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I consumatori chiedono un nuovo brand activism fatto di azioni concrete

I consumatori chiedono un nuovo brand activism fatto di azioni concrete

Il sostegno a una o più cause non assolve automaticamente i brand dal tacere su altre problematiche sociali: il silenzio non è più neutrale

  • Durante l’ultima ondata di brand activism è emersa, come non mai, la richiesta di responsabilità e autenticità da parte dei consumatori.
  • La brand self awareness è un antidoto contro l’ipocrisia aziendale e deve per forza andare di pari passo con le dichiarazioni di sostegno alle cause sociali.
  • Le azioni concrete sono ciò che i consumatori chiedono. Al contrario, i brand non faranno altro che mettere in discussione la loro credibilità.

Nelle ultime settimane, sulla scia della campagna Black Live Matters, molti brand si sono espressi contro il razzismo. Alcuni hanno semplicemente dichiarato la propria solidarietà, altri – come Lego e Ben & Jerry’s – hanno invece annunciato azioni concrete. Scelte accomunate dalla stessa volontà di stare “dalla parte giusta della storia”, ma che hanno sortito nel pubblico reazioni diverse. Se alcune aziende sono state infatti lodate per il proprio impegno, altre sono state accusate di ipocrisia e opportunismo.

Brand activism, un fenomeno in crescita

Il motivo per cui il brand activism è un fenomeno in crescita appare chiaro. Secondo un recente sondaggio condotto dalla società di consulenza Edelmanil 60% degli americani boicotterebbe o comprerebbe da un marchio in base alla sua risposta alle proteste contro l’ingiustizia razziale. E il dato è ancora più alto tra i più giovani: il 78% dei millennials ritiene che anche i brand debbano alzare la voce, mentre il 70% delle persone tra i 18 e i 34 anni cambierebbe di conseguenza le proprie scelte di di acquisto. Ma già più di quattro anni fa il 66% delle persone era disposto a pagare di più pur di avere prodotti che rispettassero principi quali ad esempio la sostenibilità ambientale.

I consumatori ritengono che le marche abbiano la possibilità di produrre un impatto concreto sulla società. Lo studio di Sprout Social del 2019, ad esempio, rivela che secondo il 66% delle persone i brand hanno il potere di facilitare un cambiamento reale, mentre il 67% di esse pensa che le loro piattaforme – in particolare i canali social – siano efficaci nell’aumentare la consapevolezza riguardo le problematiche sociali. Insomma, parafrasando Spider-Man, secondo i consumatori da un grande brand derivano grandi responsabilità sociali.

Come ha sottolineato anche l’Outlook report quindi, sempre più la fiducia nel marchio non si basa solo sui suoi prodotti o servizi, ma anche sulle scelte etiche e politiche fatte dall’azienda che vi sta dietro.

brand activism

Perché i social media hanno cambiato tutto

Prima della nascita dei social media, i marchi non avevano canali di comunicazione diretta coi proprio clienti. Di conseguenza, i consumatori stessi non si aspettavano prese di posizione su tematiche sociali da parte dei propri brand preferiti. L’avvento dei social network ha invece aumentato le aspettative dei consumatori riguardo l’attivismo dei brand.

Del resto, l’ondata di indignazione in seguito all’uccisione di George Floyd non è stata guidata da testate giornalistiche o istituzioni, ma da persone comuni che hanno iniziato a condividere il proprio sdegno su Twitter e Facebook. In una simile situazione, coesistendo nello stesso spazio digitale, i marchi devono necessariamente inserirsi nelle conversazioni in modo pertinente. Ma non corrono il rischio di apparire opportunisti?

La domanda di autenticità da parte del pubblico

Molti dei più grandi brand mondiali erano rimasti in silenzio sul tema della violenza razziale fino al momento in cui hanno twittato #BlackLivesMatter. Per questo sono apparsi opportunistici. Certo, meglio tardi che mai. Ma il brand activism va costruito nel tempo, con costanza e soprattutto autenticità. L’autenticità non è qualcosa che può essere presa in prestito o prodotta da un giorno all’altro e il suo punto di partenza è la costruzione dell’attivismo di brand sui valori fondamentali del marchio stesso.

Ma il sostegno a una o più cause non assolve automaticamente i brand dal silenzio su altre problematiche sociali: il silenzio non è più neutrale. Ciò che allora può fare un marchio è inquadrare il proprio sostegno attraverso un approccio intersezionale. Ad esempio, se un brand è impegnato nella sensibilizzazione sul cambiamento climatico, in occasione di campagne contro il razzismo potrebbe sottolineare il concetto di sproporzionalità riguardo le conseguenze dei problemi ambientali sulle persone di colore.

Infine – ma non ultima – fondamentale per l’autenticità è la brand self awareness, la consapevolezza di sé da parte del brand. Un antidoto contro l’ipocrisia aziendale che deve per forza andare di pari passo con le dichiarazioni di supporto. Cioè, inutile twittare contro il razzismo, se al suo interno l’impresa stessa non è impegnata a sradicarlo. AmazonRalph Lauren e Next Door sono tre esempi di brand fortemente criticati per aver rilasciato dichiarazioni di sostegno ipocrite, perché in contrasto con problematiche interne.

brand activism

Una nuova era per il brand activism

Durante quest’ultima ondata di brand activism è emersa come mai prima d’ora una richiesta di responsabilità. Denunciare il razzismo sui social media non è attivismo di marca senza azioni a sostegno, e le azioni concrete sono ciò che i consumatori chiedono. Se al contrario un marchio è tutto parole e niente azioni, questo non farà altro che mettere in discussione la sua credibilità.

Denunciare l’ipocrisia aziendale non è mai stato così facile. Internet non dimentica mai, anzi sembra fatto apposta per riesumare i problemi del passato e di conseguenza responsabilizzare i brand su ciò che fanno nel presente.

Non basta aprire il libretto degli assegni per effettuare donazioni una tantum. Occorre invece cambiare la politica interna a favore dell’inclusione razziale, rivedere i prodotti perché non siano diffusori di pregiudizi, espandere la responsabilità sociale. Un cambiamento insomma non relegato alle strategie del reparto marketing, ma abbracciato da tutta l’azienda come valore chiave su cui lavorare.

È responsabilità di ciascuna impresa abbracciare e inserire la corporate social responsibility (CSR) all’interno della propria struttura aziendale. Magari non tutte diventeranno B Corps, ma qualche ritocco al modo in cui calcolano il risultato economico aziendale contribuirà a rafforzare la responsabilità interna nei confronti della società.

Insomma, nonostante le reazioni dei brand al movimento Black Live Matters siano state talvolta superficiali, la nuova domanda di responsabilità potrebbe provocare nei marchi riflessioni più profonde e portare infine a cambiamenti sostanziali nell’autenticità del loro attivismo.

Questi valori sono già radicati nel DNA del vostro marchio? Benissimo! Altrimenti, questo è il momento di iniziare.




Barilla ha tolto la finestra trasparente dai suoi pacchi di pasta

Barilla ha tolto la finestra trasparente dai suoi pacchi di pasta

Per ridurre la quantità di plastica. Una mossa molto apprezzata dai consumatori

Barilla ha sostituito la finestra trasparente sui pacchi di pasta per ridurre la quantità di plastica delle sue confezioni. Il brand italiano è uno dei primi a introdurre la novità nella categoria, con un’iniziativa per ora limitata al mercato UK.

Le finestre in plastica appaiono sui packaging della pasta praticamente da sempre: vengono utilizzate per mostrare il prodotto all’interno della scatola e “rassicurare” così i consumatori. L’inserto rappresenta tuttavia una complicazione in fase di riciclo e smaltimento delle scatole: i consumatori devono rimuovere il pannello di plastica prima di gettare la confezione tra gli imballaggi in cartone.

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Una delle nuove scatole Barilla senza la plastic window

Adesso Barilla Group ha rimosso l’onnipresente finestra di plastica sottile, rendendo i suoi imballaggi riciclabili al 100% nel Regno Unito.

La novità rientra tra le iniziative del “Good for You, Good for the Planet“, che include gli sforzi che l’azienda sta operando sul piano della sostenibilità: la riduzione della quantità di materiale utilizzato, la selezione di carta proveniente da foreste gestite responsabilmente, la produzione di imballaggi con un solo materiale, quindi più facili da riciclare.

Sulle nuove confezioni al posto delle finestre appare un’illustrazione e una nota che spiega: “Niente più finestre di plastica. Cambiando il nostro mondo un pacchetto alla volta“.

Barilla è uno dei maggiori produttori di pasta al mondo – nel 2016 ha venduto 3.413 milioni di euro di pasta – e la novità potrebbe senz’altro influenzare i competitor nella categoria. Vedremo se altri brand seguiranno. Per ora le nuove scatole sono disponibili in tutto il Regno Unito.




Facebook avvertirà chi sta per condividere notizie vecchie. Ma continua a perdere clienti per deficit di fiducia

Facebook avvertirà chi sta per condividere notizie vecchie. Ma continua a perdere clienti per deficit di fiducia

La compagnia ha annunciato che mostrerà un avviso prima della pubblicazione o condivisone di un articolo che ha più di tre mesi per evitare che venga usato in modo ingannevole

Nel tentativo di segnalare al mondo la sua volontà di contrastare la disinformazione, Facebook ha introdotto una nuova funzione. Non riguarda l’oscuramento di contenuti che incitano alla violenza – come era accaduto con Twitter dopo il commento controverso di Donald Trump «quando iniziano i saccheggi, si inizia a sparare», che era valso il primo “oscuramento” di un tweet scritto dal presidente degli Stati Uniti – ma si tratterà invece di una segnalazione che scatterà ogni qualvolta un utente si mostrerà intenzionato a condividere una notizia vecchia.

Nuova funzione anche per le notizie sul Covid

La compagnia infatti ha annunciato che mostrerà un avviso prima della pubblicazione o condivisone di un articolo che ha più di tre mesi, per evitare, così sostiene Facebook, che la notizia venga usata fuori contesto e in modo ingannevole. Anche per venire incontro a chi fa il mestiere di giornalista. «Gli editori, in particolare, hanno espresso preoccupazione che le storie più vecchie condivise sui social media come notizie attuali, possano portare a falsificare lo stato attuale delle cose – si legge sul sito della compagnia -. Alcuni editori infatti hanno già preso provvedimenti per affrontare questo problema sui propri siti Web etichettando in modo evidente articoli più vecchi per impedire che le notizie obsolete vengano utilizzate in modo fuorviante».

Nei prossimi mesi, inoltre, Facebook cercherà di mostrerà un avviso anche quando si condivideranno notizie sul Covid, specificandone la fonte, sempre per arginare il proliferare di bufale e fake news sul Coronavirus. Obiettivo prossimo di Facebook è quello di mostrare in un avviso le informazioni sulla fonte della notizia che si sta per pubblicare, insieme al link al Centro informazioni sul Coronavirus creato dal social agli inizi dell’emergenza sanitaria per fornire informazioni autorevoli.

La scelta di Verizon

Tutte misure che però non sembrano sufficienti a fermare le critiche rivolte a Zuckerberg, accusato di non fare abbastanza per moderare i contenuti fuorvianti, offensivi e violenti che vengono condivisi sulla piattaforma. Per tentare di placare le proteste dei dipendenti di Facebook – che avevano anche indetto uno sciopero virtuale, alcuni arrivando perfino a dare le dimissioni dopo la mancata “censura” di Trump – Zuckerberg aveva promesso che avrebbe rivisto «le politiche che consentono la discussione e le minacce dell’uso della forza da parte dello Stato, per vedere se ci sono correzioni da adottare». 

Eppure continua ad allungarsi la lista di compagnie che hanno deciso che non compreranno più spazi pubblicitari su Facebook e Instagram. Circostanza peraltro ammessa anche dalla società che ha riconosciuto un deficit di fiducia in Facebook. Soltanto ieri – 25 giugno – anche Viber ha annunciato di non voler avere nulla a che fare con il social network. L’ultima a essersi “ritirata” dal social – Verizon – è anche la più grande ad averlo fatto finora. Il media officer della compagnia, John Nitti, è stato chiarissimo in merito: «Mettiamo in pausa la nostra pubblicità fino a quando Facebook non avrà trovato una soluzione accettabile che ci faccia sentire a nostro agio e che sia coerente con ciò che abbiamo fatto con YouTube e altri partner», ha dichiarato. Evidentemente la nuova funzione di Facebook non ha convinto tutti.




Anche Starbucks boicotta Facebook e ferma la pubblicità sui social: «Siamo contro l’odio, dobbiamo unirci per il cambiamento»

Anche Starbucks boicotta Facebook e ferma la pubblicità sui social: «Siamo contro l’odio, dobbiamo unirci per il cambiamento»

Cresce il fronte delle società che intendono mettere pressione ai principali social network perché introducano regole più efficaci per contrastare l’odio e il razzismo

La lista continua ad allungarsi. Dopo Coca-Cola, anche Starbucks ha annunciato che sospenderà la pubblicità su tutti i social, pur non aderendo formalmente alla campagna Stop Hate for Profit, un’iniziativa che chiede appunto alle aziende di non investire su Facebook per tutto il mese di luglio. L’obiettivo è quello di spingere Mark Zuckerberg a prendere posizione sui contenuti che incitano all’odio presenti sulle sue piattaforme.

L’elenco delle aziende che hanno deciso di partecipare a questo programma comprende anche multinazionali come Unilever, Verizon, The North Face, Coca Cola. Il gigante del caffè ha deciso di sposare comunque la causa e ha fatto sapere: «Noi siamo contro i contenuti d’odio e crediamo che il mondo delle imprese e quello della politica debbano unirsi per realizzare un vero cambiamento».

Stop Hate for Profit

La campagna Stop Hate for Profit è stata organizzata da diverse associazioni che si occupano di lottare per i diritti dei neri negli Stati Uniti. Una lotta che secondo Stop Hate for Profit deve passare anche dai social: «Mandiamo a Facebook un messaggio potente: i tuoi profitti non varranno mai abbastanza per promuovere l’odio, il bigottismo, il razzismo, l’antisemitismo e la violenza».

Non solo Facebook, dove non vedremo Coca-Cola e Starbucks

Oltre ai social di Zuckerberg, The Coca-Cola Company e Starbucks hanno deciso di estendere il loro stop alla pubblicità anche ad altre piattaforme come Twitter e YouTube. Per Coca-Cola a spiegare le ragioni di questa scelta è il ceo James Quincey: «Non c’è spazio per il razzismo nel mondo e non c’è spazio per il razzismo sui social media».

Il dibattito sulla libertà di espressione dei social media

Il dibattito sui contenuti che possono restare sui social network è già attivo da molti anni ma è esploso con l’inizio delle proteste per la morte di George Floyd quando Twitter ha scelto di oscurare un commento del presidente Donald Trump che incitava alla violenza. Facebook davanti allo stesso commento era rimasto fermo, incassando però diversi attacchi per questa scelta.

La posizione di Zuckerberg, ribadita dalle sue scelte, è che le piattaforme di Menlo Park non sono media company: non sono responsabili quindi di tutti i contenuti postati dagli utenti. Alcune settimane dopo però la stessa Facebook ha deciso di rimuovere un simbolo nazista pubblicato sempre dal Presidente degli Stati Uniti.




5 esempi di Brand Activism da cui trarre ispirazione

5 esempi di Brand Activism da cui trarre ispirazione

Dal packaging riutilizzabile di Loop alle app che piantano alberi come Flowe, ecco i brand che vogliono avere un impatto positivo sugli altri e sull’ambiente

C’è chi, come Oberalp, trasforma i materiali di scarto delle tute da sci in cinture e accessori. Chi, come Loop, realizza packaging riutilizzabili. E chi, come Flowe, si serve di gaming ed educazione finanziaria per spingere le persone ad acquisti più consapevoli e per riforestare il Pianeta.

Esperienze diverse tutte accomunate da una parola: brand activism, ovvero la ricerca di uno scopo, di un impatto positivo sugli altri e sull’ambiente, che superi la mera logica del guadagno.

L’espressione è immortalata in un libro, considerato uno dei testi più importanti sulla materia, “Brand Activism. From purpose to action”, scritto da due guru del marketing come Philip Kotler e Christian Sarkar, per i quali il brand activism è la responsabilità che l’azienda si assume in ambito sociale, con una serie di iniziative volte al raggiungimento di un bene comune.

Dalla teoria alla pratica: abbiamo raccolto cinque esempi di “brand activism” nel mondo, dall’Italia, agli Stati Uniti, fino all’Australia. Li raccontiamo in questo articolo.

brand activism

1. Oberalp lotta contro i perfluorocarburi

Gruppo storico di Bolzano, nato nel 1846 e specializzato nei prodotti di abbigliamento e attrezzature per sport alpini, da circa un decennio ha deciso di puntare fortemente sulla sostenibilità ambientale. Per farlo ha creato un gruppo di lavoro interno dedicato proprio alla Corporate Social Responsibility, che sta lavorando su più fronti.

La riduzione dei perfluorocarburi (si tratta di composti sintetici molto impiegati nell’abbigliamento sportivo) con un impatto dannoso sull’ambiente: l’azienda ha, per esempio, deciso di non utilizzare fluorocarburi nel 65% della sua produzione. Inoltre, ha puntato sul riutilizzo, trasformando i materiali di scarto delle divise di sci in cinture e altri accessori, e sul riciclo di vecchi appendiabiti, che diventano oggetti di design grazie alla collaborazione con l’Università di Bologna.

2. Burwood Brickworks e i carrelli di bottiglie riciclate

Nato a Melbourne, in Australia, il Burwood Birckworks è il centro commerciale più sostenibile del Pianeta, secondo una classifica di Living Future Institute.

A partire dall’utilizzo dell’acqua, che viene riciclata nell’edificio per il sistema di raffreddamento o per l’irrigazione dell’orto sul tetto, aperto ai visitatori che possono coltivare liberamente verdure e mangiarle. L’elettricità necessaria arriva da pannelli solari e da centri di energia pulita, situati nei pressi della struttura. Nel parcheggio esterno sono installate stazioni di ricarica per auto elettriche. Oltre a soluzioni davvero originali: come il carrello della spesa fatto di bottiglie di latte riciclate.

3. Flowe e la better being economy

Apri un conto via app in otto minuti, ottieni una carta in legno certificato e pianti un albero nella regione del Pèten in Guatemala. Questo e tanto altro è Flowe, la startup guidata da Ivan Mazzoleni, che opera all’interno di Banca Mediolanum, il gruppo guidato da Massimo Doris.

L’app fintech, pensata per attrarre i giovanissimi, ambisce a creare un nuovo mercato unendo finanza, educazione, sostenibilità e gaming. Grazie a partnership con altre startup, consente di tracciare l’impatto economico generato dai propri consumi, contribuire alla riforestazione del Pianeta, finanziare progetti idrici in villaggi bisognosi.

“Abbiamo creato un ecosistema, una better being economy, dove l’individuo impara ad avere uno stile di vita più sostenibile, a vivere in armonia con gli altri e con la natura. Il nome stesso del brand e il pittogramma riconducono gli esseri umani a una goccia d’acqua, unica ma parte di un flusso”, spiega Mazzoleni nel giorno della presentazione della startup al Campus Mediolanum, alla presenza del già citato Doris, e di Oscar di Montigny, Chief Innovation, Sustainability & Value Strategy Officer di Banca Mediolanum.

Di Montigny evidenzia nel suo intervento come “Flowe non vuole essere un’azienda, ma una piattaforma, un ecosistema, che aiuta i suoi utenti ad avere consapevolezza dell’impatto dei loro comportamenti sugli altri e sull’ambiente. E sulla base di questa consapevolezza possono migliorarsi continuamente”.

Per coinvolgere un pubblico di giovanissimi, Flowe ha attinto dal linguaggio del gaming. Gli utenti, sulla base di alcune azioni virtuose, ottengono delle gemme, cioè dei punti premio, che possono poi convertire per comprare gift card su Amazon, Decathlon, Media World.

“Rispetto ai competitor abbiamo costruito una dimensione comunitaria, un senso di appartenenza forte che va ben oltre il mondo finanziario. Oggi abbiamo già 15mila utenti sulla piattaforma”, conclude Massimo Doris.

4. Loop e il ritorno del fattorino del latte

“Abbiamo chiesto alle aziende di considerare il packaging come un asset e non come un costo”, spiega a Fast Company, Tom Szaky, imprenditore del New Jersey, fondatore di Loop, specializzata nell’ideazione di packaging riutilizzabili.

Il concetto è un po’ simile a quello del “fattorino del latte” che portava la bevanda in bottiglie di vetro riciclabili direttamente dietro la porta di casa. Il cliente usa il prodotto in un packaging originale e alla fine, quando l’ha consumato, chiama Loop che va a ritirare gratuitamente la confezione, pronta per essere riutilizzata.

L’iniziativa ha già visto l’adesione di brand come Procter & Gamble, Unilever, Mars, Nestlé, PepsiCo e Coca-Cola, tra gli altri.

brand activism case study

5. Refurbed rigenera dispositivi elettronici

Innovazione e sviluppo tecnologico devono vivere in totale armonia con la natura. Questo è il credo di Kilian Kaminski, austriaco, ideatore di Refurbed, piattaforma che si occupa di rigenerare e rivendere dispositivi elettronici.

I vecchi telefoni sono riparati, testati, reimballati e rimessi in vendita. Ex Amazon, Kilian ha iniziato sviluppando un programma di vendita per prodotti rigenerati, internamente al gruppo di Jeff Bezos. Ma poi ha compreso che il colosso non aveva interesse a investire nel settore. Allora ha scelto di “mettersi in proprio”.

I numeri gli hanno dato ragione: in tre anni, l’azienda ha superato i 100 mila clienti.