Bonazzi (Aquafil): ‘Così ho trasformato la mia azienda per riciclare plastica. Il ministro Costa prenda esempio dalla Norvegia: servono incentivi’
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Le istituzioni italiane ed europee possono e devono fare molto di più in tema di salvaguardia dell’ambiente. Soprattutto, devono creare le condizioni economiche che spingano le aziende ad abbracciare l’economia circolare, che vuole dire progettare e produrre beni che possono essere riparati o riutilizzati. “Sono convinto che facendo così si potrà avviare un volano di crescita enorme per l’economia”.
E’ questo il concetto che Giulio Bonazzi ripete come un mantra in ogni consesso in cui viene invitato a parlare. Da un paio di anni quando si parla di economia del riciclo questo imprenditore di 55 anni è l’ospite d’onore di ogni consesso. Come è giusto che sia, visto che è l’uomo che 12 anni fa ha avuto il coraggio di mettere a rischio una prospera azienda di famiglia per farne un campione mondiale del riciclo.
Bonazzi è presidente e amministratore delegato di Aquafil, società trentina (la sede è ad Arco) che da 50 anni è al primo posto in Europa e fra i primi al mondo nella produzione di fibre sintetiche e in particolare di poliammide 6 (Nylon). Oggi più di un terzo della produzione viene dal riciclo di reti da pesca e di moquette per pavimenti.
La sede di Aquafil, ad Arco (Tn).
Aquafil è una di quelle medie aziende dotate di tecnologia all’avanguardia e fortissimo orientamento all’esportazione che costituiscono la spina dorsale dell’industria italiana. Il gruppo conta 2.800 dipendenti, divisi fra 16 stabilimenti in tre continenti: Europa, America e Asia. Nel 2017 ha realizzato un fatturato di 528 milioni di euro, in crescita del 12% sull’anno precedente. Il 2017 è stato l’anno della quotazione in Borsa e della forte accelerazione verso la produzione di Econyl, il nylon realizzato non da petrolio, ma dal riciclo di materiali giunti a fine vita. Ed è stato anche l’anno del boom della redditività con l’utile netto salito del 25% a 25,2 milioni di euro.
“Certo, ci vuole un po’ di pazzia, uno ci deve credere. Quando nel 2007 ho iniziato a fare i primi passi per orientare l’azienda di famiglia verso il riciclo, consulenti e banchieri mi hanno detto che ero matto. In effetti abbiamo passato momenti terribili, ho avuto collaboratori che mi hanno abbandonato perché non credevano nel progetto, ma oggi che la conversione è ben avviata, con importanti ritorni economici, posso dire che rischia di più l’imprenditore che non cambia, che non capisce che il mondo si sta muovendo inevitabilmente verso l’economia circolare”.
L’esempio è quello della direttiva europea sulle plastiche che impone che piatti, posate e cannucce di plastica siano riciclabili al 50%.
“Chi non si è mosso per tempo oggi è in difficoltà”. Proprio sul riciclo della plastica si può fare molto di più. L’Italia, dice Bonazzi, è un Paese virtuoso per la raccolta differenziata, ma pochi sanno che solo una piccola parte della plastica raccolta separatamente viene poi riutilizzata, il resto finisce nei termovalorizzatori o in discarica.
“Si può fare molto meglio, e non c’è bisogno di inventarsi chissà cosa, basta guardare cosa fanno gli altri”.
In Norvegia, per esempio, le bottiglie di Pet finiscono riciclate al 97%, grazie al deposito remunerato e a una tassa che penalizza le bottiglie colorate, quelle più difficili da riciclare. Il meccanismo del deposito è semplice: quando il consumatore va a fare la spesa restituisce al supermercato le bottiglie vuote e riceve per ognuna un credito da utilizzare per i prossimi acquisti. Funziona così anche in Germania e in Indonesia.
“Perché il nostro ministro Costa, che pure è un esperto di ambiente, non va a vedere che cosa fa la Norvegia?”, si chiede Bonazzi.
Aquafil produce un filo di poliammide utilizzato in prevalenza (oltre 70%) per fare moquette e rivestimenti per pavimenti, compresi quelli delle automobili. La parte restante della produzione è nylon con cui l’industria tessile realizza abbigliamento tecnico e sportivo. L’Econyl rappresenta il 38% della produzione e sono già stati lanciati gli investimenti per salire al 60% entro il 2021.
“L’obiettivo è arrivare al 100% entro quattro o cinque anni”, dice Bonazzi. Per farlo, Aquafil dovrà investire fra i 100 e i 150 milioni di euro. Fra i grandi nomi mondiali dell’abbigliamento che utilizzano Econyl ci sono Adidas, Speedo e Stella McCartney.
Con la produzione di Econyl invece che nylon tradizionale Aquafil guadagna di più:
“Abbiamo un margine superiore del 20% e costi in continua diminuzione”.
La tecnologia è quella del riciclo chimico, basato sulla depolimerizzazione, che permette di fare un nuova fibra del tutto identica a quella originale. Ma la strada per fare solo riciclo è ancora in salita. La difficoltà principale, spiega l’imprenditore, è organizzare la cosiddetta “logistica inversa”, cioè l’approvvigionamento di materiale di scarto a costi sostenibili.
Per fare crescere questa attività a livello globale e ottenere significativi miglioramenti per l’ambiente occorrono interventi mirati e concordati dei governi. Non tutte le plastiche sono riciclabili. La fibra di poliammide (il nylon) lo è al 100%, ma quando i prodotti sono realizzati da un mix di più fibre, riciclare diventa difficile o impossibile.
Bonazzi fa l’esempio delle reti da pesca che rappresentano una grossa parte del materiale di partenza per fare Econyl.
Reti da pesca, materiale di nylon che Aquafil ricicla chimicamente creando EcoNyl
Aquafil le raccoglie in tutto il mondo (soprattutto dagli allevamenti ittici), dopodiché deve affrontare spese molto forti per fare la selezione, perché quelle di nylon si possono lavorare, ma non quelle miste di nylon e poliestere, o di nylon e polipropilene. La stessa cosa vale per le moquette, che vengono raccolte soprattutto negli Stati Uniti e poi trasportate nell’impianto chimico di Aquafil in Slovenia.
Dice Bonazzi:
“L’intervento del legislatore è fondamentale per orientare il business a fare progredire le tecnologie: basta vedere che cosa è successo nell’energia solare. Grazie a diffuse politiche di incentivi oggi abbiamo raggiunto la parità di efficienza economica fra la produzione di energia da combustibile fossile e il fotovoltaico”.
Quindi?
“Quindi se ci sono plastiche che si riciclano meglio di altre, occorre che, a parità di prestazioni, il loro utilizzo venga incentivato. Pensiamo alla contabilità per il Pianeta: se tutte le reti da pesca oggi abbandonate nei mari venissero riciclate, quanto sarebbero grandi e diffusi i vantaggi?”.
Perché usiamo le librerie come sfondo
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Attribuiscono autorevolezza e credibilità a chi parla: si fa da prima ma ora lo notiamo molto di più, per ovvi motivi
«Quello che uno dice non è importante quanto la libreria alle sue spalle»: è il motto dell’account Twitter “Bookcase Credibility”, nato ad aprile per raccogliere e commentare le immagini delle librerie usate come sfondo da attori, politici, giornalisti e dirigenti, particolarmente frequenti in questo periodo in cui – in seguito alle restrizioni per contenere il coronavirus – quasi tutti i video e le interviste televisive sono state girate tra le mura di casa.
Grazie a Bookcase Credibility, scrive Amanda Hess sul New York Times, sappiamo che Joe Biden, candidato alla presidenza dei Democratici, ha un pallone da football sugli scaffali, che l’ex candidato Pete Buttigieg ha una copia di Il capitale di Thomas Piketty (un libro di economia del 2014 molto critico con il capitalismo contemporaneo), e che quella di Michelle e Barack Obama è semivuota.
Michelle and Barack Obama. The bookshelves are half-empty because most of the books dived for cover before anyone thought they had the cheek to claim the Obamas needed them. The ones left behind reacted too late and are hoping we understand they don't mean anything by it. pic.twitter.com/FRvP1l2lYG
— Bookcase Credibility (@BCredibility) May 14, 2020
A quietly powerful move from Steve Carell, who allows the bookcase to peep over his chair so we know he's packing. He's like a detective quietly easing back his suit jacket and letting what's on his hip speak for itself. pic.twitter.com/7pKaaoqnZi
— Bookcase Credibility (@BCredibility) May 22, 2020
L’attrice Cate Blanchett ha i 20 volumi dell’Oxford English Dictionary, il più autorevole dizionario in lingua inglese, il principe Carlo d’Inghilterra è pieno di libri sui cavalli, l’attore Paul Giamatti ha un gusto per la disposizione orizzontale e la scrittrice Arundhati Roy ha costruito “tumuli di libri” sulla scrivania. La politica britannica Michelle Ballantyne va oltre: non ha una libreria dietro di sé ma una fotografia di se stessa con dietro una libreria.
Huge thanks to @HarveyKoh for sending the Inception of credibility. Michelle Ballantyne has a bookcase behind her but behind her in the photo of herself behind her! Freud would jump from his seat if shown this. Outwardly she needs no help but her unconscious dreams of a bookcase. pic.twitter.com/FIyZHA3v80
— Bookcase Credibility (@BCredibility) May 22, 2020
Parlare davanti alla propria libreria è un espediente diffuso per darsi autorevolezza e credibilità, e allo stesso tempo comunicare con studiata naturalezza qualcosa di sé e dei propri interessi. È una strategia che la pandemia ha fatto emergere più di prima, ma che non è certo nuova: in Italia in molti ricordano la libreria che fece da sfondo al discorso sull’entrata in politica di Silvio Berlusconi, così diversa da quella con i volumi dai dorsi bianchi e quasi intonsi del video in cui, 17 anni dopo, affrontò la questione Ruby.
Altri ricorderanno anche la libreria di Matteo Salvini – «l’orrenda libreria del fuorisede allestita nell’appartamento in affitto di nonna», come la definì Michele Masneri sul Foglio – con «oggetti, cianfrusaglie, gadget, qualche libro; l’immagine dell’ex capitano del Milan Franco Baresi sulla parete, la foto della gita delle medie, l’ampolla col simbolo del Sole delle Alpi, il cappellino di Trump, “make America great again”, un “santino” di Putin, Gesù» e altre accozzaglie alla rinfusa.
In questi giorni, scrive Hess, «giudicare gli sfondi delle video conferenze di personaggi pubblici è diventato il gioco di società della pandemia». Alcuni si limitano a spiare curiosamente e morbosamente tra gli scaffali per cercare di leggere i titoli e strappare qualche brandello in più sulla personalità del proprietario. Altri invece preferiscono concentrarsi sulla scelta della libreria come oggetto di design, sull’illuminazione, sui quadri e sull’arredamento in generale. L’account Room Rater, per esempio, consiglia a qualcuno di aggiungere una pianta, ad altri di togliere un dipinto che distrae l’attenzione, e dà poi un voto all’insieme.
Great pic of @tomhanks back from his sojourn in Australia. That’s his typewriter collection at back left. His favorite is Corona. Not kidding. 9/10 pic.twitter.com/IQYvsOn9MN
Hess spiega che usare una libreria come sfondo funziona perché «offre una superficie piacevole allo sguardo ed è anche un gesto di profondità intellettuale». Finora l’autorevolezza nell’immagine di un commentatore era espressa soprattutto attraverso l’aspetto esteriore e gli abiti – negli Stati Uniti l’idea di autorevolezza era incarnata da un uomo bianco di mezza età in abito scuro – ma adesso si sta lentamente spostando anche sui titoli dei libri e sull’arredamento attorno.
È una tendenza che, perlomeno per le librerie, è in corso da tempo ed è favorita dai social network e da molti influencer, che pubblicizzano libri coordinati a cupcake, tovagliette colorate, tazze di caffè e biscottini sbriciolati. Qualche anno fa, per esempio, andavano di moda su Instagram gli scaffali con i libri ordinati per colore, poi in base all’altezza e infine con il dorso all’interno e le pagine all’esterno, così da nascondere i propri gusti e garantire un’uniformità estetica fatta di pagine bianche.
Negli Stati Uniti una delle proposte più criticate fu quella dell’influencer Lauren Conrad, che spiegò in un video come realizzare un perfetto box di libri da inserire tra gli scaffali: bastava tagliare le copertine dei volumi, incollarli tra loro e poi appiccicarli in una scatola bianca e compatta. Tutte queste mode, che trattano i libri come un oggetto bello da vedere, provocano grande indignazione tra quelli che si definiscono amanti-dei-libri, che tra i criteri di ordinamento preferiscono considerare il nome dell’autore, la casa editrice o il genere.
Anche se punta sul contenuto e non sull’apparenza, «la libreria autorevole, fatta di un ammasso imponente e singolare di volumi logorati, è a sua volta una posa», ricorda Hess. Chi parla avrebbe potuto farlo davanti a una tv spenta o un quadro ma ha preferito farsi circondare dai suoi libri: «è la moda estetica più insidiosa di tutte, perché si maschera come puro esercizio intellettuale». Dà così tanta sicurezza che basta sentirla dietro di sé, come diceva il motto di Bookcase Credibility, per sentirsi al sicuro e dimenticarsi altri dettagli: come quando il giornalista di ABC Will Reeve parlò in diretta in un’inquadratura di libri, senza accorgersi che sotto la giacca era visibile la gamba nuda, chiaro segno che era pigramente in mutande.
Anche i giornalisti del Post sono vittime dello sfondo con libreria autorevole
Con queste righe, maturate da vari confronti tra professionisti del mondo della comunicazione, avvenuti in ambienti digitali nel corso del lockdown Covid-19, intendiamo dare voce all’inquietudine, alle paure, alle esperienze di valore, alla voglia di rigenerazione e di futuro. Con una prospettiva di pubblica utilità e con tutto l’accompagnamento interpretativo che occorre, vorremmo contribuire a ridurre il rancore sociale che nei mesi precedenti l’arrivo del virus abbiamo visto visibilmente e consapevolmente aumentare in tutto il Paese. Le pagine che seguono sono un testo di lavoro, aperto e inclusivo, sottoposto a integrazioni successive da parte di colleghi che si sono avvicinati progressivamente, proponendo spunti e modifiche.
Il manifesto è anche scaricabile, in formato .pdf, a questo link
DOPO IL COVID
Non torneremo alla normalità come se niente fosse accaduto.
Prendiamoci tutto il tempo per riformulare il nostro ruolo di comunicatori e ribadirlo ai nostri datori di lavoro, pubblici o privati che siano, tornando alla funzione originaria di ‘servizio pubblico’, per trovare il contesto e il coraggio di tornare nei ruoli.
Siamo preoccupati per l’eccesso di presentismo che si riscontra sia nella comunicazione politico-istituzionale che nella comunicazione d’impresa, nel momento in cui i cittadini manifestano una più diffusa domanda di futuro sugli scenari sanitari, economico-produttivi e occupazionali, sociali, culturali e di ampliamento del vocabolario di relazione.
Siamo inoltre preoccupati per la non ancora perfetta consapevolezza della necessità di “pensare” la comunicazione come un processo globale e collettivo, inclusivo e collaborativo, del quale è fondamentale saper attivare il percorso, conoscendone le dinamiche di sviluppo.
Vorremmo fissare l’attenzione sulle trasformazioni di reputazione, intese come rapporto tra condizioni identitarie e le loro possibili narrazioni.
Riteniamo importante assumerci, come comunicatori, la responsabilità culturale, etica e deontologica di imparare e insegnare a gestire una realtà dominata e governata dalla percezione, plasmata e deformata dal digitale.
Possiamo dire qualcosa di competente anche sul tema della relazione dei territori e tra i territori.
Le possibili linee di sviluppo del pensare Paese partono proprio dall’attrattività dei territori, dei brand collegati e dei servizi, declinabili in attrattività sostenibile, qualificata e non occasionale.
L’ASSUNTO DI BASE
Il professionista della comunicazione non è un mero esecutore, ma ha come funzione quella di costruire e tenere insieme le relazioni, fornire spiegazioni, formulare interpretazioni, codificare l’esigenza di ‘futuro’ e trovare il giusto garbo per essere univoco, chiaro e disintermediato, equilibrando al meglio l’interesse del proprio committente con quello di tutti i pubblici coinvolti nella narrazione.
Nel dibattito (e dunque nella comunicazione pubblica) che si è sviluppato in questi mesi si è assistito ad alcune tendenze, figlie di alcune pratiche delle quali eravamo consapevoli, ma che abbiamo troppo a lungo colpevolmente trascurato:
la prima riguarda il consolidarsi di logiche corporative che privilegiano i soggetti economici e sociali forti e organizzati che riescono a far entrare nell’agenda politica alcuni temi che puntualmente trovano sponde autorevoli;
la seconda, legata alla precedente, riguarda la molteplicità di approcci con i quali soggetti pubblici e privati prendono le decisioni: il primo interessa soprattutto le strutture pubbliche e le politiche nazionali, che adottano un modello decisionale che favorisce l’assunzione di decisioni attraverso processi, un po’ frenetici e casuali, frutto di compromessi tra poste in gioco differenti. Il secondo approccio interessa invece i grandi gruppi economici e le organizzazioni strutturate, che di fronte alla precarietà del momento, intervengono in proprio e si organizzano al meglio delle loro possibilità. Infine, il terzo approccio adottato da tutti coloro che fanno finta che non sia successo nulla, e che fa riferimento alle procedure e alle pratiche discutibili utilizzate sino ad ora;
la terza è quella che affida al sapere degli esperti e alle tecnologie digitali un potere quasi salvifico. Dopo anni in cui gli esperti, in ogni campo, sono stati bistrattati, sono ora tornati al centro della scena, non solo per il competente apporto scientifico che possono dare ai processi decisionali, ma anche come elemento di deresponsabilizzazione dei decisori;
la quarta è il continuo affidarsi ad altri comunicatori che possano avvalorare il contenuto veicolato in un circolo vizioso di autoreferenzialità, o ad ‘esperti di settore;
la quinta è la mancanza di consapevolezza dell’interesse pubblico che dovrebbe guidare, ora più che mai, le azioni individuali e delle organizzazioni. La narrazione del noi stenta a decollare per insufficiente afflato, per l’incapacità strutturale a progettare soluzioni efficaci in ragione dei destini collettivi ma, soprattutto, per l’abitudine a parlare del singolo, della storia personale – spesso drammatica – come vicenda da copertina utile a generale traffico e Like;
la sesta è la poca consapevolezza del dibattito che si genera fuori dal Bel Paese sui diversi temi del momento: dalla ricerca scientifica, alle scelte di metodo per la rigenerazione urbana e la rimodellazione degli spazi pubblici e del costruito, la sostenibilità ambientale e la resilienza urbana, i nuovi modelli per il rilancio dell’economia locale, ecc;
Talvolta c’è la sensazione di essere un Paese ‘satellite’ e dipendente da decisioni altrui, incurante di avere una rete universitaria straordinaria e un patrimonio di aziende pubbliche all’avanguardia che gestiscono beni primari in ogni condizione. Dopotutto l’Italia è tra i paesi più industrializzati del mondo, e questo orgoglio, frutto dell’azione di realtà imprenditoriali e creative straordinarie, non emerge con forza come invece accade altrove.
Dal nostro punto di osservazione particolare, si avverte poco commitment da parte della politica del Paese e dell’impresa sulla rigenerazione, nonostante i molti cenacoli, i think tank, i comitati scientifici del momento.
Le amministrazioni pubbliche stanno garantendo, insieme alla comunità della cura, la continuità della vita (con sussidi, trasporti, servizi essenziali) ma rischiano il fiato corto per l’enorme mole di procedure burocratiche che occupa la maggior parte del loro tempo. Eppure, negli enti locali, a diverse latitudini, esistono progettualità notevoli che non emergono a sufficienza. Dobbiamo dare loro tutto il supporto narrativo del caso per le eccellenze, laddove esistono.
Il valore aggiunto di questa intelligenza collettiva sarà la capacità di selezionare con accuratezza, attribuire priorità e successivamente promuovere soltanto quei temi che hanno un maggior impatto etico e sociale, che hanno effetti positivi sulla collettività oltre ogni ragionevole dubbio, che riportino la giusta attenzione sul commitment.
Un gran numero di professionisti della comunicazione che scegliessero volontariamente uno o due temi utili al Paese e s’impegnassero personalmente ad inserirli in tutti i contesti comunicativi nei quali operano, trasferendoli anche ai clienti/aziende/istituzioni con i quali lavorano produrrebbe un naturale effetto domino, diffondendo una sensibilizzazione specifica e – per restare in tema – contagiosa.
Un impegno civile, di servizio, della comunità di professionisti della comunicazione, basato sul passaparola e sulle reti di contatti, senza alcun vincolo, lontani da estetismi, ricerche di gergo e paradigmi inutili.
Abbiamo mobilitato (non sempre nobilitato) grandi masse con le emozioni, i frame del momento, i trend demoscopici sulla percezione. Il tutto addomesticato da algoritmi. La comunicazione, con le sue professioni, ha l’occasione ora di riformulare il suo ruolo e la sua dimensione sociale preminente: quella di accompagnare nella comprensione (e nell’interpretazione) della realtà.
Occorrerebbe troppo tempo per illustrare i buoni risultati e i conseguenti buoni effetti d’intere generazioni di comunicatori, pubblicisti, creativi.
Se confrontate a quelle generazioni, le nostre rischiano il fiato corto, se non riusciamo a impossessarci delle agende, dei vocabolari, dei piani strategici della committenza.
Il tutto, riportando a tema l’importanza di costruire relazioni di qualità. Da sempre tratteniamo oggetti, tanto che ci irrita perdere anche solo una penna a sfera; tratteniamo chili in eccesso, perché atavicamente addestrati a prepararci ai periodi di carestia; tratteniamo persone, che siano figli o amici, perché la nostra visione antropocentrica della vita pone sempre noi al centro di tutto.
Dobbiamo invece reimparare a dare. Così facendo, la licenza di operare – nostra e delle organizzazioni che rappresentiamo – tenderà ad aumentare tanto più trasferiremo contenuti e consapevolezza ad altri: nella speranza che essi siano a loro volta pronti a ricevere, accogliere e dare nuovamente ad altri, coltivando, migliorando e nutrendo la loro preziosa rete di relazioni.
IL COMUNICATORE OGGI E DOMANI
Vogliamo impegnarci con pochi e chiari atteggiamenti.
Frenare lo struggimento. Il post pandemia deve essere focalizzato sulla ripartenza, sulle energie disponibili e sulla creatività già presente: passare da una fase di ‘Melancovid’ (come l’ha definita Liberation nei mesi scorsi) ad una fase proattiva, sulla base della voglia di ricominciare da dove ci si è fermati.
Costruire gli anticorpi all’amnesia che verrà. In questo periodo abbiamo fatto i conti con noi stessi, con i nostri limiti e virtù. Nel periodo della distanza interpersonale massima possibile abbiamo scoperto gesti inequivocabili di solidarietà di persone e di organizzazioni, utile medicina per il pessimismo disfattista che spesso ci attanaglia.
No all’effetto soffitta, si alla valorizzazione del tempo. Come capita al termine di ogni crisi, la voglia di voltare pagina è fortissima e questo può includere il rigetto per le abitudini – incluse quelle virtuose – adottate nel periodo dell’emergenza, che potremmo essere tentati di riporre in soffitta. Le regole di distanziamento hanno modificato il nostro essere animali sociali, ma hanno anche reso evidente quando possa essere inutile, ridondante e inquinante convocare 10 persone per una riunione di poche ore a 500 km di distanza. Il tempo è una delle risorse più preziose per l’essere umano: nella dimensione del tempo c’è la crescita personale, la formazione continua, i libri, il godere dei propri affetti: non sprechiamolo.
Fare ricorso all’intelligenza collettiva. Noi siamo rete sociale ma anche professionale, una filiera di competenze: da questo assunto dovremmo rifondare la nostra laboriosità per offrire interpretazione dei conflitti, spiegazione dei processi, generare public engagement, modalità partecipative e deliberative in grado di trasformare le dinamiche comunicative dei gruppi informali e formali.
Una visione olistica della comunicazione. È necessario pensare a un approccio che sia coerente su tutte le piattaforme con le quali interagiscono le persone, piattaforme sia fisiche che virtuali. Un approccio strategicamente complessivo, che parta dall’analisi e dalla comprensione delle esigenze profonde dei pubblici a cui ci rivolgiamo, delle loro mappe valoriali, con l’obiettivo di costruire valore per le comunità di riferimento.
Basta prodotti standard. Non possiamo più tornare alla comunicazione da scaffale, da riporto, da talk show. Se il messaggio è pensato per le persone, dobbiamo riconsiderare tone of voice, parole, atteggiamenti, immagini, situazione per situazione.
Al via un’epoca dallo sguardo molecolare. Il virus ci ha abituati a immagini di dettaglio, a frammenti della situazione: vorremmo un approccio prossimale e non distale o massimalista alle cose con l’obiettivo di concepire i messaggi in relazione alle reali necessità o capacità delle persone. Incidere per specifici obiettivi e non ‘per tutte le stagioni’.
Non più cieco peer-to-peer. Evitare la divulgazione di contenuti a nodi equivalenti o paritari che non siano stati verificati nelle fonti, nei copyright, e nelle committenze, soprattutto quest’ultime.
Occorre un’energia metabolica nuova, con radici senzienti (come per le piante). Significa ripartire dalle accademie, dai centri di formazione e ricerca, dalle scuole di specializzazione, dai centri studi e dalle università, dove spesso si annida la ricerca vera, l’avamposto, il vivaio di intelligenze. Le nuove generazioni sono assai più pronte alla ricerca condivisa e alla sperimentazione.
Il comunicatore può e deve diventare il ponte tra il mondo scientifico/tecnologico e i cittadini, deve permettere al sapere spesso chiuso tra le mura di un’università di essere diffuso e di confrontarsi anche con il mondo imprenditoriale. Anche nel settore pubblico e istituzionale si pone con evidenza una domanda di etica pubblica (con obiettivi, comportamenti, rendicontazioni) per costruire ponti tra le istituzioni e i cittadini.
I dati sono l’altro ambiente in cui viviamo. La nostra identità di persona è il risultato dell’accuratezza che mettiamo nella gestione dei nostri dati. Occorre aumentare la nostra consapevolezza per i mondi immateriali che frequentiamo e ridimensionare la forza muscolare delle nostre performance in rete, meno gridate e più selezionate.
Augmented Intelligence. La vera intelligenza aumentata è il capitale umano professionale che ci circonda. I migliori progetti culturali, le narrazioni più avvincenti, le campagne più proficue, sono il frutto di un confronto interdisciplinare assiduo e continuativo. Anche tra diverse agenzie e organizzazioni di rappresentanza.
Stop alla stregoneria nell’informazione. Ripartiamo dai fatti e dai dati. L’interpretazione – per essere tale – deve dichiarare il suo intento da subito, in modo univoco, organizzato, leale. Soprattutto nessuna investitura oratoria preventiva nel momento in cui si moltiplicano ovvietà e omissioni maldestre.
È necessario riappropriarsi del ruolo di uditore e osservatore, base imprescindibile per una comunicazione che non insegua mode del momento ma sia in grado di individuare e veicolare nuovi bacini di idee.
Si all’umile e solida consapevolezza dell’artigiano:forgiare senza improvvisare. La crisi che abbiamo appena vissuto è (anche) figlia dell’arroganza e dell’improvvisazione; dobbiamo invece riacquistare la capacità di prevedere scenari, perché solo facendo nostra la consapevolezza dell’incertezza, in questo mondo fluido e ad altissima entropia, potremo far emergere le capacità e le attitudini utili per non farci trovare impreparati, in futuro, un’ennesima volta.
COME RI-PARTIRE?
In conclusione, alcuni suggerimenti per lanciare degli stimoli in un’ottica di proposta sempre aperta a nuove contaminazioni:
Allargare la rete d’interlocutori (professionisti, reti, federazioni, associazioni di categoria) per consolidare la riflessione, accelerando i processi di crescita qualitativa di tutti noi.
Realizzare momenti di confronto, anche nella modalità partecipative e deliberative che oggi la rete agevolmente consente, trasformando e valorizzando le dinamiche comunicative dei gruppi informali e formali, con uno sguardo attento e interessato anche a ciò che succede all’esterno dei confini nazionali, in Europa e non solo.
Verificare opportunità di potenziale commitment sulle tematiche salienti individuate.
Ideatori
Daniele Chieffi, direttore comunicazione e PR – Dipartimento per Innovazione e digitalizzazione della Presidenza del Consiglio dei Ministri. Luca Montani, direttore comunicazione e relazioni istituzionali MM Spa. Piero Pelizzaro, chief Resilience Officer Sharing Cities City Lead, Comune di Milano. Andra Pillon, CEO di Avventura Urbana e docente a contratto presso l’Universita di Torino – Cattedra Luigi Bobbio, “Governance e gestione alternativa dei conflitti”. Luca Poma, professore di Reputation management presso l’Università LUMSA di Roma e l’Università della Repubblica di San Marino. Stefano Rolando, direttore scientifico Osservatorio su comunicazione pubblica, public branding e trasformazione digitale Università IULM. Gian Luca Spitella, direttore della Direzione Comunicazione Specialistica e Mass Media, ARERA.
Contributors e sottoscrittori*
Chiara Bassani, partner Rock Communications Alex Buriani, Consulente di ricerca e analisi statistica Andrea Cancellato, project manager ADI, già direttore generale Triennale di Milano Nadia Deisori, consulente di comunicazione Digital Human Emanuele Martinelli, CEO Energia Media Luca Ferrario, marketing and Communication Manager Francesca Gresia, responsabile comunicazione e pr di Fortunale Maria Grazia Persico, CEO Nonsoloambiente Walter Rolfo, formatore, autore televisivo, illusionista e scrittore Alessandro Ubertis, CEO di Carmi&Ubertis Giorgia Grandoni, ricercatrice in reputation management presso la start-up innovativa “Reputation Management SRL”
(…)
*Al 25 agosto 2020
Aggiornamento del 25 agosto 2020
10 aziende da copiare su TikTok
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Dalle imprese di Red Bull alle sfide di Croc’s, dal dietro le quinte della Nba agli influencer per caso di Gucci: ecco i marchi che hanno conquistato il nuovo social network
La cosiddetta TikTok mania non riguarda soltanto i più giovani: il boom di questo social network interessa ormai fasce di età anche più alte dei millennial. Disponibile in oltre 150 paesi, ha più di 1 miliardo di utenti ed è stato scaricato 100 milioni di volte solo negli Stati Uniti. I brand hanno capito che la loro strategia di comunicazione deve passare anche da TikTok.
“We are a newspaper” recita il claim dell’account TikTok del Washington Post, che ogni giorno lancia video divertenti interpretati dai suoi giornalisti, che si sfidano tra canzoni e scene recitate. Dalla campagna elettorale americana fino alla vita quotidiana di redazione, sarcasmo e ironia si intrecciano in sketch davvero brillanti. “Gli utenti su TikTok cercano contenuti veri, e quando si parla di intrattenimento la parola chiave è essere genuini e non costruiti”, spiega Giuliano Ambrosio, direttore strategico dell’agenzia creativa Aquest: “Lo slogan della piattaforma recita: “Real People. Real Videos”. Questo denota quanto sia fondamentale entrare in empatia con le persone offrendo loro un momento vero, che sia di puro divertimento o informativo”.
“L’unico rischio per un giornale storico come il Washington Post che ha un approccio così giocoso su TikTok, può essere che i ragazzi molto giovani non capiscano di che tipologia di testata si parla e lo sottovalutino credendo si tratti di un giornale ironico”, commenta Luca La Mesa, esperto di social media marketing e fresco di un’esperienza in Cina, culla di TikTok. E aggiunge: “Mi sento di fare i complimenti per la volontà di sperimentare, ma allo stesso tempo sono sicuro che avranno nel tempo un approccio gradualmente più in linea con il loro storico posizionamento”.
La National basketball association (Nba) è stato uno dei primi ad adottare TikTok e oggi conta ben 9,8 milioni di follower. Condividono costantemente contenuti sulla piattaforma, anche seguendo le tendenze social. Anche in questo caso lavorano su un’ironia intelligente, oltre a cavalcare le passioni dei loro seguaci, proponendo, per esempio, i momenti salienti delle partite. “La Nba ha sempre fatto scuola in termini di comunicazione sui social media”, conferma La Mesa, “e i loro video su TikTok sono veramente ottimi per il loro target. Lo sport è uno dei mercati dove è più facile creare contenuti di intrattenimento. Si nota come cerchino di utilizzare alcune caratteristiche uniche di TikTok, come ad esempio i video “duetto”, nei quali associano alle riprese dal campo dei video con le stesse movenze, ma da parte dei loro fan. Una tecnica perfetta per intrattenere la propria community e premiare i video più belli che ricevono”.
Per Ambrosio è stata un’ottima mossa “coinvolgere Charli D’Amelio, con altre top influencer, una sedicenne ad oggi superstar di TikTok a livello internazionale”.https://www.youtube.com/embed/CsoGscpoFAk?feature=oembed
Consigli di look, presentazione dei nuovi prodotti e di come utilizzarli, prima e dopo, tutorial di make-up semplici da replicare: l’account TikTok di Sephora è il paradiso per le amanti di beauty e benessere. “Il caso di Sephora rappresenta il modo più corretto di presidiare un nuovo canale e offrire alle persone contenuti di valore utilizzando il linguaggio del canale stesso”, spiega Ambrosio: “Sarebbe stato semplice la condivisione di contenuti già realizzati per altri media, invece vediamo come i contenuti siano stati studiati in base al linguaggio e attraverso influencer per trasmettere empatia”.
Crocs ha lavorato molto bene per il lancio del suo account TikTok nello scorso ottobre: in una settimana ha guadagnato oltre 100mila followers grazie a un concorso con il musicista Post Malone, ispirato alla sua canzone I’m Gonna Be, nel cui testo si citano i sabot per antomasia. È stata così lanciata la sfida #ThousandDollarCrocs, promossa anche da diverse influencer, che incoraggiava i fan a pubblicare contenuti che mostrassero come sarebbero state le loro Crocs da mille dollari.
“Le challenge su TikTok sono fondamentali per far crescere il profilo in un periodo temporale davvero ristretto utili soprattutto in fase di lancio”, aggiunge Ambrosio: “Le hashtag challenge su TikTok possono stimolare in modo esponenziale contenuti generati dagli utenti basati su una linea guida del brand. Il caso di Crocs dimostra come le persone sono proattive sulla piattaforma e vogliono mettersi in gioco”.
Calvin Klein ha lanciato la sua scorsa campagna primaverile, chiamata #mycalvins(4,5M di visualizzazioni), sfruttandola per presentarsi anche su TikTok e per raggiungere nuovi target. Per farlo ha scelto protagonisti adatti al mezzo, come il cantante Shawn Mendes, l’attore Noah Centineo, la modella Kendall Jenner e il musicista A$AP Rocky. “TikTok permette ai brand di creare vere e proprie campagne pubblicitarie per offrire loro di arrivare a un’audience maggiore”, prosegue Ambrosio.
“Stiamo assistendo”, commenta Luca La Mesa, “ad alcuni test molto interessanti nel mondo della moda, grazie ai quali le più importanti aziende si stanno interrogando come essere presenti su questo nuovo canale. Da una recente analisi di Blogmeter è emerso come, ad esempio, Charli D’Amelio sia stata la vera rivelazione dell’ultima Milan Fashion Week. È una giovane TikToker americana che ha aperto il suo profilo solo pochi mesi fa (giugno 2019) e ad oggi ha più di 40milioni di followers”.
E la popolarità improvvisa su TikTok le ha regalto grande visibilità anche su altri social media. “Su Instagram ha più di 12milioni di followers ed è stata tra i 3 account con maggior engagement di tutta la fashion week, superando personaggi pubblici come Will Smith, Emily Ratajkowski, Giulia De Lellis e Georgina Rodriguez (nota anche come fidanzata di Cristiano Ronaldo)”, dice La Mesa. “Ciò che possiamo imparare da queste analisi è che oggi c’è grande spazio per chi si muove per primo nello sperimentare questi canali e che dobbiamo sempre studiare per rimanere aggiornati su questi trend”.
Ha 3,7 milioni di follower e nei suoi video riprende il concetto cardine del brand, #givesyouwings, il famoso “Ti mette le ali” che tutti ricordiamo dagli spot tv. Nei video dell’account vediamo diversi sportivi in azioni particolarmente pericolose e divertenti, perfettamente in target con la comunicazione del brand.
“Red Bull ha utilizzato il proprio ecosistema di comunicazione social per dirottare la maggior parte della propria base follower sul nuovo account TikTok”, illustra Ambrosio: “I contenuti sono in linea con l’intrattenimento che le persone si aspettano sulla piattaforma”.
L’account ufficiale dell’emittente per ragazzi ha 6,1 milioni di follower e riprende i programmi e le serie lanciate sui canali televisivi, attraverso sketch divertenti e mini clip. “L’aggiunta di chiamate all’azione nel testo del contenuto e sapiente uso di hashtag permette di coinvolgere le persone”, conclude Ambrosio.
Non sono molti i video presenti sul canale TikTok di Gucci, che è relativamente recente, ma giocano su effetti, musica e balli al cui centro si trovano ovviamente gli abiti del brand, raccontati in maniera creativa. Uno degli hashtag usati è #accidentalinfluencer. “Ancora una volta Gucci denota il sapiente utilizzo dei canali media”, apprezza Ambrosio: “TikTok si basa su diversi aspetti che rendono il contenuto virale, come la musica e gli effetti video. La scelta di mostrare persone comuni, che creano maggiore empatia, permette di rendere il contenuto più facile da condividere”.
La National football league degli Stati Uniti e TikTok hanno annunciato lo scorso settembre una partnership pluriennale in vista della centesima stagione della federazione sportiva. L’account ufficiale condivide filmati dietro le quinte e lavora con meme e scene divertenti. L’account fa parte di una strategia per raggiungere un pubblico più giovane che guarda sempre meno calcio, oltre a “prevedere diverse opportunità, come strumenti e analisi per avere una governance del proprio account e contenuti in linea con le aspettative del pubblico”, conclude Ambrosio.
Anche il canale di sport Espn è sbarcato su TikTok per raggiungere un pubblico più giovane. Oggi ha quasi 4 milioni di follower, carica costantemente replay di azioni di gioco spettacolari e lavora su clip divertenti a ritmi hip hop.
“Le persone su TikTok cercano un intrattenimento vero e rapido, lo scrolling nel feed è molto veloce ed ipnotico. Rispetto ad altre piattaforme, TikTok si rivela molto intrigante, grazie al formato verticale e tipologia del contenuto video. Il mix tra musica e clip basate sul mondo gaming rendono il tutto vincente”, conclude Ambrosio.
Quanto inquina una menzogna? La brutta storia dietro Cattive acque
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Il film Cattive acque racconta l’inchiesta dell’avvocato Rob Bilott contro la multinazionale Dupont, accusata di aver versato rifiuti pericolosi nell’acqua e di aver usato sostanze tossiche nei propri prodotti.
Il 20 febbraio di quest’anno, è uscita nelle sale una delle ultime pellicole distribuite in Italia prima della chiusura dei cinema a causa dell’epidemia di coronavirus: Cattive acque, per la regia di Todd Haynes, tratta da una graffiante inchiesta giornalistica dell’attivista Mark Ruffalo. Il film è la storia, vera, dell’avvocato Rob Bilott, associato a un prestigioso studio legale di Cincinnati e con importanti aziende multinazionali come clienti, che gradatamente avvia, sempre più convinto, una vera e propria crociata contro Dupont.
Dupont de Nemours & co è uno dei colossi mondiali della chimica, coinvolta in una battaglia legale più che ventennale, nata grazie all’iniziale denuncia di un contadino della Virginia, Wilbur Tennant, che, notando la morte tra gravi sofferenze di un numero incomprensibilmente alto di sue bestie da reddito, sollecita l’avvocato Bilott a prendere in carico il caso. L’ipotesi è che l’acqua del ruscello da cui si abbeverano i bovini sia contaminata dalla Dupont, che da anni scarica rifiuti potenzialmente pericolosi in quell’area.
Il teflon: il cancro in casa
Dupont ha costruito un vero e proprio impero sull’utilizzo del teflon, il celebre materiale utilizzato in tutto il mondo per rendere anti-aderenti le padelle utilizzate da ogni massaia, ma anche in molti tessuti da arredamento, nell’abbigliamento, in schiume antincendio, lubrificanti, adesivi, cosmetici, insetticidi e altri oggetti di uso comune nelle case. Peccato che gli atomi di carbonio che si legano per creare i famigerati Pfoa, gli acidi di sintesi alla base del teflon – questa perlomeno è l’ipotesi dell’accusa – siano potenzialmente nocivi per il corpo umano.
In esito all’evolversi della battaglia legale, con una decisione in buona parte inattesa, la stessa agenzia Epa (l’Environmental protection agency, l’agenzia di protezione ambientale statunitense) ha poi chiesto a Dupont e altre sette aziende (3M dyneon, Arkema, Asahi, Ciba, Clariant, Daikin e Solvay solexis) di cessare l’utilizzo del Pfoa nei loro processi industriali, non solo negli Stati Uniti ma ovunque nel mondo.
ll comitato scientifico dell’Epa concluse però, già anni fa, che il teflon è “probabilmente cancerogeno”. Unici dissociati all’interno del comitato scientifico, rispetto ai risultati di probabile cancerogenicità del prodotto, due membri che sono consulenti scientifici retribuiti dell’American council on science and health (Acsh), organizzazione composta da esperti notoriamente vicini alle industrie chimiche.
Dupont ha sempre sostenuto di “non disporre di alcuno studio che colleghi specificamente gli attuali livelli di esposizione al Pfoa a effetti sulla salute umana”, ma improvvisamente, dopo le dure prese di posizione dell’Epa, Dupont dichiarò la propria adesione al programma proposto dalla stessa agenzia, affermando di aver già precedentemente ridotto del 94 per cento le emissioni di Pfoa dai propri processi produttivi.
L’azienda dichiara sul proprio sito web che “L’utilizzo di altri Pfas [la più ampia famiglia di elementi chimici siteniti dei quali sono parte anche gli Pfoa, ndr] da parte di Dupont è una piccola frazione del Pfas totale utilizzato nel mondo. Sebbene il nostro utilizzo sia estremamente ridotto, stiamo perseguendo attivamente alternative al Pfas ove possibile nei nostri processi produttivi, in quanto la sicurezza e la tutela dell’ambiente sono valori fondamentali di Dupont”
L’azienda ammette anche che “per diversi decenni, il business delle sostanze chimiche ad alte prestazioni di Dupont, come molti altri produttori industriali, ha acquistato, utilizzato e fabbricato Pfoa come ausilio alla lavorazione nella produzione di fluoropolimeri. Nel 2006, Dupont ha storicamente annunciato il suo impegno a interrompere la produzione, l’acquisto o l’uso di Pfoa”.
In realtà, l’attività della Dupont nel settore delle sostanze chimiche ad alte prestazioni che includeva l’utilizzo di Pfoa è stata delegata a una società separata e completamente indipendente, chiamata The chemours company. Semplice, poter affermare che Dupont non utilizza più questi composti, senza timore di essere smentiti: è sufficiente creare una “bad company” che prosegua lei con questo tipo di lavorazioni.
Dupont inoltre si contraddice: dopo aver illustrato il proprio punto di vista “sull’assenza di prove di pericolosità del prodotto”, ammette la progressiva dismissione del composto chimico (ci chiediamo: perché dismettere un prodotto non pericoloso?), dichiarando il proprio impegno a eliminare l’uso del Pfas a catena lunga nonché l’uso di tutte le schiume antincendio prodotte con Pfas presso i propri siti.
Incredibilmente, l’azienda ha anche dichiarato di voler supportare gli Stati Uniti, l’Epa e gli sforzi normativi globali per sviluppare linee guida scientifiche per gli Pfas, e finanziare sovvenzioni a università e altri istituti di ricerca per nuove, innovative tecnologie di bonifica dagli Pfas. Viene usato il termine incredibilmente perché la compagnia chimica è stata appunto oggetto di controversie giudiziarie proprio a causa dell’indisponibilità dimostrata nel rendere pubblicamente disponibili informazioni complete sulla pericolosità degli Pfas e sull’uso di questi composti nelle proprie produzioni, boicottando quanto più possibile l’iter giudiziario, come il film Cattive acque illustra con dovizia di particolari.
In buona sostanza, Dupont ha opposto una strenua resistenza finalizzata prima a negare ogni proprio coinvolgimento con gli Pfas; poi in un secondo momento ne ha negato con forza la pericolosità per gli esseri umani; infine – considerata l’impossibilità di negare oltre, e di sottrarsi al giudizio dell’opinione pubblica – ha dichiarato di aver già avviato le procedure di dismissione di queste sostanze.
Nelle more di questa decisione, non solo una procedura giudiziaria durata oltre 20 anni, contraddistinta dalla vergognosa reticenza dell’azienda a collaborare per l’affermazione della verità, ma soprattutto cittadini morti per cancro, o gravemente ammalati, sia tra gli operatori che negli stabilimenti del gruppo lavoravano questi prodotti, sia tra gli abitanti delle zone circostanti alle fabbriche.
Oltre al danno, la beffa: in realtà per molte lavorazioni, degli Pfas è anche possibile fare a meno: da tempo, ad esempio, esistono pentole senza Pfoa, sulle quali vengono scelti metodi diversi per realizzare l’ultimo strato della padella, che è quello – è bene ricordarlo – direttamente a contatto con il cibo che mangiamo tutti i giorni.
Un ulteriore esempio, tra i tanti, purtroppo, di quasi totale insensibilità al tema della salute dei cittadini da parte di una multinazionale interessata soprattutto al profitto, e – come dimostrato – oltre che avida, soprattutto ipocrita. Se non fosse realtà, parrebbe un film.
Si ringrazia la Dott. sa Giorgia Grandoni per le ricerche sui documenti pubblicati da Dupont & Nemour sugli inquinanti chimici contenuti nelle loro produzioni