Barilla ha tolto la finestra trasparente dai suoi pacchi di pasta
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Per ridurre la quantità di plastica. Una mossa molto apprezzata dai consumatori
Barilla ha sostituito la finestra trasparente sui pacchi di pasta per ridurre la quantità di plastica delle sue confezioni. Il brand italiano è uno dei primi a introdurre la novità nella categoria, con un’iniziativa per ora limitata al mercato UK.
Le finestre in plastica appaiono sui packaging della pasta praticamente da sempre: vengono utilizzate per mostrare il prodotto all’interno della scatola e “rassicurare” così i consumatori. L’inserto rappresenta tuttavia una complicazione in fase di riciclo e smaltimento delle scatole: i consumatori devono rimuovere il pannello di plastica prima di gettare la confezione tra gli imballaggi in cartone.
Una delle nuove scatole Barilla senza la plastic window
Adesso Barilla Group ha rimosso l’onnipresente finestra di plastica sottile, rendendo i suoi imballaggi riciclabili al 100% nel Regno Unito.
La novità rientra tra le iniziative del “Good for You, Good for the Planet“, che include gli sforzi che l’azienda sta operando sul piano della sostenibilità: la riduzione della quantità di materiale utilizzato, la selezione di carta proveniente da foreste gestite responsabilmente, la produzione di imballaggi con un solo materiale, quindi più facili da riciclare.
Sulle nuove confezioni al posto delle finestre appare un’illustrazione e una nota che spiega: “Niente più finestre di plastica. Cambiando il nostro mondo un pacchetto alla volta“.
Barilla è uno dei maggiori produttori di pasta al mondo – nel 2016 ha venduto 3.413 milioni di euro di pasta – e la novità potrebbe senz’altro influenzare i competitor nella categoria. Vedremo se altri brand seguiranno. Per ora le nuove scatole sono disponibili in tutto il Regno Unito.
Facebook avvertirà chi sta per condividere notizie vecchie. Ma continua a perdere clienti per deficit di fiducia
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La compagnia ha annunciato che mostrerà un avviso prima della pubblicazione o condivisone di un articolo che ha più di tre mesi per evitare che venga usato in modo ingannevole
Nel tentativo di segnalare al mondo la sua volontà di contrastare la disinformazione, Facebook ha introdotto una nuova funzione. Non riguarda l’oscuramento di contenuti che incitano alla violenza – come era accaduto con Twitter dopo il commento controverso di Donald Trump «quando iniziano i saccheggi, si inizia a sparare», che era valso il primo “oscuramento” di un tweet scritto dal presidente degli Stati Uniti – ma si tratterà invece di una segnalazione che scatterà ogni qualvolta un utente si mostrerà intenzionato a condividere una notizia vecchia.
Nuova funzione anche per le notizie sul Covid
La compagnia infatti ha annunciato che mostrerà un avviso prima della pubblicazione o condivisone di un articolo che ha più di tre mesi, per evitare, così sostiene Facebook, che la notizia venga usata fuori contesto e in modo ingannevole. Anche per venire incontro a chi fa il mestiere di giornalista. «Gli editori, in particolare, hanno espresso preoccupazione che le storie più vecchie condivise sui social media come notizie attuali, possano portare a falsificare lo stato attuale delle cose – si legge sul sito della compagnia -. Alcuni editori infatti hanno già preso provvedimenti per affrontare questo problema sui propri siti Web etichettando in modo evidente articoli più vecchi per impedire che le notizie obsolete vengano utilizzate in modo fuorviante».
Nei prossimi mesi, inoltre, Facebook cercherà di mostrerà un avviso anche quando si condivideranno notizie sul Covid, specificandone la fonte, sempre per arginare il proliferare di bufale e fake news sul Coronavirus. Obiettivo prossimo di Facebook è quello di mostrare in un avviso le informazioni sulla fonte della notizia che si sta per pubblicare, insieme al link al Centro informazioni sul Coronavirus creato dal social agli inizi dell’emergenza sanitaria per fornire informazioni autorevoli.
La scelta di Verizon
Tutte misure che però non sembrano sufficienti a fermare le critiche rivolte a Zuckerberg, accusato di non fare abbastanza per moderare i contenuti fuorvianti, offensivi e violenti che vengono condivisi sulla piattaforma. Per tentare di placare le proteste dei dipendenti di Facebook – che avevano anche indetto uno sciopero virtuale, alcuni arrivando perfino a dare le dimissioni dopo la mancata “censura” di Trump – Zuckerberg aveva promesso che avrebbe rivisto «le politiche che consentono la discussione e le minacce dell’uso della forza da parte dello Stato, per vedere se ci sono correzioni da adottare».
Eppure continua ad allungarsi la lista di compagnie che hanno deciso che non compreranno più spazi pubblicitari su Facebook e Instagram. Circostanza peraltro ammessa anche dalla società che ha riconosciuto un deficit di fiducia in Facebook. Soltanto ieri – 25 giugno – anche Viber ha annunciato di non voler avere nulla a che fare con il social network. L’ultima a essersi “ritirata” dal social – Verizon – è anche la più grande ad averlo fatto finora. Il media officer della compagnia, John Nitti, è stato chiarissimo in merito: «Mettiamo in pausa la nostra pubblicità fino a quando Facebook non avrà trovato una soluzione accettabile che ci faccia sentire a nostro agio e che sia coerente con ciò che abbiamo fatto con YouTube e altri partner», ha dichiarato. Evidentemente la nuova funzione di Facebook non ha convinto tutti.
Anche Starbucks boicotta Facebook e ferma la pubblicità sui social: «Siamo contro l’odio, dobbiamo unirci per il cambiamento»
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Cresce il fronte delle società che intendono mettere pressione ai principali social network perché introducano regole più efficaci per contrastare l’odio e il razzismo
La lista continua ad allungarsi. Dopo Coca-Cola, anche Starbucks ha annunciato che sospenderà la pubblicità su tutti i social, pur non aderendo formalmente alla campagna Stop Hate for Profit, un’iniziativa che chiede appunto alle aziende di non investire su Facebook per tutto il mese di luglio. L’obiettivo è quello di spingere Mark Zuckerberg a prendere posizione sui contenuti che incitano all’odio presenti sulle sue piattaforme.
L’elenco delle aziende che hanno deciso di partecipare a questo programma comprende anche multinazionali come Unilever, Verizon, The North Face, Coca Cola. Il gigante del caffè ha deciso di sposare comunque la causa e ha fatto sapere: «Noi siamo contro i contenuti d’odio e crediamo che il mondo delle imprese e quello della politica debbano unirsi per realizzare un vero cambiamento».
Stop Hate for Profit
La campagna Stop Hate for Profit è stata organizzata da diverse associazioni che si occupano di lottare per i diritti dei neri negli Stati Uniti. Una lotta che secondo Stop Hate for Profit deve passare anche dai social: «Mandiamo a Facebook un messaggio potente: i tuoi profitti non varranno mai abbastanza per promuovere l’odio, il bigottismo, il razzismo, l’antisemitismo e la violenza».
Non solo Facebook, dove non vedremo Coca-Cola e Starbucks
Oltre ai social di Zuckerberg, The Coca-Cola Company e Starbucks hanno deciso di estendere il loro stop alla pubblicità anche ad altre piattaforme come Twitter e YouTube. Per Coca-Cola a spiegare le ragioni di questa scelta è il ceo James Quincey: «Non c’è spazio per il razzismo nel mondo e non c’è spazio per il razzismo sui social media».
Il dibattito sulla libertà di espressione dei social media
Il dibattito sui contenuti che possono restare sui social network è già attivo da molti anni ma è esploso con l’inizio delle proteste per la morte di George Floyd quando Twitter ha scelto di oscurare un commento del presidente Donald Trump che incitava alla violenza. Facebook davanti allo stesso commento era rimasto fermo, incassando però diversi attacchi per questa scelta.
La posizione di Zuckerberg, ribadita dalle sue scelte, è che le piattaforme di Menlo Park non sono media company: non sono responsabili quindi di tutti i contenuti postati dagli utenti. Alcune settimane dopo però la stessa Facebook ha deciso di rimuovere un simbolo nazista pubblicato sempre dal Presidente degli Stati Uniti.
5 esempi di Brand Activism da cui trarre ispirazione
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Dal packaging riutilizzabile di Loop alle app che piantano alberi come Flowe, ecco i brand che vogliono avere un impatto positivo sugli altri e sull’ambiente
C’è chi, come Oberalp, trasforma i materiali di scarto delle tute da sci in cinture e accessori. Chi, come Loop, realizza packaging riutilizzabili. E chi, come Flowe, si serve di gaming ed educazione finanziaria per spingere le persone ad acquisti più consapevoli e per riforestare il Pianeta.
Esperienze diverse tutte accomunate da una parola: brand activism, ovvero la ricerca di uno scopo, di un impatto positivo sugli altri e sull’ambiente, che superi la mera logica del guadagno.
L’espressione è immortalata in un libro, considerato uno dei testi più importanti sulla materia, “Brand Activism. From purpose to action”, scritto da due guru del marketing come Philip Kotler e Christian Sarkar, per i quali il brand activism è la responsabilità che l’azienda si assume in ambito sociale, con una serie di iniziative volte al raggiungimento di un bene comune.
Dalla teoria alla pratica: abbiamo raccolto cinque esempi di “brand activism” nel mondo, dall’Italia, agli Stati Uniti, fino all’Australia. Li raccontiamo in questo articolo.
1. Oberalp lotta contro i perfluorocarburi
Gruppo storico di Bolzano, nato nel 1846 e specializzato nei prodotti di abbigliamento e attrezzature per sport alpini, da circa un decennio ha deciso di puntare fortemente sulla sostenibilità ambientale. Per farlo ha creato un gruppo di lavoro interno dedicato proprio alla Corporate Social Responsibility, che sta lavorando su più fronti.
La riduzione dei perfluorocarburi (si tratta di composti sintetici molto impiegati nell’abbigliamento sportivo) con un impatto dannoso sull’ambiente: l’azienda ha, per esempio, deciso di non utilizzare fluorocarburi nel 65% della sua produzione. Inoltre, ha puntato sul riutilizzo, trasformando i materiali di scarto delle divise di sci in cinture e altri accessori, e sul riciclo di vecchi appendiabiti, che diventano oggetti di design grazie alla collaborazione con l’Università di Bologna.
2. Burwood Brickworks e i carrelli di bottiglie riciclate
Nato a Melbourne, in Australia, il Burwood Birckworksè il centro commerciale più sostenibile del Pianeta, secondo una classifica di Living Future Institute.
A partire dall’utilizzo dell’acqua, che viene riciclata nell’edificio per il sistema di raffreddamento o per l’irrigazione dell’orto sul tetto, aperto ai visitatori che possono coltivare liberamente verdure e mangiarle. L’elettricità necessaria arriva da pannelli solari e da centri di energia pulita, situati nei pressi della struttura. Nel parcheggio esterno sono installate stazioni di ricarica per auto elettriche. Oltre a soluzioni davvero originali: come il carrello della spesa fatto di bottiglie di latte riciclate.
3. Flowe e la better being economy
Apri un conto via app in otto minuti, ottieni una carta in legno certificato e pianti un albero nella regione del Pèten in Guatemala. Questo e tanto altro è Flowe, la startup guidata da Ivan Mazzoleni, che opera all’interno di Banca Mediolanum, il gruppo guidato da Massimo Doris.
L’app fintech, pensata per attrarre i giovanissimi, ambisce a creare un nuovo mercato unendo finanza, educazione, sostenibilità e gaming. Grazie a partnership con altre startup, consente di tracciare l’impatto economico generato dai propri consumi, contribuire alla riforestazione del Pianeta, finanziare progetti idrici in villaggi bisognosi.
“Abbiamo creato un ecosistema, una better being economy, dove l’individuo impara ad avere uno stile di vita più sostenibile, a vivere in armonia con gli altri e con la natura. Il nome stesso del brand e il pittogramma riconducono gli esseri umani a una goccia d’acqua, unica ma parte di un flusso”, spiega Mazzoleni nel giorno della presentazione della startup al Campus Mediolanum, alla presenza del già citato Doris, e di Oscar di Montigny, Chief Innovation, Sustainability & Value Strategy Officer di Banca Mediolanum.
Di Montigny evidenzia nel suo intervento come “Flowe non vuole essere un’azienda, ma una piattaforma, un ecosistema, che aiuta i suoi utenti ad avere consapevolezza dell’impatto dei loro comportamenti sugli altri e sull’ambiente. E sulla base di questa consapevolezza possono migliorarsi continuamente”.
Per coinvolgere un pubblico di giovanissimi, Flowe ha attinto dal linguaggio del gaming. Gli utenti, sulla base di alcune azioni virtuose, ottengono delle gemme, cioè dei punti premio, che possono poi convertire per comprare gift card su Amazon, Decathlon, Media World.
“Rispetto ai competitor abbiamo costruito una dimensione comunitaria, un senso di appartenenza forte che va ben oltre il mondo finanziario. Oggi abbiamo già 15mila utenti sulla piattaforma”, conclude Massimo Doris.
4. Loop e il ritorno del fattorino del latte
“Abbiamo chiesto alle aziende di considerare il packaging come un asset e non come un costo”, spiega a Fast Company, Tom Szaky, imprenditore del New Jersey, fondatore di Loop, specializzata nell’ideazione di packaging riutilizzabili.
Il concetto è un po’ simile a quello del “fattorino del latte” che portava la bevanda in bottiglie di vetro riciclabili direttamente dietro la porta di casa. Il cliente usa il prodotto in un packaging originale e alla fine, quando l’ha consumato, chiama Loop che va a ritirare gratuitamente la confezione, pronta per essere riutilizzata.
L’iniziativa ha già visto l’adesione di brand come Procter & Gamble, Unilever, Mars, Nestlé, PepsiCo e Coca-Cola, tra gli altri.
5. Refurbed rigenera dispositivi elettronici
Innovazione e sviluppo tecnologico devono vivere in totale armonia con la natura. Questo è il credo di Kilian Kaminski, austriaco, ideatore di Refurbed, piattaforma che si occupa di rigenerare e rivendere dispositivi elettronici.
I vecchi telefoni sono riparati, testati, reimballati e rimessi in vendita. Ex Amazon, Kilian ha iniziato sviluppando un programma di vendita per prodotti rigenerati, internamente al gruppo di Jeff Bezos. Ma poi ha compreso che il colosso non aveva interesse a investire nel settore. Allora ha scelto di “mettersi in proprio”.
I numeri gli hanno dato ragione: in tre anni, l’azienda ha superato i 100 mila clienti.
Uffizi, su Tik Tok è il museo d’arte più seguito al mondo
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Superato il mezzo milione di follower su Instagram
Weekend di traguardi digitali, per le Gallerie degli Uffizi: nell’ultimo fine settimana il museo fiorentino ha infatti superato su Instagram la soglia del mezzo milione di follower e su TikTok, grazie al traino della diretta con la creator Martina Socrate di venerdì sera, ha aumentato notevolmente i propri seguaci, crescendo oltre quota 21.700 (con 87.800 like) e diventando dunque il museo d’arte più seguito al mondo sulla piattaforma (alle spalle degli Uffizi ci sono il Metropolitan Museum di New York con 8.935 follower e Rijksmuseum di Amsterdam, con 7.339).
INSTAGRAM: Nella classifica europea dei musei con più follower, guidata dal Louvre di Parigi, gli Uffizi si collocano in 13/a posizione, dietro al Prado di Madrid (734K), Hermitage di San Pietroburgo (559K) e Rijksmuseum ( 552K). Se si dividono i seguaci degli Uffizi per fasce d’età, emerge che il 30% è tra i 25 e i 34 anni, il 22% tra 35 e 44 anni, 16% tra 45 e 54, il 16% tra 18 e 24, l’8% tra i 55 e i 64, il 4% è over 65 e meno dell’1% è tra i 13 e i 17 anni. Analizzati per provenienza, i follower arrivano nel 33% dei casi dall’Italia, e per gli altri due terzi dal resto del mondo (8% dagli Stati Uniti, 5% dalla Spagna, 5% dal Brasile, 3% dal Regno Unito). Tra i post che hanno ottenuto più like negli ultimi sei mesi vi sono in prima posizione il Perseo di Cellini, pubblicato il 1 marzo, nei primi giorni della pandemia (con un messaggio simbolico sul tema del terrore paralizzante, nei primi giorni della pandemia, e l’invito all’esercizio della “paura ragionata”, proprio come quella di Perseo con Medusa), con 30.374 like, al secondo posto la Venere di Urbino di Tiziano per il #DollyPartonChallenge, pubblicata il 29 gennaio, con 23.612 like, al terzo la Venere di Botticelli, postata in occasione della riapertura degli Uffizi dopo il lockdown il 3 giugno, con 19.559 like.
TIKTOK: la diretta con la giovane creator Martina Socrate dalle sale della Galleria delle Statue e delle Pitture (prima in assoluto tra i musei italiani) andata online venerdì sera per circa 40 minuti a partire dalle 19,30, è stata un grande successo: oltre 60mila le persone che si sono connesse alla piattaforma per seguirla. Il video di annuncio dell’iniziativa, “adottato” come banner da TikTok e pubblicato martedi scorso, ha superato la soglia monstre di 10,8 milioni di visualizzazioni. 551.246 ulteriori visualizzazioni sono quelle raccolte nel complesso dai brevi e divertenti video postati dagli Uffizi sul canale, attivato nel mese di aprile.
FACEBOOK: lanciata il 10 marzo, il giorno successivo all’inizio del lockdown, la pagina Facebook degli Uffizi ha raccolto in poco più di tre mesi oltre 56.500 follower e quasi tre milioni di visualizzazioni (2.984.264, a ieri) per i video pubblicati quotidianamente e dedicati alle sale dei musei delle Gallerie ed ai tesori d’arte in esse contenuti. Il weekend appena trascorso ha garantito alle Gallerie degli Uffizi ottimi risultati non solo digitali ma anche dal vero: da venerdì 12 a domenica 14 giugno il complesso museale è stato infatti visitato da 10.387 persone (circa duemila in più rispetto al precedente fine settimana, +24%), tra le quali 6.236 alla Galleria delle Statue e delle Pitture, 3.334 al Giardino di Boboli e 817 a Palazzo Pitti.
Il direttore delle Gallerie degli Uffizi Eike Schmidt: “I traguardi raggiunti in questo fine settimana testimoniano il grande impegno degli Uffizi nella sfera digitale: partito in tempi ben precedenti il momento del lockdown, continuerà con sempre maggior forza nel futuro. Mentre alcuni dei nostri canali – come Facebook e Twitter – si sono rivelati cruciali per alimentare il rapporto tra il museo e i fiorentini, i toscani e gli italiani, Instagram invece è la nostra vetrina globale con follower da ogni angolo del pianeta. E’ inoltre fondamentale sottolineare come le nostre attività nel digitale non solo non danneggi ma anzi alimenti fortemente la ripresa dei visitatori nei nostri musei: in questo fine settimana abbiamo registrato una crescita del 24%, con duemila persone in più rispetto al primo weekend dopo la riapertura”.