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Tesi di laurea: COME LA GESTIONE PROATTIVA DI UNA CRISI AZIENDALE PUÒ RAFFORZARE LA REPUTAZIONE: IL CASO GENIO IN 21 GIORNI

Libera Università Maria Assunta, Roma – Dipartimento di scienze umane
Corso di Laurea in Marketing & Digital Communication, Anno Accademico 2018 – 2019

COME LA GESTIONE PROATTIVA DI UNA CRISI AZIENDALE PUÒ RAFFORZARE LA REPUTAZIONE: IL CASO GENIO IN 21 GIORNI
How the proactive management of a firm’s distress may enhance its reputation: the case “Genio in 21 Giorni”

Tesi di Ludovica Russo – Relatore Prof. Luca Poma
A questo link, il testo integrale della Tesi (225 pagine), qui di seguito, il testo dell’Introduzione della tesi:


INTRODUZIONE

L’attività delle Relazioni Pubbliche è radicalmente cambiata rispetto ad un decennio fa, ogni utente è potenzialmente un critico e le informazioni diffuse dai media possono essere parzialmente influenzate dalle imprese che, a seguito dello sviluppo del consumer empowerment, trovano sempre più complesso poter gestire le relazioni su questi mezzi di comunicazione.

I social media sono gli artefici della selezione di notizie che hanno il potere di focalizzare l’attenzione del pubblico su un numero limitato di temi; infatti ad oggi quello che un tempo era “lo ha detto il Tg” è diventato “lo ho letto su Facebook”. Si pensi al recente clima di isteria collettiva generato dal coronavirus, che per tasso di mortalità si colloca poco al di sopra di una normale influenza.

Tramite i social media molto spesso vengono trasmessi involontariamente dei messaggi che possono essere soggetti a false interpretazioni da parte degli utenti e ad avere una risonanza non quantificabile che sfugge al controllo delle agenzie di Public Relations. Spesso i responsabili aziendali hanno una paura terribile delle crisi che si possono sviluppare online, non curanti che esse non sono determinate dalle critiche degli utenti bensì dalla gestione errata delle risposte.

La reputazione non è più definita esclusivamente da ciò che le imprese fanno o dicono ma da come gli stakeholder percepiscono e rispondono agli output dell’impresa; è fondamentale valorizzare i rapporti con i differenti pubblici e discriminarli tra di loro, al fine di elaborare una strategia di comunicazione differenziata, volta a migliorare la percezione che essi hanno dell’azienda.

Le organizzazioni che costruiscono le relazioni fondate sulla percezione di valori condivisi con i propri stakeholder, hanno maggiori possibilità di contare, in un momento di crisi, su un atteggiamento iniziale di fiducia e sull’allineamento dell’opinione pubblica alla posizione dell’azienda. Va da sé che non è sufficiente che le relazioni siano improntate su interessi reciproci degli interlocutori se l’azienda non mostra con i propri comportamenti che i valori professati, portanti dalla società in cui opera, governano realmente l’azienda. La capacità relazionale di un’organizzazione è il fattore che incide maggiormente sull’entità delle conseguenze derivanti da una crisi d’impresa, poiché in grado di trasmettere fiducia all’opinione pubblica; infatti le persone sono maggiormente disposte a perdonare un’organizzazione se legate da una relazione di fiducia con essa. Da ciò emerge l’importanza del Reputation Management, la sottocategoria delle Relazioni Pubbliche che si focalizza sulla comunicazione che alimenta la corporate image affinché essa rimanga positiva a lungo e sia fonte di vantaggio competitivo.

Nel corso degli anni ci sono stati molti eventi che hanno messo in luce come alcune organizzazioni abbiano più successo di altre sia nel rispondere che nel sopravvivere a eventi inaspettati e ad improvvisi cambiamenti di scenario. La realtà ha dimostrato che le organizzazioni incapaci ad ambientarsi al mutevole ambiente in cui operano e, che non riescono a rispondere adeguatamente agli eventi che le trascendono, sono destinate al declino.

Il sopraggiungere di minacce o di avversità ha condotto spesso le organizzazioni a risultati insoddisfacenti, a causa di una tendenza insita nella cultura organizzativa che è volta ad enfatizzare le soluzioni già note ed intraprese, invece di cercare tecniche di apprendimento che siano flessibili e adattabili in situazioni potenzialmente pericolose. La capacità di un’azienda di gestire con successo un evento critico è in parte connessa alla sua capacità di comunicare correttamente con i propri stakeholder, poiché per risultare credibile presso il pubblico essa deve dimostrarsi affidabile, assumendosi certe responsabilità.

Certamente l’uso della sola comunicazione non è sufficiente per gestire una situazione di crisi in modo efficiente, in quanto vi è un insieme di fattori che bisogna considerare per prevenire, combattere e ridurre i danni provocati da un evento critico. Il crisis management è quel processo che consente di sviluppare misure preventive, piani di gestione e valutazioni a posteriori rispetto a uno o più eventi critici.

Nessuna organizzazione è immune dall’essere colpita da certi eventi drammatici che potremmo definire di crisi, nonostante l’atteggiamento con il quale esse operano sia volto a prevenirle, ma la totale incapacità di moltissime imprese, multinazionali, banche d’affari ed organizzazioni complesse ci hanno dimostrato che la difficoltà riscontrata nel fronteggiare gravi situazioni di crisi reputazionali ha un denominatore comune, riconducibile alla non corretta, chiara ed organica gestione dei rischi potenziali che precedono l’evento critico. Rispondere in modo strategico ad eventi negativi che investono l’impresa è possibile soltanto mediante una corretta mappatura dei rischi, in modo da evitare risposte irrazionali, eccessivamente emotive o casuali.

Alla base di questo elaborato vi è lo studio delle attività del crisis management e delle loro condizioni di applicazione. L’interesse rispetto a questo tema mi è sorto a seguito dell’analisi di alcune case history, da cui è emerso che spesso i manager hanno interpretato erroneamente un’emergenza come una crisi, non affrontandola quindi con un adeguato ed ordinario piano di gestione, generando una crisi nelle successive conseguenze pratiche; si pensi ad esempio al cosiddetto Effetto Streisand. Al contempo molte aziende hanno dimostrato di non avere la cultura aziendale e gli strumenti di management consoni a gestire in modo adeguato e razionale le loro reazioni dinanzi ad eventi critici che le hanno coinvolte, e non hanno avvertito il bisogno di consultare tempestivamente un esperto di crisis management; poiché da una parte hanno sottovalutato l’evento dall’altra hanno sopravvalutato le proprie capacità.

Il caso aziendale che ho voluto presentare in questo elaborato è Genio in 21 Giorni, il cui core business risiede in una serie di corsi riguardanti le tecniche di apprendimento strategico. L’azienda ha subito una campagna di accuse – infondata e denigratoria – nata in Italia e proliferata in Spagna. Le fake news divulgate inizialmente da un forum italiano hanno causato danni consistenti all’immagine e alla reputazione della società, alle quali purtroppo l’azienda non ha saputo rispondere in tempo.

Tuttavia Genio in 21 Giorni ha saputo cogliere la crisi reputazionale e reagire nel migliore dei modi, rendendosi conto di non aver monitorato i segnali deboli di crisi, di dover colmare un grande vuoto comunicativo che ha accompagnato la società per anni e di dover implementare una serie di procedure interne. Il primo capitolo dell’elaborato inquadra l’attività specifica del crisis management nella più ampia totale corporate communication. Si focalizza sugli aspetti preliminari alla gestione di una crisi d’impresa, quali la gestione degli asset intangibili e del rischio reputazionale.

Il fine ultimo di questo capitolo è di far comprendere l’importanza dello sviluppo della resilienza organizzativa, alla luce della possibilità concessa a chiunque di diffondere notizie a basso costo – che, tra l’altro, è il motivo principale per cui negli ultimi quindici anni abbiamo assistito alla proliferazione di fake-news e alla nascita dell’internet crisis potential.

Nel secondo capitolo si entra nel vivo del crisis management e delle sue fasi, spiegando cosa sia una crisi e perché si differenzia da una semplice issue. In una parte di esso viene discussa l’importanza di possedere alcuni strumenti manageriali evoluti, come i modelli di risk management che ipotizzano i rischi non tradizionali che potrebbero sorgere da situazioni non predeterminabili – ossia eventi che hanno una bassissima probabilità di verificarsi ma con un potenziale impatto devastante per l’impresa -. Il ruolo strategico della comunicazione, ampiamente discusso nel primo capitolo, viene ripreso in questo capitolo poiché la comunicazione di crisi è la componente critica di successo del crisis management. Inoltre a causa dell’affollamento informativo spesso il pubblico tende a minimizzare e sovrastimare la portata di alcuni eventi, in questo contesto il risk communication è di primaria importanza, avendo il fine di stimolare le corrette azioni di risposta verso i rischi reali e di appianare il dislivello tra il rischio percepito e quello reale rispetto ad un evento. L’obiettivo del capitolo risiede nel far comprendere l’importanza per un’impresa di agire in modo proattivo – ossia attuare un costante monitoraggio dei segnali deboli di crisi e delle aree maggiormente vulnerabili – affinché siano identificate le issue e tempestivamente gestite.

Il terzo capitolo del presente elaborato spiega come la diffusione di alcune notizie di dubbia affidabilità – a cui assistiamo da quindici anni a questa parte – abbia generato una vera e propria “scienza delle fake news”, e come l’abbassamento drastico del costo di diffusione delle notizie abbia ridotto la tolleranza per le visioni alternative del mondo, amplificato la polarizzazione delle opinioni ed aumentato la disponibilità nel credere alle notizie che sono ideologicamente affini alle proprie, e allo stesso tempo abbia incrementato la chiusura a nuove fonti di informazione. Questo capitolo introduce un fenomeno che in Italia sta emergendo da circa un decennio e – seppur indirettamente – connesso alla proliferazione delle fake news, ossia la diffusione di gruppi “anti-sette” o di “difesa di vittime delle sette”, che molto spesso, con il pretesto di combattere manipolazioni immaginarie, sono i veri manipolatori della realtà oggettiva.

Il capitolo, a tal proposito, espone i meccanismi mentali che portano le persone a credere alle fake news, e quali siano le tecniche giornalistiche ricorrenti adottate per la produzione di campagne sensazionalistiche e, ovviamente, di fake news. Il quarto capitolo è dedicato all’azienda Genio in 21 Giorni, spiegando nel dettaglio i servizi che offre, la reason why della sua esistenza, il controllo di qualità dei servizi commercializzati, l’importanza del CRM nel management aziendale, nonché l’excursus delle accuse mosse alle imprese che commercializzano il corso “Genio in 21 Giorni”.

Ho avuto il piacere di condurre un’intervista a Massimo De Donno, Amministratore Delegato di Genio in 21 Giorni, al quale ho posto una serie di domande per comprendere meglio il suo punto di vista – e quello dell’azienda – in merito alla crisi reputazionale avuta e a come vi hanno reagito. Il capitolo termina con la spiegazione delle attività e delle azioni messe in atto da Genio in 21 Giorni per rispondere alla campagna di black PR che ha causato la crisi e del programma di rilancio immediato tipico del post-crisi.

L’elaborato si conclude con un documento – che si trova in appendice – contenente l’analisi scientifica – condotta il 6 ottobre 2018 dal Dr. Pepe Rodríguez, Direttore della Squadra Multidisciplinare per la Consulenza e Assistenza in Problemi Settari (EMAAPS) – volta a valutare se l’azienda distributrice del corso “Genio in 21 Giorni” in Spagna, si avvicinasse al profilo di una “setta” – in virtù dell’accusa mossa all’azienda stessa.




TESI DI LAUREA: COMUNICAZIONE REPUTAZIONALE: METODOLOGIE E STRUMENTI DI VALUTAZIONE DELLA REPUTAZIONE AZIENDALE

Libera Università Maria Assunta, Roma – Dipartimento di scienze umane
Corso di Laurea in Marketing & Digital Communication, Anno Accademico 2018 – 2019

COMUNICAZIONE REPUTAZIONALE: METODOLOGIE E STRUMENTI DI VALUTAZIONE DELLA REPUTAZIONE AZIENDALE
REPUTATIONAL COMMUNICATION: METHODOLOGIES AND TOOLS OF EVALUATION OF THE CORPORATE COMMUNICATION

Tesi di Davide Emanuele nappi – Relatore Prof. Luca Poma
A questo link, il testo integrale della Tesi (146 pagine), qui di seguito, il testo dell’Introduzione della tesi:


INTRODUZIONE

Nell’epoca attuale, ove per “attuale” è da intendersi recentissima, un nuovo paradigma economico si sta imponendo quia regula servanda est, alternativo e multiface.

L’”economia della reputazione”, fondata sul credito attribuito vicendevolmente agli attori protagonisti delle interazioni di mercato, si propone come modello economico e finanziario altro, pienamente rispondente alle attenzioni riservate alle nuove modalità relazionali. La reputazione di una azienda diventa certificato di garanzia del suo saper e voler fare bene, nel rispetto delle aspettative di tutti i soggetti che si interfacciano, a vari livelli e con tassi di interesse diversificati, con il sistema imprenditoriale, gli stakeholders.

Partendo da tali presupposti, il presente lavoro vuole essere innanzitutto un’esposizione dello stato dell’arte della letteratura più interessante sul tema, e si avvale di contributi multidisciplinari mutuati da studi di matrice psicologica, sociologica, economica, finanziaria, comunicativa pura, di marketing e organizzazione e gestione aziendale.

Si è cercato di chiarire, nel I Capitolo, cosa si intende per “Reputazione aziendale”, come e perché molto spesso si faccia confusione con termini che invece hanno un significato ben preciso e diverso da quello veicolato dal significante “reputazione”; quanto sia fondamentale una comunicazione efficace, efficiente e sincera, mirata sì alla costruzione di una buona reputazione ma anche al suo mantenimento, alla luce della considerazione che essa sia mutevole e dinamica.

Si afferma, senza paura d’esser smentiti, che la reputazione sia da considerarsi tra uno degli asset intangibili più importanti nella faretra di un’impresa, capace di creare valore o di depauperare, a seconda dell’importanza che le si riserva. È evidente, per chi scrive, che il riverbero sulle performance aziendali del vettore fiduciario reputazionale sia tangibile, riscontrabile tra le righe del bilancio aziendale e nel valore del capitale economico. Una solida corporate reputation consente ad una azienda in condizioni ordinarie di poter capitalizzare condizioni che garantiscano vantaggi competitivi in relazione all’approvvigionamento di risorse o alle istanze di credito ai mercati finanziari e di gestire un premium price per la propria offerta. In condizioni avverse o addirittura di crisi, inoltre, un’impresa di buona reputazione può godere del cosiddetto buffer effect, ovvero una rete protettiva, un paracadute, in virtù proprio del capitale fiduciario riconosciutogli dalla collettività e, più specificatamente, dai propri stakeholders.

Giacché contribuisce alla creazione del valore, sono qui proposti, nel II Capitolo, i più validi modelli di misurazione della reputazione aziendale, rispondendo alla necessità di dare soddisfazione al desiderio di pragmaticità che è nella natura dei rerum oeconomicarum, e quindi di indagare il fenomeno in maniera quantitativa.

Nel processo di reputation building rientra anche l’attenzione fondamentale al risk management, come misura preventiva ma non per ciò stesso da tenere in secondo piano.

Nel terzo e ultimo capitolo viene proposto un modello multistadio di misurazione della reputazione aziendale, attraverso la raccolta di informazioni e dati che, analizzati, diano un outcome numerico e poi percentuale, quindi facilmente misurabile e incorporabile in bilancio. Tale modello di indagine è stato somministrato ad un campione di 120 profili, circa la reputazione di un’azienda che negli anni scorsi ha attraversato crisi reputazionali di vario genere, derivanti da altrettanti scandali di natura etica: Uber Technologies Inc (Uber); ma che nell’ultimo periodo, con il cambio di management, sembra essersi ripresa.

I risultati ottenuti sono in linea con le più importanti e famose classifiche reputazionali internazionali, redatte annualmente dai più importanti istituti di ricerca e monitoraggio della reputazione.




Tesi di laurea: SOCIAL PURPOSE E BRAND ACTIVISM. LE AZIENDE PRENDONO POSIZIONE: COME LO COMUNICANO, COME VIENE PERCEPITO DAL PUBBLICO.

Libera Università Maria Assunta, Roma – Dipartimento di scienze umane
Corso di Laurea in Marketing & Digital Communication, Anno Accademico 2018 – 2019

SOCIAL PURPOSE E BRAND ACTIVISM. LE AZIENDE PRENDONO POSIZIONE: COME LO COMUNICANO, COME VIENE PERCEPITO DAL PUBBLICO.
SOCIAL PURPOSE AND BRAND ACTIVISM. COMPANIES TAKE POSITION: HOW TO COMMUNICATE IT, HOW IT IS PERCEIVED BY THE PUBLIC.

Tesi di Edoardo Greco – Relatore Prof. Luca Poma
A questo link, il testo integrale della Tesi (111 pagine), qui di seguito, il testo dell’Introduzione della tesi:


INTRODUZIONE

Nel contesto socio culturale e geo politico attuale, caratterizzato da diverse problematiche a livello globale, in primo luogo il collasso climatico, la disuguaglianza e quindi la discriminazione di genere e di razza, la diffusa corruzione, l’estinzione delle specie animali e la sovra popolazione in alcune zone del Mondo ci conducono alla nascita di conflitti come ad esempio quelli per acqua, cibo, trasporti e istruzione.

Le attuali piaghe che incidono sul benessere collettivo della comunità, stanno portando ad una rivisitazione dei ruoli nella società. Le aziende sono chiamate, non più esclusivamente a generare profitto, creare posti di lavoro, produrre beni o fornire servizi, ma a prendere posizione attivamente sui temi più caldi della società contemporanea, pronte ad impegnarsi e prodigarsi per il raggiungimento del bene comune.

L’elaborato si propone di studiare il nuovo ruolo che le aziende pioniere sono pronte a rivestire, dedite ad aiutare e risolvere, non ad aggravare, i maggiori problemi che affliggono il Mondo, spiccando per la propria eticità e trasparenza.

All’interno del primo capitolo si introdurrà il concetto di Corporate Social Responibility, mettendo in risalto la sua storia e gli eventi che ne hanno contraddistinto l’evoluzione. Si iniziò a parlare di eticità del business nel lontano 1950, riferita al ruolo esclusivo del businessman, fino a giungere all’attuale definizione che prevede comportamenti responsabili, sinceri e duraturi con tutti i portatori d’interesse dell’azienda.

Il focus a questo punto si sposta sui contesti di applicazione della CSR.

Le aziende dovranno impegnarsi nei rapporti con gli stakeholder interni con particolare riferimento alle risorse umane, e quelli esterni, attraverso l’introduzione di concetti come l’etica di prodotto e della comunicazione. Infine questa sarà chiamata alla salvaguardia dell’ambiente: i propri processi di produzione non dovranno in nessun modo influire ed impattare negativamente sul Mondo in cui viviamo.

Il processo di affermazione della CSR ha richiesto molto tempo, infatti i documenti internazionali ed europei, presi come riferimento per inquadrare con precisione la materia, risalgono al periodo attuale. I primi passi in direzione della creazione di una società più etica e responsabile in termini normativi, sono stati mossi nel dicembre del 1984 con la stesura della “Dichiarazione Universale dei Diritti Umani”.

Durante il corso degli anni, numerose commissioni si sono susseguite e hanno affrontato i problemi di natura etica che stavano emergendo in particolare modo nei confronti dello strapotere dimostrato dalle multinazionali. I documenti redatti in questi anni rivestono un ruolo fondamentale, in riferimento principalmente al “Global Compact e all’Agenda 21”.

Il capitolo primo si conclude con l’introduzione del concetto di bene comune. Il secondo capitolo si apre, invece, con l’indagine riguardante l’innovativa idea di Brand Activism, nato come la naturale evoluzione della Corporate Social Responsibility associata alla “Teoria del bene comune”. Verranno distinte le attività svolte da un brand definito “progressive” da quelle di uno detto “regressive”, in base alle azioni svolte, ai suoi impatti sul pianeta e la relazione con gli stakeholder.

Il capitolo si propone di mostrare le linee guida che un’azienda deve seguire per attuare politiche di brand activism, volte alla creazione di vantaggio competitivo e di benessere per la comunità. Verranno inoltre esplicitate le maggiori cause di conflitto e decadenza della nostra società, temi che le aziende sono chiamate ad affrontare attivamente, sfruttando la loro possibilità di raggiungere un bacino d’utenza enorme, veicolando messaggi responsabili ed etici, e attraverso l’impegno in cause sociali mediante manifestazioni, prese di posizione e soprattutto donazioni.

La ricerca ha lo scopo di esaltare le due tecniche di comunicazione esterna maggiormente diffuse tra i brand che fanno dell’attivismo una strategia con cui creare valore: l’advertising emozionale e il Cause Related Marketing.

Attraverso il girato di spot emozionali per media tradizionali come la televisione o mediante l’utilizzo dei social network, le aziende potranno veicolare messaggi dal forte impatto, sensibilizzando la propria audience, combattendo politiche di discriminazione razziale e sessuale, o farsi promotori di messaggi per il benessere della collettività o la salvaguardia dell’ambiente.

Le azioni di Cause Related Marketing portano un sostegno attivo a numerose cause sociali, promuovendo allo stesso tempo le vendite dell’azienda e differenziandola per i propri valori di riferimento, esplicitati nella mission. Verranno analizzati inoltre i programmi di CRM più largamente diffusi: Transactional programs, Message promotion programs, Licensing programs e il Joint fund raising.

In riferimento alle tecniche utilizzate per comunicare le attività di brand activism, sono state presentate diverse campagne attuate da brand leader nel settore in primo luogo Diesel, brand sotto la direzione di Renzo Rosso, ma anche Guna, attiva nel settore farmaceutico, che ha fatto sentire il suo notevole appoggio alla Marcia per la Pace e la Non Violenza, Nike in collaborazione con la King Baudounin Foundation e la partnership tra Coca-Cola e WWF.

Il terzo e ultimo capitolo si propone invece di mostrare la percezione del pubblico quando viene stimolato da attività di brand activism, attraverso l’analisi di tre ricerche primarie raccolte negli ultimi anni negli Stati Uniti: la “Battle of wallets: the changing landscape of consumer activism” di Weber Shandwick, la “Meaningful Brands” redatta da Havas ed infine, “Championing Change in the Age of Social Media” ad opera di Sprout Social.

L’intero elaborato si pone l’obiettivo di fare chiarezza riguardo l’innovativo concetto di Brand Activism, mostrando, la connessione che intercorre tra gli obiettivi di business dell’azienda e quelli sociali, i vantaggi ed i rischi che si corrono comunicando i propri valori e le proprie idee ed infine, indagando la risposta dell’audience a prese di posizione forti e non prive di rischi da parte dei brand.




TESI DI LAUREA: UNA NUOVA DIMENSIONE DELLA SOSTENIBILITÀ: DALL’IO AL NOI, L’AZIENDA COME PARTE DI UN TUTTO

Libera Università Maria Assunta, Roma – Dipartimento di scienze umane
Corso di Laurea in Marketing & Digital Communication, Anno Accademico 2018 – 2019
UNA NUOVA DIMENSIONE DELLA SOSTENIBILITÀ: DALL’IO AL NOI, L’AZIENDA COME PARTE DI UN TUTTO – A new dimension of sustainability: from the ego to us, the company as a part of a whole
Tesi di Andrea Trappolini – Relatore Prof. Luca Poma
A questo link, il testo integrale della Tesi (102 pagine), qui di seguito, il testo dell’Abstract in lingua inglese:


ABSTRACT

This text is a reflection on Corporate Social Responsibility, with particular attention to the issue of sustainability. In particular we talk about the ethical responsibility of companies towards their stakeholders and, more generally, towards society.

The definition of Corporate Social Responsibility, often shortened with the acronym “CSR”, dates back to the 60s, so it’s a term that is anything but recent, but which still remains unknown to most people nowadays, that’s why most of this work focuses on the importance of communicating and extending this concept beyond the corporations, with the aim of inculcating in people a new sense of citizenship.

In 2019 we’re also experiencing an interesting historical moment in this context because something is changing, people have developed a new sensitivity to and respect for environmental issues. Just think, for example, of the very young Greta Thunberg and the million kids worldwide who are protesting in defense of the Earth.

The concept of this work is basically a reflection, an invitation to companies to reorganize and bring to life various productive realities, abandoning old entrepreneurial logics in favor of environmentally sustainable activities, which will also be inclusive and collaborative, creating new social value. In parallel, this text is an appeal to the media world and institutions to promote education and new skills in the field of CSR. In fact we should start not only from new visions and possible alternatives, but also from the acquisition of new awarenesses on the part of the whole of society, guaranteeing each person the knowledge indispensable for understanding the strong bond that links productive enterprises to human rights and to hope for a fairer world.

The text is divided into four different chapters, which address the same subject from different perspectives.

The first chapter traces some historical indications concerning the origin of CSR, it also speaks about the renowned case of Japan, a country where responsibility is considered an implicitly widespread value within society, and finally an attempt is made to highlight the connection between economy and ethics, two apparently distant concepts which, however, turn out to be particularly interconnected. Everything is aimed at illustrating a sort of picture that gives the reader the chance to get a first idea 4 of CSR, seen through the eyes of different cultures, and an understanding of why it is so important.

The second chapter opens with two metaphors. The first is that of “business ecosystem”, a sort of provocation that tries to combine a typically natural concept with the business context or, more precisely, to highlight the large number of variables that these two different “environments” have in common. The second metaphor is that of the “sustainable spiral”, the one through which the recurrence in nature of the spiral structure, and its curious importance, is deepened. The chapter concludes with a discussion on environmental education, which highlights the positive aspects that a correct approach to the environment brings (for example in the case of children with pathologies), and finally with epigenetics, a recent branch of genetics dealing with the changes which influence the phenotype without altering the genotype.

The third chapter is devoted to the importance of creative thinking and to adopting alternative points of view, here a key term will be precisely that of “lateral thinking”. It also speaks about the central role of the human component within the corporation context, and about the importance of good communication both within the company and between the company and its external stakeholders.

The fourth and last chapter is mainly devoted to two researches. The first one is conducted on the social network Instagram, which illustrates, by way of example, the cases of some companies who show, in some of their posts, a socially responsible content. The second research concerns some interviews in which I wanted to investigate how widespread knowledge of the concept of CSR is within society.

In the end, it is worth mentioning that, although this work was written with the aim of fully understanding the importance of a widespread responsibility within society, it doesn’t appear as a handbook of rules to follow and apply in order to achieve this goal. The dynamics that lie behind such a process of change are particularly complex and require a systemic approach, so without too many pretensions the final objective is to stimulate new visions and possible interventions.




Nuova analisi internazionale sulla gestione Covid-19: Italia “maglia nera” nelle strategie di gestione della pandemia

Nuova analisi internazionale sulla gestione Codvid-19

Deep Knowledge Group è un consorzio misto profit-no profit, che – anche grazie a un accordo di collaborazione scientifica con il King’s College di Londra – si occupa di ricerca e sviluppo e di investimenti nei campi dell’Intelligenza artificiale, dell’analisi di Big-data e delle soluzioni di tecnologia avanzata per i Governi.

In un interessante ed approfondito articolo su Forbes, curiosamente non ripreso dalla stampa italiana, si evidenzia come – nonostante il continuo release di un enorme quantità di dati sulla pandemia Covid-19 rilasciati da organizzazioni come OMS, CDC, Johns Hopkins University e Worldometers – tali dati assai raramente vengano analizzati in modo efficiente e sistematico per fornire indicazioni realmente utili alla gestione dell’emergenza sanitaria, che interessa materie assai differenti tra loro – ma complementari – come medicina, biologia, epidemiologia, psicologia studio dei comportamenti umani, ed altre aree di interesse scientifico.

DKG e il Covid-19

Un team di esperti DKG ha quindi raccolto e analizzato i dati generati per 200 paesi in tutto il mondo, e ha sviluppato alcuni quadri analitici avanzati per analizzare lo scenario delll’epidemia di Coronavirus, presentando poi l’output sotto forma di dettagliate “classifiche” che dovrebbero essere utili alle istituzioni pubbliche per inquadrare meglio le strategie realmente vincenti nel contenimento dei danni da Covid-19 e per la gestione efficace dell’impatto economico della pandemia.

L’analisi di DKG – che ha valutato i dati in modo imparziale tramite una metodologia basata su metriche proprietarie e accessibile in modalità open-source – è stata progettata per valutare rapidamente la situazione in continua evoluzione nei vari paesi, che muta mentre le autorità si sforzano di mitigare le conseguenze sanitarie ed economiche della diffusione del virus, e ha dimostrato che alcuni paesi sono stati assai efficaci nella lotta contro COVID-19 fin dall’inizio, mentre altri – al di la delle roboanti dichiarazioni utili per la propaganda politica interna – assai meno.

I paesi “virtuosi” si sono concentrati sulla prevenzione anticipata della pandemia, implementando misure di quarantena prima che il numero di casi confermati superasse numeri ingestibili per il servizio sanitario pubblico, e utilizzando metodi efficienti per la mappatura del contagio e per il trattamento dei pazienti ospedalizzati, utilizzando anche tecnologie come l’intelligenza artificiale, la robotica e l’analisi dei big data, in combinazione con le tecniche di trattamento medico e di gestione dell’assistenza sanitaria strutturate in modo sofisticato.

Le “pagelle” di DKG

Ogni paese analizzato
è stato classificato con un punteggio numerico costruito utilizzando una metodologia ben definita: a ogni aspetto
viene assegnato un peso specifico, o fattore di importanza, che viene
utilizzato come input nelle equazioni utilizzate nello studio per generare vari
quadri di classificazione matematica dei fenomeni e comportamenti analizzati.

Più nel dettaglio, il primo quadro di classificazione dà informazioni sul grado di sicurezza in senso assoluto nei vari Paesi, ricavate utilizzando 24 parametri specifici, in 4 categorie distinte: efficienza della quarantena, efficienza della gestione del governo, monitoraggio dei contagi e disponibilità ed efficienza nel trattamento sanitario di emergenza, tenendo conto della protezione dall’infezione COVID, della mortalità, delle informazioni relative alla quarantena e al monitoraggio del contagio, nonché della sicurezza e stabilità in senso lato, compresa la protezione dagli esiti negativi estremi ad esempio sul piano sociale ed economico, tenendo conto che i paesi non in grado di gestire efficacemente la pandemia potrebbero innescare una catena di eventi nefasti tali da pregiudicare la stabilità anche di loro vicini geografici o di nazioni che con essi hanno intense relazioni commerciali.

Sotto questo aspetto, sul podio Israele, Germania e Sud
Corea. L’Italia non appare in classifica nei primi 40 posti.

Il secondo quadro di classificazione è centrato sul rischio COVID-19 nelle nazioni analizzate, evidenziando quindi i Paesi in base ai loro livelli di rischio potenziale, analizzato un ventaglio di fattori di tipo sia medico e non medico, tra cui il rischio di infezione, ricovero, morte e mantenimento della qualità delle condizioni di salute nel tempo. Utilizza anche in questo caso 24 parametri specifici raggruppati in 4 categorie distinte: rischio di diffusione dell’infezione, gestione del governo, efficienza sanitaria e rischi specifici regionali.

In questa sezione – da analizzare in termini di valore negativo, quindi i primi paesi sono quelli più a rischio – l’Italia è al non rassicurante primo posto, seguita da USA, Inghilterra e Spagna. Come abbiamo detto, l’analisi è costantemente aggiornata, quindi il triste primato si riferisce al tempo presente, e non è escluso che nelle prossime settimane lo scenario per la nostra penisola possa – auspicabilmente – migliorare.

Il terzo quadro di classificazione riguarda l’efficienza specifica con la quale sta venendo trattato il virus COVID-19, ed è basato su un’analisi comparativa dei Paesi in base al modo in cui stanno monitorando la diffusione dell’infezione, offrendo ai cittadini gli strumenti e le informazioni necessari per gestire i casi non critici a casa senza sovraccaricare l’infrastruttura sanitaria, quanto rapidamente stanno sviluppando test, vaccini e trattamenti COVID-19 più efficaci, etc. Questo framework è basato su: monitoraggio delle malattie, gestione delle malattie, terapia di emergenza e nuovi approcci alla ricerca e sviluppo del trattamento.

Sul podio per l’eccellenza nell’efficienza del trattamento del Covid-19, troviamo Germania, Cina, Sud Corea, e leggermente distanziate Hong-Kong. Taiwan, Singapore e Israele. L’Italia non figura tra i primi 10.

Il quarto quadro di classificazione è centrato specificamente sui fattori peculiari presenti in Europa, come ad esempio le economie nazionali altamente interconnesse, gli alti livelli di filiera, il significativo flusso turistico all’interno dell’Unione Europea, e l’incidenza di specifici punti critici all’interno dell’UE, e misura quindi il grado di sicurezza potenziale all’interno dei Paesi dell’Eurozona (allargata, includendo ad esempio anche la Svizzera) applicando una versione appositamente modificata del modello di analisi dei dati.

In questa sezione, salgono sul podio la Germania, la Svizzera e l’Austria, mentre l’Italia è al non rassicurante 32° posto.

Dopo aver analizzato la situazione in Asia nel quinto quadro di classificazione, con la Sud Corea al
primo posto, nel sesto
quadro di classificazione
lo studio
DKG evidenzia per ogni Paese del mondo la portata, la diversità, l’efficienza e l’efficacia
degli sforzi e delle misure del Governo per fornire sostegno economico (ad
esempio agevolazioni fiscali, sussidi, prestiti di emergenza, etc.) ai
cittadini, alle imprese, e in particolare alle PMI, ai lavoratori autonomi e ad
altri pubblici interessate dalla crisi COVID-19.

Sul podio, in questo caso, Germania, USA e Giappone, con l’Italia al modesto 10° posto della classifica.

La lezione da imparare

Questa imponente analisi ha prodotto output assai interessanti, ben sintetizzati in un set di interessanti infografiche, dalle quali risulta chiaro una volta di più lo spazio di miglioramento del sistema Italia, che avevo già evidenziato in una mia precedente analisi. Dal punto di vista del crisis management, comunque, il modello che più ha attirato la mia attenzione, nel complesso, resta quello di Taiwan, anche per l’esiguo numero di vittime imputabili al Coronavirus (6, alla data di pubblicazione di questo articolo), grazie alla messa in opera di un efficiente e completo Crisis-plan preventivamente elaborato e testato.

Concludendo, invece che pontificare sul presunto “modello italiano” di gestione della crisi Covid, come hanno fatto molti pennivendoli italiani nell’ultimo mese, sarebbe forse ben più utile sedersi in un’aula (virtuale, ovviamente) e imparare: le informazioni, peraltro, sono tutte disponibili online.

Aggiornamento del 28/11/2020: questo articolo è stato scritto e pubblicato ad aprile 2020, come varie altre analisi su ricerche internazionali che hanno valutato l’impatto della gestione della pandemia Covid-19 della maggior parte delle nazioni coinvolte nell’emergenza. Finalmente, a novembre 2020, 7 mesi (e molti defunti) dopo, anche la stampa italiana mainstrem si accorge delle realtà: il Corriere della Sera pubblica questo articolo, dove scrive: “Nella classifica sui peggiori Paesi per risultati economici e sociali nell’affrontare la pandemia, l’Italia si piazza al quarto posto quasi in pareggio con il Regno Unito e preceduta da Spagna e Belgio; altro che modello italiano da esportare e far copiare nel mondo. E invece di trasformare la sfortuna di essere incappato per primo nel coronavirus, in opportunità per preparare le difese e le contromisure per la più che prevedibile «seconda ondata» (che forse è solo la ripresa della prima ondata), ha perso sette preziosi mesi”. Meglio tardi che mai… (to be continued)

Aggiornamento del 22 febbraio 2021

Si sono succeduti nel tempo numerosi altri studi ed analisi che hanno smentito la narrazione del Governo Conte relativa all’eccellenza italiana nella gestione della pandemia. L’ultima, in ordine cronologico, è quella dell’australiano Lowy Institute, che relega il nostro paese in 59esima posizione tra le 98 nazioni esaminate.

IN calce, una eloquente e impietosa infografica: