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Covid-19: quale la fiducia dei cittadini nell’operato dei Governi?

Covid-19: quale la fiducia dei cittadini nell'operato dei Governi?

IPSOS France ha recentemente pubblicato un sondaggio d’opinione su un campione rappresentativo di 10.000 persone che analizza il livello di fiducia nei confronti delle istituzioni nella gestione della crisi Covid-19 mettendo a confronto Italia, Francia, Austria, Germania, Svezia, Gran Bretagna e Nuova Zelanda. I risultati sono interessanti.

Fiducia negli attori

In tutti i paesi i giornalisti godono di scarsa fiducia e compaiono in fondo alle rispettive classifiche (Italia 34%). In Italia godono della massima fiducia medici (89%) e scienziati (86%) in linea con gli altri paesi. Il nostro Presidente del Consiglio raccoglie il 58% di fiducia due punti percentuali in più rispetto ai Sindaci. Scarsa invece la fiducia nel Governo e nelle imprese che raccolgono solo il 41%.

In Francia posizione critica nei confronti sia del Governo sia del Presidente della Repubblica che raccolgono rispettivamente il 35% e il 38% della fiducia dei cittadini. In Nuova Zelanda il Primo Ministro si attesta all’85% e il Governo al 76%. Interessante anche il dato dell’Austria con il Cancelliere austriaco al 75% e il suo Governo al 76%. I dati riflettono chiaramente la percezione di come sia stata gestita la crisi.

L’operato dei capi di governo e di stato

Ancora una volta molto critici i francesi con il 42% che dichiara la propria insoddisfazione nei confronti dell’operato Emmanuel Macron. Sul lato opposto dello spettro Jacinda Ardern la prima ministra della Nuova Zelanda che aveva già dato dimostrazioni di grandi capacità in occasione dell’attentato di Christchuch il 15 marzo 2019 (77% piena soddisfazione) e il giovane cacelliere austriaco Sebastian Kurz (61%). A metà classifica il Presidente del Consiglio Italiano Giuseppe Conte: 22% degli italiani si dicono insoddisfatti del suo operato, 37% non esprimono opinione, 41% lo approvano. Un risultato medio (5,5) superiore tuttavia solo a Francia (4,1) e Svezia (5,2).

Pessimismo vs ottimismo per il futuro

I paesi nei quali i cittadini percepiscono che la crisi sia stata gestita meglio guardano al futuro con maggiore ottimismo. E’ il caso della Nuova Zelanda (59%) e dell’Austria (51%). Particolarmente pessimisti invece francesi (43%) e italiani (34%). Tra questi ultimi solo il 18% esprime ottimismo mentre il 48% non sembra avere idee chiare in merito.

Le conseguenze economiche della pandemia

Elevata la percezione delle conseguenze economiche della pandemia e giudicate gravi ovunque con valori che si attestano sopra al 84%. I più preoccupati sono gli italiani (93%) seguiti dai francesi (93%). I più “tranquilli”? I tedeschi (84%).

La gestione da parte dei governi…

Il grado di soddisfazione nella capacità dei governi di pilotare la crisi varia molto a secondo dei paesi. In Nuova Zelanda (91%), Austria (84%) e Germania (74%) i cittadini esprimono elevati livelli di soddisfazione. Poco più sotto Svezia (70%) e Gran Bretagna (61%). Divisi gli italiani con solo il 55% che si ritiene soddisfatto per la gestione da parte del Governo mentre sono nuovamente nettamente critici i francesi, il 62% di quali in base al sondaggio esprime insoddisfazione.

… e da parte dell’Unione europea

Molto scarso il livello di approvazione su come si è mossa la Ue nell’ambito della problematica Covid19. Solo 8 italiani su 100 approvano l’operato dell’Unione europea, 9 su 100 i francesi e leggermente più benevoli austriaci (16%) e tedeschi (25%). Escludendo quanti hanno espresso un parere neutro i più critici risultano essere gli italiani (51%) seguiti da austriaci (41%), francesi (38%) e tedeschi (27%).

Valutazione delle misure sanitarie ed economiche

Interessante la valutazione che gli italiani danno alle misure adottate dal Governo per tutelare la salute e l’economia. Se da un lato infatti il 72% degli italiani ritiene adeguate (sufficienti+un pò esagerate+molto esagerate) le misure adottate in campo sanitario ben diverso il giudizio sulle misure di carattere economico giudicate insufficienti dal 55% degli intervistati. Si tratta del giudizio più negativo tra i paesi oggetti del sondaggio. Giudizi lusinghieri ancora una volta in Nuova Zelanda dove solo il 21% ritiene le misure insoddisfacenti e Austria (20%).

La trasparenza

Uno degli elementi che contribuisce a costruire la fiducia è la trasparenza. Questa si esprime attraverso le scelte di comunicazione. Interessante in questo contesto osservare i giudizi dei cittadini dei 7 paesi oggetto dell’indagine.

Ancora una volta la Nuova Zelanda riceve anche sotto questo profilo il massimo gradimento. I cittadini neozelandesi si fidano del loro governo e ritengono a maggioranza (59%) improbabile che questi abbia nascosto loro informazioni sul Covid-19. Seguono i cittadini svedesi (53%). Distanziati i tedeschi (37%), gli austriaci (36%), i britannici (23%) e i francesi (17%).

In Italia solo il 22% degli intervistati pensa che il Governo sia stato trasparente, il 36% non esprime opinione e il 42% ritiene invece che ci siano buone probabilità che il Governo stia nascondendo ai cittadini delle informazioni.

E seppure gli scienziati godono in Italia del 86% di fiducia da parte degli intervistati, ben il 40% ritiene che vi siano buone probabilità che anch’essi stiano nascondendo informazioni ai cittadini.

La tracciabilità dei movimenti (App)

Tra le domande poste sul gradimento o meno di alcune delle misure adottate per contrastare il virus quella sulla tracciabilità dei contatti (App) mi sembra particolarmente interessante. In questo caso gli italiani sono i più favorevoli al suo utilizzo con il 55%. Si tratta dell’unico paese dove la maggioranza è a favore insieme alla Nuova Zelanda (52%). Appaiono molto più preoccupati delle ricadute sulla privacy gli austriaci con solo il 31% a favore. Tutti gli altri paesi si attestano tra il 34% e il 46%.

Conclusioni

Il sondaggio mette in evidenza alcuni aspetti interessanti:

  • l’Europa, nella percezione dei cittadini intervistati, è la grande assente nella gestione della crisi Covid-19. La sensazione diffusa è che ciascun paese abbiamo operato per conto proprio. Potremmo dire un’altra occasione persa.
  • Nei paesi dove i cittadini percepiscono la crisi sia stata ben gestita (Nuova Zelanda e Austria) la fiducia nei confronti di Capi di Stato e dei governi è molto alta. Questo si traduce anche in una maggiore ottimismo per il futuro.
  • In Italia seppure il Presidente del Consiglio, unico volto della crisi, raccoglie il 58% di fiducia, il Governo si attesta solo al 41%. Questo dimostra che l’assenza dal palcoscenico mediatico/informativo di singoli ministri direttamente interessati dalla crisi è un errore.
  • Grande fiducia in Italia nei medici e negli scienziati. Anche qui come nel caso dei ministri deve far riflettere il fatto che il Governo italiano, a differenza di altri, non abbia un portavoce scientifico. E anche questo è un grave errore.
  • Anche se in Italia riscuotono un livello di fiducia del 41%, il più alto tra i paesi sondati, le imprese escono macolconce dall’indagine IPSOS.
  • La polarizzazione, la spettacolarizzazione della notizia, l’incapacità di interpretare il giornalismo come strumento di approfondimento e controllo dell’operato di chi governa sono tutti fattori che nel corso degli ultimi decenni hanno compromesso la fiducia dei cittadini nei confronti dei giornalisti. Il risultato dell’indagine non sorprende, semplicemente conferma.
  • Gli italiani intesi utilizzatori di tecnologia consumer ma con un livello di conoscenza scientifico/tecnologica piuttosto scarso sono quelli meno preoccupati dal tracciamento elettronico, tematica invece molto sentita in altri paesi.
  • La percezione di trasparenza nasce da una comunicazione chiara, puntuale e autorevole. In situazione di crisi i deficit di trasparenza percepiti dai cittadini sono spesso il risultato di strategie di comunicazione di crisi che invece di rassicurare contribuiscono alla confusione.



Save the Duck sarà carbon neutral entro il 2030

Save the Duck sarà carbon neutral entro il 2030

Il marchio di piumini ‘animal free’ pubblica il Bilancio di Sostenibilità, prima azienda fashion in Italia certificata B Corp

Save The Duck, marchio di piumini 100% ‘animal free’, diventerà carbon neutral entro il 2030, impegno preso insieme con 500 società B Corp da tutto il mondo e raccontato nel secondo Bilancio di Sostenibilità dell’azienda con quartier generale a Milano. Alcuni dei punti focali del 2020 saranno la diminuzione dell’utilizzo di materiali contenenti Pfc e l’aumento della percentuale di tessuti riciclati all’interno delle collezioni (obiettivo esteso anche per il 2021).

L’azienda, inoltre, punta a mantenere un volume di donazioni pari all’1% del suo fatturato, come già accaduto nel 2019, a sostegno di iniziative di associazioni e organizzazioni italiane e internazionali che hanno l’obiettivo di proteggere gli animali, salvaguardare le risorse naturali e del pianeta e tutelare i diritti dell’uomo.

“Il 2019 – racconta Nicolas Bargi, amministratore delegato di Save the Duck – è stato un anno carico di impegni importanti: siamo diventati una Società Benefit e abbiamo ottenuto la certificazione B Corp, primi in assoluto nel mondo fashion in Italia. Ogni giorno di più il nostro percorso verso la sostenibilità si arricchisce e penetra ogni area operativa. Siamo orgogliosi di fare la nostra parte nel processo di cambiamento necessario al raggiungimento di traguardi sempre più sostenibili”.

Al fine di raggiungere l’obiettivo fissato per il 2030, Save The Duck si impegna a misurare la propria carbon footprint, estendendo la tracciabilità delle emissioni lungo l’intera value chain, ovvero dall’estrazione e lavorazione delle materie prime fino al fine vita dei prodotti, e a definire una strategia di neutralizzazione graduale della carbon footprint aziendale.

Nel 2019 il brand è diventato Società Benefit e ha ottenuto la certificazione B Corp, che distingue le aziende che volontariamente rispettano i più alti standard di responsabilità e trasparenza in ambito sociale e ambientale. Essere B Corp significa infatti dare lo stesso peso agli obiettivi economico-finanziari e agli obiettivi di impatto sociale e ambientale. Inoltre, a inizio 2020 l’azienda ha aderito all’United Nations Global Compact, il patto mondiale delle Nazioni Unite che incoraggia le aziende a condurre il proprio business responsabilmente, perseguendo gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile 2030 targati Onu.

I capi dell’azienda sono 100% animal cruelty free. Per questo, nel 2019 l’azienda guidata da Nicolas Bargi è stata dichiarata “Azienda dell’Anno” dalla no-profit a sostegno dei diritti degli animali Peta (People for Ethical Treatment of Animals). Tra gli altri riconoscimenti, la menzione speciale al Premio Eccellenze d’Impresa 2019 di Gea, Harward Business Review Italia e Arca Sgr, nella categoria “crescita e sostenibilità”, dedicato a imprese operanti in Italia che si siano distinte per prestazioni straordinarie in termini di innovazione, internazionalizzazione, crescita e sviluppo dei talenti.




Perché la comunicazione sul Covid 19 è sempre più caotica

Perché la comunicazione sul Covid 19 è sempre più caotica

Stiamo attraversando, in questi giorni, il momento più incerto e confuso della quarantena. Non siamo ancora entrati nella cosiddetta Fase 2, ma tutti i media ne parlano da giorni in modo martellante. E mentre parlano, parlano, tutto ci appare sempre più caotico. Cosa sta succedendo? Proprio ora che i decessi, i contagi, le terapie intensive sono in lenta ma costante diminuzione, proprio ora che le cose dovrebbero andare meglio, entriamo in confusione?

Intendiamoci, il caos sul Coronavirus c’è sempre stato, non solo nella comunicazione ma nei fatti, e non solo in Italia ma in molti altri paesi, perché nessuno al mondo era preparato a una pandemia di tale gravità. E tuttavia, i media italiani hanno alcuni vizi che aggravano il disordine in cui già versa la politica nostrana, a tutti i livelli, dal centro alle periferie del paese. Cerco allora di offrire tre chiavi di lettura per orientarsi nell’attuale caos politico-mediatico, perché questo ci accompagnerà, temo, per un bel po’.

I conflitti fanno notizia

Oggi, come sempre, i mezzi di comunicazione vanno a caccia di ciò che fa notizia. E anche oggi, come sempre, le tragedie e i conflitti sono i candidati più forti per la notiziabilità. Ora, il nemico numero uno di questo momento storico, quello contro cui tutto il mondo concentra le sue forze, è ovviamente il Covid 19. Detto in altri termini, il virus sta al centro dell’attenzione per ragioni non solo oggettive (dobbiamo sconfiggerlo al più presto per evitare troppi decessi e tornare alla vita di prima), ma anche mediatiche. Tuttavia il virus occupa la scena da troppo tempo, ormai, e come tale rischia di perdere capacità di attrazione giorno dopo giorno: gli essere umani ­– triste, ma vero – si abituano a (quasi) tutto, anche a convivere con un pericoloso nemico sconosciuto, invisibile e onnipresente. Perciò, per mantenere desta l’attenzione, i media devono continuamente trovare altri conflitti, per condire quello centrale e rinnovarne l’appetibilità.

È così che vanno intesi i continui contrasti fra virologi, immunologi, epidemiologi. Ed è così che dobbiamo leggere – almeno in parte – anche la litigiosità della nostra classe politica. La politica italiana, infatti, pur essendo molto conflittuale anche in tempi ordinari, dovrebbe pur capire che litigare proprio ora non produce consenso. Eppure, non resiste alla tentazione di rubare la scena sferrando attacchi a destra e a manca, non solo per la normale dialettica fra maggioranza e opposizione, ma persino dentro la maggioranza (Pd contro Cinque Stelle, Italia Viva contro tutti) e dentro l’opposizione (Forza Italia contro Lega e Fratelli d’Italia).

Non sto dicendo – attenzione – che i politici non litighino davvero, né che gli scienziati non diano in realtà interpretazioni contrastanti dei comportamenti del virus e della pandemia. Dico che i media tendono a ingigantire e amplificare, per assicurarsi audience, lettori e clic, anche la più insignificante disputa fra politici, anche la più lieve difformità di vedute fra scienziati. Ogni scintilla, sotto una lente d’ingrandimento, divampa. E se le scintille sono minuscole ma numerose, ecco che scoppia l’incendio. Fuor di metafora, è così che si spiegano le incessanti e fastidiose polemiche a cui l’intero sistema mediatico, dalla televisione al web, ci costringe tutti i giorni: un po’ sono reali, ma spesso sono esasperate dai media.

Sembra purtroppo che i media non capiscano che, al contrario, ciò che in questo momento più vorremmo sentire, la notizia a cui daremmo la massima attenzione, sarebbe la capacità del governo di collaborare, di ridurre le differenze e spegnere i conflitti, per sconfiggere il virus e affrontare la gravissima crisi economica.

Le probabilità diventano certezze

Per le donne e gli uomini di scienza è cosa ovvia: la medicina non produce mai certezze, ma sempre e solo probabilità. Gli organismi umani sono troppo complessi, le variabili genetiche e ambientali troppo numerose, l’incidenza di fattori psicologici troppo sottile per permettere alla medicina di fare previsioni certe sulla durata, l’intensità e l’esito di malattie anche non gravi, anche ben conosciute, persino banali. Figuriamoci se la medicina può riuscire a dare certezze su un virus nuovo e sconosciuto.

La medicina può sempre e solo accompagnare le sue affermazioni con un “forse”, un “probabilmente”, un “se non intervengono altri fattori… possibilmente”. Non ci sono certezze, insomma, nemmeno sull’andamento di un banale raffreddore, che nella grande maggioranza dei casi dura pochi giorni, ma a volte può finire in bronchite e addirittura in polmonite. A maggior ragione questo è vero per la vastissima gamma di esiti legati all’infezione del Covid 19: dalla totale assenza di sintomi, a qualcosa che sembra un’influenza, fino al decesso. Un virus che è riuscito a stupire, e ancora stupisce, tutti i virologi e le virologhe del mondo.

Il problema è che probabilità, percentuali e statistiche non funzionano nella comunicazione di massa. Non si comincia un titolo con un “forse”, né tanto meno con un “probabilmente”. I media hanno bisogno di formule drastiche, di contrapposizioni forti e affermazioni certe. Soprattutto in un paese come il nostro, in cui l’alfabetizzazione scientifica e matematica è fra le più basse d’Europa, per cui numeri e percentuali mettono in difficoltà la maggior parte delle persone. E soprattutto per il giornalismo nostrano, che non si è mai distinto – a parte pochissime eccezioni – per doti di divulgazione scientifica.

Perciò, quando un epidemiologo dice “Probabilmente fra una settimana capiremo meglio l’andamento dei contagi”, la notizia diventa “Fra sette giorni, chiarezza sui contagi”. Quando una virologa dice “Stiamo per testare un vaccino sui primi volontari”, la notizia diventa “Pronto il vaccino, sperimentazione su cavie umane”. Perciò, quando passa la settimana e ne occorre un’altra, e forse un’altra ancora, perché gli scienziati possano capirci qualcosa, per l’epidemiologo era chiaro dall’inizio, e infatti l’aveva detto, ma per la massa è un dietrofront. E se il vaccino non è pronto come i media strillano – anche se la virologa non l’ha mai detto – al pubblico appare un controsenso.

I retroscena diventano gossip

Escher, Vincolo d’unione – 1956

Nella comunicazione politica il retroscena è tutto ciò che accade nei corridoi del potere, quello che i media carpiscono ai portaborse, alle collaboratrici e ai collaboratori della politica, che ufficiosamente anticipano, interpretano e integrano le dichiarazioni ufficiali. Prima, durante e dopo ogni comunicazione ufficiale, è tutto un fermento di vociallusioniinsinuazioni.

Il giornalismo di retroscena c’è da sempre. Ed esiste in tutto il mondo, non solo in Italia. Uno degli obiettivi dei media, come ho detto, è raccontare i conflitti. Obiettivo del giornalismo politico, dunque, è raccontare la lotta per il potere, un racconto che diventa molto più avvincente se viene condito con ciò che non si vede e non si sente, con quello che non è detto ufficialmente né mai lo sarà.

Ora, il giornalismo di retroscena più serio nasce da una ricostruzione minuziosa di informazioni che vengono da fonti confidenziali, con le quali i media stringono un patto di riservatezza: anonimato in cambio di affidabilità. Ai media sta poi l’onere (e l’onore) di essere credibili: la politica smentirà sempre ciò che non ha mai dichiarato apertamente, perciò il pubblico dovrà scegliere a chi credere, se al retroscena o alle smentite ufficiali. Se la ricostruzione mediatica è ben fatta, coerente e plausibile, ottiene la fiducia del pubblico.

Nei casi migliori, questo tipo di giornalismo è di altissima qualità: smaschera intrighi, provoca scandali, anticipa inchieste giudiziarie. Nei casi di collusione, è pilotato dalla stessa politica, che ad esempio lo usa per dare più rilievo a contenuti che, se dichiarati apertamente, non otterrebbero la stessa attenzione, o lo usa per scambiare messaggi in codice con altri gruppi di potere. Nei casi peggiori, il retroscena diventa vezzo, maniera o, peggio ancora, gusto per il pettegolezzo, che sembra un po’ meno plebeo se si chiama gossip.

Ebbene, il Coronavirus sta facendo emergere dai media italiani il peggiore giornalismo di retroscena cui abbiamo mai assistito. Prima di ogni uscita pubblica del Presidente Conte, ad esempio, viviamo giorni di continue congetture e supposizioni, provenienti da non si sa quale fonte, che solo in parte sono poi confermate dalla dichiarazione ufficiale e dal decreto relativo. Ore e ore di polemiche, prima ancora che il Presidente parli, su ciò che da tal giorno si potrà o non potrà fare, in casa, per strada, in regione, fuori regione, nel commercio, nell’industria, nella vita privata.

Gossip e chiacchiericcio della peggiore risma, a cui poi si aggiungono effettivi cambiamenti di rotta, parziali o totali, a volte dovuti a mutamenti oggettivi della situazione, a volte decisi per rispondere alle parti sociali o evitare ulteriori polemiche, a volte determinati dal semplice fatto che le anticipazioni erano sbagliate. Ma non basta: anche le voci fra le varie componenti del governo sono a volte dissonanti, per ragioni analoghe: difficoltà oggettive, fraintendimenti fra loro e con i media, retroscena sbagliati.

Tirando le somme, in questo momento il vero, il parzialmente vero e il falso convivono sfacciatamente, si fondono e confondono ancor più che in tempi normali, e per giunta vengono sempre confezionati nel linguaggio esagerato e banalizzante di cui dicevo, massimamente inadeguato a riportare le parole della scienza. Chiaro che il caos raggiunga il massimo, un caos di cui in parte sono responsabili la classe politica e i suoi numerosissimi consulenti, in parte sono responsabili i media, in dosaggi variabili e non sempre chiari, in parte siamo responsabili noi stessi, quando riportiamo sui social media, e altrove, notizie che non abbiamo mai capito né verificato.

Questo caos è già pesante in condizioni di normalità, ma purtroppo ci siamo abituati. Ora però non è più tollerabile, perché non si parla più di scaramucce fra parti, partiti e partitini, ma sono in gioco le nostre vite, il nostro lavoro, la nostra salute fisica e psicologica, quella delle persone anziane, che rischiano più di tutti, il futuro nostro, dei nostri bambini e delle nostre bambine. Se tutta la classe politica e tutte le testate giornalistiche non capiranno, se tutti noi, quando contribuiamo al chiacchiericcio con superficialità, non capiremo che cambiare registro e modalità è un’urgenza etica, non solo comunicativa, il caos continuerà e peggiorerà.




L’invenzione #WhenWetravel Again; i viaggi dei sogni si raccontano in un tweet

L'invenzione #WhenWetravel Again; i viaggi dei sogni si raccontano in un tweet

Irlanda. Il successo dell’iniziativa dell’editor della sezione travel del quotidiano Irish Independent: c’è chi posta quello che pensa di fare a quarantena ultimata, chi racconta ciò che il viaggio rappresenta per lui

Forse più dei viaggi in realtà virtuale o aumentata, più delle applicazioni o delle esperienze a distanza, pur sempre incredibilmente coinvolgenti, può la suggestione. Meglio: la nostalgia, gli obiettivi, la memoria. Anzi: i sogni. Per questo Pól Ó Conghaile, un editor di viaggi che lavora per il quotidiano Irish Independent, ha lanciato un’operazione su Twitter. Racchiusa in un hashtag di successo che, da solo, dice tutto: #WhenWeTravelAgain. Quando torneremo a viaggiare, o quando viaggeremo ancora. E che sta spopolando sul social dell’uccellino. Mentre metà dell’umanità è chiusa in casa per le misure più o meno stringenti legate al contenimento del coronavirus – a quasi quattro miliardi di persone è chiesto (e in certi casi ordinato) di rimanere nelle proprie abitazioni e limitare al massimo gli spostamenti, autorizzati solo per questioni essenziali – il reporter ha immaginato una specie di riflessione collettiva in digitale. Sulle mete che vorremmo visitare per prime, una volta recuperata la libertà. Sul significato intimo di “viaggiare”. Ma anche un modo per respirare, almeno per un attimo, dalla cascata di angoscianti notizie su Covid-19.

“Trovo molto difficile osservare la natura da uno schermo e sono sovraccarico, come tutti, dalla mole di notizie sul coronavirus” ha spiegato a Lonely Planet. “Così un giorno ho fatto una passeggiata per schiarirmi le idee e ho iniziato a pensare a dove vorrei andare quando tutto sarà finito. Mi ha fatto sentire bene, e così ho deciso di condividere l’idea”. Uno spunto semplice ma di successo. Basta scorrere i contenuti pubblicati su Twitter sotto quell’hashtag per godere di un incredibile giro del mondo non solo fra le destinazioni dei sogni delle persone, spesso meno esotiche di quanto si pensi, ma anche nelle loro menti e nei loro pensieri. C’è chi vorrebbe farsi una birra di fronte al selciato del gigante, un affioramento roccioso molto particolare in Irlanda del Nord, a pochi chilometri da Bushmills, composto da 40mila colonne basaltiche di origine vulcanica e intorno al quale ruotano storie e leggende. Oppure chi condivide vecchie foto di viaggio, dai bambini indiani agli avvolgenti tramonti dai rooftop di Hong Kong.

L'invenzione #WhenWetravel Again; i viaggi dei sogni si raccontano in un tweet

Ciascuno posta la sua foto, spesso con una frase, un verso, un pensiero o una citazione che rafforzano e spiegano le ragioni di quella scelta, cercando di lenire la nostalgia per una dimensione evidentemente centrale per la nostra vita. Chi non smette di sognare le camminate nel Connemara, l’aspra e meravigliosa regione nella contea di Galway, in Irlanda, chi invita i viaggiatori (per ora solo social) in Puglia, a Martina Franca, e chi dice che vorrebbe tornare presto a Roma, Venezia, Bologna e Ravenna. Spazio ovviamente anche per contenuti più leggeri, come chi sogna – più prosaicamente – una paella in Andalucia o chi rimarrebbe soddisfatto semplicemente di farsi una bella nuotata vicino casa o nel suo posto segreto del cuore. Ancora, molti utenti pubblicano foto di animali selvatici dal Sudafrica, skyline di metropoli in giro per il mondo, tramonti dal deserto nei pressi di Dubai, suggestive immagini scattate nel corso di un volo aereo, i ponti di New York e mille altre sfumature del viaggio.

Tutto è iniziato quando Ó Conghaile ha postato il 30 marzo scorso, primo di questa lunga catena digitale, l’immagine di un surfer su una spiaggia deserta di Dunfanaghy, un piccolo centro della costa settentrionale del Donegal, meta turistica sull’Atlantico settentrionale. Dice di aver scelto questa immagine per il suo forte significato di libertà. Quella libertà che oggi ci manca ma che torneremo ad avere in futuro. La risposta al suo tweet e all’operazione è stata enorme e così, ogni giorno alle 8 di sera, il reporter sceglie la sua preferita del giorno e la rilancia. Continuando ad alimentare questa traversata collettiva fra ricordi e desideri, frustrazioni e ambizioni per i prossimi mesi.

“Sono state pubblicate centinaia di foto, dall’Opena House di Sydney ai caffè parigini o i fari della Wild Atlantic Way fino alle spiagge sabbiose dell’Algarve”, in Portogallo, spiega il giornalista. “Senz’altro è triste non poterli visitare oggi, ma ricordarli e osservarli è anche estremamente ispirante”. Cosa sta uscendo da questa seduta di condivisione sulla piattaforma statunitense? Secondo l’inventore dell’hashtag il tema forte è ovviamente la mancanza generalizzata del viaggio: “Il mondo si è ristretto in modo velocissimo – spiega ancora – anche se ci sono pure altri spunti. Il mare e gli oceani sono estremamente presenti, e credo dipenda dal fatto che la loro placidità sia un sollievo in questa fase. Non mancano grandi momenti come i safari ma anche quelli più piccoli, come le camminate nei pressi di casa. Non c’è un solo modo di viaggiare”.

Ancora poche settimane fa, per una manciata di euro, si poteva decollare per quasi qualsiasi posto in Europa. “Adesso è impossibile – chiude Ó Conghaile – e dobbiamo ritrovare il nostro equilibrio”. Per quanto lo riguarda, vorrebbe visitare i paesi sull’oceano indiano anche se intende prima completare la sua meta preferita: l’Irlanda. “Adesso siamo costretti a terra ma trovo ogni giorno nuove ispirazioni per viaggi futuri grazie alle fantastiche immagini condivise con #WhenWeTravelAgain”.




Di quale leader avremo bisogno nella “nuova normalità”?

Di quale leader avremo bisogno nella “nuova normalità”?

Nelle ultime settimane, lo smart working è stato al centro delle conversazioni sul business, e l’adattamento al lavoro da casa sta anche mettendo in luce i difetti delle aziende. Le tensioni culturali e le rotture tra le funzioni dei team sono intensificate dal lavoro da remoto. Il carattere e la resilienza delle persone sono messi alla prova, così come la nozione di leadership in sé. 

La maggior parte dei leader è stata formata per guidare un’azienda in tempi di normale lavoro, non di incertezza e ambiguità. Questa crisi ci ricorda che il mondo non è prevedibile e lineare, e che il nostro modello di leadership attuale non funziona più. Il coronavirus, infatti, sta mostrando l’incapacità dei leader di prepararsi a un disastro e di adattarsi prontamente alla situazione di emergenza. Molti Capi di Stato hanno fallito nell’adattarsi e nell’agire rapidamente, e un approccio del tipo “command & control” ha solo peggiorato le cose. Come sostiene Manley Hopkinson, un officiale della Marina durante la prima Guerra del Golfo, “è di vitale importanza che i leader resistano alla tentazione di centralizzare il controllo. La tentazione dei leader, in un momento di crisi, è quella di porsi al centro di tutte le attività, ma ciò di cui abbiamo bisogno è esattamente l’opposto”. Per collaborare in tempi di crisi serve avere un’intesa comune, fiducia e feedback. La pandemia da COVID-19 mette in risalto che la malsana idea di leadership che si è diffusa – un leader romanzato e descritto da film, libri di management, citazioni e discorsi motivazionali – non funziona più. Ci siamo fatti un’idea sbagliata dei leader, e tendiamo a scegliere come leader delle persone che si dimostrano forti, determinate e al controllo delle cose. Le ricerche mostrano che in realtà avremmo bisogno di tutt’altro: essere sicuri di sé non rende le persone competenti. L’arte di essere un leader ha poco a che fare con la singola persona e si concentra di più sul fatto di portare a termine delle azioni. Essere un leader significa possedere un set di comportamenti, non essere un supereroe. Potenzialmente, tutti potrebbero – e dovrebbero – essere un leader del cambiamento. La leadership collettiva è ciò di cui abbiamo bisogno in questi tempi incerti. Abbiamo bisogno di una rivoluzione, e di creare un nuovo modello di leadership. Il primo passo è quello di sbarazzarci delle etichette, e di concentrarsi sulle meta-abilità, perfezionando quelle abilità che ne incrementano o attivano altre. Ecco le più importanti:

  1. Aumentare la consapevolezza di sé: per aumentare le performance dei team, è necessario migliorare la propria consapevolezza, in modo da contribuire allo sviluppo di una leadership efficace e migliorare le performance. 
  2. Essere empatico: l’empatia è il saper comprendere profondamente ciò che stanno attraversando le altre persone. È parte della natura umana, ed aiuta a incrementare il livello di intimità e di fiducia. 
  3. Promuovere la sicurezza psicologica: tutte le voci delle persone in gioco devono essere ascoltate, e le persone devono sentirsi a loro agio nell’esprimere i propri pensieri, soprattutto quelli meno popolari, per poter poi agire su di essi.
  4. Adottare l’umiltà intellettuale: un leader umile desidera scoprire la verità, non vincere una discussione. L’umiltà come meta-abilità ispira collaborazione, apprendimento e favorisce migliori performance. 
  5. Sviluppare una leadership collettiva: guidare un’azienda non è un’attività individuale. La leadership collettiva favorisce la concezione di vivere in una società globale, in cui il benessere di tutti conta in egual modo. 
  6. Bilanciare l’onestà con l’ottimismo: l’idea che i leader devono proteggere gli altri è pericolosa. Non abbiamo bisogno di eroi, ma di persone umane che non considerano gli altri come anelli deboli. Edulcorare la verità può essere controproducente per la fiducia che i collaboratori ripongono nel leader. 

Serve una rivoluzione nella leadership, per liberarsi delle etichette e iniziare a creare un nuovo modello di approccio a questa nuova situazione e sviluppare queste meta-abilità è fondamentale per essere efficaci.

Leggi l’articolo completo di Gustavo Razzetti su www.liberationist.org