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Roger McNamee, ex mentore di Zuckerberg: ‘Facebook va boicottata, il suo business model è basato su complottismo, odio e disinformazione’

Roger McNamee, ex mentore di Zuckerberg: ‘Facebook va boicottata, il suo business model è basato su complottismo, odio e disinformazione’

Raggiungere Roger McNamee è particolarmente difficile in questi giorni. La California brucia, l’emergenza Covid non dà tregua e i media lo inseguono per dichiarazioni e interviste, ma questa non è una novità. Lo è invece il suo tentativo di esportare il boicottaggio contro Facebook, #StopHateForProfit, anche in Europa, per segnare un nuovo punto nella lotta al modello di business dei giganti della Silicon Valley.

Chiamatela eterogenesi dei fini: sono passati 14 anni da quando il 64enne che ama definirsi musicista e hippy, ma che è noto soprattutto per essere uno dei venture capitalist di maggior successo d’America, consigliò a un allora giovanissimo Mark Zuckerberg di non accettare l’assegno da 1 miliardo di dollari che Yahoo era pronta a pagare per Facebook. Il social network allora fatturava 20 milioni all’anno e l’offerta era francamente spropositata, ma McNamee aveva intuito le potenzialità dell’idea di Zuckerberg. Da allora, e per un decennio, i due sono stati quasi inseparabili. L’idillio, ha scritto McNamee nel libro Zucked (Penguin Random House), si è rotto quando si è accorto che qualcosa di strano stava succedendo sulla piattaforma, prima che le interferenze sulla Brexit e sull’elezione del presidente Donald Trump diventassero cosa nota.

Incapace di far cambiare idea a Zuckerberg sull’esigenza di trasparenza, l’ex mentore e azionista si è trasformato nell’arco di qualche anno in uno dei più fieri critici delle pratiche del suo ex pupillo, denunciandone comportamenti scorretti e frequentazioni poco consone, ultima quella col presidente Donald Trump.

La California è stata un gran posto per un sacco di tempo, ma non lo è più. Viviamo una situazione da pazzi per via di questo presidente e del suo governo. Persino l’incapacità di rispondere all’emergenza Covid ha a che vedere anche con Facebook: il social network ha dato risalto a quelli che dicono che le mascherine sono un fatto politico e non essenzialmente sanitario”, esordisce quando lo raggiungiamo al telefono, in un giorno di fine luglio che marca l’ennesimo record di contagi e le consuete politiche sul presidente. “Ma d’altronde abbiamo quello che ci meritiamo: siamo stati stupidi e arroganti. Potrebbe finire davvero male”.

Male come?

Penso che Zuckerberg e Trump abbiano un accordo: non si sono stretti la mano, ovviamente, ma è un patto implicito. Per un business come Facebook o Google, per chi fornisce prodotti e servizi onnipresenti e utilizzati da tutti, è essenziale rimanere allineati col potere, a costo di passare qualche guaio pubblico. L’allineamento passa per la scelte di specifiche persone. Facebook ha assunto un signore che si chiama Joe Kaplan e lo ha messo a capo della divisione operativa di Washington. Kaplan è un uomo di estrema destra: è stato assunto per fare lobbying sul partito repubblicano ma la verità è che sono stati i repubblicani a utilizzarlo per fare lobbying su Facebook.

Cosa è successo?

Kaplan ha consentito a Facebook di avere entrature eccezionali nel governo, perché il suo migliore amico è Brett Kavanaugh, nominato giudice della Corte Suprema proprio da Trump. Durante l’udienza di conferma della nomina, Kaplan e la moglie erano seduti subito dietro Kavanaugh, come dire che l’uomo non ha alcuna timidezza nel manifestare la sua vicinanza. Infatti, man mano che il comportamento di Trump diventava più allarmante, Facebook adottava policy esplicitamente a suo favore. Gli altri big lo fanno in modo meno palese: YouTube o Twitter danno grande spazio alle teorie dell’estrema destra, ma cercano di essere meno spudorati. Facebook no. E poi, come scoperto dai giornali, Zuckerberg ha avuto, almeno due conversazioni private con il presidente…

Siamo più chiari: quale sarebbe il supporto “esplicito?”

Ecco un esempio. L’estate scorsa Judd Legum, un reporter di Popular Information,  ha scoperto che il comitato per la rielezione di Trump stava facendo circolare su Fb pubblicità che sono illegali stando alla legge americana. Era una specie di concorso: “Puoi vincere una cena col presidente ma solo se rispondi entro la mezzanotte di stasera”. L’annuncio è rimasto visibile per 30 giorni consecutivi: la storia del rispondere entro mezzanotte era quindi decisamente falsa. Non solo: Legum non è riuscito a trovare un solo vincitore del contest. L’unica ragione per farlo era accumulare dati personali.

In Italia, due anni fa, è stato fatto qualcosa di molto simile: il VinciSalvini…

Ma i “Terms of service” di Facebook, le regole interne, vietano espressamente pubblicità che mentano. Però sapete cos’ha fatto Facebook in questa occasione? Non ha vietato le pubblicità, ma ha cambiato le regole… Questo è il patto implicito tra Trump e Zuckerberg: nessun altro ha fatto qualcosa del genere.

Ci faccia un altro esempio.

Qualche giorno fa Trump ha scritto un post in cui diceva che il voto per posta [che è una delle modalità ammesse dalla legge americana, ndr] significa frode. Facebook ha messo un appunto sotto al testo che dice: “Questo post contiene informazioni riguardo il voto”! A voler essere maligni, lo si può prendere come un endorsement della strampalata teoria del presidente.

La domanda ovvia è perché: qual è l’interesse di Zuckerberg, specie considerato che Trump potrebbe anche non essere rieletto?

In America abbiamo un detto: If it bleeds, it leads. Significa essenzialmente che le cose più truculente, o che fanno arrabbiare, sono quelle che funzionano meglio. Ecco, questo vale nel giornalismo, ma anche per i social network: devi far “scaldare” la gente. Gli algoritmi privilegiano i contenuti che fanno scaldare gli utenti e si sa ormai che questi sono l’hate speech, la disinformazione e le teorie cospirative. Con questi temi si scatenano dibattiti e “lotte” virtuali.

Qual è il punto?

Che dibattiti, commenti, lotte virtuali – quello che nel marketing si chiama engagement – trascinano i ricavi, perché catturano l’attenzione. Il modello di business delle piattaforme, a partire da Facebook, si basa su questo tipo di contenuti. Per questo nonostante le protesta pubblica contro certe voci, i big della Valley decidono sempre di ignorarla fino all’ultimo.  E quando saranno costretti a dare retta ai critici, cercheranno di farlo con il minimo danno possibile per se stessi: potranno silenziare una persona, ma lasceranno spazio a decine di altri propagatori di odio o di teorie cospirative.

D’altronde, dare a Zuckerberg il diritto di decidere chi può dire cosa è pericoloso.

Il problema non è che qualcuno scriva un post: il primo emendamento consente a tutti la libertà d’espressione. Il punto è che quel contenuto divisivo viene amplificato intenzionalmente dall’algoritmo, anche se sappiamo che può avere conseguenze pericolose. Le teorie cospirative, l’odio e la disinformazione sono una componente essenziale del business model di Facebook. Questo è il motivo per cui il legislatore dovrebbe chiedersi se è giusto che queste aziende continuino a esistere così come sono oggi.

Pensa che la politica ci stia riflettendo seriamente?

Dobbiamo sperarlo. Nessuno ha la palla di cristallo, ma nell’ultimo mese è successo qualcosa di grosso. In America stiamo vivendo una tragedia legata al coronavirus, visto che siamo stati i peggiori al mondo a gestire la situazione, il che produrrà anche una crisi economica di proporzioni bibliche. In contemporanea, la brutalità della polizia nell’omicidio di George Floyd ha scatenato una risposta inedita: oggi il 77% delle persone crede davvero che Black Lives Matter, che le vite dei neri contino. Non era mai successo qualcosa del genere, in 40 anni: per la prima volta la gente inizia a pensare che il modo in cui questo Paese ha funzionato non è corretto e che va riformato, in molti aspetti, dal mercato alla polizia.

In Europa nel frattempo hanno fatto molta notizia il boicottaggio lanciato contro Facebook e la protesta dei dipendenti contro il loro capo.

Capiamoci, la protesta è stata molto piccola. Ma è stata comunque una prima volta: nessuno aveva mai manifestato apertamente per i fatti legati alla Brexit, per le interferenze russe, persino per quello successo in Birmania, tutte cose in cui Facebook ha avuto un ruolo.

Lei è stato estremamente vicino a Zuckerberg, ed è in parte responsabile della sua fortuna. Non si era accorto prima dei “difetti”, chiamiamoli così, del suo ex pupillo?

Non ho mai detto e non penso che Zuckerberg sia un uomo orribile. Ma ho deciso di essere un attivista, cioè di cercare di mostrare alle persone quello che davvero sta succedendo dentro a Facebook.. Voglio scatenare quella discussione pubblica che le aziende della Silicon Valley proprio non vogliono. Finora hanno vinto loro. In America l’impostazione dominante è che la moralità non conta, quando si parla di affari. È vero in qualsiasi settore, ed è stato così per decenni, ma il settore in cui operano Facebook o Google ha più impatto di qualsiasi altro. È necessario che inizino a essere responsabili verso i loro lavoratori, verso la nazione, verso la società tutta.

Il boicottaggio come sta andando? Zuckerberg sembra piuttosto tranquillo.

Abbiamo avuto più di 1.000 aziende aderenti. La novità è che ci stiamo preparando a lanciarlo anche in Gran Bretagna, come testa di ponte per l’Europa. Gli investitori sono quelli che fanno i ricavi di Facebook: dovrebbero mobilitarsi anche in Italia, senza aspettare che siamo noi da qui a organizzarlo. 

Se non fosse che Facebook e Instagram sono gli strumenti migliori per decine di migliaia di piccole imprese, in Italia.

È verissimo che Zuckerberg ha la piattaforma per la pubblicità migliore al mondo, ed è vero che è un monopolio: per questo dovrebbe essere regolamentato. Credo che in Europa – dove siete stati più attenti e capaci di intervenire che nel resto del mondo – qualcuno si aspetti una soluzione globale ai problemi di Facebook. Io credo invece che voi abbiate maggiore consapevolezza di noi, e che dopo la Brexit dovreste proibire quantomeno le pubblicità di tipo politico. Almeno finché le cose non cambieranno. 




Osservatorio Immagino: la CSR nel carrello della spesa vale 3,8 miliardi di euro

Osservatorio Immagino: la CSR nel carrello della spesa vale 3,8 miliardi di euro

Avere comportamenti etici e comunicarli ai consumatori si conferma una strategia vincente per le aziende del largo consumo. Loghi, “bollini” e claim che certificano l’origine delle materie prime, le modalità produttive, il rispetto dell’ambiente e dei lavoratori sono percepiti come rassicuranti dagli shopper e i marchi che ne hanno fatto uso hanno ottenuto maggiore spazio sugli scaffali della grande distribuzione.
Lo rileva la settima edizione dell’Osservatorio Immagino di GS1 Italy, realizzato in collaborazione con Nielsen, che ha preso in esame un paniere di 111.639 prodotti di largo consumo che sviluppano l’82% del fatturato italiano di ipermercati e supermercati.

Italianità

L’immagine rassicurante più diffusa sulle confezioni è la bandiera del paese d’origine (prevalentemente quella italiana): si trova sul 13,4% dei prodotti del paniere Immagino (+0,5% rispetto al 2018), e pesano il 14,6% del giro di affari complessivo che è pari a 36 miliardi di euro. Le vendite hanno riguardato principalmente affettati, pasta di semola, surgelati, sughi, detersivi per stoviglie e preparati avicunicoli.

Fonte: Osservatorio Immagino Nielsen GS1 Italy, ed. 1, 2020

Responsabilità sociale

Un ruolo importante lo svolgono anche le certificazioni legate alla Corporate social responsibility (CSR) presenti sul 7,4% dei prodotti che costituiscono il 10,6% delle vendite (3,8 miliardi di euro).

In particolare, l’Osservatorio Immagino ha individuato otto certificazioni dell’area CRS. Le più rilevanti per giro d’affari sono FSC (Forest Stewardship Council), che ha sviluppato il maggior incremento delle vendite (+1,0% annuo), Sustainable cleaning (+0,4%), relativa alla detergenza, e Friend of the sea (+0,3%), riferito ai prodotti ittici ottenuti in modo sostenibile.

Nei 12 mesi analizzati hanno aumentato la loro presenza sui prodotti le certificazioni Ecocert (+19,6% delle vendite) che certifica l’origine naturale o biologica delle materie prime impiegate in alimenti, cosmetici, detersivi e tessuti; UTZ (+16,2%), che garantisce la produzione sostenibile di the, caffè e cioccolato; Fairtrade (+8,5%), che garantisce il rispetto di migliori condizioni dei lavoratori nei paesi in via di sviluppo, ed Ecolabel (+4,4%) che attesta il ridotto impatto ambientale delle aziende che hanno ottenuto l’utilizzo del logo. Al contrario i prodotti presentati in etichetta come Cruelty free (esenti da test sugli animali) hanno accusato una flessione delle vendite di -3,4%, principalmente per la riduzione dell’offerta nei cibi per cani, nelle salviette per bimbi, nei dopo shampoo, nelle creme trattamento corpo e nei prodotti per la pulizia del viso.

Marchi europei

Si allarga l’offerta di prodotti biologici provenienti dall’Unione europea, riconoscibili dal logo EU Organic che arriva al 6,8% del paniere dell’Osservatorio Immagino, in particolare formaggio grana, uova, panificati senza glutine, surgelati vegetali e frutta secca sgusciata. Si registra però un rallentamento della crescita del valore delle vendite (+2,1% annuo rispetto a +6,2% del 2018 sul 2017).

Il marchio CE è invece presente solo sul 2,1% dei prodotti del largo consumo con un’incidenza dell’1,6% del valore delle vendite. Rispetto al 2018 l’offerta di beni dotati di questo riconoscimento è salita di +4,9% ed è aumentato il giro d’affari soprattutto di uova di Pasqua, dentifrici e prodotti per incontinenti.




Coca-Cola Hbc Italia punta sull’ecodesign, no a limiti su uso plastica riciclata

Coca-Cola Hbc Italia punta sull'ecodesign, no a limiti su uso plastica riciclata

Eco-design, ovvero la progettazione di imballaggi con un impiego sempre più efficiente dei materiali di cui sono composti: Coca-Cola Hbc Italia ci crede e infatti bottiglie e lattine, già da sempre al 100% riciclabili, hanno visto ridursi le quantità di plastica, vetro ed alluminio necessarie per produrle rispettivamente del 20%, 25% e 15%. E’ una delle azioni del principale imbottigliatore e distributore dei prodotti a marchio The Coca-Cola Company in Italia, raccontate nel 16esimo Rapporto di Sostenibilità “Siamo di casa”, pubblicato oggi. Un documento che certifica i risultati dell’azienda in tutte le aree del business, dal rapporto con le comunità locali all’ambiente, dalla presenza sul mercato al benessere delle circa 2.000 persone che lavorano tra gli uffici, i cinque stabilimenti e nella forza vendita.

Particolare attenzione alle sfide ambientali, dove gli investimenti dell’azienda vanno nell’ottica di un continuo miglioramento sia nelle diverse fasi del processo produttivo. “La sfida alla sostenibilità ci vede in prima linea proprio in virtù del rispetto verso i territori in cui operiamo. L’ecodesign rappresenta una frontiera importante su cui vogliamo continuare a investire per progettare ed è per questo che ci auspichiamo che il Parlamento e il Governo decidano di rimuovere il limite massimo all’uso di plastica riciclata al 50%, presente solo in Italia, così da permetterci di essere ancora più sostenibili e portare a reale compimento il concetto di economia circolare”, dichiara Vitaliy Novikov, amministratore delegato di Coca-Cola Hbc Italia.

Il decreto del 20 settembre 2013, n.134, infatti, impedisce alle imprese del settore di utilizzare plastica riciclata per più del 50%, limite che – fa sapere Coca-Cola Hbc Italia – impedisce quanto avviene già negli altri Paesi Europei dove la plastica utilizzata nelle bottiglie non è solo riciclabile ma anche riciclata, un freno a investimenti in sostenibilità e un limite ai principi di economia circolare a cui si ispirano le direttive Europee in tema di plastica monouso.

Anche per quanto riguarda i processi industriali, l’azienda pone la sostenibilità al centro, sia che si tratti della fase di produzione delle bevande, in cui viene utilizzata energia elettrica proveniente al 100% da fonti rinnovabili, sia che si tratti della logistica, dove il miglioramento dei flussi ha permesso un risparmio di oltre 1.400 tonnellate di CO2 solo nel corso dell’ultimo anno, o della presenza sul mercato dove l’introduzione di frigovetrine eco-friendly ad alta efficienza energetica hanno permesso di risparmiare oltre 3.700 tonnellate di CO2 nel 2019.

Il Rapporto di Sostenibilità, redatto e certificato secondo i parametri di rendicontazione internazionale più avanzati del GRI Standards, è disponibile integralmente sul sito www.lanostraricetta.it.




Acquisti: sostenibilità e csr spingono gli italiani verso nuovi brand

Acquisti: sostenibilità e csr spingono gli italiani verso nuovi brand

Due driver sempre più incisivi sugli acquisti food e non, con relativi loghi e certificazioni che si fanno spazio. I dati di tre ricerche sul tema

Attenzione a sostenibilità e csr in tutte le loro diverse sfaccettature: un trend che continua la propria ascesa presso i consumatori italiani, influenzandone le scelte di acquisto in ambito food e non solo. A confermarlo, fornendo importanti dati sul tema, sono tre nuove indagini: un report del Capgemini Research Institute, l’Osservatorio di Nomisma per Fileni, nonché la settima edizione dell’Osservatorio Immagino Nielsen GS1 Italy, che descrive a livello più ampio l’evoluzione delle etichette food e i claim di maggior successo.

Vediamo a seguire i punti più interessanti emersi dalle tre ricerche.

LA RICERCA DI SOSTENIBILITA’ PORTA A “BRAND MINORI”

Innanzitutto, secondo il report Capgemini il 53% dei consumatori e il 57% delle persone di età compresa tra 18 e 24 anni hanno iniziato ad acquistare prodotti di marchi meno conosciuti ma più sostenibili. Più della metà degli intervistati (52%) afferma di avere un legame emotivo con prodotti o aziende ritenuti sostenibili, mentre il 64% ha dichiarato che acquistare prodotti sostenibili li fa sentire meglio (percentuale che raggiunge il 72% nella fascia d’età 25-35 anni).

SPAZIO A LOGHI E CERTIFICAZIONI

Come rileva l’Osservatorio Immagino nel capitolo dedicato a sostenibilità e csr, nel 2019 le icone, i “bollini” e i marchi che forniscono informazioni e garanzie sui prodotti (come Cruelty free, Ecocert, Ecolabel, Fairtrade, Friend of the sea, Fsc, Sustainable cleaning e Utz) hanno continuato a guadagnare spazio sulle etichette dei prodotti di largo consumo presenti nei supermercati e negli ipermercati italiani e si sono confermati un elemento distintivo. Una tendenza che tocca tanto l’alimentare quanto il mondo della cura della casa, comparto dove i prodotti che hanno evidenziato in etichetta le loro caratteristiche green hanno registrato una forte accelerazione della crescita rispetto all’anno precedente: +10,9% di vendite contro il +3,1% del 2018.Pubblicità

I TREND ACCELERATI DAL LOCKDOWN

Parliamo di una generale sensibilità già precedentemente in via di sviluppo e che la pandemia pare aver accelerato. Secondo Capgemini, infatti, il 67% dei consumatori ha dichiarato che presterà maggiore attenzione alla scarsità delle risorse naturali, mentre il 65% ha affermato che, nella “nuova normalità”, sarà più attento all’impatto dei propri consumi.

Un’ulteriore conferma sul tema arriva dal relativo Osservatorio di Nomisma per Fileni. Il 22% dei consumatori dichiara di aver incrementato gli acquisti Made in Italy e Km 0, mentre il 28% ha cominciato ad acquistare prodotti alimentari provenienti da filiere corte proprio durante la quarantena. In crescita anche l’interesse verso i metodi di produzione biologica e sostenibile: durante il lockdown, il 20% degli italiani ha preferito cibi prodotti con metodi a basso impatto ambientale, il 12% ha acquistato prodotti alimentari con packaging sostenibile e il 30% ha sperimentato i prodotti biologici per la prima volta. In particolare, è il comparto dei freschi quello su cui si è concentrata maggiormente l’attenzione dello user bio: +10% nei primi 3 mesi del 2020, con picchi nell’ortofrutta (+15%) e nella carne (+31%). Riguardo alla carne, poi, due terzi degli italiani la cerca da allevamenti all’aperto, mentre 9 su 10 vogliono un packaging sostenibile.




I consumatori chiedono un nuovo brand activism fatto di azioni concrete

I consumatori chiedono un nuovo brand activism fatto di azioni concrete

Il sostegno a una o più cause non assolve automaticamente i brand dal tacere su altre problematiche sociali: il silenzio non è più neutrale

  • Durante l’ultima ondata di brand activism è emersa, come non mai, la richiesta di responsabilità e autenticità da parte dei consumatori.
  • La brand self awareness è un antidoto contro l’ipocrisia aziendale e deve per forza andare di pari passo con le dichiarazioni di sostegno alle cause sociali.
  • Le azioni concrete sono ciò che i consumatori chiedono. Al contrario, i brand non faranno altro che mettere in discussione la loro credibilità.

Nelle ultime settimane, sulla scia della campagna Black Live Matters, molti brand si sono espressi contro il razzismo. Alcuni hanno semplicemente dichiarato la propria solidarietà, altri – come Lego e Ben & Jerry’s – hanno invece annunciato azioni concrete. Scelte accomunate dalla stessa volontà di stare “dalla parte giusta della storia”, ma che hanno sortito nel pubblico reazioni diverse. Se alcune aziende sono state infatti lodate per il proprio impegno, altre sono state accusate di ipocrisia e opportunismo.

Brand activism, un fenomeno in crescita

Il motivo per cui il brand activism è un fenomeno in crescita appare chiaro. Secondo un recente sondaggio condotto dalla società di consulenza Edelmanil 60% degli americani boicotterebbe o comprerebbe da un marchio in base alla sua risposta alle proteste contro l’ingiustizia razziale. E il dato è ancora più alto tra i più giovani: il 78% dei millennials ritiene che anche i brand debbano alzare la voce, mentre il 70% delle persone tra i 18 e i 34 anni cambierebbe di conseguenza le proprie scelte di di acquisto. Ma già più di quattro anni fa il 66% delle persone era disposto a pagare di più pur di avere prodotti che rispettassero principi quali ad esempio la sostenibilità ambientale.

I consumatori ritengono che le marche abbiano la possibilità di produrre un impatto concreto sulla società. Lo studio di Sprout Social del 2019, ad esempio, rivela che secondo il 66% delle persone i brand hanno il potere di facilitare un cambiamento reale, mentre il 67% di esse pensa che le loro piattaforme – in particolare i canali social – siano efficaci nell’aumentare la consapevolezza riguardo le problematiche sociali. Insomma, parafrasando Spider-Man, secondo i consumatori da un grande brand derivano grandi responsabilità sociali.

Come ha sottolineato anche l’Outlook report quindi, sempre più la fiducia nel marchio non si basa solo sui suoi prodotti o servizi, ma anche sulle scelte etiche e politiche fatte dall’azienda che vi sta dietro.

brand activism

Perché i social media hanno cambiato tutto

Prima della nascita dei social media, i marchi non avevano canali di comunicazione diretta coi proprio clienti. Di conseguenza, i consumatori stessi non si aspettavano prese di posizione su tematiche sociali da parte dei propri brand preferiti. L’avvento dei social network ha invece aumentato le aspettative dei consumatori riguardo l’attivismo dei brand.

Del resto, l’ondata di indignazione in seguito all’uccisione di George Floyd non è stata guidata da testate giornalistiche o istituzioni, ma da persone comuni che hanno iniziato a condividere il proprio sdegno su Twitter e Facebook. In una simile situazione, coesistendo nello stesso spazio digitale, i marchi devono necessariamente inserirsi nelle conversazioni in modo pertinente. Ma non corrono il rischio di apparire opportunisti?

La domanda di autenticità da parte del pubblico

Molti dei più grandi brand mondiali erano rimasti in silenzio sul tema della violenza razziale fino al momento in cui hanno twittato #BlackLivesMatter. Per questo sono apparsi opportunistici. Certo, meglio tardi che mai. Ma il brand activism va costruito nel tempo, con costanza e soprattutto autenticità. L’autenticità non è qualcosa che può essere presa in prestito o prodotta da un giorno all’altro e il suo punto di partenza è la costruzione dell’attivismo di brand sui valori fondamentali del marchio stesso.

Ma il sostegno a una o più cause non assolve automaticamente i brand dal silenzio su altre problematiche sociali: il silenzio non è più neutrale. Ciò che allora può fare un marchio è inquadrare il proprio sostegno attraverso un approccio intersezionale. Ad esempio, se un brand è impegnato nella sensibilizzazione sul cambiamento climatico, in occasione di campagne contro il razzismo potrebbe sottolineare il concetto di sproporzionalità riguardo le conseguenze dei problemi ambientali sulle persone di colore.

Infine – ma non ultima – fondamentale per l’autenticità è la brand self awareness, la consapevolezza di sé da parte del brand. Un antidoto contro l’ipocrisia aziendale che deve per forza andare di pari passo con le dichiarazioni di supporto. Cioè, inutile twittare contro il razzismo, se al suo interno l’impresa stessa non è impegnata a sradicarlo. AmazonRalph Lauren e Next Door sono tre esempi di brand fortemente criticati per aver rilasciato dichiarazioni di sostegno ipocrite, perché in contrasto con problematiche interne.

brand activism

Una nuova era per il brand activism

Durante quest’ultima ondata di brand activism è emersa come mai prima d’ora una richiesta di responsabilità. Denunciare il razzismo sui social media non è attivismo di marca senza azioni a sostegno, e le azioni concrete sono ciò che i consumatori chiedono. Se al contrario un marchio è tutto parole e niente azioni, questo non farà altro che mettere in discussione la sua credibilità.

Denunciare l’ipocrisia aziendale non è mai stato così facile. Internet non dimentica mai, anzi sembra fatto apposta per riesumare i problemi del passato e di conseguenza responsabilizzare i brand su ciò che fanno nel presente.

Non basta aprire il libretto degli assegni per effettuare donazioni una tantum. Occorre invece cambiare la politica interna a favore dell’inclusione razziale, rivedere i prodotti perché non siano diffusori di pregiudizi, espandere la responsabilità sociale. Un cambiamento insomma non relegato alle strategie del reparto marketing, ma abbracciato da tutta l’azienda come valore chiave su cui lavorare.

È responsabilità di ciascuna impresa abbracciare e inserire la corporate social responsibility (CSR) all’interno della propria struttura aziendale. Magari non tutte diventeranno B Corps, ma qualche ritocco al modo in cui calcolano il risultato economico aziendale contribuirà a rafforzare la responsabilità interna nei confronti della società.

Insomma, nonostante le reazioni dei brand al movimento Black Live Matters siano state talvolta superficiali, la nuova domanda di responsabilità potrebbe provocare nei marchi riflessioni più profonde e portare infine a cambiamenti sostanziali nell’autenticità del loro attivismo.

Questi valori sono già radicati nel DNA del vostro marchio? Benissimo! Altrimenti, questo è il momento di iniziare.