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Come è (in parte) mutata e come è percepita la pubblicità ai tempi del coronavirus

Come è (in parte) mutata e come è percepita la pubblicità ai tempi del coronavirus

Quali cambiamenti si possono notare nella pubblicità ai tempi del coronavirus? E che percezione ne hanno gli italiani in questo periodo?

Dall’inizio della diffusione del coronavirus molte cose sono cambiate, per i consumatori tanto quanto per i produttori e i brand. Da un lato, non potendo uscire di casa ed essendo in isolamento, i consumatori hanno mutato le loro abitudini, dall’altro molte aziende hanno dovuto ripensarsi, reagendo con immediatezza alle esigenze imposte dal periodo, come hanno fatto, ad esempio, i brand di moda con varie iniziative per contrastare l’emergenza coronavirus.
Se produzione e consumo di prodotti e servizi si sono trasformati in risposta alle problematiche attuali, non potevano che adeguarsi anche le comunicazioni (personali e aziendali), nelle forme quanto nel contenuto: la pubblicità ai tempi del coronavirus, così, è inevitabilmente cambiata.

PERCHÉ E COME È IN PARTE CAMBIATA LA PUBBLICITÀ AI TEMPI DEL CORONAVIRUS: ALCUNI ESEMPI

onsiderando le diverse direttive che i cittadini sono stati chiamati a rispettare, infatti, alcuni brand si sono domandati se fosse opportuno continuare a diffondere le comunicazioni pubblicitarie, già realizzate e semmai anche lanciate in precedenza, basate su concetti quali la vicinanza fisica alle persone care, il viaggiare, il mangiare fuori casa, il fare la spesa in punti vendita, e così via.
Detto in altri termini, la domanda che si sono posti i brand sarebbe la seguente: la pubblicità che esprime una “vita normale” può suscitare un effetto straniante nei consumatori e addirittura infastidire oppure permette un’evasione momentanea, potendo sognare e desiderare di tornare alla “normalità”?

Ogni brand ha dato una propria risposta: c’è chi ha deciso di sospendere del tutto comunicazioni di tipo pubblicitario, chi ha provveduto a modificarle, chi invece ha mantenuto la linea seguita già in precedenza. Ovviamente, non c’è una risposta corretta in assoluto e la sola regola da seguire è di restare sempre coerenti al proprio tone of voice e al proprio target rispettando la situazione.

Hershey, ad esempio, ha optato per lo stoppare provvisoriamente spot pubblicitari che mostrano abbracci, per spostare l’attenzione sui prodotti, e Nike ha invitato ad allenarsi a casa, immettendosi nel flusso di iniziative del tipo #iorestoacasa. Anche altri brand hanno cercato di comunicare in modo chiaro la necessità di tenere una distanza sociale (fisica) e di non uscire di casa se non per urgenze, come ha fatto Audi in un breve video che stacca i tre cerchi solitamente uniti nel logo , mentre alcune campagne, come quella attribuita a Netflix e legata al claim «stai a casa o Netflix ti spoilera i finali» si sono rivelate non lanciate direttamente dal brand (in questo specifico caso la finta campagna è diventata velocemente virale, costringendo Netflix a pubblicare una specifica sui propri canali social ufficiali).

Focalizzato sulla possibilità di comunicarelavorare, condividere a distanza è il nuovo spot realizzato da Vodafone con il coinvolgimento dei clienti della compagnia telefonica, ai quali è stato chiesto di registrare dei brevi video mentre svolgevano diverse attività in casa.

Barilla, invece, ha dedicato il suo spazio pubblicitario sul Corriere della Sera del 2 marzo 2020 ai propri dipendenti, che stanno continuando a lavorare anche in questo difficile periodo, ringraziandoli uno ad uno, con un lungo elenco di nomi e un messaggio breve e chiaro sintetizzabile in quel «siamo fieri di voi» evidenziato con maiuscole e grassetto.

Alcuni brand invece hanno deciso di sospendere la comunicazione pubblicitaria. Lo hanno fatto aziende che vendono prodotti di grandi dimensioni, come ad esempio Poltrone Sofà, che ha stoppato la messa in onda degli spot probabilmente proprio per l’impossibilità di comprare questo genere di prodotti senza recarsi in negozio, o le agenzie di viaggi, i cui servizi al momento non possono essere sfruttati dai consumatori. Lo ha fatto anche Coca Cola Italia, ritenendo più opportuno concentrare le attenzioni e le energie su aspetti più importanti in questo momento.

Non mancano brand però che hanno scelto di continuare a diffondere le comunicazioni pubblicitarie già realizzate o lanciate in precedenza, come vediamo in vari spot che sponsorizzano le uova pasquali.

QUAL È LA PERCEZIONE DELLA PUBBLICITÀ AI TEMPI DEL COVID-19 IN ITALIA?

È un errore quello di aziende che continuano a diffondere comunicazioni legate ad attività o situazioni che non possiamo vivere attualmente o eventi e festività che saranno inevitabilmente trascorsi in maniera diversa dal passato? Come si diceva sopra, non c’è una risposta valida in assoluto.

Possiamo però chiederci qual è la percezione della pubblicità ai tempi del coronavirus per meglio comprendere cosa si aspettano i consumatori.

Focalizzando l’attenzione sul panorama italiano e sulla fruizione televisiva, risultano interessanti a tal proposito i dati della ricerca realizzata da Conic e Hokuto, “La pubblicità vista dalla quarantena“, con interviste svolte dal 23 al 25 marzo 2020 e somministrate a un campione di 800 spettatori televisivi under 18, con quote campione per sesso, fasce di età e area geografica.

I dati, presentati in un webinar il 2 aprile 2020, sottolineano come il livello di preoccupazione per questo periodo sia molto elevato (solo l’11% si dichiara un po’ preoccupato e appena il 2% non preoccupato) e come dalla pubblicità non ci si aspetti affatto un accentuare ulteriormente questa sensazione o, più in generale, sensazioni negative.

Se la pubblicità non è ritenuta inopportuna in questo periodo solo dal 14% dei telespettatori vanno considerati altri dati che sembrano rendere non così consolidata questa opinione, perché la maggior parte degli intervistati ammette di divertirsi guardando la pubblicità (il 13% molto, il 43% abbastanza, il 33% poco e l’11% per nulla) e di ritenere che la pubblicità continui a svolgere il proprio ruolo, quello di aiutare nella scelta di prodotti e servizi (secondo il 12% molto e per il 53% abbastanza).

Il dato più interessante, comunque, è quello che evidenzia come i telespettatori ritengano che la pubblicità ai tempi del coronavirus dovrebbe comunque essere incentrata principalmente sull’intrattenere, con toni simpatici, leggeri. Va rilevato che tra gli intervistati le persone più adulte sono quelle che chiedono di essere più incluse nei messaggi pubblicitari sia da parte di marche che offrono prodotti diretti a loro, sia dalla comunicazione pubblica, anche con un messaggio adeguato allo specifico momento. In generale, però, le persone si aspettano che la pubblicità continui a raccontare storie, specie ambientate in una sorta dimensione da sogno e di “mondo ideale” che ha sempre caratterizzato la pubblicità: scene all’aperto o momenti condivisi con amici e famiglia, quindi, non risultano essere strane o fastidiose, al contrario continuano ad essere apprezzate, per il desiderio di poterlo fare presto; in questo caso, infatti, non si tratta di un qualcosa a cui alcuni possono accedere ed altri no – come è invece nella comunicazione relativa al settore del lusso –, perché si tratta di situazioni che con il tempo sarà possibile per tutti rivivere. Le aziende che fanno pubblicità ora sono ritenute essere soprattutto quelle che guardano al domani (per il 23%), che sanno adattarsi alla situazione (22%), che possono offrire sempre qualcosa di utile (per il 18%), per cui è probabile che ne guadagneranno in termini di reputazione anche in futuro.




A proposito di brand, ne parliamo con l’autore

A proposito di brand, ne parliamo sabato con l’autore

LA ROTTA DEI BRAND Nella Società dei Consumi. Vi anticipo qualche riga dopo aver letto il testo ed essermi confrontata con l’autore.

Come definiamo l’attuale società? Società dei Consumi?

La società contemporanea, risulta governata dalla cosiddetta Economia della Conoscenza, che viene ad incidere in modo significativo sulle sue caratteristiche e sulle sue dinamiche.

Cos’è l’Economia della Conoscenza?

La Conoscenza, ovviamente, rappresenta un elemento che da sempre contraddistingue l’Uomo e lo accompagna nel suo percorso attraverso la Storia. Fino a tempi relativamente recenti, tuttavia, i legami e le interazioni tra la sfera dell’Economia e quella della Conoscenza non erano mai stati oggetto di adeguata attenzione e di approfondita disamina. Oggi si suole stabilire la nascita di una vera e propria Economia della Conoscenza in coincidenza con l’avvento del Capitalismo Liberale, all’inizio del XIX secolo, quando la Rivoluzione Industriale traspone il sapere scientifico all’interno dell’azienda e realizza una dirompente Meccanizzazione del lavoro e della produzione; da qui inizia storicamente la continua e sistemica tensione dell’impresa verso la creazione di nuovi e più avanzati prodotti, lo studio di innovativi modelli produttivi ed organizzativi, l’apertura di ulteriori mercati.

In questo meccanismo rientra il Capitalismo?

Possiamo dire che il Capitalismo moderno, sin dai suoi albori, è sempre stato una Economia della Conoscenza, nel senso che nelle varie epoche storiche il valore è stato costantemente prodotto dalla organizzazione, dallo sfruttamento e dall’accrescimento del sapere disponibile, ovviamente secondo modelli e con modalità di volta in volta differenti.

E noi come ci collochiamo nel sistema economico?

L’Uomo contemporaneo, il cittadino dei nostri tempi, in buona sostanza, si trova a vivere nella realtà odierna una condizione estremamente difficile, profondamente contraddittoria, per qualche verso addirittura lacerante.

Da un lato, egli si trova inserito in un sistema economico, politico e sociale che si compone di una serie di meccanismi tutti finalizzati alla tutela dell’Accumulo, dove le necessità e le aspirazioni delle persone sono altamente neglette o addirittura non trovano cittadinanza. Dall’altro lato, egli vive immerso in una originale Economia della Conoscenza, basata su asset immateriali e intangibili, che si nutre di saperi, di culture e di innovazioni e che, conseguentemente, ha una necessità estrema e costante di nuovi ed originali apporti da parte dei singoli individui.

La mia vita professionale è da sempre proiettata sul brand, sia per gli aspetti della comunicazione che per quelli del marketing. Il tutto però conseguentemente all’immagine del mondo della marca. Qual è il ruolo del Brand nella Società Moderna?

Esistono più nomi che vengono solitamente utilizzati per indicare questo elemento: Marchio, Marca, Logo, Trademark, Brand; tali termini a volte sono concepiti come equivalenti, altre volte tra di essi vengono operate delle distinzioni, talora anche piuttosto profonde. Utilizzeremo in questo testo i termini Marchio e Brand come sinonimi; la parola Marchio risulta più corretta da un punto di vista strettamente tecnico-giuridico, in quanto corrispondente alla terminologia formalmente utilizzata dalla legislazione del nostro Paese; la parola Brand appare invece maggiormente idonea a richiamare le prospettive evolutive del concetto in esame, in quanto meno vincolata alle rigidità imposte dal diritto vigente. Con i termini Brand e Marchio, in buona sostanza, vogliamo identificare quella unità concettuale, consistente in un segno distintivo, che contraddistingue i beni – prodotti e servizi – presenti sui mercati.

Il Brand, in un certo senso, accompagna da sempre il cammino dell’Uomo.

Sono pienamente d’accordo, in linea con l’analisi di Alberto Improda. Ma sono tematiche così vaste che non posso lasciar correre. Io ho bisogno di approfondimenti. E voi? Vi abbiamo incuriosito?

La rotta del Brand

Ma




Coronavirus: abbiamo sbagliato tutti, con buona pace di chi se la prende solo col Governo

Coronavirus: abbiamo sbagliato tutti, con buona pace di chi se la prende solo col Governo

Abbiamo sbagliato tutti ma non abbiamo sbagliato tutto. Ovviamente mi riferisco alla comunicazione in tempi di coronavirus e ovviamente mi riferisco alla dialettica polemica che si è accesa, tenendo occupati comunicatori e sedicenti tali (anche secondo l’italica logica del “siamo tutti allenatori della Nazionale”), in questo periodo di domesticità forzata dove c’è evidentemente (più) tempo per pensare e scrivere.

Al cuore della polemica il quesito shakespeariano riassumibile in: “Il Governo ha gestito e sta gestendo bene o male la crisi?”. Da qui discendono due linee dialettiche che, citando un detto democristiano, sono rette parallele che s’incontrano. La prima è la reazione alla crisi come capacità reattiva all’emergenza: esisteva o no un piano pandemico, è stato applicato, ciò che doveva arrivare negli ospedali è arrivato, eravamo attrezzati o ci siamo attrezzati per produrre/acquisire ciò che serviva, ecc. (e qui un piovere di spietati giudizi negativi di esperti di crisis management, indignati per il supposto tradimento dell’Accademia, delle buone regole, dei manuali e degli appunti di master e corsi).  L’altra è come sia stata gestita la comunicazione.

Due rette parallele che s‘incontrano, dicevamo. Il problema sta tutto qui (e con questo mi arruolo nella folta schiera dei polemisti da CoronaVirus). Riprendendo l’incipit, non abbiamo sbagliato tutto, anzi. La risposta operativa alla più grave, imprevedibile (almeno negli effetti e in termini di scala) e inaspettata crisi che abbia mai fronteggiato l’Evo moderno, ha più luci che ombre. Certo, non avevamo un piano pandemico aggiornato, certo quel che c’era forse non l’abbiamo neanche applicato. Certo manca quel presidio medico e quella fornitura, l’altra sta arrivando tardi…. Ma è facile giudicare dal divano di casa (e mai come ora questa metafora è reale) mentre si deve fare i conti fra un dilemma che vede in gioco la tenuta economico-produttiva di un Paese e le vite umane, perché di questo si parla.

Ciò che però abbiamo sbagliato tutti è comprendere “dove” questa crisi sia esplosa. Per dove ovviamente non mi riferisco al contesto geografico ma a quello cognitivo, alla realtà nella quale il virus è entrato. Mi riferisco a quell’Infosfera della quale tutti siamo parte, spesso inconsapevolmente prima del virus, ora ben più consci. Questa realtà infosferica ha fatto sì che il virus “infettasse” e cambiasse profondamente le nostre scale di valori, la nostra etica, la nostra morale, la nostra percezione della realtà, dell’Altro, delle Istituzioni, delle aziende, delle singole persone, del futuro e della nostra stessa identità. Ma, per stare agli aspetti di comunicazione, ha sfruttato le nuove dinamiche di costruzione del significato dei messaggi, di cognizione, di costruzione delle interpretazioni e delle narrazioni e di influenza sociale.

Quello che abbiamo sbagliato a è comprendere la forza e le dinamiche dei flussi cognitivi e di comunicazione all’interno di questa nuova realtà, nella quale tutto ciò che si dice e si fa è visibile a tutti e da tutti è valutabile in maniera esplicita e visibile. Ogni scelta che è stata fatta, ogni azione o inazione, ogni messaggio, ogni atteggiamento, finanche ogni scelta d’abbigliamento, ogni tono di voce, il singolo numero, la statistica e chi la diffondeva, i tempi e la frequenza, la piattaforma scelta e il format usato, la presa di posizione, il giudizio, la minimalizzazione o l’allarmismo, l’espressione del viso o l’eloquio, tutto ma proprio tutto è diventato elemento simbolico, interpretato e valutato nell’ambito di una gigantesca narrazione autogenerata.

Tutti reagiamo emozionalmente a ciò che vediamo. Lo scriviamo, lo condividiamo e assistiamo a ciò che gli altri dicono, scrivono e condividono, costruendoci una nostra personale percezione di ciò che sia vero o meno. Il tutto nel primo esempio di Echo chambers collettiva e globale, nel quale pregiudizi, credenze, interpretazioni continuano a iper-confermarsi, in una ipernarrazione che si avvita su sé stessa e che si auto alimenta.

Non esiste più la intermediazione mediatica, che permette di costruire il narrato della realtà “a monte”. Raccontare la crisi su e attraverso i giornali e la televisione, veicolare mediaticamente i messaggi, guidandone la relativa percezione e relegando la discussione, il “buzz” che ne consegue, in ambiti limitati dal punto di vista spazio-temporale: case, luoghi di lavoro, discussioni fra amici, ancor più costretti dall’isolamento forzato. Il digitale, sistema nervoso e circolatorio di questa Infosfera, ha “rotto le gabbie” spazio temporali, costruendo un’unica, gigantesca discussione continua in cui tutti dicono tutto di tutto.

Così le scelte politiche (chiusure o non chiusure, blocchi, deroghe, provvedimenti presi o non presi) diventano meta – messaggi che vengono interpretati in conversazioni social aperte e visibili, assumendo significati magari ben diversi da quelli attesi e voluti. Le posizioni di virologi, medici, infermieri vengono sostenute e scelte come vere o avversate, finendo per polarizzare le audiences. Per non parlare di quel che circola sulle piattaforme di messaggistica, fra testimonianze più o meno dirette di questo o quel parente infermiere o purtroppo vittima del virus e racconti più o meno veritieri che diventano verosimili e contribuiscono alla percezione della realtà, alla sua vera e propria costruzione cognitiva.

Quello che abbiamo sbagliato è non considerare questo e non considerare la forza evocativa di immagini che, in una prima fase, rimbalzavano dalla Cina, realtà lontana e “altra” per definizione, che pure erano perfettamente allineate con il sistema simbolico a cui la narrazione cinematografica e televisiva della catastrofe ci ha abituato. Medici in tuta di contenimento, respiratori, città desertificate un classico disaster movie che poi è improvvisamente esploso anche nella nostra quotidianità, trovandoci ipersensibili. Su quello si è installata una ipercopertura mediatica, che rincorreva i trend dei social (quella che è stata chiamata Infodemia), in una spirale di allarmismo e confusione crescenti.

Il virus ha attaccato la nostra realtà mentre eravamo comunicativamente immunodepressi. Da quel momento in poi ogni azione, messaggio, scelta, a qualsiasi livello, ha assunto un enorme potenziale simbolico, rielaborato, interpretato e vissuto collettivamente, in una ossessiva echo chambers globale.

Cosa abbiamo sbagliato allora, noi comunicatori, giornalisti ma anche politici, decisori, influencers, ciascuno di noi? Non abbiamo avuto la consapevolezza che viviamo in un mondo governato dalla percezione e che ogni cosa che diciamo, facciamo, condividiamo è parte di un processo complesso, potente e veloce di costruzione della realtà cognitiva. Che non esistono più strumenti “a monte” per costruire la percezione della Realtà, dei significati dei messaggi ma che sia necessario pensare a come tutto ciò che diciamo, facciamo, esponiamo visibilmente, possa contribuire a creare la percezione collettiva della realtà, di cosa sia vero o falso, di dove andare, di cosa fare o di cosa non fare.

Un governo della percezione centrale, che non sia solo l’obsoleta regola della “centralizzazione del messaggio”, da veicolare coerentemente su tutte le piattaforme. È necessario pensare a tutto l’apparato simbolico da esporre: dal messaggio alla piattaforma, dall’abbigliamento all’eloquio, dalla tempistica alla forma. Tutto è comunicazione o meglio tutto è simbolo e tutto va governato prevedendone l’interpretazione e la narrazione che ne scaturirà. L’emergenza CoronaVirus è un fenomeno globale e allora globalmente, olisticamente va affrontato perché mai come in questo caso la comunicazione, intesa come capacità di costruire la realtà, attuale e futura, è strategica.




Nella crisi Covid-19, anche il nodo del “modello italiano” di comunicazione istituzionale

Nella crisi Covid-19, anche il nodo del “modello italiano” di comunicazione istituzionale

Di Stefano Rolando (1)

Il drammatico mese di annuncio, esplosione e planetarizzazione del contagio epidemico prodotto da Condiv-19, si è accompagnato in Italia (e non solo, ovviamente) da una costante polemica sul rapporto tra istituzioni e cittadini riguardante la forza sociale, l’autorevolezza, la chiarezza, la sperimentata navigazione dell’emergenza e, in sostanza, sull’efficacia della comunicazione istituzionale. Parlando dell’Italia – ma con gli occhi di chi opera nel mondo – Luciano Floridi (professore di Filosofia e Etica dell’Informazione a Oxford) ha scritto che “la cattiva gestione della comunicazione ha innescato drammatizzazione e banalizzazione e ha polarizzato le opinioni” (2) .

Bisogna dire subito, tuttavia, che tra i tanti dualismi che hanno caratterizzato il dibattito pubblico sulla crisi in Italia anche qui c’è un dualismo che precede di gran lunga la crisi stessa. Dell’invasività della comunicazione politica, si è parlato a più riprese. Cioè dell’esercizio da parte dei vertici politici di uno sconfinamento abituale laddove – soprattutto quando la materia è complessa e altamente tecnica – può rendere il ruolo del politico di professione, sia pure nell’esercizio di una legittima autorevolezza di funzione, impreciso e impreparato. Cosa che, quindi, proprio nelle condizioni emergenziali, consiglia che il presidio sia affidato a figure di credibile competenza, riservando alla politica momenti di assunzione di responsabilità in ordine a rilevanti scelte e in supporto di annuncio di regole da attuarsi. Certo, ha pesato una prima fase di incertezze, poi risolta con la quotidianità presidiata consolarmente dall’Istituto superiore di Sanità e dalla Protezione civile, e con un ruolo di battitore libero naturalmente del capo del Governo, ruolo che raccoglie critiche tra gli addetti ai lavori e naturalmente nel quadro politico di opposizione, ma che ha visto anche crescere durante la crisi un riconoscimento di affidabilità e di qualità di mediazione presso gli italiani, fino al gradimento di due terzi dei cittadini.

La sostanza delle critiche (intere maratone televisive sono state dedicate al tema) ha riguardato tre argomenti: il ritardo di individuazione di una fonte unica e autorevole; l’avere compiuto una gestione “poco comunicativa” quindi sostanzialmente burocratica dei dati; non avere creato le condizioni di un effettivo coordinamento della rappresentazione di tutti i temi coinvolti nell’ampio spettro delle problematiche connesse, con eccesso di conflittualità (quindi generatore di confusione nell’opinione pubblica) tra Stato, regioni e territori. Nodi formatisi nel tempo Al di là della corrispondenza delle critiche e soprattutto dell’imprecisabile influenza della questione sull’andamento dei processi reali, è evidente che questo genere di problematiche non nasce a ridosso dello scoppio improvviso della epidemia, nasce nel quadro di una lunga vicenda con aspetti che nel tempo – e segnatamente dall’approvazione della legge che regola in Italia la comunicazione istituzionale (nel 2000) – sono rimasti irrisolti, alcuni poi aggravatisi negli anni.

Il punto dunque non è solo quello del rapporto tra funzioni e competenze. Ma quello della vera e propria missione che si ritiene debba svolgere una comunicazione “speciale” che non dovrebbe essere direttamente collocata in fonti che possono essere percepite con interessi parziali o che agiscono con sottostanti intenti di favorire queste parzialità. Una missione che non deve essere neppure collocata ad un livello di ufficialità che dà magari certezze ai dati statistici, ma che fa venire a mancare quella – espressa e percepita – socialità che consente di svolgere a tempo pieno un vero e proprio accompagnamento (anche narrativo) di tutta la società. Funzione difficile che deve cogliere tre obiettivi tra loro fortemente connessi:

  • avere la qualità di dare corrette spiegazioni dei fatti e dei processi in corso, fuori dalle formule dei comunicati e all’altezza di una domanda diversa, tanto popolare quanto altamente profilata;
  • accompagnarsi, di volta in volta, con tutti gli esperti necessari per argomentare in profondità o in spiegabilità passaggi oscuri ai più e comunque di interesse generale;
  • essere accreditata dal sistema dell’informazione come figura (o team) che opera nel rispetto delle libertà del sistema dell’informazione e al tempo stresso con una formazione che si presti a cogliere le istanze relazionali con i media attorno a tutte le connessioni da cui dipende un’azione più corale verso i cittadini, in alcuni momenti indispensabile a convivere funzionalmente con i contesti di crisi.

Comunicazione pubblica e qualità sociale

Parliamo in sostanza di “qualità sociale”. Che comprenda tra l’altro una neutralità intelligente ma al tempo stesso una compenetrazione con il disagio e i rischi dei cittadini che svolga un raccordo serio e necessario tra le preoccupazioni istituzionali di “non allarmare” e le preoccupazioni dei cittadini di “sapere”.

Non necessariamente si tratta di una figura “giornalistica” in senso stretto, anche se la legge 150/2000 ha identificato per tali scopi una figura prevalentemente di cultura giornalistica. Ma può anche rivestire un’esperienza maturata nel quadro istituzionale proprio nella mediazione tra istanze decisionali, istruttorie in atto nelle amministrazioni, domanda sociale e qualità di competente tempestività rispetto alle dinamiche dei media.

In verità il Portavoce di un capo di Governo – o figura di equivalente profilo istituzionale – dovrebbe avere per definizione questi caratteri altamente professionali. A meno di non pensare che nel corso del tempo queste figure – che avevano una volta una parte sicura di queste skills (3) – non siano diventate funzionali alla sola promozione di immagine della figura che li ha chiamati all’opera, abbandonando tutto ciò che li lega autorevolmente e con percezione esterna affidabile ad essere tanto al servizio dell’istituzione quanto ai cittadini. Se si vuole immaginare proprio il riferimento ai contesti di un altro tempo – prima della invasione del virus dell’immagine nel sistema della comunicazione istituzionale – si potrebbe anche ricordare che accanto al presidio della relazione con i media, come accennato con gestioni comprese nell’esperienza relazionale con un mondo professionale che dovrebbe avere la propria ragione di difendersi dalla propaganda politica, vi è poi nell’esperienza di tutta Europa il presidio al rapporto stabile, programmato, neutrale ed efficace con la società in via diretta. Appunto ciò che dovrebbe essere lo specifico momento della comunicazione istituzionale. Quello che dal 1995 in poi si è appoggiato alle grandi opportunità di internet e quindi costruendo ponti possibili con utenze ampliate in una relazione non solo diretta ma anche sempre più interattiva.

Ambito che non può essere pensato solo al servizio dell’informazione circolare con i media (che pur resta parte di questo schema), ma che deve poggiare su una visione stabile di marketing sociale che ricorda che l’informazione delle istituzioni deve includere, non escludere (come fa il marketing commerciale) e deve tener conto delle sensibili differenza di impatto (culturale, linguistico, sociale) rispetto ad utenze estremamente differenziate.

Su questo dualismo funzionale in verità si fondava il disegno della legge 150/2000 e proprio questo dualismo è stato negli ultimi venti anni costantemente attaccato da una preferenza della politica per un sovra-ordinamento che alla fine ha eroso proprio i caratteri che oggi – nella voragine di una crisi lunga e micidiale (ma con tanti precedenti nelle condizioni di crisi negli anni) – i cittadini reclamano come una condizione di garanzia.

Un tavolo che, prima della crisi, si è riaperto. Si vedrà con quali prospettive

Si è riaperta di recente una discussione formale sui sostanziali profili adatti ai nostri tempi della comunicazione istituzionale. Discussione che resta viva in tutta Europa e piuttosto ben presidiata da vari organismi (4), pur nel quadro di deformazioni che ormai corrispondono strutturalmente alla crisi politico-istituzionale dei sistemi democratici e, se vogliamo, anche ad una fase di evidente transizione della politica, da sistema professionale “di casta” a forme ispirate alla democrazia partecipativa. Transizione cioè rispetto alla necessità di trovare adeguati equilibri tra competenza e rappresentanza.

Nella discussione recente in Italia – e ancora con opzioni sospese – è apparso anche il tema della riformabilità di quella legge che da aventi anni regola la materia. Discussione che ha certo legittimità in ordine al modo di immaginare tanti aspetti resi realtà dalla traforazione digitale. Ma non deve perdere di vista quel carattere che è stato squilibrio con gli effetti di un boomerang che oggi si rivela serio per la stessa democrazia. Se i maggiori esperti di demoscopia italiana si ritrovano nel giudizio, a un mese dallo scoppio della crisi, di maggiore “bisogno di istituzione” da parte dell’opinione pubblica, anzi di una vera e propria domanda di “responsabilità sociale” da parte delle istituzioni, dovrebbe preoccupare che questa invocazione sia espressa con pari sfiducia per i politici che quelle istituzioni per disegno costituzionale devono presidiare e guidare.

Ciò rende dunque le “soluzioni” ai problemi di profondo adattamento della funzione ai bisogni del nostro tempo, sempre più alimentati da crisi, emergenze, allarmi, non riconducibili a qualche sbrigativo aggiornamento tecnocratico. Senza entrare in una modernità più pacificata della politica sarà difficile che la comunicazione istituzionale ritiri una parte importante della sua attività dal terreno della pura produzione di immagine e visibilità per tornare a presidiare la relazione sociale di tre ambiti inquieti: l’identità, la coesione, la comprensione.

C’è chi dice che Coronavirus aiuti in questa direzione. Con un certo pessimismo della ragione, lo vogliamo sperare.

Note

  1. Università IULM, Milano – Direttore di Rivista italiana di comunicazione pubblica. Presidente del “Club of Venice” (comunicazione istituzionale in Europa).
  2. In Repubblica D, 28.3.2020, Infodemia, l’altro contagio. E la sfida digitale per affrontare la prossima crisi.
  3. Prendiamo gli anni ’80 e ’90 come riferimento al tempo in cui la questione era “percepita” indistintamente dai governi. Portavoce di Craxi fu Antonio Ghirelli, figura di direttore di giornali, di scrittore e intellettuale, con competenze riguardanti gli sport più popolari. Con Andreotti, il capo del servizio politico dell’Ansa, Pio Mastrobuoni. Con Amato, Gastone Alecci redattore capo di organi della stampa economica. Con Goria, Tiziano Garbo, sobrio giornalista economico, caratteristica che era anche quella di Paolo Peluffo portavoce di Ciampi. Con De Mita, un serio professionista dell’informazione politica proveniente da Panorama, Nazareno Pagani. Persino Berlusconi al momento di dover fronteggiare il G7 di Napoli optò per l’incarico a Jas Gawronski, giornalista di vaglia di cultura internazionale.
  4. Vivo e impegnato in molteplici iniziative è il Club of Venice, coordinamento informale della comunicazione istituzionale dei governi dei paesi membri e delle stesse istituzioni UE, oggi costituente un tavolo (arricchito da esperti e studiosi) di quasi cento partecipanti. Vive sono anche alcuni associazioni professionali, in vari paesi europei, che svolgono più orientamento all’aggiornamento culturale e al dibattito deontologico che presidio sindacale.



Così la Cina fa propaganda in Italia, con i bot. Ecco l’analisi su Twitter di Alkemy per Formiche

Così la Cina fa propaganda in Italia, con i bot. Ecco l’analisi su Twitter di Alkemy per Formiche

Una ricerca di Alkemy per Formiche rivela un’operazione senza precedenti della propaganda cinese sugli aiuti per il coronavirus. Quasi la metà dei tweet con l’hashtag #forzaCinaeItalia è opera di bot. E l’ambasciata cinese…

Quasi la metà dei post su Twitter pubblicati tra l’11 e il 23 marzo con l’hashtag #forzaCinaeItalia è opera di bot. Prodotto dei cosiddetti account automatizzati è anche oltre un terzo di quelli con l’hashtag #grazieCina. Secondo un’analisi di Social Data Intelligence realizzata per Formiche dal Lab R&D di Alkemy SpA, in collaborazione con Deweave, Luiss Data Lab e Catchy, il 46,3% dei post su Twitter pubblicati tra l’11 e il 23 marzo con l’hashtag #forzaCinaeItalia, quasi la metà, è stata generata da bot, account automatizzati creati con il preciso scopo di fare da cassa di risonanza. Lo stesso vale per un altro popolare hashtag, #grazieCina, che nello stesso arco di tempo ha dato ampia eco all’operazione diplomatica cinese: più di un terzo dei tweet che lo contenevano, il 37,1%, era prodotto da bot.

La propaganda del governo cinese in Italia è entrata dunque in una nuova fase. Il 12 marzo un Airbus A-350 della China Eastern proveniente da Shanghai è atterrato all’Aeroporto di Fiumicino con a bordo nove medici specializzati cinesi dall’Hubei e trenta tonnellate di materiale sanitario. Nei giorni precedenti e successivi all’arrivo, l’account Twitter dell’ambasciata cinese in Italia (@ambCina) ha dato ampio resoconto dell’operazione, dallo sbarco al tragitto che ha portato l’équipe medica a Padova, utilizzando l’hashtag #forzaCinaeItalia. I cinguettii con questo hashtag hanno ricevuto un numero di “mi piace” e retweet di gran lunga superiore alla norma.

UN ESERCITO DI BOT

Non si tratta di un caso. L’analisi del gruppo di ricercatori, composto da Luca TacchettiAlice AndreuzziNicola PirasAlessandra Spada e Stefano Vacca, si basa su un campione di 47.821 tweet. Grafici alla mano, il livello di attività, coinvolgimento (retweet + like) e gradimento (like) dell’account Twitter dell’ambasciata cinese a Roma e dei post riguardanti l’operazione di soccorso del governo cinese sembrano fotografare un’operazione premeditata che non ha precedenti in Italia. 

Non è un mistero per chi conosce lo spazio cibernetico l’esistenza sui social network dei bot, account creati ad hoc per aumentare, attraverso post, like, retweet, citazioni, la portata e l’efficacia di un preciso messaggio e assumendo la forma di una eco chamber. È ormai da tempo acclarata l’esistenza di un vero e proprio mercato dei bot cui attingono frequentemente sia attori privati sia entità statuali.

IL METODO

Nel caso della propaganda cinese intorno all’arrivo di aiuti in Italia, il team di studiosi ha costruito l’analisi sulla base della definizione di bot offerta dall’Oxford Internet Institute (Oii), che suggerisce alcuni indicatori per riconoscere un account automatizzato da uno vero. Primo: la sua attività. Secondo l’Oii sono sospetti gli account che pubblicano più di 50 tweet al giorno. Secondo: il tasso di amplificazione. Uno dei ruoli principali dei bot è quello di fare da “cassa di risonanza” per alcuni account specifici. La cronologia di un bot tipico è quindi composta da una lunga serie di retweet e citazioni di notizie, con pochi o nessun post originale. Terzo: la sorgente (source), ovvero il tipo di applicazione di provenienza dei tweet pubblicati dagli account. Oltre le classiche applicazioni i bot spesso utilizzano fonti non tradizionalmente riconosciute.

Nello specifico i bot filocinesi sono stati individuati per una serie di criteri. Primo, l’attività e la timezone: “Gli account selezionati presentano una media di condivisione post su Twitter di oltre 50 tweet al giorno, arrivando il più attivo a 91,72 post. Tale attività è da considerarsi automatizzata. Ciò si riscontra inoltre dall’analisi della timezone (orario di pubblicazione), presumibilmente falso per via dell’attività continua nell’intero arco della giornata, senza pause tra la notte e il giorno”, spiega il report. Secondo, il tasso di amplificazione: l’attività degli account “è concentrata sul retweet e mention. Gli account selezionati non producono un alto numero di post organici”. Terzo, follower/following: gli account sospetti sono spesso seguiti da altri “account automatizzati”. Quarto, l’affiliazione politica: “Si ritiene che gli account facciamo riferimento alla stessa affiliazione politica, a favore degli interventi cinesi. Interessante che non vi siano riferimenti ad iniziative di altri Paesi (esempio Russia o Usa)”. Quinto, l’handle: “la composizione dei nickname è infatti alfanumerica”, e questo prova come i profili siano “generati da un algoritmo”. Sesto e ultimo, l’anonimato: “Alcuni account presentano lunghi periodi di assenza di comunicazione”.

Dal lavoro di Alkemy emerge, inoltre, come gli hashtag #forzaCinaeItalia e #graziecina siano utilizzati in modo limitato: sono sempre secondari rispetto ai temi principali Covid19 e Cina. E tra gli hashtag correlati a #Cina troviamo #Lagarde, #Ue, #Europa ma anche #vergogna, a dimostrazione di come spesso la propaganda sugli “aiuti” cinesi sia stata messa a confronto con un presunto immobilismo dell’Unione europea. 

IL RUOLO DELLA DIPLOMAZIA CINESE

Centrale in questa campagna risulta essere l’account ufficiale dell’ambasciata cinese in Italia, molto attivo per post pubblicati per il periodo analizzato. Nonostante ciò, le interazioni rispetto agli argomenti condivisi, da parte degli utenti Twitter, sono episodiche e limitate a singoli eventi. Il picco è stato registrato giovedì 12 marzo in occasione dell’arrivo del volo da Shanghai con gli aiuti cinesi: i tweet dell’ambasciata, molti dei quali contenenti l’hashtag #forzaCinaeItalia, hanno ricevuto un altissimo engagement, spiegano i grafici di Alkemy. L’attività di coinvolgimento subisce in seguito una brusca flessione, attestandosi su un livello comunque molto più alto rispetto alle rilevazioni di febbraio.

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Ampia condivisone hanno avuto anche tweet riconducibili a fake news. Come il video, rilanciato anche da Hua Chunyinh, portavoce del ministero degli Esteri cinese, per sostenere che gli italiani fossero usciti sui balconi a ringraziare la Cina e a cantare l’inno cinese. Quel video è una fake news, come ha spiegato Pagella Politica

Ma l’analisi di Alkemy sull’hashtag #flashmobsonoro da parte dell’#ugic (Unione giovani italo cinesi) rivela un alto numero di like il 14 marzo.

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IL PROFILO DEI BOT

Di particolare interesse anche i profili degli utenti attivi nell’echo chamber cinese. Soltanto uno degli account analizzati presenta nella biografia il messaggio politico “No Nato, No Europa”, gli altri hanno bio più generiche o addirittura vuote. “Alcuni account presentano interessanti casi di “silenzio” ovvero lunghi periodi di assenza di comunicazione – scrivono i ricercatori – l’attività di comunicazione si avvia a ridosso di determinati eventi (ad esempio arrivo in Italia degli aiuti cinesi)”. 

Si tratta dunque di utenti che rimangono silenti per mesi, o per anni, per poi far registrare un boom di post in concomitanza di eventi pubblici come le elezioni in Emilia-Romagna, il Festival di Sanremo e, con un picco senza paragoni, l’arrivo dei medici da Shangai. Il contenuto dei messaggi spesso cambia di tono, il che sembra suggerire che si tratta di account sul mercato, attivabili a pagamento e a seconda delle necessità.

Come si può osservare, l’indice di attività assume valori molto alti per numero di post pubblicati dai singoli account. Si osserva un balzo delle curve in occasione della prima metà di marzo 2020, con l’arrivo degli aiuti dalla Cina. L’indice di coinvolgimento non presenta un trend stabile, ma si registrano picchi delle curve in occasione di singoli eventi.

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L’ALLARME INTERFERENZE

Dai risultati della ricerca di Alkemy sembra emergere una regia dietro la campagna di propaganda che ha circondato l’arrivo di aiuti dalla Cina in Italia. Appaiono dunque fondati i sospetti del Copasir (Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica), l’organo di raccordo fra Parlamento, governo e intelligence che di recente ha lanciato un allarme interferenze straniere in Italia sull’onda della pandemia di coronavirus. Un’emergenza nell’emergenza che è ormai all’attenzione di un fronte bipartisan di politici e studiosi negli Stati Uniti. Laura Rosenberger, direttore dell’Alliance for Securing Democracy e senior fellow del German Marshall Fund, ha evidenziato come il governo cinese abbia mutuato dalla Russia diverse tattiche della disinformazione via internet con lo scopo di ripristinare la propria immagine dopo i ritardi che hanno causato l’esplosione della pandemia a Wuhan. Dalle analisi di Alkemy sembra che queste tattiche abbiamo trovato applicazione in Italia. Con modalità finora inedite.