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Perché Sora di OpenAi fa così paura all’industria culturale? 

Perché Sora di OpenAi fa così paura all’industria culturale? 

Sora è il nuovo modello di intelligenza artificiale generata text-to-video presentata da OpenAi la settimana scorsa. Come funziona? Scrivi la trama di un video, decidi dove metti le telecamere, cosa si vede, cosa accade, in quale stile e l’Ai di Sam Altman realizza un video della durata un minuto. Il servizio non è ancora aperto al pubblico anche perché devono ancora capire come proteggerla da eventuali problemi dovuti alla produzione di video falsi, ma è già nelle mani di una selezionata schiera di registi, videomaker e addetti ai lavori che hanno incominciato a produrre sui social le loro opere.

Trovate mammut che sfilano verso la «telecamera» lasciando dietro di sé nuvole di neve polverosa; una coppia di innamorati mano nella mano che passeggia per Tokyo in una giornata di neve; visioni dall’alto come quelle realizzate da sopra i tetti bianchi e blu che ricordano le case di Santorini quando cala il sole. Alcune davvero sorprendenti, soprattutto se paragonato ai generatori di video AI ampiamente disponibili come Runway Gen-2 e Imagen di Google . Poche settimane prima OpenAI afferma però che non c’è stato video editing, cioè nessun abbellimento in post produzione.

Come puoi vedere nelle clip, però, ci sono dei problemi: i palloni da basket passano attraverso i lati dei cerchi di metallo, i cani si incrociano mentre camminano e le mani a volte non assomigliano a mani umane.

OpenAI sa di non essere ancora perfetto ma sta facendo passi da gigante. In un terreno che però è diverso da quelli percorsi finora dall’Ai Gen. E infatti Sora è ,più che ChatGpt e Dall-E, un osservato speciale.

Il video è a tutti gli effetti l’ultimo tabù. Che non è caduto – quantomeno non del tutto caduto – ma che ha messo a dura prova la pazienza dei detrattori dell’intelligenza artificiale generativa.

Concettualmente è una invasione di campo definitiva perché dopo testo e immagini anticipa ma solo di poco altri luoghi della creatività come la musica e il videogioco. Per alcuni l’Ai generativa si sarebbe dovuta fermare alla scrittura. Così non è stato. In queste settimane si alzeranno mani, qualcuno protesterà che è tutto finito, che il cinema, l’arte, la televisione verranno cannibalizzati dalle macchine. Si andranno a cercare registi delle vecchia guardia per strappargli qualche dichiarazione anti-modernista. Si celebrerà il bel mondo antico e la qualità dell’analogico. Quando la polvere si sarà posata, ci accorgeremo che nessuno vuole automatizzare il video. Ma che siamo di fronte a un nuovo strumento che non fa cose nuove ma dà forma a più idee. Forse renderà più facile la produzione di spot, sicuramente non cambierà di una virgola le leggi gravitazionali della produzione di audiovideo per l’intrattenimento. L’unica cosa che cambierà è una intenzione. La nascita di una nuova generazione di artisti digitali capaci di inventare qualcosa di nuovo.




“False esg”: narrazioni aziendali (in)autentiche?

“False esg”: narrazioni aziendali (in)autentiche?


Mercoledì 6 marzo, a partire dalle 16.30, l’Università IULM di Milano ospiterà l’evento dal titolo “False ESG: Narrazioni aziendali (in)autentiche?”, patrocinato da FERPI. Un dibattito organizzato sotto forma di talk brevi, ricchi di contenuti ed incisivi, che vedrà la partecipazione di autorevoli protagonisti del campo delle università, della sostenibilità, del management della reputazione, della filosofia e della comunicazione. “Quest’evento – spiega Luca Poma, professore di Reputation management e Scienze della Comunicazione presso l’Università LUMSA di Roma – vuole esplorare le modalità con cui le organizzazioni possono evitare il rischio di sanzioni, sempre più paragonabili alla fattispecie del ‘falso in bilancio’, a causa di narrazioni aziendali inautentiche e non genuine relative alla sostenibilità ambientale, sociale e di governance”.




Digital Services Act: quali norme per la protezione dei minori online

Digital Services Act: quali norme per la protezione dei minori online

Per singolare coincidenza sabato 17 febbraio si sono verificate due “ricorrenze” che rientrano a pieno titolo nella tecnologia solidale.

Da un lato, dal 17 febbraio tutte le piattaforme digitali e non solo le grandi dovranno rispettare il Digital Services Act (DSA). Sono esentate solamente le aziende sotto i 50 dipendenti e i 10 milioni di euro di fatturato. 

Dall’altro, Parole O_Stili compie sette anni. “In effetti – mi dice Rosy Russo, presidente dell’associazione – la coincidenza tra l’entrata in vigore “totale” di questa normativa dell’Unione Europea che mira a regolare le piattaforme online e a proteggere i cittadini, a partire dai minori, e la presentazione del nostro Manifesto della comunicazione non ostile è singolare. La prendo come un buon auspicio per continuare con il nostro impegno per ridurre, arginare e combattere i linguaggi negativi online.”.

Digital Services Act: le principali misure

A questo proposito è utile ribadire quali sono le principali misure del DSA per proteggere i minori online e garantire un ambiente più sicuro e appropriato per il loro sviluppo e benessere coinvolgendo e responsabilizzando le piattaforme:

• Limitazioni sull’uso dei dati personali dei minori e verifica dell’età.

• Protezione da e misure più rigorose per rimuovere contenuti nocivi, come la pornografia infantile o l’incitamento all’odio o il cyberbullismo.

• Potenziamento degli strumenti per il controllo da parte dei genitori della attività online dei figli.

• Viene vietata la pubblicità mirata nei confronti dei bambini.

Sono naturalmente iniziative del tutto condivisibili. La domanda è se tutto questo basterà. Che ne pensi, Rosy?

“Come tu dicevi durante la tua attività parlamentare, una legge vale non solo per il suo contenuto, ma anche perché fa cultura, propone una visione di società e individua delle priorità. In questo senso il Digital Services Act è importante perché indica il principio che le piattaforme non possono disinteressarsi di quanto avviene online nei confronti dei più piccoli. Questa attenzione noi l’abbiamo iniziata molto prima di questa norma, promuovendo “dal basso” il Manifesto della comunicazione non ostile e andando nelle scuole a incontrare insegnanti e studenti. Un impegno che proseguiremo con ancora più convinzione e forza, adesso che anche le istituzioni hanno iniziato a impegnarsi concretamente.”

Le istituzioni europee lo hanno fatto coinvolgendo le piattaforme su una maggiore responsabilità. “In effetti il DSA – ci dice Stefano Pasta, docente e componente del CREMIT Centro di Ricerca sull’Educazione ai Media, all’Innovazione e alla Tecnologia dell’Università Cattolica, autore di “Razzismi 2.0. Analisi socio-educativa dell’odio online – riconosce che nel web sociale non siamo tutti uguali, sia in termini di opportunità sia dunque di responsabilità: quindi rispetto ai comportamenti scorretti nel digitale ritiene che i grandi colossi del Web non solo ospitino gli utenti, ma debbano monitorare quanto pubblicano.“.

L’aver posto dei limiti legislativi può aiutare questa azione? 

Digital Services Act: le piattaforme devono vigilare sui discorsi d’odio

“Certamente sì, perché il DSA ci aiuta ad affermare che le piattaforme devono vigilare di più sull’evitare i discorsi d’odio e, se non ci riescono o non vogliono, possono essere sanzionate. La norma, anche nel digitale, serve a tutelare i diritti umani e a regolare lo spazio pubblico, a scegliere come vogliamo vivere insieme: è questo un principio giuridico cardine del diritto europeo, diverso dal liberismo giuridico statunitense che è il substrato culturale in cui sono cresciute le grandi società del web. Il DSA, in fondo, ci ricorda il sogno per cui sono nate le istituzioni europee.”.

È la strada giusta?

“È la strada  giusta per il contrasto dell’hate speech. La priorità rimane promuovere l’educazione degli “spettautori” – fruitori e produttori di contenuti digitali al tempo stesso – al pensiero critico e alla responsabilità, intesa come capacità di valutare la conseguenza delle proprie azioni nel digitale. 

Concorda con questa interpretazione anche Stefania Garassini, giornalista, docente alla Cattolica di Milano e tra i promotori di Patti digitali, iniziativa di coinvolgimento delle famiglie e degli enti locali per un uso corretto delle nuove tecnologie da parte dei bambini e delle bambine: “La norma è giusta, anche se viene sostanzialmente ribadita la neutralità delle piattaforme, quindi la responsabilità sui contenuti resta limitata. I servizi online non vengono considerati come editori e quindi si tratta per la maggior parte di un controllo che avviene dopo la  pubblicazione, con tutti i rischi del caso. Proprio la natura editoriale delle piattaforme è invece al centro della proposta di legge usa KOSA (Kids Online Safety Act). È un tema cruciale, ma credo che quella di responsabilizzare maggiormente le piattaforme sui contenuti sia l’unica strada per rendere davvero Internet più sicura per i minori”. 

Tuttavia una norma, neanche quella scritta meglio, può sostituire l’attenzione dei genitori e l’educazione al buon uso degli strumenti digitali…

“Assolutamente. Però l’impegno sul campo di realtà come la nostra e di altre che agiscono nel nostro stesso ambito è sicuramente più sostenuto da una norma che afferma comunque una responsabilità da parte delle piattaforme. Anche perché purtroppo aumenta la precocità nell’uso degli strumenti digitali da parte dei bambini.” 

I dati su minori e uso del digitale

In effetti i dati di “Tempi digitali”, la XIV edizione dell’Atlante dell’infanzia a rischio in Italia, pubblicata da Save the Children lo scorso novembre, mostrano che in Italia si è abbassata l’età in cui si possiede o utilizza uno smartphone: il 78,3 per cento di bambini tra gli 11 e i 13 anni utilizza internet tutti i giorni e lo fa soprattutto attraverso lo smartphone. 

A questi dati si uniscono quelli della indagine “Alfabetizzazione mediatica e digitale a tutela dei minori: comportamenti, opportunità e paure dei navigatori under 16” presentata il 15 febbraio a Milano e realizzata dall’Alta scuola in media, comunicazione e spettacolo dell’Università Cattolica e dal Ministero delle imprese e del made in Italy. Il 40% degli intervistati più piccoli parla di esperienze negative online. Il 53% degli adolescenti tra gli 11 e i13 anni, dice di esperienze negative “gravi e ripetute”.

Questi dati e gli altri contenuti in questa ricerca confermano che oltre e accanto alle leggi e ai regolamenti delle piattaforme, il primo punto resta sempre uno: non possiamo lasciare da soli online figli e nipoti. A ben pensarci è paradossale il fatto che non facciamo andare e tornare da scuola da soli i nostri figli alle elementari (e spesso anche alle medie) anche se la scuola è vicina a casa e poi lasciamo che vadano da soli per le strade del web, che non sono meno insidiose di quelle delle nostre città, perché la rete e le strade sono sempre “abitate” da esseri umani, quindi da persone che possono essere bene e male intenzionate. 

Stando così le cose, per noi genitori, per gli educatori, per i nonni, per tutti coloro che hanno a cuore il destino dei più piccoli, vale oggi più che mai la regola delle 3 A, quella che applichiamo a casa Palmieri: accompagna, argina, accogli. Valeva quando il mondo era “solo” analogico. Vale ancor di più ora che è diventato digitale.




New York fa causa a TikTok, Facebook e YouTube

New York fa causa a TikTok, Facebook e YouTube

La città di New York ha fatto causa a TikTok, Facebook e YouTube per danni alla salute mentale di bambini e ragazzi.
    Secondo la causa Meta, Snap, ByteDance e Google hanno consapevolmente costruito e commercializzato le loro piattaforme per “attrarre, catturare e creare dipendenza nei giovani”.
    L’iniziativa richiama il procedimento intentato nel 2022 in California.

Il sindaco di New York, Eric Adams, aveva anticipato la causa a fine gennaio.

“Negli ultimi dieci anni abbiamo visto quanto il mondo online possa esporre i nostri figli a un flusso continuo di contenuti dannosi e alimentare la crisi nazionale della salute mentale dei giovani”, ha affermato il primo cittadino in una nota. Oltre alla città di New York, tra i querelanti ci sono anche il distretto scolastico e le istituzioni sanitarie, secondo le quali le società proprietarie hanno “consapevolmente progettato, sviluppato, prodotto, gestito, promosso, distribuito e commercializzato le loro piattaforme per attrarre e creare dipendenza, con una supervisione minima da parte dei genitori”.




Ricoh Italia ottiene la certificazioneper la parità di genere UNI/PdR 125:2022

Alessandro-Sanvito_Elisabetta-Bertoldi_Ricoh-Italia

Nell’ambito del proprio impegno costante a favore della Diversity & Inclusion e delle tematiche di sostenibilità, Ricoh Italia ha conseguito la Certificazione UNI/PdR 125:2022 per la parità di genere, rilasciata da RINA, dimostrando la propria capacità di realizzare un ambiente di lavoro in cui la diversità e la molteplicità di esperienze vengono accolte e integrate.

Si tratta di una certificazione su base volontaria che viene assegnata dopo un processo di valutazione basato su parametri riguardanti cultura e strategia aziendale, opportunità di formazione, crescita e inclusione delle donne, equità remunerativa, oltre a iniziative a tutela della genitorialità e della conciliazione vita-lavoro.

“In Ricoh vogliamo creare le migliori condizioni affinché ogni persona si senta valorizzata e possa esprimere al meglio il proprio potenziale, senza incontrare ostacoli legati al genere o a qualsiasi altro tipo di discriminazione o di stereotipo” commenta Davide Oriani, CEO di Ricoh Italia. “Sono molte le iniziative che abbiamo intrapreso, ad esempio per sostenere la genitorialità oppure per promuovere una cultura dell’inclusione grazie a momenti di formazione e sensibilizzazione, alcuni dei quali organizzati insieme a Fondazione Pangea con cui abbiamo avviato una collaborazione. La centralità e il coinvolgimento degli individui fanno parte del DNA della nostra azienda, fin dalle origini. La certificazione ottenuta è il risultato di un percorso sostenibile che ha caratterizzato la nostra storia e che contraddistingue tutt’oggi la nostra identità”.

Alessandro Sanvito – Direttore Risorse Umane e CSR di Ricoh Italia – aggiunge: “Questa certificazione si colloca nell’ambito del percorso ambizioso di Ricoh Italia di accreditarsi sempre di più come azienda che valorizza la sostenibilità sia ambientale che, come in questo caso, sociale. La bussola che ci guida ora e sempre più in futuro è quella degli SDG (Sustainable Development Goals), gli obiettivi di sviluppo sostenibile definiti dalle Nazione Unite”.

Elisabetta Bertoldi, HR Manager di Ricoh Italia, conclude: “Con il percorso di Certificazione abbiamo voluto metterci alla prova sulla parità di genere. Il risultato dimostra che stiamo lavorando nella giusta direzione e ovviamente non ci fermiamo qui. La UNI/PdR 125:2022 rappresenta un punto di partenza e non di arrivo: prosegue fin da subito il nostro impegno per sviluppare nuove iniziative e progetti volti a realizzare un futuro sempre più inclusivo e rispettoso dell’empowerment di ogni persona”.

Ricoh

Ricoh è fornitore di servizi digitali integrati e di soluzioni di stampa che accelerano la trasformazione digitale degli ambienti di lavoro e migliorano le performance del business.
Con sede principale a Tokyo, il Gruppo Ricoh è presente in circa 200 Paesi aiutando le aziende a lavorare in modo più efficiente e produttivo, grazie a soluzioni innovative, a competenze professionali e a capacità organizzative maturate in oltre 85 anni di storia. Nell’anno fiscale terminato a marzo 2023 ha realizzato un fatturato complessivo di 2.134 miliardi di yen (circa 16 miliardi di dollari).
Il commitment di Ricoh è far sì che le persone si sentano realizzate mediante il proprio lavoro (Fulfillment through Work) grazie anche ad una nuova visione del workplace. Così è possibile valorizzare le potenzialità e la creatività degli individui per realizzare un futuro sostenibile.
Per ulteriori informazioni, visitare il sito www.ricoh.it