaborare con i ricercatori (potremmo definirli – in modo forse originale ma ben centrato – “citizen science”?) e i pazienti poter dire la loro negli indirizzi di ricerca degli scienziati, nient’altro, in fondo, che “un’estensione di quella multidisciplinarietà che ha portato fisici, ingegneri ma perfino filosofi nei laboratori di biologia molecolare, con la consapevolezza che chiunque può essere portatore di un piccolo pezzo del puzzle della conoscenza umana, di cui sarebbe un peccato privarsi”. A sancire questo cambio di rotta è arrivato nel 2017 il documento della National Academies of Sciences, Engineering [24] and Medicine statunitense, un’agenda, concordata da scienziati e comunicatori della scienza, che parte da un punto fermo: la comunicazione della scienza è un compito complesso, non riducibile alla dinamica «Se la pensi diversamente da me che sono un esperto sei solo un ignorante».

Tutto ciò dimostra la fallacia del metodo Burioni secondo cui “La scienza non è democratica”. In
questo caso si confonde la democrazia come processo elettorale, con la
democrazia come partecipazione comunitaria. Come scrive il giornalista
scientifico Pietro Greco, “La società
della conoscenza è caratterizzata dall’espansione della scienza e
dall’espansione della democrazia, in un processo in cui le due dimensioni non
sono più separate”.
E aggiunge: “La
scienza, anche in termini epistemologici, ha valori intrinsecamente
democratici. Fin dalla rivoluzione del Seicento, i membri della comunità
scientifica raggiungono un consenso razionale di opinione intorno ai fatti
osservati nel mondo”.

Per dirla con le parole di Jane Gregory[25], della
London University: “Il pubblico ci ha
insegnato una lezione utile rifiutando di cooperare con scienziati che li
trattavano come idioti. È un peccato che così tanti dei nostri scienziati di
spicco abbiano causato così tanta irritazione tra persone precedentemente
amichevoli verso la scienza. Molti di noi che lavorano in questo campo in Gran
Bretagna sperano che il recente rapporto della Camera dei Lord renderà gli
scienziati consapevoli del fatto che devono guadagnare il loro posto come una
delle tante autorità della società. È tempo di riconoscere che la nostra prima
enfasi sull’apprendimento pubblico da parte degli scienziati era fuori luogo e
che ciò di cui abbiamo bisogno è che gli scienziati imparino dalle persone”

Quindi, se volete evitare di fare la figura degli utili idioti al servizio di un certo paludato mainstream, invece di adeguarvi all’atteggiamento di chi non ama essere contraddetto e fa salire i toni fino all’insulto, o di deridere con supponenza degli altri cittadini sui Social o nello spazio commenti di qualche tronfio giornale divulgativo con ambizioni da pubblicazione scientifica, fate una lunga passeggiata nel bosco, mangiando mele ed ascoltando musica, e forse, d’improvviso, vi coglierà una soprannaturale illuminazione: non tutto ciò che oggi ignorate va gettato nella spazzatura.

AGGIORNAMENTO del 18/08/22, h 11:15: leggo da un articolo pubblicato su Repubblica Salute che l’arte di manipolare e trasformare i metalli – nata nell’Egitto greco-romano del I secolo d.C., è stata “promossa” da pseudoscienza a protoscienza: le pratiche dell’alchimia, dice uno studio [26] dell’università di Bologna pubblicato su PNAS (Proceedings of the National Academy of Sciences, una delle riviste scientifiche più note a livello internazionale) pare affondino infatti le radici nella chimica, e per essere più precisi nella meccano-chimica (reazioni chimiche provocate, invece che dall’incontro tra diversi elementi, da forze meccaniche). Coordinati dal Prof. Matteo Martelli del Dipartimento di Filosofia e Comunicazione, chimici e storici della scienza hanno ripreso antichi testi alchemici riproducendo in laboratorio varie ricette e procedure, per esempio quella dell’alchimista Zosimo di Panopoli (III-IV sec. d.C.): pestare polvere di cinabro e rame con acido acetico per ottenere gocce di mercurio. Esperimento riuscito! Prima di Zosimo, altri avevano usato mortai e pestelli in rame, applicando questi principi meccanici per modificare le chimica degli elementi: i ricercatori dell’ateneo emiliano sono anche riusciti, ad esempio, a ricavare mercurio a caldo come prescritto da Dioscoride (I sec. d.C.), riscaldando polvere di cinabro messa su una piastra di ferro in un recipiente chiuso di alluminio. Grazie allo studio approfondito e senza pregiudizio degli antichi testi, è stato infatti riscoperto l’uso del Natron, minerale del sodio, che in Egitto era adoperato per purificare i corpi dei defunti, e che gli alchimisti usavano a loro volta per purificare il mercurio dal cinabro. Un’ulteriore lectio della scienza per mettere a tacere gli ottusi scientisti, quelli che deridono sistematicamente di chi si pone domande, e liquidano qualunque sforzo di progresso della conoscenza in materie borderline e unconventional con un “se non è stato (già) provato, non è vero, e non sarà mai vero”: la scienza procede per dubbi, e non per certezze acquisite, non dimentichiamolo mai…

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NOTE

[1] https://creatoridifuturo.it/curiosita-e-miscellanea/le-bolle-informative-nelloceano-digitale/

[2] https://creatoridifuturo.it/comunicazione/comunicazione-non-convenzionale/lin-fallibile-scienza/

[3] Li, Q.  et al. Forest
bathing enhances human natural killer activity and expression of anti-cancer
proteins. Int J Immunopathol Pharmacol
. 2007; 20:3–8.

[4] Donelli D. et al., Effects of lavender on anxiety: a systematic
review and meta-analysis
, Phytomedicine, 2019

[5] Beck M., How Your Knees Can Predict the Weather Granny was right: Scientists
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, Wall Street Journal, 2013

[6] Si vedano gli studi: Spindelegger
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Coronavirus, Crisi e Coerenza. Le nuove 3 C della Comunicazione in tempi turbolenti

Coronavirus, Crisi e Coerenza. Le nuove 3 C della Comunicazione in tempi turbolenti.

Contenuti.

1. Introduzione. Guardo già al futuro, con le opportunità del presente che sto vivendo.

 2. Coerenza e identità nelle aziende. Valore e rischio reputazionale, dalle grandi aziende alle PMI.

3. Covid-19 o Coronavirus.  Breve storia sul Contesto generale e sulla nuova C della Comunicazione.

3.1 Il “Mood” paura per gli italiani in tempi turbolenti.

4. Crisi. Una C della Comunicazione già ma non del tutto conosciuta. Siamo in crisi? Davanti a quale crisi lo stato italiano si ritrova?

4.1 Fattori comuni di
una crisi nella Pandemia Covid-19. La crisi aziendale esiste?

5. La Comunicazione è una scelta aziendale strategica. Scegliere di comunicare è una responsabilità sociale d’impresa per un grande Brand e per una PMI.

5.1 Una responsabilità sociale d’impresa che va oltre: la Corporate Diplomacy e i nuovi consumatori.

6. Quale scelta strategica adottare e come. Coronavirus e Crisi: analizza le due nuove C nella tua azienda.

6.1 Dall’analisi alla
strategia: Coerenza, la terza nuova C della comunicazione.

Introduzione.

Guardo già al futuro, con le opportunità del presente che sto vivendo.

C’era una volta un imprenditore, quando a causa della
diffusione dell’epidemia del Covid-19, il governo italiano in quel 7 marzo 2020
presentò lo stato di allerta e cominciò a limitare la mobilità e le attività lavorative.
Secondo il decreto questo imprenditore avrebbe avuto comunque la possibilità di
spostarsi per “comprovate esigenze lavorative” (D.P.C.M 08/03/2020), ma decise di sua
spontanea volontà di interrompere qualsiasi sua attività e unica sua fonte di reddito.
Mosso da un forte senso civico, si fermò a prescindere da una forma di libertà concessa,
per andare incontro alla salute stessa dei suoi compagni cittadini.

C’era una volta, sempre ai tempi del Covid-19, un
imprenditore che di fronte a commenti superficiali sulla situazione sanitaria
in Italia da parte di suoi maggiori clienti, decise comunque di non appoggiare
quelle parole. Nonostante avesse timore di compromettere le relazioni con quei
clienti, agì secondo quelle che erano le sue opinioni (comprovate da diverse
fonti): andare contro uno dei tuoi più importanti clienti, poteva essere un
grande rischio, ma non c’era rischio peggiore di quello di andare contro la tua
stessa opinione, e di conseguenza i tuoi stessi valori, la tua stessa identità.

Quel giorno quell’imprenditore agì con coerenza. Non “scese
a compromessi”, (Chris Voss, 2017), mise le carte, i suoi valori sul tavolo, il
rispetto che lui aveva per il suo Stato, e disse la sua. Per quanto l’amigdala
del suo cervello stesse producendo paura per agire diversamente dal suo
cliente, sapeva che non stava agendo in modo egoista, stava solo proteggendo ciò
in cui lui credeva: la sua identità. Fu onesto.

In una fase turbolenta della sua vita lavorativa, quell’imprenditore
ha guardato il presente con gli occhi del futuro, scegliendo di andare oltre il
rischio e cercando nel suo presente critico delle opportunità. Un obiettivo a
lungo termine con l’idea di rafforzare, non tanto perdere, la relazione con i
suoi pubblici, attraverso un approccio umile e coerente.

Coerenza e identità nelle aziende.

Valore e rischio reputazionale, dalle grandi aziende alle PMI.

Coerenza: una parola che richiama un atteggiamento
essenziale per aziende, professionisti e Brands. Utilizziamo il termine “essenziale”
perché, a prescindere dall’entità economica o l’istituzione di cui si parla, la
coerenza può definirsi quel collante capace di legare a sé tutti i valori che
quell’entità intende comunicare, valori che insieme formano un’identità.

L’identità fa parte di ogni azienda o istituzione, a
prescindere dalla loro grandezza. Grandi imprese possono avere più prodotti e
più linee di prodotti e ognuna di queste avere dei propri valori, formare delle
proprie identità, che comunque si ricollegano all’ identità principale, quella
dell’impresa stessa. Medie e piccole imprese possiedono una gamma di prodotti e
un numero di dipendenti inferiore, con turnover di diversa entità. La loro
identità è rappresentata comunque da una piccola comunità che si erge su valori
generalmente trasmessi dal titolare, una figura chiave intorno a cui ruota la
storia dell’azienda. Quando invece ci riferiamo ai liberi professionisti come
consulenti e agenti di commercio, sono loro stessi a rappresentare la propria
identità: si tratta, quindi, di persone professionali dotate di una propria
identità e di valori, su cui costruiscono la propria attività.

Quattro esempi di entità nel mercato: ogni impresa,
grande, media, singola, rappresenta comunque un’identità che si fonda su
valori; valori, che occorre comunicare e dimostrare attraverso azioni,
atteggiamenti, messaggi autentici. L’identità è una figura, una persona che
parla e prova emozioni, e agire diversamente rispetto a quello che la nostra
identità è, non sarebbe come violare l’articolo 494 del codice penale sulla “sostituzione
di persona”?

In un certo senso quell’imprenditore, piuttosto che rischiare
di rovinare la relazione con il suo maggior cliente, ha scelto di non rischiare
di rovinare la relazione con se stesso e di conseguenza, di non sostituire la
sua identità, ha scelto di adottare un atteggiamento coerente, e autentico  scelta che successivamente si è rivelata “saggia”
al fine di proteggere la sua reputazione e la rete di relazioni che con il
tempo aveva costruito.

La coerenza si concretizza, perciò, in una serie di scelte
con risultati a breve, medio e soprattutto a lungo termine. I risultati,
inoltre, si vedono non tanto nella relazione uno:uno, ma uno:molti: scelte
aziendali che rispecchiano una strategia coerente ed efficace portano risultati
positivi a livello reputazionale. La reputazione corrisponde a “ciò che pensano
gli altri di noi” e può, purtroppo, venire meno se non agiamo correttamente o
quanto meno responsabilmente. Trasmettere un’identità chiara e coerente,
attraverso i nostri valori, monitorando cosa il pubblico stesso ha recepito,
significa pensare a proteggere la nostra reputazione.

Covid-19 o Coronavirus.

Breve storia sul Contesto generale e sulla nuova C della Comunicazione.

Nei capitoli precedenti abbiamo parlato proprio di
coerenza e di valori, di identità aziendale e del rischio che l’organizzazione
stessa potrebbe correre se proprio questa non rispetta, appunto con coerenza, i
valori che ci sono alla base della sua identità.

Studiamo e focalizziamoci sul contesto generale, in
particolare sui principali provvedimenti e lo stato Italiano.

Fonti accertano che tra la fine dell’anno 2019 e l’inizio
del 2020 dal villaggio di Wuhan in Cina è partito il primo focolaio del virus
Covid-19, il quale si sarebbe trasmesso nei mesi successivi in tutto il mondo.
Il 31/12/2019 la Cina, di fatti, ha comunicato all’ Organizzazione Mondiale
delle Sanità (OMS – WHO World Health Organization) la comparsa di un virus
sconosciuto e il 30/01/2020 l’OMS ha dichiarato lo stato di emergenza sanitaria
globale. In Italia il 31/01/2020 sono stati confermati i primi due casi di
Coronavirus a Roma “una coppia di turisti cinesi di 66 e 67 anni originari
della provincia di Hubei e sbarcati il 23 gennaio all’aeroporto di
Milano-Malpensa e che avevano visitato la Capitale su di un autobus turistico

(fonte: wikipedia.org),
di conseguenza il governo italiano ha sospeso tutti i voli da e per la Cina e
lo stesso 31/01/2020 ha decretato lo stato di emergenza sanitaria, primo paese
dell’Unione Europea ad adottare simili misure di sicurezza. A partire dalla
fine di febbraio 2020, con le prime vittime e il numero di contagi in crescita,
l’Italia diventa il secondo focolaio per numero di casi nel mondo e il primo
nell’Unione Europea (fonte: Corriere della Sera). Lo stato italiano ha dovuto
man mano richiedere misure sempre più rigide di sicurezza al fine di contenere
l’epidemia, un’epidemia che rischia ad oggi di portare al collasso il sistema
sanitario nazionale. Le strutture non erano e non sono pronte a contenere un
numero così alto di casi per la terapia intensiva, in cui sono previsti un
massimo di 5000 posti (fonte: affaritaliani.it).

Le misure di sicurezza hanno obbligato le aziende ad
apportare cambiamenti a livello di operatività e successivamente, in
particolare dall’ 8 Marzo 2020 con un decreto ministeriale (D.P.C.M 08/03/2020), lo stato italiano ha
richiesto l’interruzione dell’attività stessa, man mano per quasi tutti i
settori merceologici, in quanto non in grado di applicare misure di sicurezza
adeguate, e ha richiesto lo stato di quarantena verso i cittadini italiani.

Covid-19 o Coronavirus.

Il “Mood” paura per gli italiani in tempi turbolenti.

Le direttive adottate, specialmente in materia di
comunicazione e informazione, hanno diffuso un clima apparentemente negativo
tra gli stessi cittadini italiani. Numerosi sono gli articoli e le ricerche
condotte in merito ai gap di comunicazione e le emozioni che questi stessi
hanno generato, specialmente la paura.

Afferma Luca Poma, specialista in Crisis Communication e
professore di Reputation Management, che, preso atto della relativa “confusione”,
pare esserci l’impressione che “le autorità abbiano preso la scorciatoia della
paura”: lo stato italiano “avrebbe tagliato corto” innescando nel popolo una
risposta emozionale primaria (teoria dei marcatori somatici) la quale avrebbe
portato al conseguimento dell’obiettivo. Il Governo, scrive Poma, avrebbe terrorizzato
il popolo di fronte a una situazione complessa, al fine di bloccare gli
spostamenti e procedere alle misure di quarantena: tutto ciò per mezzo di un’ “emozione”
e non attraverso la consapevolezza e la presa di coscienza effettiva dei
cittadini: “C’è un divieto, non ho tempo per spiegarti, siamo in emergenza”.
Nonostante le raccomandazioni da parte della comunità scientifica sugli effetti
della paura e dello stato di ansia, come l’aumento del cortisolo, ormone dello
stress e l’abbassamento delle difese immunitarie, lo stato non ha attutito gli
effetti della quarantena. Lo Stato, anzi, avrebbe amplificato lo stato d’animo
negativo nel cittadino italiano medio, a causa della continua disomogeneità delle
strategie di comunicazione e visibilità sui canali informativi ufficiali (tra cui ritardi negli
aggiornamenti), della non centralità delle direttive promosse dal governo
centrale e poi dirette dalle regioni come “a macchia di leopardo”, con
conseguente mancanza di chiarezza in fatto di informazioni scientifiche.

Ricerche condotte, inoltre, dal Team di Consenso.pro
confermano le affermazioni di Luca Poma: “tristezza, attesa e paura” rappresentano
il “Mood” della maggior parte dei cittadini italiani, “dilaga un sentimento
diffuso di paura, un timore legato al possibile contagio, ma più in generale
riconducibile all’imprevedibilità di questo male”.

Lo studio condotto da Ogilvy Public Relations Italia dal
titolo “It’s not (so) irrational” ha analizzato, in seguito, attraverso le
scienze comportamentali, atteggiamenti apparentemente irrazionali, che sono
derivati dal “mood negativo” nella vita quotidiana dell’italiano medio: in
quattro mini episodi, con un tono informale e leggero, spiegano all’utente che “correre
al supermercato per fare scorta di carta igienica”, ad esempio, è una reazione
del tutto normale. “Posti di fronte a pericoli che non siamo in grado di
controllare, scegliamo di combatterne le conseguenze più alla nostra portata,
per placare l’ansia: non so come posso affrontare una pandemia, ma questa
sicuramente porterà all’esaurimento di alcuni prodotti necessari. E’ bene
quindi farne scorta! Problema risolto, ora posso rilassarmi”. Siamo di fronte a
un effetto chiamato “Zero Risk Bias”, “Bandwagon effect” risponde invece al
comportamento non del tutto irrazionale di indossare a tutti i costi la
mascherina anche se non ce n’è bisogno: “quando vediamo tanti intorno a noi
comportarsi in un determinato modo ci viene automatico sentirci diversi. E
spesso sentirci diversi, anche se non siamo in torto, ci mette a disagio. Così sentiamo
l’irrefrenabile bisogno di adeguarci”. Il principio della “Riprova Sociale” dello
psicologo Robert Cialdini, è anch’esso una conferma: “quanto maggiore è il numero di persone che trova
giusta una qualunque idea, tanto più giusta è quell’idea”.

Crisi. Una C della Comunicazione già ma non del tutto conosciuta.

Siamo in crisi? Davanti a quale crisi lo stato italiano si ritrova?

Abbiamo cercato di riassumere la condizione dello stato italiano a livello operativo, economico ed emotivo e, secondo le informazioni trasmesse dai media e dallo stesso governo, l’Italia starebbe affrontando una terribile crisi: la crisi del Coronavirus (fonte: economiaepolitica.it).

Helio Fred Garcia della Logos Consulting Group di New
York, agenzia di consulenza specializzata in Crisis Management e Crisis
Communication, menziona addirittura il Covid-19 come sette tipi di Crisi in una
e illustra le sette dimensioni del crisi del Coronavirus:

  1. Crisi
    della Sanità Pubblica: molti contagi, molti ammalati e gli ospedali non
    riescono a soddisfare la richiesta perché va oltre la loro capacità;
  2. Crisi
    dei Business: qualsiasi tipo di settore viene in quale modo colpito, in quanto
    deve adattarsi alle misure di sicurezza richieste e di conseguenza trovare
    anche nuove alternative per proseguire la propria attività. Questo provoca
    rallentamenti e disagi interni;
  3. Crisi
    Economica: il Covid-19 ha portato un recessione dell’economia e qualsiasi
    azione comporta gravi rischi;
  4. Crisi
    dell’Informazione: comunicazione non chiara, incompleta, talvolta
    intenzionalmente ingannevole, che porta confusione tra i pubblici;
  5. Crisi
    sulle Competenze governative: il governo non ha fornito risposte chiare e
    tempestive;
  6. Crisi
    Sociale: lo stato d’animo che si è diffuso è molto negativo e fa leva su
    emozioni quali paura e ansia, destando persino reazioni violente e facendo
    venir meno valori comuni;
  7. Crisi
    della Salute Mentale e psichica: i cittadini non agiscono in maniera
    consapevole ma quasi irrazionale, sono spaventati per la loro salute, per il
    loro lavoro e per il senso di costrizione dato dalle misure di quarantena. Uno
    stato d’animo patologico che dovrebbe essere senz’altro trattato da esperti.

Cosa è però una crisi? Partiamo dal principio.

Semplicemente: la crisi è un evento straordinario, interno
o esterno a un’organizzazione, che provoca la destabilizzazione del clima
aziendale con conseguente negatività nello stato emotivo e attira una visibilità
e copertura più ampia dei media. La crisi non è un’emergenza, non è un evento
ordinario che può essere gestito attraverso i mezzi abituali (Poma, Vecchiato,
2012). La destabilizzazione aziendale provoca un rischio a breve/lungo termine
livello reputazionale, di immagine e di profitto.

Crisi. Una C della Comunicazione già ma non del tutto conosciuta.

Fattori comuni di una crisi nella Pandemia Covid-19. La crisi aziendale esiste?

Occorre adesso collegare i fattori comuni di una
situazione di crisi al caso del Coronavirus.

Frenesia, pericolosità, destabilizzazione, eccezionalità,
alta visibilità, sono tutti fattori comuni in un evento critico, e nella realtà
sono fattori che ritroviamo molto chiaramente nel contesto divulgato con l’epidemia
del Covid-19. Si tratta di un evento esterno che ha provocato una
destabilizzazione dell’ambiente sociale e politico, il quale di conseguenza ha
richiesto ai fini di contenimento pandemico, precisi e stretti provvedimenti,
cambiando le abitudini dei cittadini e nell’operatività aziendale. Le aziende
perciò hanno dovuto reintegrarsi e riadattarsi al nuovo ambiente che si è creato.
In breve, l’epidemia da Covid-19 non ha di per sé scatenato una “crisi
aziendale”, ma una “crisi di contesto”, il quale potrebbe destabilizzare l’ambiente
interno di un’ organizzazione e portare a una perdita di controllo nelle
attività operative e di comunicazione. Solo dopo questa comprovata
destabilizzazione, potremmo discutere a livello di crisi aziendale.

In materia di Crisis Management, il processo di gestione
della crisi aziendale, Scott Kronick, CEO Ogilvy Asia, in un articolo
intitolato “How to comunicate in turbulent times?” non a caso ha deciso di
citare l’autore e speaker Brian Tracy: “non puoi controllare quello che ti
succede, puoi solo controllare le tue reazioni nei confronti di quello che ti
succede”. Scott Kronick riferiva il suo articolo alla crisi del Covid-19 e
quella citazione mette in chiaro che: tu, come organizzazione, non puoi
controllare quello che ti succede intorno, ma un contesto esterno critico non è
detto che possa portare d’altronde a una crisi aziendale. Un’azienda può influenzare,
può non restare neutrale politicamente (Cino V., Fontana A., 2019) ma non può comunque
avere il controllo degli eventi esterni, ma può certamente controllare ogni
scelta e attività organizzativa, quella che Tracy chiama “reazione”, nei
confronti di ciò che succede fuori. E’ la scelta che cambia le carte in tavola.

E’ come l’organizzazione si muove e comunica, in un
contesto già di per sé turbolento, che può provocare, e non, danni
reputazionali ed economici.

Per cui cari economisti, cari imprenditori e uomini di
mercato, non per provocarvi, ma per portarvi un messaggio di ottimismo ben
comprovato: le vostre aziende non è detto siano in crisi, ma badate bene alle
vostre scelte, perché il contesto è rischioso e ogni mossa può minacciare la
vostra realtà e compromettere la vostra reputazione da un lato, ma dall’altro
allo stesso tempo può aprirvi un ventaglio di opportunità.

Il nostro caro vecchio imprenditore dei tempi del Covid-19
ha effettuato una scelta precisa di fronte al suo cliente, maturando un
atteggiamento prudente e analizzando il contesto e la sua stessa azienda:
questa scelta ha cambiato il suo futuro.

La Comunicazione è una scelta aziendale strategica.

Scegliere di comunicare è una responsabilità sociale d’impresa per un grande Brand e per una PMI.

Perché scegliere di comunicare? Perché qualsiasi azione o
non azione che noi come azienda adottiamo, porta comunque a un’esposizione.
Parlava quello che noi comunicatori definiamo quasi un “mentore”, lo psicologo
e sociologo Paul Watzlawick: “non si può non comunicare”. Nella sua Pragmatica
della Comunicazione, Watzlawick espone cinque Assiomi (fondamenti) di
comunicazione e il primo afferma “l’impossibilità di non comunicare”. Potremo
scegliere di non esporci come azienda, di adottare le misure operative di
sicurezza richieste, e aspettare che nuovi decreti riportino la situazione alla
normalità, ma anche questa in verità si tratta di una scelta. “Qualsiasi
comportamento – parole, silenzi, attività o inattività – ha valore di messaggio
e influenza gli altri interlocutori che non possono non rispondere a queste
comunicazioni” (Watzlawick, 1971, p.41).

Se da un lato dobbiamo scegliere perché qualsiasi tipo di
nostra attività, persino una non attività, trasmette un messaggio al nostro
pubblico, dall’altro lato la scelta di comunicare consapevolmente un messaggio è
anche una responsabilità nei confronti dei nostri pubblici.

Di conseguenza un’organizzazione o un libero professionista
che si relaziona esternamente (o anche internamente nel caso di un’azienda),
dal momento in cui sancisce un legame, qualsiasi tipo di mossa faccia, crea
comunque una forma di interazione. E’ , inoltre, responsabilità sociale ed
etica dell’impresa o del professionista, intervenire consapevolmente quando il
suo stesso pubblico domanda o chiede comunque una guida.

Scendiamo nel dettaglio e parliamo di Brand, “amici” che
ci accompagnano nelle giornate della nostra vita. Avete presente il logo della
Coca Cola? L’ha ideato un designer pressoché molto famoso, si chiamava Walter
Landor. Landor non solo ha disegnato un logo, ma ha disegnato un Brand: insieme
alla stessa Coca Cola Company, ha dato vita a un “prodotto” (o meglio un’azienda)
e l’ha reso persona. Una persona che il suo pubblico potesse immaginare, a cui
dare persino un “volto” e infine, Walter Landor ha aggiunto: “i prodotti
vengono realizzati nelle fabbriche, ma i Brand, quelli si realizzano nella
mente”.

Prendendo spunto da Landor, oggi Ogilvy Public Relations
nel bel mezzo di un’epidemia, ha dichiarato attraverso Piyush Pandey, Chief Creative Officer
Worldwide: “i prodotti sono realizzati nelle fabbriche, ma i Brand sono
realizzati all’interno dei cuori delle persone. Quando sei nel cuore delle
persone, tu hai una responsabilità. Una responsabilità per far loro piacere e
una responsabilità di essere parte integrante delle loro vite quando si sentono
in pericolo”.

I Brand creano emozioni, i Brand rappresentano un idolo in
cui il pubblico può identificarsi, i Brand non sono soltanto dei prodotti e chi
fa comunicazione lo sa molto bene. Chi vive nella mente delle persone,
influenza il loro atteggiamento e le loro opinioni, diventa come una guida e di
conseguenza ha una responsabilità. I Brand hanno responsabilità.

Le stesse PMI possono avere un Brand o essere loro stesse
un Brand, per cui ciò non toglie loro da alcuna responsabilità. Il Brand, di
fatti, può non essere un prodotto, il Brand può essere l’azienda stessa e di conseguenza
può essere il singolo consulente. Non a caso si è diffuso il “Personal Branding”,
quella branchia del Branding che lavora per costruire un’identità di marca sul
singolo, o su un gruppo ristretto. L’imprenditore citato all’inizio del testo
pensiamolo adesso come un consulente, un libero professionista: lui è il Brand
di se stesso. Il Brand di se stesso ha dei valori, che lo spingono ad agire
secondo una precisa identità, che risponde come azienda (se stesso) a domande
che il pubblico gli pone. Essere unici non significa non poter essere degli
idoli, il tuo pubblico può immedesimarsi in te anche se sei un consulente.
Frank Merenda, ad esempio, è uno dei tanti economisti e speaker, che smuovono a
livello emozionale i loro pubblici in modo piuttosto “duro” (caldo). Quell’imprenditore,
comunque, ha dimostrato di aver colto la sua responsabilità e ha scelto di
compiere azioni responsabili per la società e per il suo pubblico di
riferimento: ha agito.

La Comunicazione è una scelta aziendale strategica.

Una responsabilità sociale d’impresa che va oltre: la Corporate Diplomacy e i nuovi consumatori.

Aver definito i Brand come una persona e aver sottolineato
la loro responsabilità, anche a livello di PMI, può non bastare per comprendere
perché è importante comunicare.

Di Coca Cola non ci stanchiamo mai, per cui perché non
citare Vittorio Cino, Direttore European Affairs di Coca-Cola Company, il quale
insieme ad Andrea Fontana, Presidente di Storyfactory e Presidente dell’Osservatorio
Italiano di Storytelling, spiegano il concetto della nuova disciplina della “Corporate
Diplomacy”. “Le aziende giocano un significativo ruolo politico e sociale, in
aggiunta a quello economico, con un impatto a livello locale, nazionale e
transnazionale. I processi di globalizzazione (a cui sono stati sottoposti
tutte le aziende e i liberi professionisti allo stesso modo) spingono […] ad
entrare nell’arena del dibattito politico e sociale, rendendoli partecipe dell’elaborazione
di valori pubblici e privati. Il mondo del business è sempre più conscio del
proprio capitale sociale e della propria responsabilità” (Cino, Fontana, 2019
pag. 15).

Come anticipato nel capitolo 5, nel periodo di diffusione
dell’epidemia Covid-19, se da un lato le imprese cercano di “coniugare il
business con l’impegno sociale e ambientale”, attraverso iniziative di
responsabilità sociale di impresa, dall’altro è il pubblico stesso a richiedere
una risposta all’impresa stessa o al suo consulente di riferimento (si chiama
consulente non a caso…).

Viviamo poi nell’era dei Millennials e dove la “generazione
z” (degli anni 2000) sta prendendo sempre più spazio, dove un nuovo Consumatore
si sta interfacciando: un “consumato-re” più autonomo, pro-attivo ed esigente
che dialoga con le aziende utenti online e offline, un individuo responsabile
che tra i suoi bisogni richiede valori appunto sempre più legati all’eticità (Fabris
G., 2003) e premia aziende serie e socialmente responsabili (Fabris G., 2010).

Dobbiamo, quindi, scegliere di comunicare perché di fronte
a noi abbiamo un consumatore più esigente, che richiede alle aziende una
risposta, specie nei confronti di quelle organizzazioni che condividono i suoi
stessi valori.

Comunicare è un nostro dovere e se non lo facciamo,
sappiamo che abbiamo comunque trasmesso un messaggio e una nostra scelta e ci
vuole un attimo a far crollare la nostra reputazione.

Quale scelta strategica adottare e come.

Analizza le nuove due C nella tua azienda: Coronavirus e Crisi.

Certamente non esiste una strategia universale, ma
esistono passaggi chiari e fondamentali da applicare per elaborare una
strategia di risposta alla crisi precisa, coerente ed efficace.

Il primo passo è senza dubbio analizzare la nostra
azienda: comprendere come è posizionata al momento sul mercato, come sta
rispondendo il nostro settore alla diversificazione delle attività, capire come
il pubblico sta reagendo alle misure restrittive che avete dovuto applicare (e
che sicuramente avrete già fatto).

Sul tecnico un’analisi SWOT e Benchmark (anche verso i
competitori) può essere un punto di partenza. Semplicemente “capire come siamo
messi” è fondamentale per tutti, a prescindere dalla grandezza della nostra
realtà. E’ necessario comunque analizzare uno scenario più “ampio” non solo a
livello nazionale, ma europeo se non addirittura mondiale, per comprendere fino
a che punto si spingono i blocchi operativi e così le stesse opportunità nel
nostro settore.

La diffusione del Covid-19, i provvedimenti di sicurezza
da parte dello stato italiano, da parte dei governi mondiali e altri istituti,
hanno destabilizzato l’ambiente di riferimento: è comprovato, senz’altro siamo
di fronte a una crisi di contesto e occorre necessariamente capire come la
nostra azienda è minacciata e quanto ad oggi è stata attaccata.

Per comprendere come è posizionata la nostra attività in
base a questa particolare crisi, possiamo assolutamente riferirci al processo
di Crisis Management, processo che definisce la gestione della crisi, al fine
di elaborare una strategia di preparazione o di risposta corretta. Tale
processo mira in particolare a obiettivi a lungo termine, come salvaguardare la
reputazione aziendale e il rapporto con gli Stakeholders di riferimento, come
permeare l’organizzazione di stimoli pro-attivi al fine di riuscire a cogliere
opportunità che possono derivare da un qualsiasi cambiamento.

Il Crisis Management si divide in tre fasi: Fase Research
o Prevenzione, Fase Response o Gestione della Crisi e Fase Recovery o gestione
del Dopo Crisi. All’interno del processo di Crisis Management si colloca la
Crisis Communication. Questa raggruppa tutte le attività di comunicazione dell’impresa
nelle tre fasi.

Appurato il processo di gestione della crisi e le fasi che
lo compongono, resta comunque da comprendere che tipo di strategia scegliere, e
ripetiamo che non esiste una strategia universale da poter applicare sempre e
per chiunque, ma esistono delle linee guida.

In un contesto turbolento scatenato dall’epidemia del
Coronavirus, occorrerebbe comprendere in quale fase del processo di Crisis
Management si colloca. Se  uniamo queste
riflessioni e queste analisi riusciremo di nuovo a comprovare quanto riferito
al punto 4.1: non è detto quindi che ci troviamo già in una fase di gestione
della crisi aziendale, la nostra organizzazione può risentire del contesto
esterno destabilizzato e procedere a programmare, quindi prevenire la gestione
della crisi.

In fase di prevenzione, o in fase di gestione, il contesto
resta comunque turbolento, la differenza sta nel fatto che il contesto abbia già
causato o meno una destabilizzazione, avvenuta direttamente dall’esterno,
oppure a una mal gestione interna delle attività operative e di comunicazione.
In questo ultimo caso è necessaria un’analisi ben più approfondita: analizzare
i passi compiuti in precedenza e tutte le operazioni che hanno portato alla
perdita di controllo, attraverso una strategia non efficace. Ciò non significa
comunque che ogni nostro “sforzo” sia stato vano! Magari va solo un attimo….
rifinito.

Quale scelta strategica adottare e come.

Dall’analisi alla strategia: Coerenza, la terza nuova C della comunicazione.

Dopo aver analizzato in quale posizione si trova l’azienda
rispetto alla destabilizzazione lasciata dal Coronavirus, crisi aziendale o
non, resta comunque appunto quel contesto turbolento là fuori e bisogna in
qualche modo comunicare il nostro stato per responsabilità sociale d’impresa,
oltre che di comunicazione di crisi. Questa si tratta di una scelta strategica:
“ridefinire gli obiettivi di comunicazione” possiamo affermare sia il secondo
passo adeguato da compiere.

Ricordiamo che esistono linee guida che possono aiutare la
nostra azienda o la nostra libera professione ad adottare scelte strategiche
efficaci, per comunicare la nostra “opinione” e la nostra “presenza” all’interno
di un contesto turbolento.

Andiamo quindi a disporre vari esempi di comunicazione qui
di seguito, per trasformare i nostri obiettivi in scelte operative efficaci e
coerenti con la nostra strategia.

Manuali fanno riferimento agli studi di Coombs (2007), un’azienda,
una qualsiasi entità economica, può scegliere di negare, ridurre l’evento
critico, ridimensionare, ridurre o scusarsi e assumere atteggiamenti proattivi
nei confronti dei suoi pubblici.

Un altro esempio viene da Scott Kronick, CEO Ogilvy Public
Relations Asia Pacific. Nel suo articolo “How to communicate in turbulent
times?”, mette in luce quelle che sono le azioni fondamentali che vanno intraprese
da un punto di vista comunicativo in situazioni di crisi e illustra il metodo
DRIVE: un metodo di approccio di comunicazione efficace in cinque step, lo
stesso approccio che Ogilvy Public Relations sta tenendo nei confronti dei suoi
stessi clienti. “DRIVE”
aiuta a guidare uomini di comunicazione nel realizzare una reazione efficace
focalizzandosi sui messaggi e sui propri valori aziendali: determina chi ha
bisogno di sapere cosa, rifinisci il messaggio, informa il tuo pubblico,
focalizzati sui valori, esamina le conseguenze.

Se torniamo ad analizzare la scelte dell’imprenditore
protagonista ormai delle nostre ricerche ai tempi del Covid19, lui stesso ha
seguito l’approccio DRIVE, concentrando le sue scelte sui suoi valori
(aziendali), rafforzando la sua identità e ha applicato una strategia coerente.

All’interno di Ogilvy Public Relations Italia, il Team di
PR and Influence, ha presentato “R.A.I.S.E.”, un nuovo modello di
coinvolgimento strategico che fa leva sull’importanza dell’ Influencer
Marketing. L’Influencer Marketing è una grande leva strategica perchè: “Reach,
raggiunge le piattaforme su cui il target oggi spende più tempo”, “Advocacy,
promuove e sostiene, vivendo esperienze reali come il pubblico stesso, “Integration,
integra più leve di comunicazione e marketing”, “Simplification, semplifica la
realizzazione di contenuti anche durante il lockdown”, “Empathy, fornisce
competenze dirette alle esigenze dei pubblici”.

Un esempio anche dalla Global Alliance, la Federazione internazionale che raggruppa le associazioni professionali delle Relazioni pubbliche e della comunicazione del mondo. Global Alliance presenta, invece, un elenco di 12 consigli che “dovrebbero e potrebbero” guidare la comunicazione responsabile sulla pandemia in continuità con quanto esplicitato nel Code of Ethics a nel Melbourne Mandate.

  1. Prima di comunicare, pensa all’impatto del tuo messaggio al di fuori della tua organizzazione;
  2. Non nascondere l’impatto della pandemia. Sii realistico nelle tue comunicazioni, basandoti su dati di fatto;
  3. Usa un linguaggio semplice e chiaro per ridurre al minimo la drammatizzazione della situazione;
  4. Includi una visione di speranza;
  5. Diffondi buoni esempi e buone prassi;
  6. Identifica e legittima le emozioni delle persone;
  7. Dai la priorità alle informazioni provenienti da fonti ufficiali;
  8. Evita di condividere notizie false. Sii critico nei confronti delle fonti di informazione;
  9. Non saturare le reti con inutili messaggi;
  10. Non perdere tempo nella mera critica della comunicazione pubblica. Prova ad essere costruttivo con l’ente pubblico per migliorare la comunicazione;
  11. Supporta il lavoro dei media fornendo informazioni accurate al momento giusto;
  12. Lo humour può essere un antidoto a sentimenti depressivi e di crisi, purché non sia frivolo.

Consulenti di comunicazione, tra cui Rossella Sobrero,
Presidente della Ferpi Federazione Relazioni Pubbliche Italiana, consigliano di
tenere caldi i contatti e far leva sull’importanza delle relazioni, applicando
ogni mezzo possibile per mettersi dalla parte dei nostri pubblici di
riferimento.

A supporto delle affermazioni di Rossella Sobrero, in
ambito delle PMI riportiamo l’esempio di un’azienda situata in provincia di
Venezia che opera nel settore informatico, Omega Soluzioni Informatiche, la
quale ha realizzato una sorta “Manuale Anticrisi” per permettere a tutti i suoi
clienti di continuare la propria attività lavorativa da casa: il manuale,
intitolato “Flexworking”, fornisce in modo chiaro e semplice consigli
strategici e operativi come supporto alla continuità aziendale. Una PMI, che
durante il periodo destabilizzante nato dalla diffusione dell’epidemia del
Covid-19, ha cercato di non lasciar andare le relazioni, ha fatto leva sui suoi
valori interni e sulla sua identità aziendale, per comunicare attraverso il suo
business messaggi chiave che potessero essere di supporto ai pubblici di
riferimento.

Sarebbero molti gli esempi e le strategie di comunicazione
che potremmo trattare per rispondere alla domanda: quale è la strategia
migliore da adottare?

Le strategie in effetti sono molteplici, ma tutte
rispondono a un solo principio: la coerenza.

Principio con cui abbiamo aperto questa ricerca, principio
con il quale il nostro protagonista imprenditore si è presentato quando ha
scelto di non stare dalla parte del suo cliente, che mostrava un’opinione
totalmente contraria a lui.

Lo scopo di queste pagine è, infatti, sensibilizzare
coloro che, oltre alla comunicazione, devono fare business, e quindi gli imprenditori,
perché ad oggi è una nostra responsabilità farsi trovare preparati. E’ allo
stesso tempo una nostra responsabilità reagire, nel caso in cui non fossimo
preparati. Sopratutto è una nostra responsabilità applicare scelte strategiche
di comunicazione per evitare danni reputazionali in futuro che siano
assolutamente coerenti con quella che è la nostra identità aziendale.

Per quanto possiamo essere delle grandi, medie, piccole o
persino singole entità, abbiamo i nostri valori, abbiamo una nostra identità e
non esiste strategia più forte ed efficace di una strategia coerente con noi
stessi. Ricordiamo, l’ambiente è già destabilizzato a sufficienza, non andiamo
a creare ancora più caos nella mente dei nostri pubblici e sopratutto
riflettiamo: siamo davvero in grado di affrontare un periodo turbolento come la
situazione data dal Covid-19 e a seguire la perdita di fiducia nella nostra
identità ?

Agiamo responsabilmente, o come scrive il nostro Luca
Poma, “non agiamo come un popolo bue o come italiani immaturi”.

Agiamo consapevolmente e responsabilmente, e sopportiamo questo stress perché: dalle peggiori crisi nascono anche grandi opportunità.

Bibliografia

Chris V., Tahl R., Never Split the Difference: Negotiating as if Your Life Depended on It, Random House Business Books, London, 2017.

Cialdini R. B., Le armi della persuasione. Come e perché si finisce col dire di sì, Giunti Editore, Firenze, 2013.

Cino
V., Fontana A., Corporate diplomacy. Perché le
imprese non possono più restare politicamente neutrali,
Egea Editore, Milano,
2019, pp. 15.

Coombs W. T., Protecting
organization reputations during a crisis: the development and application of
situational crisis communication theory
,
Corporate Reputation Review, vol. 10, 2007.

Coombs W. T., Ongoing
Crisis Communication: planning, managing, and responding,
Sage, Thousand Oaks, 2007.

Fabbri
G., il nuovo consumatore: verso il postmoderno, Francoangeli Editore,
Milano, 2003.

Fabris
G., La società post crescita, Egea Editore, Milano, 2010.

Watzlawick
P., Beavin  J. H., Jackson D. D., Pragmatica
della comunicazione umana. Studio dei modelli interattivi, delle patologie e
dei paradossi,
Casa Editrice Astrolabio Ubaldini, Roma, 1971, pp. 41.

Poma
L., Vecchiato G., La guida del sole 24 ore al Crisis Management, Gruppo
24Ore, Milano, 2012.

Sitografia

affaritaliani.it Il primo quotidiano digitale dal 1996 (https://www.affaritaliani.it/cronache/coronavirus-aggiudicata-la-gara-per-5000-posti-in-terapia-intensiva-657625.html)

Angi: responsabilità sociale d’impresa e innovazione sociale ai tempi del Covid-19. Intervista a Rossella Sobrero http://www.today.it/partner/angi/angi-intervista-rossella-sobrero.html)

Consenso.pro e team, gestione di campagne di consenso (https://www.consenso.pro)

Corriere della Sera (https://www.corriere.it/salute/malattie_infettive/cards/coronavirus-perche-l-italia-ha-molti-piu-casi-altri-paesi-europei/cosa-potrebbe-essere-successo-nostro-paese_principale.shtml)

Economia e Politica. Rivista online di critica della politica economica (https://www.economiaepolitica.it/l-analisi/crisi-da-coronavirus-italia-europa/)

Ferpi Federazione Relazioni Pubbliche Italiana. Coronavirus: 12 consigli per una comunicazione responsabile (https://www.ferpi.it/news/coronavirus-12-consigli-per-una-comunicazione-responsabile)

Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana, Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, 8 Marzo 2020 (https://www.gazzettaufficiale.it/eli/gu/2020/03/08/59/sg/pdf)

Global Alliance: 12 consigli per una comunicazione responsabile (https://www.marketingjournal.it/global-alliance-12-consigli-per-una-comunicazione-responsabile/)

Governo
Conte e Coronavirus. Analisi sulle frequenze della paura, di Luca Poma (https://formiche.net/2020/03/governo-conte-coronavirus-paura/)

Logos Leadership Lesson: Seven Dimensions of the COVID-19 Crisis by Helio Fred Garcia President Logos Consulting Group (https://youtu.be/4SdpHh7tGJM)

Ogilvy Public Relations, “How to communicate in turbulent times” by Scott Kronick, (https://www.ogilvy.com/uploads/O200316_Paper_COVID(1).pdf)

traduzione italiana a cura di Francesca Serena Fronzoni “Come comunicare in tempi di crisi” (https://cdn.ferpi.it/media/post/c8dglqc/covidhowtocommunicatekronick.pdf)

Ogilvy Consulting Italia: COVID-19: i brand e le persone. Come le scienze comportamenti ci aiutano a comunicare al meglio quando il mondo sembra impazzire. (https://www.ogilvy.it/doc_din/OC_COVID19_BrandPersone_200409.pdf)

Ogilvy Consulting Italia: L’influencer marketing ai tempi del Covid-19: come cambia il rapporto tra brand e influencer. (https://www.linkedin.com/posts/ogilvy-italia_brand-e-influencer-ai-tempi-del-covid-19-activity-6651763138897211392-CqPN)

The Business Insider, sito web di notizie dal mondo della finanza e del business (https://www.businessinsider.org)

Wikipedia, l’enciclopedia libera (https://it.wikipedia.org/wiki/Pagina_principale)

(https://it.wikipedia.org/wiki/Pandemia_di_COVID-19_del_2020_in_Italia)




Politica psicosomatica e comunicazione algoritmica

Politica psicosomatica e comunicazione algoritmica

Viviamo in un eone
comunicativo fatto di immersione, ottundimento, dati (troppi dati?) e troppa
emotività.

Per anni, noi
comunicatori, ci siamo accasciati al tepore del nostro fuoco di bivacco, a
tratti per snobismo, a tratti per
conformismo profondo e edipico.

Poi
è arrivato il virus.

Da
quel momento, di decreto in decreto, abbiamo imparato a fare i conti con un virus
letale che ha fermato il mondo intero fino a chiudere persino il buco
dell’ozono (tanto ha prodotto l’arresto produttivo e l’inamovibilità di cose e
persone).

Ma
a differenza dell’altro Virus letale (Outbreak), descritto nel film di Wolfgang
Petersen del 1995, questo non ha ragioni in laboratorio.

È
accaduto.

E
questo ha finito col ripresentarci violentemente la domanda sul significato
della vita, sul suo limite, sulla nostra vulnerabilità. Perlomeno nelle
latitudini dove non c’è la consuetudine alla morte per malattie endemiche o
alla morte per stenti.

Non
solo.

Ci
ha rimesso nelle mani degli esperti, di coloro che agitano modelli
statistici, studiano la predittività, elaborano mappe, predispongono alla cura.

La guerra alla
competenza pare subire, grazie all’attacco virulento della malattia
respiratoria acuta da SARS-CoV-2, uno stop improvviso (temporaneo?).

L’immagine dei volti
dei sanitari marchiati dagli elastici delle mascherine, instancabili e
irrefrenabili, fanno ora parte degli almanacchi degli eroi e – tra qualche
tempo – persino dei nostri campi elisi.

Su questo, la salsa
italica ha amplificato le gesta dei nostri soccorritori connazionali per
riappacificarci con un sano sentimento patriottico.

Ricordate qualche
settimana fa, Philippe Daverio alle prese con Boris Johnson, inquilino di Downing
Street: “Noi siamo Enea che prende sulle spalle Anchise, il suo vecchio e
paralizzato padre, per portarlo in salvo dall’incendio di Troia, che protegge
il figlio Ascanio, terrorizzato e che quella Roma, che Lei tanto ama, l’ha
fondata. Noi siamo Virgilio che quella storia l’ha regalata al mondo. Noi siamo
Gian Lorenzo Bernini che, ventiduenne, quel messaggio l’ha scolpito per
l’eternità, nel marmo. Noi siamo nani, forse, ma seduti sulle spalle di quei
giganti e di migliaia di altri giganti che la grande bellezza dell’Italia
l’hanno messa a disposizione del mondo”.

E noi?

Noi comunicatori, in vista della Fase 2, dovremmo porci alcune domande di fondo e di prospettiva sul perché ultimamente la nostra professione è finita per ricoprire il ruolo di “grande industria di ricerche di mercato”, come l’ha definita Willian Davies in Stati Nervosi, il bel volume pubblicato in Italia da Einaudi.

Abbiamo mobilitato
(non nobilitato) grandi masse con le emozioni, i frame del momento, i trend
demoscopici sulla percezione. Il tutto addomesticato da algoritmi.

Siamo stati
sballottati a forza nella cultura dell’oltraggio, nelle infinite arene per la spettacolarizzazione
del dibattito, nelle macellerie dei ‘like’.

Tanto ha tuonato – insomma – che ha finito per piovere e ora, alla ripartenza, dopo questa lunga ma opportuna fase di rallentamento e di introspezione collettiva, prendiamoci tutto il tempo per riformulare il nostro ruolo e ribadirlo ai nostri datori di lavoro, pubblici o privati che siano, tornando alla funzione originaria di ‘servizio pubblico’.

Certi
del dovere della persuadibilità, dovremmo ripartire per dare voce all’inquietudine,
alle paure, all’ansia, ma con una prospettiva di pubblica utilità, con tutto
l’accompagnamento interpretativo che occorre, contribuendo – se possibile con
nuovi linguaggi e posture – a ridurre il rancore che nei mesi precedenti
l’arrivo del virus abbiamo visto visibilmente e consapevolmente aumentare.

Sdegnarsi
per la retorica, per la subalternità di alcuni ruoli invece centrali – come il
nostro – ribadendo che il professionista della comunicazione non è un mero
esecutore ma ha lo scopo di tenere insieme le relazioni, fornire spiegazioni e
trovare il giusto garbo per essere univoci, chiari, adamitici, onesti,
disintermediati.

Avversare
l’arguzia senza scopo, i questuanti delle redazioni, l’analfabetismo in ogni
dove, la facile condiscendenza.

È
un pensiero insubordinato il mio, on the road, me ne rendo conto e di questo
chiedo scusa anticipatamente.

Ma
che occorra passare dal like al live è ormai scontato e la costante cyber
guerra cui abbiamo assistito prima dell’arrivo del virus, a botte di fake news,
violazione dei dati, soprusi linguistici e stilistici, non può più trovarci
disarmati.

“Chi
non ha una spada ne compri una”.

Il
consiglio evangelico[1]
è tonico e calza a pennello. Contro il conformismo che abbiamo talvolta contributo
a far nascere occorre imbastire un corpo a corpo con la sintassi che poche
volte si è vista nel nostro Paese.

Per
evitare che tornino giorni in cui qualcuno possa affermare che i fatti sono
inconsistenti e la non verità (o la post verità) è la sola certezza del momento;
giorni in cui l’infodemia, figlia di bias pregiudizievoli, e la fiducia cieca
in fonti autoselezionate, possano tornare peggiori del peggior virus.

La
storia per coloro che maltrattano la nostra professione è un magazzino di
costumi di teatro. Non ce lo possiamo più permettere, a partire da nostri
stessi, dalla cura della vista quotidiana della nostra immagine riflessa allo
specchio.

Per provare a focalizzare una certa operatività, mi sono imposto 15 regole che vi illustro brevemente. Sono poco più che appunti che necessitano di ulteriore impegno.

  1. Frenare lo struggimento. La Fase 2 deve
    essere focalizzata sulla ripartenza, sulle energie disponibili e sulla
    creatività già presente: passare da una fase di ‘Melancovid’ (come l’ha
    definita Liberation nei giorni scorsi) ad una fase proattiva, sulla base della
    voglia di ricominciare da dove ci si è fermati.
  2. Costruire gli anticorpi all’amnesia che verrà. In questo
    periodo abbiamo fatto i conti con noi stessi, con i nostri limiti e virtù. Nel
    periodo della distanza sociale massima possibile abbiamo scoperto gesti di
    solidarietà inequivocabili, utile medicina per il pessimismo disfattista che
    spesso ci attanaglia.
  3. Fare ricorso all’intelligenza collettiva. Noi siamo rete
    sociale ma anche professionale, una filiera di competenze: da questo assunto
    dovremmo rifondare la nostra laboriosità per offrire interpretazione dei
    conflitti, spiegazione dei processi, public engagement.
  4. Basta prodotti standard. Non possiamo
    più tornare alla comunicazione da scaffale, da riporto, da talk show. Se il
    messaggio è pensato per le persone, dobbiamo riconsiderare tone of voice,
    parole, atteggiamenti, immagini, situazione per situazione, orecchio per
    orecchio, occhio per occhio.
  5. Al via un’epoca dallo sguardo molecolare. Il virus ha
    abituati a immagini di dettaglio, a frammenti della situazione: vorrei
    abituarmi ad un approccio prossimale e non distale o massimalista alle cose.
  6. Riformulare il corredo genetico del comunicatore. Serve un
    CRISPR vero e proprio: una forbice molecolare capace di modificare il DNA della
    comunicazione per concepire i messaggi in relazione alle reali necessità o
    capacità delle persone. Incidere per specifici obiettivi e non per tutte le
    stagioni.
  7. Non più cieco peer-to-peer. Evitare la
    divulgazione di contenuti a nodi equivalenti o paritari che non siano stati
    verificati nelle fonti, nei copyright, e nelle committenze, soprattutto quest’ultime.
  8. Occorre un’energia metabolica nuova, con radici
    senzienti
    (come per le piante). Significa ripartire dalle accademie e dalle
    università, dove spesso si annida la ricerca, l’avamposto, il vivaio di
    intelligenze. Le nuove generazioni sono assai più pronte alla ricerca condivisa
    e alla sperimentazione.
  9. I dati sono l’altro ambiente in cui viviamo. La nostra
    identità di persona è il risultato dell’accuratezza che mettiamo nella gestione
    dei nostri dati. Occorre aumentare la nostra consapevolezza per i mondi
    immateriali che frequentiamo e ridimensionale la forza muscolare delle nostre
    performance in rete, meno gridate e più selezionate.
  10. Augmented
    Intelligence.
    La vera intelligenza aumentata è il capitale umano
    professionale che ci circonda. I migliori progetti culturali, le narrazioni più
    avvincenti, le campagne più proficue, sono il frutto di un confronto
    interdisciplinare assiduo e continuativo. Anche tra diverse agenzie.
  11. No a superumani che
    salvano il mondo.
    Nessun capitan Marvel, nessun Avengers. La
    quotidianità ha i suoi eroi che spesso non conosciamo ma restano umani in ogni
    loro circostanza. La Fase 2 riparta dalla narrazione dei ‘lavori solidi’ che
    non ricordiamo ma che sono determinanti per far funzionare le cose, soprattutto
    nei periodi di crisi.
  12. Stop alla stregoneria
    nell’informazione.
    Ripartiamo dai fatti e dai dati. L’interpretazione –
    per essere tale – deve dichiarare il suo intento da subito, in modo univoco,
    organizzato, leale. Soprattutto nessuna investitura oratoria preventiva nel
    momento in cui si moltiplicano ovvietà e omissioni maldestre.
  13. Temporalità in bilico. Quello che
    abbiamo chiamato per anni ‘tempo libero’ è una reliquia inconsistente. Ciò che
    è accaduto dovrebbe farci riflettere sul fatto che tutto il nostro tempo a
    disposizione non è affatto libero ma deve essere gestito con un progetto e una
    finalità. Indietro non si torna.
  14. La civiltà festiva
    non regge più al confronto con il reale
    . Le città sono altro
    e i mille lavori sommersi che fanno funzionare le nostre comunità compongono e
    determinano una civiltà che poco ha a che spartire con l’effimera esperienza
    della sola festa. Una festa senza invitati e senza un invito preciso semplicemente
    non esiste.
  15. Uso sacrale del
    silenzio.
    Prendere la parola a proposito, con cognizione di
    causa, prendendo le distanze dall’arte propagandistica che spesso ha
    caratterizzato le urla scomposte dei direttori pro tempore.

Per il momento è tutto qui.

Nessuno zelo particolare, ve l’assicuro.
Soltanto il timore che alla ripresa, in questa cosiddetta Fase 2, si rimetta
l’elmetto e si torni come prima al fatticidio, alle strumentalizzazioni, alla
comunicazione dopata, alla prosa nerboruta e alla saliva e dunque ai favori, al
buon rendere, all’esercizio banale del potere machista.

Vorrebbe dire, nel caso infausto, non aver
compreso la particolarità di questa necessaria rinascita.

Una suggestione: gli utenti Macintosh e Linux
sanno che i colori sono 16.777.216. L’occhio umano ne coglie soltanto 10.000.000.

Vorrei sapermi contentare di ciò che vedo e
di ciò che vi apprestate a vedere con i vostri occhi.


[1] Luca
22,36