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La fabbrica (AI) di San Pietro

La fabbrica (AI) di San Pietro

Non c’è bisogno di scomodare l’AI. Da anni tutto è software. “Se oggi si rompono i gestionali delle casse di un supermercato, quel supermercato diventa un magazzino”. Il punto, però, è che man mano che il software diventa più intelligente, definisce sempre di più la realtà. Sintesi firmata Paolo Benanti, ordinario di Etica delle tecnologie della Pontificia Università Gregoriana e figura chiave per l’AI in Vaticano, ma anche in Italia. Benanti fa parte di entrambe le Commissioni di Palazzo Chigi sul cui lavoro è stato basato il ddl italiano sull’intelligenza artificiale.

Il disegno di legge sull’AI annunciato a inizio marzo da Palazzo Chigi e previsto per prima di Pasqua è stato approvato dal Cdm a fine aprile, dopo settimane in cui – tra dicasteri diversi – è stato messo a punto un documento che affronta diversi dei punti più importanti relativi alla regolazione dell’AI in Italia, che potrebbe diventare il primo Paese a legiferare sul settore dopo la votazione dell’AI Act europeo dello scorso 13 marzo. È stata voluta dal sottosegretario all’Innovazione di Palazzo Chigi Alessio Butti la commissione sulla strategia italiana dell’AI di cui fa parte Benanti, che negli scorsi mesi è diventato presidente di un’altra commissione: quella sull’impatto AI sull’editoria, voluta dal sottosegretario Alberto Barachini.

Il confronto sul ddl è avvenuto anche internamente a Palazzo Chigi, tra il dipartimento per l’informazione e l’editoria e quello per la trasformazione digitale, in particolare sul copyright. Un tema ovviamente già affrontato durante il lavoro delle due commissioni, poi incluso al capo 4 del ddl, sulle disposizioni a tutela degli utenti e in materia di diritto d’autore.

Benanti sa bene quanto il lavoro su un testo che metta d’accordo tutti possa essere laborioso. Con Fortune Italia ha parlato a margine della firma, da parte della multinazionale Cisco, della Rome Call for AI Ethics, il documento creato dalla Pontificia Accademia per la Vita e promosso dalla Fondazione RenAIssance istituita da Papa Francesco e guidata dallo stesso Benanti, che fa anche parte della Commissione Onu sull’AI. Quando chiediamo come faccia a far parte di così tante commissioni diverse, il professore ride: “È come per le trottole: basta continuare a girare, perché se ti fermi cadi”.

Creata nel 2020, alla call del Vaticano questa estate si aggiungerà l’adesione dei rappresentanti delle fedi orientali, dopo quelli delle fedi abramitiche nel 2023. “Più si cerca un’adesione su un testo specifico, più il lavoro è lento. Ora dobbiamo capire come questi principi interrogano quella parte di intelligenza artificiale arrivata in questi anni, i grandi Llm. C’è una nuova urgenza: tutelare i singoli utenti perché gli llm vanno a interagire proprio con loro”.

Nel caso della firma della Rome Call (che è sostenuta da contributi volontari di enti di ricerca e soggetti singoli, perché “ricevere finanziamenti dai firmatari sarebbe un conflitto d’interessi”, spiega Benanti) collidono l’universo Vaticano, quello governativo e quello delle grandi aziende della tecnologia. Che ruolo può avere una iniziativa del genere in un Paese che cerca di trasformarsi in un centro di sviluppo per l’AI? Secondo Benanti “è chiaro che un’iniziativa che trova principi che siano un ponte tra pubblico e privato può facilitare il dialogo”. Non è nella call che avviene quel dialogo, “ma vedere che i principi sono accettati da entrambi i mondi, in un momento in cui vogliamo che la società sfrutti queste potenzialità, ci rende felici. La Rome Call avrà raggiunto il suo scopo quando non ci sarà più bisogno di lei. Quando queste cose accadranno senza contributo culturale”.

Tra le soluzioni del ddl italiano al nodo dei diritti d’autore, c’è l’apposizione dell’opt out: l’estrazione dei dati per addestrare sistemi AI è consentita se ciò non è vietato da chi detiene i diritti. Nel caso di contributo umano rilevante, anche i prodotti creati con l’ausilio dell’AI possono essere protetti da copyright. Quello di una commissione “è un lavoro prepolitico”, dice Benanti. Tra i contributi della commissione editoria – una relazione firmata e certificata su blockchain – c’è proprio il concetto di opt out, la riconoscibilità di quanto scritto dall’umano e il ‘watermarking’ di ciò che è generato dalle macchine. Guardrail netti che, ammette, lasciano ancora tanto “grigio” nel mezzo.

Entrambe le relazioni delle commissioni, spiega, contengono l’analisi di “quello che sta succedendo” e giudicano il contesto “con competenze scientifiche”, per poi “offrire alla politica la possibilità di attuare la sua decisione. Come commissioni ci siamo fermati qua”, anche se il comitato sull’editoria “tornerà a riunirsi”.

Le decisioni, “come è giusto che sia”, spettavano alla politica. “Da presidente di una delle due commissioni e da membro dell’altra, direi che sono stati fatti importanti passi in avanti. Si pensi agli strumenti per proteggere i minori”.

Come tutti i tentativi di “introdurre delle regole in un mondo così nuovo, questo non sarà l’ultimo e probabilmente altre novità seguiranno, anche con lo sviluppo delle tecnologie stesse”. Insomma, come per la fabbrica di San Pietro (l’ente che gestisce da 500 anni i lavori della Basilica) il lavoro su regole e principi di una tecnologia in continua evoluzione non finisce mai. L’importante è costruire in tempo l’impalcatura giusta.

Il disegno di legge

Il 23 aprile il Cdm ha approvato il disegno di legge (suddiviso in 5 capitoli e 26 articoli) che secondo il Governo porterà l’Italia ad avere una politica industriale sull’AI. Oltre che sulla tutela del diritto d’autore, le norme intervengono sulla strategia nazionale, le autorità nazionali, le azioni di promozione e le sanzioni penali. Ecco alcuni dei punti più important

 I fondi

Dopo l’annuncio di Giorgia Meloni arrivato il 12 marzo durante l’evento sull’AI voluto dal Governo a Roma, è stato inserito nel ddl (non c’era nelle prime bozze) il famoso tesoretto ‘fino a’ un miliardo per l’AI, da spendere su partecipazioni in startup e pmi attraverso Cdp Venture Capital e il fondo di sostegno del Mimit.

Giustizia

Da uno a tre anni: è la pena prevista per il reato di sostituzione di persona se si usano deepfake, la cui diffusione (per scopi criminali) è a sua volta punita con pene che arrivano fino a cinque anni “se dal fatto deriva un danno ingiusto”.

I 2 controllori

A vigilare sul’AI saranno, come annunciato settimane prima, Agid e Acn, rispettivamente con poteri di monitoraggio e sanzionatori. Alle attività chiave per la sicurezza nazionale, si legge nel documento, non si applicano le regole del ddl.

I bollini

Oltre a prevedere altre aggravanti sull’AI nella tutela del diritto d’autore, il ddl chiede a tv, radio e piattaforme di streaming l’inserimento di bollini o marcature chiaramente visibili per identificare i contenuti realizzati con AI, mentre anche sui social questi contenuti dovranno essere identificabili.




Il Vaso di Pandoro: riflessioni per manager

Il Vaso di Pandoro: riflessioni per manager

A quasi sei mesi dalla multa dell’Antitrust e dalle indagini sul caso Pandoro-gate che hanno investito Chiara Ferragni e le sue società, Selvaggia Lucarelli pubblica Il Vaso di Pandoro, libro-inchiesta che ripercorre dagli esordi l’ascesa e la caduta della influencer e del suo mondo.

Il libro è un’esamina socio-culturale che evidenzia il grande ruolo dei media, non solo dei social media ma anche dell’informazione tutta, nella creazione del personaggio Ferragni quale imprenditrice di successo e simbolo di empowerment femminile dedito alle cause sociali e alla beneficenza. Nulla di più distante dalla realtà dei fatti che è emersa a partire solo dallo scorso dicembre, nonostante vi fossero dei prodromi da anni:

  • 2016: annuncio progetto charity per terremoto nelle Marche, mai finalizzato;
  • 2017: Soleterre per il diritto alla salute dei bambini, con lancio su account Depop per cui era pagata (#adv) e con ricavato poco più di 4.000 euro;
  • 2019: bambola Trudi e ricavato in favore di Stomp Out Bullying, ad oggi oggetto di indagine da parte della Procura di Milano;
  • 2020: beneficenza e advertising insieme per linea abbigliamento e biscotti Oreo;
  • 2021: donazione per ospedale Buzzi attraverso vendita su Wallapop, da cui è pagata (#adv).

Questi sono stati ignorati a beneficio di uno storytelling compiacente e succube dell’enorme bolla di benevolenza mediatica che ha sempre circondato Ferragni.
Ed è questa bolla che ha permesso all’influencer di creare un impero valutato 75 milioni di euro (giugno 2023). Ma su quali basi si fondava, e come veniva gestito tanto successo? Fragilità manageriale, impreparazione e una certa dose di prepotenza mista a cinismo sembrano essere i canoni che hanno contraddistinto negli anni il “sistema Ferragni” e che sono emersi grazie alla crisi, alle indagini giornalistiche e alle testimonianze dei dipendenti.

Di questa vicenda è interessante analizzare alcuni aspetti e alcune anomalie, utili a comprendere delle dinamiche che possono investire qualsiasi brand o azienda.

Arretratezza digital

Il digital si trasforma e si evolve costantemente. Cambiano tendenze, modi e usi delle piattaforme, mentre ne nascono delle nuove dettate da regole comportamentali e di engagement sempre diverse. Come sottolineato da Serena Mazzini (esperta di social media manager intervistata da Lucarelli NdR), Ferragni è un brand che non si è saputo evolvere perché è rimasto ancorato alle logiche del primo Instagram e fatica a entrare in quelle di TikTok, dove vince il contentainment (funzionano i contenuti coinvolgenti per il pubblico, non le mere foto NdR). Mazzini continua spiegando che gli utenti non sono più interessati a modelli aspirazioni da seguire o all’ostentazione del lusso, ma si rivolgono ai social come a dei “piccoli schermi televisivi nei quali specchiarsi e nei quali cercare, spesso, compagnia o confronto diretto”.

Cosa significa questo per la strategia di comunicazione di un brand? Che deve essa stessa evolvere e adattarsi ai nuovi paradigmi di comunicazione social, pena la perdita di pubblico e l’incapacità di attrarne di nuovo.

Impreparazione al ruolo

Intesa come la capacità di svolgere un ruolo aziendale grazie alla competenza (derivante anche da appropriati studi) e all’esperienza, non solo per attitudine e istinto personali, che senza dubbio sono importanti, ma non possono essere tutto. Oggi, troppo spesso, si affidano ruoli legati alla comunicazione, o anche al management, a persone, non a professionisti.

Ne è un esempio l’ufficio stampa Balocco, che si scopre essere stato la fonte di Lucarelli nel scoperchiare il vaso di Pandoro. A dicembre 2022, la giornalista contattò l’ufficio stampa per chiedere lumi sulla vicenda e fu proprio lo stesso a spiegare che fra Balocco e Ferragni vi era una sinergia commerciale finalizzata alle vendite e che la beneficenza era cosa distinta derivante solo da una donazione dell’azienda dolciaria.

Quando Lucarelli evidenziò il fatto che il Corriere (e tutti i principali quotidiani nazionali) avesse scritto “Ferragni e Balocco sostengono insieme l’ospedale…” e che quindi la comunicazione era ingannevole, l’ufficio stampa rispose che “ciò esulava dalle sue competenze”. I rapporti con i media, e quindi anche la richiesta di rettifiche, è parte integrante del lavoro di ufficio stampa. Lo si impara il giorno 1 di stage (e su qualsiasi manuale di relazioni pubbliche).

Altro esempio è la gestione familiare, scanzonata e a volte spregiudicata delle aziende TBS Crew e Chiara Ferragni Collection da parte di Fabio Maria Damato. Il general manager vanta un background come fashion editor per Class Editori e il Corriere, nonché come autore di testi di moda per Amica. Alla Bocconi frequenta il “corso di studi in economia” ma la laurea non è mai confermata dallo stesso. Sotto la direzione di Damato le aziende di Ferragni spiccheranno il volo e arriveranno ai fatturati milionari da sogno che tutte le testate di economia hanno raccontato.

L’intuizione è quella di far diventare Chiara Ferragni testimonial per grandi brand, in modo da ottimizzare risorse e profitti. E i profitti saranno clamorosi se si pensa che un brand di yogurt arriva a pagare 500/600.000 euro per alcuni post e storie. Si può contestare la spregiudicatezza con cui si decide di chiudere contratti con qualsiasi tipo di brand, perdendo di vista il posizionamento alto su cui aveva lavorato Ferragni negli anni, ma il ROI parla chiaro.

Il problema è che mentre aumentava il ROI, diminuiva la solidità delle aziende, a causa di politiche di licenziamenti di dipendenti storici a fronte di assunzioni familiari. La situazione lavorativa dei dipendenti non era da meglio. Lavoravano per stage sottopagati e stipendi da fame, se paragonati al costo della vita di Milano, oppure come finte partite Iva e sotto costante pressione psicologica. Una situazione del genere, che non può reggere al nascere della prima crepa, peggiora con la crisi quando di fatto i dipendenti vengono lasciati da soli a gestire le perquisizioni della guardia di finanza e tutto ciò che ne deriva.

Come accennato nell’articolo di dicembre, quella del Pandoro-gate è una crisi manageriale, non di comunicazione. Le pratiche messe in atto per “camuffare” la beneficenza sono una scelta che nell’inchiesta di Lucarelli trova solide testimonianze. Probabilmente il tutto è frutto davvero della mancanza di guida e di consulenza da parte di professionisti, mancanza che oggi ancora si sente in tutta la gestione post crisi e in quella delle scelte editoriali di Ferragni (come spiegato sopra).

Trasparenza del ROI digitale

Tutti i social media funzionano con algoritmi e secondo metriche precise che determinano la riuscita, o meno, di ogni azione intrapresa. Quando si fa un investimento nel digitale è fondamentale monitorare la campagna e i risultati, perché non sempre il pubblico risponde come atteso, e in questo caso è possibile cambiare strategia o contenuto. Questa semplice regola non è mai valsa per Ferragni, che stipulava contratti senza obbligo di insight, dove il contenuto (scritto e preparato dal team, poi postato dalla influencer) veniva deciso unilateralmente da Ferragni.

Gestione di crisi

Come ben evidenziato da Alberto Mattia (esperto di crisis management intervistato da Lucarelli), Chiara Ferragni è un single point of failure, ovvero un unicum che se diventa indisponibile per qualsiasi motivo decreta il fallimento delle sue aziende. È lei stessa con la sua vita, le sue scelte, i suoi outfit, i suoi figli e via dicendo, il perno sul quale si muovono le sue società di servizi (advertising) e prodotti (linee di abbigliamento e accessori). L’impreparazione al ruolo del/i manager di Ferragni evidenziata sopra, fa sì che l’inchiesta di dicembre 2022 e l’avvio delle indagini del successivo giugno, prima in Balocco e poi in TBS Crew e Fenice, vengano prese sottogamba. Non si ritiene opportuno dire qualcosa in merito o preparare una strategia atta a rispondere alle (eventuali) accuse e a preservare la reputazione aziendale.

Dopo la gestione fallimentare nei primi giorni della crisi, vengono assunti dei consulenti di comunicazione, ma ancora ad oggi non vi è da parte di Ferragni reale consapevolezza dell’accaduto, presa di coscienza, pentimento, volontà di risanare i rapporti con tutti gli stakeholder coinvolti. Probabilmente la scelta dei consulenti da parte di Ferragni non è stata la migliore, sarebbe stato meglio coinvolgere un professionista esperto di comunicazione di crisi nello specifico, ma soprattutto sarebbe stato meglio seguire quello che i consulenti (sicuramente) avevano suggerito in termini di azioni, tono di voce, posizionamento.

Alla luce di quanto evidenziato, è imprescindibile per ogni azienda scegliere personale formato e aggiornato sulle dinamiche di comunicazione e di mercato, anche se questo richiede un investimento importante, perché non sarà mai così importante come quello che si può perdere se il brand e l’azienda vengono lasciati in mano all’incompetenza e all’improvvisazione.




Diverity & Inclusion… ma diverse da chi?

Diverity & Inclusion… ma diverse da chi?

Quando si parla di politiche di sviluppo delle Risorse Umane è sempre più frequente l’utilizzo della sigla D&I, acronimo di Diversity & Inclusion. In linea con gli obiettivi dell’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile, uno dei punti fondamentali dell’iniziativa dell’Onu riguarda proprio la valorizzazione delle diversità, in particolare per quanto riguarda la disparità di genere. Ma perché è così importante in ambito organizzativo? La risposta è nei dati. Il report dal titolo Breaking down gender biases, shifting social norms towards gender equality della United nations development programme 2023 ha registrato che, rispetto ai Paesi europei, l’Italia presenta percentuali di persone con bias di genere molto elevate: il 61% della popolazione ne ha almeno uno (il 65,3% degli uomini e il 57,9% delle donne). Per esempio, il 19,2% degli italiani ha bias di natura politica, l’8% di natura scolastica, il 29,7% di natura economica.

Come si collocano le aziende italiane in questo contesto? Ne abbiamo parlato con Flavia Brevi, Communication manager di Libellula, fondazione nata nel 2018 come iniziativa di responsabilità sociale di Zeta Service che accompagna le aziende nello sviluppo di progetti volti alla decostruzione degli stereotipi e a sostegno dello sviluppo di un ambiente di lavoro inclusivo. “Quando sei giovane c’è la scuola che ti forma, ma quando sei una persona adulta dov’è che sviluppi sensibilità su questi temi se non nel posto di lavoro dove vivi la gran parte del tuo tempo? Un’azienda virtuosa può educare le sue persone a disinnescare bias di genere, contrastare la violenza in tutte le sue forme, anche quelle verbali. In questo senso le imprese hanno un ruolo sociale che impatta tutta società in cui viviamo, anche al di fuori del luogo di lavoro”.

Brevi insiste sulle micro aggressioni, troppo spesso sottovalutate: “È importante sensibilizzare le persone per evitare che, più o meno inconsciamente, usino un linguaggio non inclusivo perché anche quella è violenza. In questo le aziende hanno una grande responsabilità perché spesso i luoghi di lavoro sono l’unico posto dove una vittima di violenza domestica può (e deve) potersi sentire al sicuro, accolta, compresa”. Ma siamo sulla buona strada; la sensibilità delle aziende sui temi della D&I e della lotta alla violenza e agli stereotipi di genere sta aumentando: “Lo notiamo, per esempio, dal fatto che c’è molta più progettualità. Una volta le imprese ci chiedevano supporto solo per progetti spot in occasioni particolari come il 25 novembre, Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, e l’8 marzo, la Giornata della donna, mentre ora i progetti di queste occasioni hanno una ‘coda lunga’ che continua poi per tutto l’anno. È un messaggio importante, perché le iniziative di D&I non restino una mera operazione di pinkwashing, ma diventino un reale impegno all’interno di un percorso a lungo termine e che necessita sensibilizzazione e formazione continua”.

Sostenere la genitorialità condivisa

Proprio per valorizzare e premiare le aziende più virtuose, Fondazione Libellula ogni anno organizza Libellula inspiring company, il premio rivolto a tutte le aziende aderenti al network che si sono distinte per aver dato vita a progetti volti a prevenire e contrastare la violenza e la discriminazione di genere, dentro e fuori il contesto di lavoro. Nel 2023, per la categoria ‘Prevenzione e contrasto alla violenza di genere’ il premio è andato ad Andriani, azienda specializzata nella produzione di pasta naturalmente senza glutine di alta qualità; un riconoscimento frutto di un percorso iniziato già da qualche anno, ma che è solo all’inizio, come racconta Sara Rossi, Coordinatrice per le tematiche D&I di Andriani: “Il percorso è iniziato nel 2021 quando, dopo essere diventata società benefit, l’azienda ha dato vita a un percorso che si inserisce all’interno di quella che è la volontà dell’organizzazione, ossia, apportare un cambiamento culturale. Lo abbiamo fatto a partire dai feedback dei nostri lavoratori, coinvolti per capire insieme che cos’è la violenza di genere e che cosa sono gli stereotipi, provando quindi a deostruirli. Inoltre, ci siamo serviti del potere pedagogico del teatro per permettere alle persone di immedesimarsi in contesti diversi dai propri. Visto il successo e la partecipazione, abbiamo poi deciso di mettere in scena un vero e proprio spettacolo ripercorrendo le gesta di cinque grandi donne del passato di periodi storici e background diversi: Lady Diana, Frida Kahlo, Evita Perón,Marlene Dietrich e Luisa Spagnoli’’. Rossi spiega come sia stato importante coinvolgere le persone in veste di attori protagonisti per lo spettacolo, così da essere parte attiva del processo di sensibilizzazione non solo dei colleghi, ma anche di una platea esterna all’azienda.




IL FUTURO DEGLI SMART CONTRACTS SECONDO IL DATA ACT EUROPEO

IL FUTURO DEGLI SMART CONTRACTS SECONDO IL DATA ACT EUROPEO

Nel corso delle precedenti newsletter mensili, abbiamo tentato di accompagnare i nostri lettori in una serie di approfondimenti legati al tema della blockchain e degli smart contracts[1].  Il Data Act[2], nel regolamentare il diritto di accesso ai dati prodotti dagli IoT (Internet of Things o Internet delle cose) e nel contesto più ampio relativo ad una strategia europea dei dati (cd. European Data Strategy), prevede anche delle disposizioni specifiche inerenti ai contratti intelligenti o smart contracts in inglese.

Il Regolamento in parola, direttamente applicabile in tutta l’Unione Europea senza necessità di recepimento da parte di leggi nazionali, entrerà pienamente in vigore a partire dal 12 settembre 2025, con alcuni differimenti agli anni successivi limitatamente ad alcune sezioni o disposizioni di dettaglio e rimandando al 2028 una valutazione globale  del regolamento e presentando al Parlamento europeo, al Consiglio e al Comitato economico e sociale europeo una relazione sulle principali conclusioni tratte (art. 46).

La definizione di contratto intelligente è contenuta nell’art. 2 rubricato “Definizioni” secondo cui, uno smart contract è un “programma informatico utilizzato per l’esecuzione automatica di un accordo o di parte di esso utilizzando una sequenza di registrazioni elettroniche di dati e garantendone l’integrità e l’accuratezza del loro ordine cronologico” e dovrà rispettare i requisiti previsti dal Data Act solo se utilizzato per “rendere disponibili i dati” (cfr. art. 2 pt. 39, QUI)

In altre parole il corposo regolamento (composto da 119 Considerando e 50 articoli), al fine di rispondere alle necessità dell’economia digitale e di eliminare gli ostacoli al buon funzionamento del mercato interno dei dati, intende stabilire “un quadro armonizzato che specifichi chi ha il diritto di utilizzare i dati di un prodotto o di un servizio correlato, a quali condizioni e su quale base.” (cfr. Considerando n. 3) e, quindi, obbligando i produttori e i progettisti di dispositivi IoT a condividere i dati generati dall’uso dei dispositivi con gli utenti o con terze parti designate dagli utenti.

Una rivoluzione copernicana per i fornitori di servizi IoT e per le aziende

L’approvazione del Data Act rappresenta una rivoluzione significativa sia per i fornitori di Internet delle cose (IoT) che per le aziende (ed in particolare microimprese, piccole imprese e medie imprese) interessate ad accedere ai dati generati dagli IoT. Con questo atto, gli utenti di dispositivi IoT possono richiedere la condivisione di questi dati con terze parti, nel rispetto di determinate condizioni e limiti (articolo 4). Il Regolamento europeo impone ai fornitori di IoT (titolari dei dati) e ai destinatari terzi di stipulare un “accordo di condivisione” dei dati volto a regolamentare il flusso di informazioni. Il Data Act prevede anche l’uso di smart contract per questi accordi, segnando la prima regolamentazione dell’Unione Europea su questo tipo di contratto. Degno di nota è il Considerando n. 104 nella parte in cui afferma che per promuovere l’interoperabilità degli strumenti per l’esecuzione automatica di accordi di condivisione dei dati è necessario “stabilire requisiti essenziali relativi ai contratti intelligenti redatti da professionisti per altri o integrati in applicazioni che sostengono l’attuazione di accordi per la condivisione dei dati”, creando una connessione sempre più stretta tra il diritto e le nuove tecnologie.

Smart contracts e condivisione dei dati

Gli smart contract offrono vari vantaggi, tra cui la possibilità di ridurre i costi, soprattutto quando gli accordi di condivisione dei dati variano minimamente, ad esempio cambiando solo l’ambito di applicazione. Questi contratti intelligenti possono anche servire come misura di protezione per impedire l’uso non autorizzato o alla divulgazione dei dati da parte dei destinatari (art. 11). Inoltre, le norme sui contratti intelligenti si applicano a qualsiasi accordo di condivisione dei dati, non solo quelli tra titolari e destinatari. Ciò significa che anche l’industria delle criptovalute, che fa largo uso dei contratti intelligenti, dovrà conformarsi al regolamento in parola se gli accordi sottostanti mirano alla “condivisione dei dati”. Tuttavia, il Considerando n. 6 precisa che il Data Act, nel prevedere cd. “norme orizzontali”, lasci aperta la possibilità tanto all’Unione Europea quanto gli ordinamenti nazionali l’onere di “affrontare le situazioni specifiche dei settori pertinenti”.

Requisiti tecnici degli smart contracts

Con riferimento agli aspetti tecnici, in particolare per i servizi di trattamento dei dati, il regolamento pone in capo alla Commissione europea il potere di adottare atti al fine di integrare il regolamento ed istituire un “meccanismo di controllo delle tariffe di passaggio imposte dai fornitori di servizi di trattamento dei dati sul mercato, e di specificare ulteriormente i requisiti essenziali in materia di interoperabilità” (Considerando n. 113).

L’art. 36 (rubricato: “Requisiti essenziali relativi ai contratti intelligenti per l’esecuzione degli accordi di condivisione dei dati”) prevede che il venditore di applicazioni che utilizzano i contratti intelligenti o, in sua assenza, l’azienda (esercente attività di impresa commerciale, imprenditoriale o professionale), deve assicurare che gli smart contracts rispettino i seguenti requisiti essenziali, qui di seguito elencati:

  1. robustezza e controllo dell’accesso: lo smart contract, infatti, deve essere progettato by design in modo tale da offrire meccanismi di controllo dell’accesso e un grado di robustezza molto elevato per evitare errori funzionali e resistere alla manipolazione di terzi;
  2. cessazione e interruzione sicure (cd. kill switch) per cessare l’esecuzione automatizzata delle transazioni ad opera dello smart contract e prevedere al contempo funzioni interne tali da reimpostarlo o trasmettergli l’istruzione di fermarsi o interrompere il proprio funzionamento allo scopo di evitare esecuzioni accidentali future;
  3. archiviazione e continuità dei dati, per garantire, nel caso in cui si debba procedere alla risoluzione o alla disattivazione di un contratto intelligente, che vi sia la possibilità di archiviare i dati relativi alle transazioni nonché la logica e il codice del contratto intelligente al fine di tenere traccia delle operazioni effettuate sui dati in passato (cd. verificabilità);
  4. controllo dell’accesso, per garantire che un contratto intelligente sia protetto mediante meccanismi rigorosi di controllo dell’accesso sul piano della governance;
  5. coerenza, con i termini dell’accordo di condivisione dei dati che il contratto intelligente esegue.

[1] L’ultimo articolo “BLOCKCHAIN E SMART CONTRACT [EP 10/10]” è disponibile QUI.

[2] Regolamento (UE) n. 2023/2854 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 13 dicembre 2023 riguardante norme armonizzate sull’accesso equo ai dati e sul loro utilizzo e che modifica il Regolamento (UE) n. 2017/2394 e la direttiva (UE) n. 2020/1828 (regolamento sui dati).




“Dior? Altro che alta moda. Reputazione in fumo come con la Ferragni”

"Dior? Altro che alta moda. Reputazione in fumo come con la Ferragni"

Dior e caporalato. Parla l’esperto: “È un problema di comparto. Cade un mito come è successso con la Ferragni”

E siamo a tre. Dopo Alviero Martini srl e Giorgio Armani Operations srl, il lusso in appalto finisce ancora una volta nel mirino del Tribunale di Milano. Questa volta tocca alla Manufactures Dior srl, il braccio produttivo italiano del gigante francese Dior, accusata di caporalato per non aver “prevenuto e arginato fenomeni di sfruttamento lavorativo”. Sotto accusa quattro opifici nelle province di Milano, Monza e Brianza, con 32 lavoratori irregolari e due società attive nella produzione di prodotti di pelletteria: la Pelletterie Elisabetta Yang e la New Leather srl.

Lo schema è lo stesso di Armani e Alviero Martini, e il problema è altrettanto identico: “Non è stata fatta una previsione del rischio: assessment (valutazione) dei rischi reputazionali che vanno previsti e mitigati”. A dirlo è Luca Poma, professore di Reputation Management all’Università LUMSA di Roma e all’Università della Repubblica di San Marino, nonché specialista in digital strategy e crisis communication. Interpellato da Affaritaliani.it, Poma parla del grave danno reputazionale che si abbatte ora sul colosso del lusso francese Dior: “Un danno che non intacca solo il ramo produttivo made in Italy, ma l’intera filiera”. Secondo Poma, un’accusa del genere ha ripercussioni su tutto il comparto, influenzando inevitabilmente anche le vendite.

La storia si ripete: per abbattere i costi e massimizzare i profitti di una borsa venduta in negozio a migliaia di euro, l’azienda ha esternalizzato la produzione a ditte appaltatrici, che, incapaci di garantire qualità e tempismo, si rivolgono a opifici clandestini cinesi. Le indagini, come negli altri due casi, sono coordinate dai pm Paolo Storari e Luisa Baima Bollone e condotte dai carabinieri di Milano.

“Ne risentiranno sicuramente anche le vendite, poiché aumenta la sfiducia della clientela e il comportamento d’acquisto”, continua Poma. Ciò che lascia più sgomento  è che un modello di borsa (codice PO312YKY) viene venduto nei negozi a 2.600 euro, mentre Dior spende solo 53 euro per acquistarlo dall’opificio di operai cinesi in nero a cui è commissionata la produzione dalla Manufactures Dior. Una vera beffa per il cliente e per i valori di sostenibilità a cui i grandi marchi di alta moda si aggrappano per promuovere un’economia più green. L’esperto infatti sottolinea: “Si parla tanto di sostenibilità, ma si continua a fare profitto risparmiando sui costi del lavoro a discapito della sicurezza dei dipendenti. Non si comprende davvero la serietà del problema”.

Ma che cosa succede ora? Dopo l’inchiesta, il presidente del Tribunale di Milano, Fabio Roia, ha suggerito l’avvio di un tavolo di confronto sul settore della moda, con l’obiettivo di fermare lo sfruttamento lavorativo. Tuttavia, nel frattempo, la casa di moda francese non ha rilasciato alcuna dichiarazione, nonostante il grande impatto reputazionale che l’accusa ha smosso sul colosso. “È il crollo di un mito,” dichiara Poma, “un mito come lo era la stessa Chiara Ferragni“. L’esperto, infatti, vede una certa analogia tra il caso Dior e quello dell’influencer accusata di truffa aggravata nel controverso Pandorogate.

Insomma, mentre Dior continua a tacere, il danno d’immagine si estende, sollevando non pochi interrogativi sul futuro della moda di lusso e sulla reale sostenibilità di un settore che sembra ancora lontano dal risolvere le sue contraddizioni interne.

È un problema di comparto. Se prendiamo in esempio gli influencer, vediamo quanto non sono capaci di affrontare o essere all’altezza di temi sensibili, né tanto meno c’è una regolamentazione chiara che filtri ciò che va in rete”. La stessa cosa è successa per Dior, che non solo non ha istituito un contratto regolare d’appalto tra le due società, ma, come evidenzia l’esperto: “Ha anche affrontato il problema senza curarsi dei rischi e della reputazione”.

Anche se settori e modalità sono diversi, la storia è sempre la stessa. Secondo il ragionamento di Poma, come non pochi influencer non si dimostrano all’altezza delle aspettative dei loro follower, così Dior spaccia le sue borse per prodotti artigianali venduti a migliaia di euro, ma pagati dal colosso francese solo 53 euro. E chi produceva quelle borse? Operai cinesi sfruttati negli opifici milanesi e brianzoli. Una beffa per i suoi follower nel caso Ferragni e da Dior un colpo basso al cliente finale e anche ai lavoratori sottopagati.

“Il caso Dior mette in luce un sistema ben radicato che continua a prosperare a scapito dei lavoratori e della fiducia dei consumatori”, conclude Poma. I casi di Alviero Martini, Armani e Dior, infatti, non sono episodi isolati. Riflettono un problema sistemico nell’industria dell’alta moda, che sembra ormai allo sbando. Pur di ottenere profitti, il settore non esita a ricorrere a sotterfugi ben camuffati nascondendosi bene dietro vetrine scintillanti e sfarzose pubblicità.