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L’Arte Di Saper Ascoltare: Nessuno Ascolta Più, Tutti Vogliono Parlare

L’Arte Di Saper Ascoltare: Nessuno Ascolta Più, Tutti Vogliono Parlare

Viviamo nell’era della comunicazione veloce, trasversale, ma una breve osservazione ci basta a capire che la velocità non è sinonimo di genuinità. A volte la colpa di una cattiva comunicazione è da imputare ad un messaggio formulato male, carico di emozioni approssimative, di idee confuse o di pensieri indefiniti, altre volte siamo noi a peccare di superficialità sia nel parlare che nell’ascoltare. Perché anche l’ascolto è parte integrante del processo comunicativo. Senza l’ascolto, il dialogo diventa monologo. E se in questi tempi possiamo parlare di tutto con tutti, sono pochi quelli che sono ancora in grado di ascoltare veramente.

L’ascolto attivo è alla base di una comunicazione sana

L’ascolto autentico non è un processo passivo, è attivamente ricettivo: accogliamo e processiamo le informazioni ricevute dal nostro interlocutore (e non quelle prodotte dal nostro chiacchiericcio mentale), poniamo attenzione alle parole e ai silenzi, a ciò che viene detto e non detto e come queste cose non dette vengono espresse attraverso la posizione del corpo, le mimiche facciali, i sospiri,…

L’ascolto è una parte importante dell’interazione tra due persone. Se nessuno ascolta, la parola non ha nessuna utilità. Se nessuno accoglie l’informazione, quest’ultima perde di valore, di significato, perché ha senso solo se il messaggio crea un ponte tra le persone, un ponte tra me e l’altro. Se manca questo ponte, o se una “riva” viene a mancare, non c’è comunicazione, ecco perché saper ascoltare è importante tanto quanto sapersi esprimere.

L’ascolto può essere passivo, come quando ci limitiamo a sentire la voce dell’altro senza prestargli una reale attenzione, oppure può essere attivo, come quando accogliamo le informazioni ricevute dall’altro nella loro complessità, facendo attenzione all’intero spettro comunicativo del messaggio che ci viene dato: ascoltiamo la voce e le sue intonazioni, ascoltiamo le parole e anche le pause, i silenzi, ascoltiamo il corpo con i suoi gesti, le sue posizioni.

“AMO ASCOLTARE. HO IMPARATO UN GRAN NUMERO DI COSE ASCOLTANDO ATTENTAMENTE. MOLTE PERSONE NON ASCOLTANO MAI.”
(ERNEST HEMINGWAY)

Cosa possiamo imparare grazie all’ascolto

Ascoltare è un’arte che s’impara col tempo, che si perfeziona grazie all’esperienza. Ci permette non solo di diventare dei buoni ascoltatori ma dei migliori comunicatori. Ogni volta che prestiamo davvero attenzione all’altro e ci permettiamo di accogliere dentro di noi le informazioni che ci manda, il nostro mondo si arricchisce. Essere in posizione di ascolto rappresenta una grande opportunità di crescita: l’attenzione volta al nostro interlocutore ci permette di cogliere le sfumature che un ascoltatore superficiale avrebbe bellamente ignorato cogliendo un messaggio parziale, approssimativo e forse falsato del tutto. Ascoltando con attenzione l’altro si colgono con più facilità le diverse gradazioni emotive che si manifestano nell’esperienza della vita umana, si scopre l’altro facendo la differenza tra la persona reale che si esprime a noi e l’immagine mentale, statica, che abbiamo di lei. Ascoltare ci permette di rompere l’immagine e cogliere il costante cambiamento della persona che abbiamo di fronte a noi.

“PARLARE È IL MODO DI ESPRIMERE SE STESSO AGLI ALTRI. ASCOLTARE È IL MODO DI ACCOGLIERE GLI ALTRI IN SE STESSO.”
(WEN TZU)

Mettendosi in profondo ascolto dell’altro, si esce lentamente da una visione manichea del mondo e dell’esperienza che ne possiamo fare, scorgendo al di là delle differenze personali che potremmo vedere dopo un primo approccio piuttosto superficiale, una matrice comune a tutti noi che ci permette di comprendere l’altro e il suo sentire e di relazionarsi a lui con più autenticità, con più umanità.

Ascoltare significa creare spazio (e vale anche per l’ascolto interiore)

Il primo passo da compiere per mettersi in ascolto dell’altro è essere presente, con consapevolezza. Questo tipo di presenza richiede di calarsi nel momento, di scendere dalla mente al corpo, di attivare i propri sensi in quanto la comunicazione non si basa esclusivamente sulla parola detta, ma anche sul linguaggio del corpo e sul come si esprime questo messaggio, perciò non basterà aprire le orecchie e “stare a sentire” (basterebbe semmai ad un ascolto superficiale e passivo), bisognerà aprire anche gli occhi e il proprio essere all’altro, esserci; a volte, occorrerà anche aprire le proprie braccia per permettere all’altro di schiudersi, senza la paura di essere giudicato, o ferito.

È vero, può sembrare difficile mettersi in ascolto, e lo è ancora di più se non ci siamo mai messi in ascolto di noi stessi, se non ci siamo mai fermati a fare chiarezza sulle nostre emozioni, se non siamo mai riusciti a cogliere le sfumature tra le sensazioni, le emozioni, i sentimenti. Saper ascoltare è un’arte che si affina col tempo perché più siamo in grado di ascoltarsi e più riusciamo ad ascoltarci.

Più siamo in grado di creare spazio dentro di noi, per noi stessi e più saremo in grado di farlo anche per gli altriperché non avremo la necessità di occupare spazio in continuazione come se non ci sentissimo ascoltati, accolti da nessuno (nemmeno da noi). Se sappiamo che ogni volta che ne abbiamo bisogno, siamo in grado di crearci una stanza interiore dove poter esprimerci senza la paura di sentirsi giudicati, o feriti (da noi stessi in primis), allora saremo in grado di non occupare con avidità lo spazio tra noi e l’altro con le nostre parole, di non riversarci in disordine tutti i nostri pensieri repressi come se fossero un fiume in piena: dopo esserci messi in ascolto di noi stessi, saremo in grado di accogliere il nostro silenzio per fare posto all’altro. Ed è in questo spazio che nasce il dialogo.

Bibliografia

  • FERNALD, Peter S.; PETER, S. Carl Rogers: un terapeuta verbale centrato sul corpo. ACP Rivista di Studi Rogersiani, 2001.
  • ROGERS, Carl R. Terapia centrata sul cliente. Edizioni la meridiana, 2007.

Sandra “Eshewa” Saporito
Autrice e operatrice in discipline Bio-Naturali
www.risorsedellanima.it




Abbiamo chiesto ai finti fan stranieri di Salvini cosa pensano di Salvini

Abbiamo chiesto ai finti fan stranieri di Salvini cosa pensano di Salvini

La pagina Facebook del leader leghista si è riempita di like di utenti che si chiamano José Reyes Paez, Feki Moala, Ferencné Tompos o Vaiokgs Liopk. Sono dei bot o la popolarità di Salvini è così globale? Un’indagine per scoprirlo

Facciamo insieme un minuto di visualizzazione creativa: fingiamo di chiamarci Aitor Antônio Honorio De Medeiros, di essere un uomo brasiliano sui settant’anni, residente in un piccolo paesino dell’entroterra, e di avere soltanto 61 amici su Facebook, tutti brasiliani. La nostra bacheca è trascurata, parrebbe che usiamo poco i social, e la nostra immagine del profilo sembra scattata per sbaglio, come se un hacker russo si fosse intrufolato nella nostra camera frontale mentre stavamo cercando di capire come sbloccare lo schermo dello smartphone per chiamare nostra nipote. La lista della pagine che seguiamo, però, è nutrita e variegata; abbiamo interessi inaspettati: life-coach americani, schemi piramidali di prodotti dimagranti, blog di saponette artigianali, cantautori folk, lo studio di avvocati “Brito & Brito”, e Matteo Salvini. Ecco: sembrano esserci moltissimi Aitor su Facebook.Nonostante sulla copertina della pagina del segretario della Lega campeggi un gigantesco “Prima gli Italiani”, Salvini ha moltissimi fan stranieri di questo tipo. Almeno stando ai like sotto i suoi post. Brasiliani (soprattutto), filippini, egiziani, ucraini, tonganiani: migliaia di utenti che ogni giorno vanno a sbirciare la novità della vita di un sovranista italiano, e che mettono mi piace ai suoi contenuti. Sarà che il populismo è in crescita a livello globale, ma perché questo cross-liking non ha corrispettivi italiani? 

È noto che a molti italiani piacciano politici come Putin o Trump, ma a differenza di Salvini sono attori giganti nello scenario internazionale, e sbirciando sui loro social non ho notato una particolare presenza di pubblico italiano. Centinaia di brasiliani, invece, ci tengono a manifestare il loro apprezzamento per la collezione di vecchie musicassette dei Cugini di Campagna dell’ex Ministro dell’Interno. È peculiare e affascinante, no? Così ho deciso di passare un po’ di tempo a studiare i profili di questo bacino internazionale di fan di Salvini, per capire chi sono, e cosa li ha spinti a seguire il progetto politico della Lega.

Mi sono imbattuto, ad esempio, in José Reyes Paez, un utente piuttosto indicativo nella ratio dei profili che ho visitato: non è specificata la sua provenienza, ma visto che quasi tutti i suoi 49 amici vivono a Maracaibo, si potrebbe supporre che sia venezuelano. L’unica foto caricata da José è quella di un uomo anziano, fotografato in penombra sotto un albero, di cui non si riesce a scorgere appieno il volto. Non posta mai niente, non ci sono informazioni su di lui, e ha messo mi piace soltanto a cinque pagine: il musicista evangelico Roberto Orellana, una classifica musicale messicana chiamata “Pasión Ranchera”, l’organizzazione religiosa “Iglesia Cristiana Evangélica Emmanuel”, la pagina di meme religiosi “Sombrereños SOMOS TODOS”, e Matteo Salvini.

Oppure Feki Moala, un uomo che vive a Nukuʻalofa, la capitale del Tonga. I suoi interessi sembrano non seguire alcuna logica: ha messo mi piace a Salvini, alla guida spirituale indiana Sant Rajinder Singh Ji Maharaj, al rabbino israeliano Yitzhak Batzri, alla pagina di Dr Zwig (che si autodefinisce psicologo-musicista), all’agenzia di rappresentanza sportiva Bsynergie Sports, e a un’infinità di pagine sul mindfulness. Però il suo profilo sembra realmente attivo: le sue foto e post hanno molti commenti, anche se ha solo 165 amici, e lui interagisce.

Quindi ho pensato di mettere alla prova i follower stranieri di Salvini e la loro conoscenza delle dinamiche della politica italiana. Senza fare distinzioni in base alla provenienza. Così gli ho chiesto l’amicizia e ho attaccato bottone, pronto a rivolgergli una serie di domande che avevo preparato: come avevano conosciuto Matteo Salvini e la Lega? Cosa pensavano degli scandali legati a Renzo Bossi e del caso Palamara? Credevano o meno nell’alleanza con Giorgia Meloni? Gli piacevano le felpe con i nomi delle città usate da Salvini?

Purtroppo nessuno dei vari Celina Lopes, Ferencné Tompos, o Vaiokgs Liopk mi ha mai risposto: credo che non ci toglieremo mai il sospetto, insomma, che Salvini si sia comprato un sacco di profili fake, tramite qualche bot mestierante che ammorba i server dei paesi tropicali. Oppure mi sbaglio, e la mia è solo una congettura capziosa e pretestuosa: forse ci sono molti abitanti di Tanguro, in Brasile, che hanno a cuore la causa secessionista del Veneto; forse l’avversione spocchiosa per Roberto Speranza del leader leghista è condivisa anche da molti abitanti di El Salvador. O forse questi utenti, con tutti i caffè e le pizze che Salvini carica, lo hanno semplicemente scambiato per un food blogger.




Flessibilità e creatività: senza l’una non c’è l’altra

Flessibilità e creatività: senza l'una non c'è l'altra

La flessibilità si è guadagnata in tempi recenti una cattiva fama, cresciuta quanto più le offerte di lavoro “flessibile” sono andate confondendosi con quelle di lavoro precario e non garantito. Così oggi “flessibilità”, nella mente di molti, evoca immediatamente il fenomeno deteriore e spesso odioso del precariato, e sembra qualcosa da evitare a ogni costo. 
È un peccato: la flessibilità in sé, intesa come attitudine, proprietà o caratteristica che riguarda l’adattabilità a situazioni o condizioni diverse, non ha certo connotati negativi.

FUORVIANTE. Una sorte analoga è capitata ancora prima alla creatività, e ai termini e alle pratiche correlate. Si è parlato di “finanza creativa” per intendere finanza opaca e truffaldina, e di soluzioni “creative” per intendere soluzioni inefficaci, poco praticabili o del tutto campate per aria. Anche questa è un’interpretazione fuorviante.

IL SENSO AUTENTICO. Però, se non recuperiamo il senso più autentico e profondo dei due concetti, ci perdiamo qualcosa di importante e di utile, specie di questi tempi di cambiamenti non semplici. Dunque, vale la pena di provare a farlo. Tra l’altro, i due concetti sono strettamente correlati.
Ormai la comunità scientifica internazionale si è allineata su una definizione di creatività che incrocia due criteri fondamentali: per poter essere definito creativo, un ritrovato dev’essere nuovo, cioè inedito. E dev’essere appropriato e utile (cioè, la collettività deve potergli riconoscere qualche tipo di valore: o economico, o estetico, o etico). 

QUELLO CHE CREATIVO NON È. La definizione può sembrare vaga e, nella misura in cui deve potersi applicare all’infinita gamma delle invenzioni, delle scoperte, delle produzioni e dei comportamenti possibili in qualsiasi campo, per molti versi lo è. 
Ma, se non altro, ci aiuta a discriminare efficacemente ciò che di sicuro non è creativo perché già esiste e dunque non è nuovo (per esempio, l’invenzione di una pizza guarnita con pomodoro, mozzarella e basilico). Oppure perché non ha utilità né valore (per esempio, l’invenzione di una pizza guarnita con chiodi, lucido da scarpe e candeggina). 

RUOLO CENTRALE. Le nuove idee nascono nella mente delle singole persone: per questo la creatività è, e rimane, un fenomeno squisitamente psicologico e individuale. Ovviamente, lo sviluppo delle idee creative, e la loro traduzione in ritrovati innovativi, è invece di norma un fenomeno che coinvolge gruppi, o intere comunità.
Se osserviamo come funziona la mente delle persone che sanno praticare il pensiero creativo, eccoci all’intersezione fra creatività e flessibilità, intesa come attitudine psicologica e stile comportamentale. 
La flessibilità di pensiero gioca un ruolo centrale nell’abilità di generare idee nuove che è tipica delle persone molto creative. Permette di usare categorie mentali diverse e alternative per riorganizzare l’esperienza. Aiuta a superare gli schemi e a formulare ipotesi, interpretazioni e soluzioni originali, osservando fatti e problemi da prospettive differenti. La flessibilità comportamentale aiuta ad affrontare efficacemente i cambiamenti, e ad adattarvisi modificando i propri modi di agire.

I CONTESTI E IL VALORE. Torniamo alla pizza alla candeggina: poiché a determinare il riconoscimento di un valore sono i contesti, di sicuro la proposta di quella pizza non ha alcun valore se siamo in pizzeria ed è ora di cena. Però potrebbe forse averne all’interno di una performance d’arte concettuale. O in uno sketch televisivo che prende in giro i cuochi e (rieccoci) la “cucina creativa”. E può aver valore perfino, in qualità di esempio, in questo articolo.

PRECONDIZIONE. Giusto per concluderlo, l’esempio: saper ragionare in modo flessibile è una precondizione della creatività. E se il nostro problema fosse esattamente quello di riuscire a cavare del buono dall’invenzione di una pizza alla candeggina (cioè: se la scommessa fosse trasformare qualcosa che non è creativo in qualcosa che lo è) avremmo bisogno, appunto, di una grande flessibilità mentale per immaginare contesti plausibili (se ve ne vengono in mente altri, scriveteli nei commenti).

FLESSIBILI, CREATIVI E SODDISFATTI. Dai, ora lasciamo perdere la pizza e parliamo di faccende più serie. Essere flessibili è un tratto di personalità, correlato con l’apertura al cambiamento. Con la capacità di esprimere le proprie potenzialità anche, e soprattutto, in situazioni fuori dalla norma. Con il benessere individuale e più in generale con il grado di soddisfazione per la propria vita.  

TROVARE ALTERNATIVE. Essere flessibili aiuta a immaginare alternative a una condizione non ottimale, o ad adattarsi più agevolmente e come meglio è possibile quando, di alternative, non ce ne sono proprio (volete un esempio recente? Pensate ai due mesi che tutti abbiamo dovuto passare restando chiusi in casa).
Essere flessibili aiuta anche ad affrontare meglio e più efficacemente le crisi, senza lasciarsi travolgere dall’ansia o dalla rabbia, e senza sentirsi sovrastati dallo stress. 

AFFRONTARE I CAMBIAMENTI. In realtà, tutti sappiamo essere, almeno un po’ flessibili (e, dunque, almeno un po’ creativi) quando affrontiamo quotidianamente i cambiamenti dell’ultimo minuto e riusciamo a ristrutturare la nostra giornata e le nostre attività. 
O quando, magari all’improvviso, sappiamo trovare un modo alternativo, e più semplice, per fare qualcosa che abbiamo sempre fatto: un nuovo percorso. Una nuova procedura. Un nuovo modo per organizzarci. Siamo flessibili quando riusciamo a trasferire da un campo a un altro una pratica che si è rivelata fruttuosa.

BIMBI E MOTORI. A proposito di trasferire soluzioni da un campo all’altro, ecco il mio esempio favorito: i medici di terapia intensiva del Great Ormond Street Hospital for Children, un noto ospedale pediatrico londinese, hanno il problema di ottimizzare le complesse procedure di indirizzamento dei piccoli pazienti al reparto di terapia intensiva. 
È un complicato sistema di azioni che devono essere eseguite bene, in fretta, da molte persone insieme. Per ottimizzarle, e dimostrando una notevole flessibilità di pensiero, i medici chiedono aiuto ai tecnici del pit stop della Ferrari. Il know-how Ferrari viene così trasferito dai circuiti di Formula 1 alle corsie. Il risultato è un protocollo più efficace, oggi adottato in molti altri ospedali.

SCIMMIE E TOPI. Il dono della flessibilità non è esclusivo di noi esseri umani. Hanno comportamenti flessibili le scimmie cappuccine e anche i topi (non a caso una delle specie di maggior successo sul pianeta). In un recente esperimento, un gruppo di scienziati ha insegnato ai topi come guidare piccole auto per procurarsi del cibo. 
Diciamolo: guidare non è esattamente un comportamento da topi. Eppure, questi ce l’hanno fatta. La cosa interessante è che i topi medesimi, dopo aver appreso le basi della guida, hanno ridotto i propri livelli di stress. E hanno accettato facilmente nuovi compiti più impegnativi.

NUOVE SFIDE E NUOVI STIMOLI. L’altra cosa interessante è che i topi cresciuti in ambienti più ricchi di stimoli hanno imparato prima a guidare, e meglio. 
Ho il fondato sospetto che questo funzioni anche con gli esseri umani: più siamo esposti a nuove sfide e a nuovi stimoli (o più sappiamo considerare come uno stimolo e una sfida i cambiamenti che ci coinvolgono), più diventiamo flessibili, più sappiamo essere creativi, meglio riusciamo a gestire gli eventi, più risorse abbiamo per provare a migliorare le cose.




Nascerà in Sicilia il primo parco eolico galleggiante del Mediterraneo

Nascerà in Sicilia il primo parco eolico galleggiante del Mediterraneo

Investimento da 740 milioni di euro della danese Copenhagen Offshore Partners al largo di Marsala: tecnologia in espansione

Il primo parco eolico galleggiante del Mediterraneo potrebbe nascere presto nel Canale di Sicilia, al largo di Marsala. L’impianto, chiamato 7Seas Med, sarà composto da 25 pale galleggianti da 10 megawatt ciascuna e sarà invisibile dalla costa siciliana, a una distanza di oltre 35 chilometri da Marsala e altrettanti dalle Egadi, in direzione della Tunisia.

In quello specchio di mare il fondale ha circa 300 metri di profondità e quindi si presta a meraviglia per delle turbine galleggianti, mentre sarebbe impossibile installarvi delle normali turbine offshore fisse, che non possono superare una profondità di 50-60 metri.

Il progetto, che comporta un investimento di 741 milioni di euro, è stato sviluppato dalla società danese Copenhagen Offshore Partners con il sostegno del fondo Copenhagen Infrastructure Partners, specializzato in grandi progetti di energia rinnovabile in tutto il mondo, ed è stato presentato prima dello scoppio della pandemia al ministero dell’Ambiente e al ministero delle Infrastrutture.

«Ora navighiamo nel mare procelloso della burocrazia italiana, ma se tutto andrà bene il programma prevede di avviare il cantiere nel 2023», commenta il progettista Luigi Severini, che ha firmato anche il progetto del parco eolico offshore di Taranto.

Offshore in grande crescita

La tecnologia che verrà utilizzata si chiama TetraSpar ed è stata sviluppata da Henrik Stiesdal, il padre dell’energia eolica danese. Stiesdal, 63 anni, ha costruito la prima turbina eolica commerciale nel ’78, vendendone la licenza a Vestas e proiettando così la società verso la leadership mondiale del settore. Poi è passato a Siemens, dov’è stato fino al 2014 il Chief Technology Officer di Siemens Wind Power, oggi Siemens Gamesa. Sotto i suoi occhi il settore è cresciuto da zero ai 600 gigawatt installati oggi nel mondo.

Ora si sta dedicando al segmento più in crescita di questa tecnologia, l’offshore, che nell’ultimo decennio è cresciuto del 30 per cento all’anno, grazie allo sviluppo di turbine sempre più grandi e più potenti, con una drastica riduzione dei costi. L’ultima nata, di Siemens Gamesa, è una macchina alta 260 metri, quasi quanto il Chrysler Building di New York, e sarà testata nei prossimi mesi in Danimarca.

Pur rappresentando ancora meno dell’1 percento della produzione mondiale di elettricità, l’eolico offshore è diventato un elemento centrale nella generazione elettrica del Nord Europa. Da qui al 2040, l’International Energy Agency prevede che l’eolico offshore attrarrà investimenti per 840 miliardi di dollari, equivalenti a quelli nel gas naturale.

C’è un problema, però. Le soluzioni tecnologiche che hanno avuto tanto successo nel Mare del Nord e nel Baltico non sono adatte per le coste più scoscese del resto del mondo. Nell’Europa del Nord, in Cina e sulla costa orientale degli Stati Uniti, l’installazione di turbine offshore fisse è stata facilitata da una stranezza geografica: la presenza di acque poco profonde vicino a grandi centri abitati.

Nel resto del mondo questa stranezza non esiste. La California, ad esempio, potrebbe essere alimentata anche al cento per cento dall’eolico offshore, ma dev’essere galleggiante. Se la prossima generazione di eolico offshore sarà galleggiante e se i costi resteranno bassi, si potrebbe aprire un’era di energia quasi illimitata e senza emissioni.

L’International Energy Agency stima che le turbine eoliche galleggianti potrebbero fornire elettricità sufficiente a soddisfare 11 volte la domanda mondiale di elettricità, in base alle proiezioni del fabbisogno previsto nel 2040.

Economie di scala d’altura

Per questo motivo gli inventori del settore si stanno impegnando nello sviluppo di turbine galleggianti. Tra loro c’è anche Stiesdal, con la società fondata dopo essere uscito da Siemens, partecipata da Shell e dalla tedesca Innogy. Il suo prototipo, da 6 megawatt, è in costruzione in Danimarca con la partecipazione di Siemens e sarà varato a breve in acque norvegesi.

«La particolarità della tecnologia di Stiesdal, che la distingue da quelle dei concorrenti, è che si basa sull’utilizzo di elementi di galleggiamento composti dagli stessi cilindri di metallo con cui si costruiscono le torri eoliche, quindi non prevede una produzione ad hoc per questi elementi, che vanno a formare un grande triangolo da 80 metri di lato alla base della torre. Questo comporta un enorme vantaggio sul piano delle economie di scala e dell’industrializzazione, infatti le turbine di Stiesdal sono molto meno costose delle altre turbine galleggianti utilizzate nei progetti entrati in funzione finora», spiega Severini.

Il suo triangolo è in grado di reggere macchine gigantesche, come le altre turbine offshore, con 220-240 metri di diametro. «Quelle previste nel parco 7Sea Med sono da 10 megawatt di potenza, ma in altri progetti che abbiamo nel Mediterraneo si parla già di usare turbine da 12 e perfino da 14 megawatt, con le economie di scala che si possono immaginare e un impatto ambientale sempre più ridotto, visto che servono meno turbine per arrivare alla potenza totale desiderata», precisa Severini.

Opportunità per l’Italia

Data la dimensione di questi impianti, l’Italia potrebbe diventare un leader di questo settore in grandissima crescita, perché ha le strutture per affrontare le turbine giganti, strutture che nel resto del Mediterraneo non ci sono.

«Per l’industria italiana potrebbe essere un’occasione straordinaria, che andrebbe esaminata con attenzione in sede di programmazione economica – fa notare Severini -. Taranto, in particolare, ha ancora sia la cantieristica adatta a strutture di grandi dimensioni, necessaria per sviluppare una produzione di questo tipo, sia la materia prima, che potrebbe venire dall’Ilva».

Tra i concorrenti di Stiesdal c’è la norvegese Equinor, pioniera nello sviluppo dell’eolico galleggiante, con il suo progetto pilota al largo della costa scozzese nel Mare del Nord. Ora la società prevede di espandersi con un impianto più grande da 500 milioni di euro in Norvegia.

Un altro importante concorrente è Principle Power, che è supportato dalla compagnia petrolifera spagnola Repsol e da Energias de Portugal. Principle ha già testato il suo design nell’Atlantico con alcune delle più grandi turbine sul mercato.

Grazie a una serie di progetti che si affollano nella pipeline, gli analisti di Bloomberg New Energy Finance prevedono una crescita esponenziale per l’eolico galleggiante, che dovrebbe arrivare a 3,5 gigawatt installati entro il 2030.




L’accusa all’algoritmo di Instagram: “Un circolo vizioso, favorisce le foto seminude”

L’accusa all'algoritmo di Instagram: "Un circolo vizioso, favorisce le foto seminude"

Un’indagine di AlgorithmWatch ha analizzato quali immagini appaiano di frequente al vertice delle bacheche degli utenti: le immagini ‘al limite’ vengono promosse sulle altre nella generalità degli utenti, schiacciando la varietà della piattaforma

SE TI spogli su Instagram fai più cuoricini, perché l’algoritmo ti butta in pasto su più bacheche e favorisce la tua foto rispetto ad altre, sostenendo le tue attività e la popolarità sul social. Questa, almeno, la tesi di uno studio realizzato da AlgorithmWatch e dall’European Data Journalism Network secondo il quale i contenuti di questo tipo godano di un trattamento privilegiato in termini di visibilità sulla piattaforma. Il titolo non lascia dubbi: “Spogliati o fallirai: l’algoritmo di Instagram obbliga gli utenti a mostrare la pelle”.

Per provarlo i ricercatori hanno analizzato le newsfeed, parlato con creatori di contenuti e approfondito i brevetti. In particolare, il team – come si legge sul sito di Algorithm Watch – ha chiesto a 26 volontari di installare un add-on, cioè un’estensione per il loro browser programmata per aprire il loro account Instagram a intervalli di tempo regolari e registrare quali post apparissero ogni volta in cima alle loro bacheche. Una specie di campionamento. I volontari hanno poi iniziato a seguire gli account di un gruppo selezionato di creatori – 37 professionisti in 12 paesi – che sfruttano Instagram per promuovere i propri brand o attrarre nuovi utenti e clienti pubblicando post a tema cibo, turismo, fitness, moda o bellezza.

Delle 2.400 immagini postate dai creatori e raccolte in 1.737 post 362 (21%) raffiguravano maschi a torso nudo oppure donne in bikini o in abbigliamento intimo. I ricercatori hanno così voluto mettere alla prova l’algoritmo: se Instagram non dà priorità a questo genere di foto, i volontari avrebbero dovuto visualizzare una certa diversità e varietà di contenuti. Ma questo non è accaduto, come spiega anche The Next Web: “Nelle bacheche dei volontari i post con immagini seminude sono stati il 30% dei contenuti pubblicati dagli account”. Per dirla con le parole del team, “se Instagram non alterasse l’algoritmo, i post nel feed di notizie degli utenti dovrebbero corrispondere, nella loro varietà, ai post dei creatori di contenuti che seguono. E se Instagram personalizzasse il feed di notizie di ciascun utente in base ai suoi gusti personali, la varietà dei post nei feed di notizie dovrebbe essere diversa per ciascun utente. Ma non è quello che abbiamo riscontrato”.

Nel dettaglio, le immagini femminili di questo tipo hanno fatto segnare il 54% in più di probabilità di comparire, anche più volte, nella parte alta della newsfeed mentre i post maschili hanno goduto di una spinta di visibilità del 28%. Al contrario, contenuti con cibo o paesaggi avevano il 60% di probabilità in meno di finire in cima alle bacheche dei volontari. Tutto questo, secondo Nicolas Kayser-Bril, reporter di AlgorithmWatch che ha firmato il report insieme a Judith Duportail, Kira Schacht ed Édouard Richard, sta a incarnare il modo in cui gli algoritmi fossilizzino i pregiudizi di determinati gruppi di utenti, estendendoli alla generalità dell’audience: “Una minoranza di utenti Instagram vede la piattaforma come una libera fonte di immagini soft porn e il loro atteggiamento è probabilmente individuato dai sistemi di machine learning e amplificato, così le immagini di nudo sono promosse a tutti, in un circolo vizioso” ha scritto Kayser-Bril su Twitter. Il circolo vizioso, o meglio questa stortura algoritmica, consisterebbe nello spingere i creatori, in particolare le donne, a postare foto di questo genere per attrarre più visualizzazioni. Distorcendo però anche la varietà presente sull’app, frequentata da un miliardo di persone ogni mese.

Se per esempio le creatrici femminili hanno postato foto seminude nel 17,6% dei casi, agli utenti quelle immagini sono state sottoposte con rilevanza il 28,4% delle volte. Stesso effetto per foto di uomini a torso nudo: 26,9% del totale le immagini effettivamente postate contro il 36,9% delle visualizzazioni in evidenza. Questo potrebbe non valere per tutti gli utenti, specifica lo studio. Per esempio, nonostante il fenomeno si sia verificato con tutti i volontari, a una piccola minoranza sono stati effettivamente offerti post più vari, in grado di riflettere meglio la diversità di argomenti e interessi degli influencer e autori. Insomma, sembrerebbe che una forte personalizzazione dei propri gusti (di chi seguiamo, da chi siamo seguiti, le storie che visualizziamo, le pubblicità che clicchiamo e così via) riesca a contenere, anche se in modo moderato, quella che per gli esperti apparirebbe invece come una pressione costante e generalizzata. “È probabile che l’algoritmo di Instagram favorisca la nudità in generale, ma che la personalizzazione, o altri fattori, limitino questo effetto per alcuni utenti” si legge nel report che ha fatto validare statisticamente i suoi dati.

Si tratta di uno studio molto limitato ma significativo. Fra l’altro, gli autori intendono proseguire concedendo la possibilità a chiunque di installare quell’add-on e contribuire così ad ampliare la portata dell’indagine. Facebook ha ovviamente replicato ai ricercatori spiegando che “questa ricerca è imperfetta in vari modi e mostra un fraintendimento di come funziona Instagram. Classifichiamo i post nel tuo feed in base ai contenuti e agli account per i quali hai mostrato interesse, non a fattori arbitrari come la presenza di costumi da bagno”. Ma per i ricercatori non ci sono dubbi: “Abbiamo motivi per ritenere che i nostri risultati siano rappresentativi di come generalmente funziona Instagram”.

Tanti i pezzi che spingono in questa direzione. Per esempio un brevetto del 2015, che includerebbe anche lo “state of undress”, cioè la quantità di pelle mostrata, fra i parametri utilizzati dall’algoritmo per valutare la “metrica di coinvolgimento” che, in ultima istanza, stabilisce quanta rilevanza debba avere una certa immagine nelle bacheche degli utenti. Senza contare le problematiche legate ai dataset di training dei meccanismi di analisi e visione artificiale che passano al vaglio un certo contenuto ancora prima che l’algoritmo intervenga (e che spesso, fra l’altro, compiono errori grotteschi).

“La sottile differenza tra ciò che è incoraggiato e ciò che è proibito è decisa da algoritmi di visione artificiale non certificati e probabilmente distorti” spiegano i ricercatori. Individuando il meccanismo che gli utenti sono forzati a sposare per rispettare le regole della comunità e al contempo massimizzare le caratteristiche dell’algoritmo: “Ogni volta che pubblicano un’immagine, i creatori di contenuti devono seguire questa linea molto sottile rivelando abbastanza da raggiungere i propri follower ma non così tanto da essere cacciati dalla piattaforma”.

Il gruppo di lavoro si spinge oltre, fino a ipotizzare che dal momento che la gran parte di questi brevetti sembrerebbero essere stati firmati in maggioranza da ingegneri uomini, rispecchierebbero e anzi produrrebbero questi effetti: “Una recensione di 238 brevetti depositati da Facebook contenente la frase “visione artificiale” ha mostrato che, su 340 persone elencate come inventori, solo 27 erano donne” aggiungono gli autori. Un fenomeno così radicato a tal punto da poter configurare possibili discriminazioni all’imprenditoria femminile: “Mentre i nostri risultati mostrano che i creatori di contenuti maschili e femminili sono costretti a ‘mostrare la pelle’ in modi simili se vogliono raggiungere il loro pubblico, l’effetto potrebbe essere maggiore per le donne ed essere considerato una discriminazione delle donne imprenditrici”.