Coronavirus, da Bracco oltre 1 mln di euro a strutture sanitarie lombarde
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Ammonta complessivamente a oltre 1 milione di euro il sostegno offerto dal Gruppo Bracco alle strutture sanitarie lombarde in prima linea contro l’emergenza coronavirus.
Di fronte alla drammatica epidemia – comunica l’azienda – il Gruppo Bracco ha voluto esprimere il suo sostegno concreto avviando una raccolta fondi per aiutare l’ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo, l’ospedale Luigi Sacco di Milano e la Fondazione Irccs Ca’ Granda ospedale Maggiore Policlinico di Milano. Già nelle scorse settimane la società aveva donato duemila mascherine Ffp2 e Ffp3 e strumenti per la rilevazione della temperatura corporea a diverse strutture ospedaliere lombarde, e continuerà a farlo anche nei prossimi giorni. La gara di solidarietà lanciata dal Gruppo Bracco e dal Cdi-Centro diagnostico italiano, che hanno quadruplicato la somma raccolta dai loro dipendenti, ha ampiamente superato la cifra di 300mila euro. Fondi che serviranno all’acquisto di materiali di consumo quali mascherine, tute protettive, respiratori e disinfettanti necessari alle strutture sanitarie.
Oltre a queste iniziative Diana Bracco, presidente e amministratore delegato del Gruppo, ha donato a titolo personale 500mila euro per l’ospedale che Fondazione Fiera Milano sta realizzando all’interno negli spazi dei padiglioni 1 e 2 di Fieramilanocity, al Portello. Sempre a titolo personale, anche Fulvio Renoldi Bracco, Ceo di Bracco Imaging, ha fatto una donazione di 200mila euro destinata all’ospedale che sorgerà in Fiera. In totale, quindi, “l’aiuto che il Gruppo Bracco offre alle strutture sanitarie lombarde è di oltre 1 milione di euro”.
Non solo supporto economico e materiale gli ospedali. Nell’ambito delle sue attività di Corporate Social Responsibility, infatti, il Gruppo Bracco ha messo a punto anche un’iniziativa di sostegno psicologico rivolta ai più piccoli e agli studenti delle 19 scuole presenti nei territori di riferimento. Il team del Cpp-Centro psico pedagogico di Bracco – spiegano dall’azienda – ha redatto un vademecum con consigli pratici e suggerimenti preziosi per i genitori. Lo strumento risponde direttamente e in modo semplice alle domande che vengono poste dai figli di diverse età, aiutandoli ad affrontare emotivamente questo lungo tempo di crisi.
Il Cpp ha una grande esperienza in materia – ricorda una nota – perché da molti anni supporta le famiglie, gli studenti e i docenti degli Istituti scolastici di Milano, Cesano Maderno e Ceriano Laghetto. Durante questa emergenza le 10 professioniste del Cpp, tra cui psicologhe, psicoterapeute e logopediste, hanno trasformato le attività in presenza in modalità virtuale per continuare a garantire un affiancamento costante.
Centri commerciali, alcuni scenari per il post Covid
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I centri commerciali sono alle prese con la più grande crisi mai vissuta sin dalla loro nascita, ma non mancheranno le opportunità di riprendere il ruolo originario e rilanciare nuovi servizi. In un’ottica sempre più Csr e social
Sul futuro dei centri commerciali, ma anche di tutti i grandi luoghi di attrazione sociale (dai musei ai teatri, dalle piazze e dalle vie dei centri urbani ai concerti, per non parlare di tutte le tipologie di ristorazione commerciale) incombe una spada di Damocle: il distanziamento sociale imposto in queste settimane da necessità e reiterati provvedimenti legati alla salute pubblica, rimarrà una misura temporanea o entrerà nel sistema relazionale e sociale degli italiani per un periodo più o meno lungo?
Stefano De Robertis, direttore marketing di Eurocommercial Properties, società di investimento e proprietà immobiliare in Italia dal 1992, che ha nel suo portfolio fra i più importanti centri commerciali nazionali (in Lombardia, Toscana, Emilia Romagna, ma anche nel Centro della Penisola) mi circostanzia l’interrogativo con ulteriori e più dettagliate domande, rivolte non solo a se stesso, ma anche all’intero settore dei centri commerciali: “cosa ci permetteranno di fare le istituzioni in tema di spazi, ambienti, affollamenti, food court, eventi, servizi (spesso erogati in stanze chiuse e particolarmente piccole di dimensione)? Le file contingentate alle medie superfici di vendita o il rilievo delle temperature con termoscanner agli ingressi saranno superati o saranno, invece, provvedimenti di questo tipo a cambiare l’impostazione gestionale dei flussi di visita? Serviranno particolari permessi? Ci saranno restrizioni imposte da Asst, Comuni, Prefetture? Le persone rimarranno riluttanti ai luoghi chiusi o a permanere in luoghi frequentati da molta gente in poco tempo?”. Pubblicità
Quale scenario si prospetta per l’industria dei centri commerciali?
In un momento di profonda angoscia e incertezza come quello che stiamo vivendo, è molto difficile azzardare previsioni e bilanci provvisori, anche perché va compresa la portata complessiva sia della situazione attuale sia di quello che ci aspetta dopo. Non abbiamo ancora idea di quando esattamente si potrà vedere una via di uscita plausibile da una pandemia che sta sconvolgendo il nostro pianeta e la nostra società. Occorrerà comprendere nel medio e lungo periodo gli effetti a catena nel nostro settore, anche in relazione ai timori di una possibile recessione economica dalle conseguenze globali, e alle reazioni/sostegni dei Governi centrali.
Questo vuol dire che non potete ancora fare valutazioni sulla possibile perdita in termini di visite (footfall)?
In relazione agli andamenti del footfall nel primo semestre 2020, non ci sentiamo di fornire o ipotizzare cifre, non conoscendo la fine delle disposizioni legislative che impongono la quasi totalità delle chiusure dei punti di vendita nei centri commerciali. Ma appare superfluo constatare che le affluenze generali si sono fermate, ad eccezione dei flussi negli ipermercati, in seguito ai provvedimenti di limitazione agli spostamenti e ai divieti di assembramenti.
Il centro commerciale, luogo simbolo dell’aggregazione, perde dunque progressivamente la sua linfa vitale, il traffico, senza distinzione tra grande centro di attrazione regionale o centro di prossimità. Possiamo solo constatare che, dopo la sostanziale tenuta del primo bimestre 2020, già alla fine del mese di febbraio si registravano cali progressivi di visitatori, soprattutto nei grandi centri, parallelamente al moltiplicarsi delle notizie sulla diffusione del covid 19 provenienti dalla Cina.
Si potrà tornare alla normalità?
Economisti, esperti, sociologi e antropologi, ma in primis scienziati e medici stanno proponendo in questi giorni all’opinione pubblica analisi, previsioni e scenari del dopo coronavirus. Il nostro settore potrà tornare alla normalità quando si ripristineranno le condizioni di partenza, cioè quelle di salute pubblica garantita e di ripresa della vita sociale dei cittadini. Certo è che alcuni effetti nel medio periodo si manifesteranno. Non necessariamente negativi.
Quali sono saranno questi effetti?
Una ripresa dei consumi di tipo edonistico: viaggi, benessere, salute ma anche shopping ed evasione. I centri commerciali potranno recitare una parte importante nel recupero di quote di mercato significative.
L’eCommerce rafforzerà il suo ruolo di protagonista che in questi giorni è stato apprezzato anche da chi non era abituato a utilizzarlo: vedremo quella integrazione reale on/off, di cui tanto abbiamo discusso in questi anni, in termini di accelerazione per nuovi format ibridi del retail dove click and collect, delivery, drive in, eCommerce site, saranno formule perfettamente integrabili nel sistema dei centri commerciali.
Poi ci sarà il grande sforzo della comunicazione di tornare a far percepire il centro commerciale come luogo sicuro e salubre, ma anche spazio di vita in cui ritornare ad incontrarsi, a usufruire dell’offerta commerciale e di servizio, a divertirsi.
Alcune aziende con conti economici instabili già prima di questa emergenza, dovranno riorganizzarsi per non soccombere a un’eventuale carenza di liquidità; è fondamentale che il Governo risponda agli appelli lanciati in questi giorni dalle associazioni di categoria per un’equità di trattamento anche per i piccoli negozi presenti nei centri commerciali.
Non mancheranno le opportunità per lanciare o rilanciare nuove funzioni commerciali e di servizi: un esempio potrebbe venire dallo smart working. Da questo punto di vista offrire spazi comodi e professionalmente attrezzati per il lavoro in movimento e a distanza, come i co-working, potrebbe venire incontro a una nuova domanda di servizi in tal senso sia dai clienti sia dalle imprese.
Interessante anche notare la riconversione su altri business dei retailer tradizionali (vedi Miroglio e Petit Bateau) che per l’emergenza covid si sono messi a produrre mascherine, e che magati potrebbe aprire in futuro a nuove nicchie di mercato non strettamente retail.
L’industria dei centri commerciali reggerà?
L’industria dei centri commerciali in Italia è composta da molti operatori, fra i quali proprietà e società di consulenza gestionale e commerciale con basi solide: la maggior parte sono grandi gruppi internazionali che garantiranno la tenuta per tutto il settore.
Che fine farà il marketing basato su socialità e territorio? Verso quali orizzonti dovrà guardare l’industria dei centri commerciali?
Il futuro comportamento sociale potrebbe rappresentare una di quelle opportunità che in genere ogni crisi offre. Penso che il marketing territoriale e sociale ne uscirà notevolmente rafforzato grazie alla piena consapevolezza che non ci potrà essere valore economico senza valore sociale, anzi che quest’ultimo sarà sempre più fattore trainante del primo.
La naturale inclinazione del popolo italiano ad essere forte e solidale in questi momenti viene lodata da tutto il mondo e sarà di slancio per un’attenzione verso tematiche di aiuto e sostegno al terzo settore e no profit. Penso a donazioni, sostegni a campagne nazionali sociali, aiuti alla economia locale, coperture assicurative allargate ai lavoratori e ai propri familiari. Non sarà più una responsabilità sociale di facciata, ma una serie di azioni concrete per migliorare e sostenere la nostra società e il nostro pianeta. Si sono moltiplicati gli appelli e gli esempi virtuosi non mancano: ognuno è tenuto a fare la propria parte.
In questo momento critico, Eurocommercial con i suoi centri commerciali sta partecipando alle iniziative di sostegno per gli ospedali di Bergamo, Cremona, Modena, fra le province più colpite dal virus.
Il centri commerciali rivaluteranno quindi la leva della Csr e dei social.
Certamente. In termini di digital marketing, la lezione più importante che si apprende da questa crisi è che i canali social e online possono fornire un completamento interessante sia all’offerta di contenuti anche inediti, sia per un intrattenimento che, se anche non avverrà nel luogo fisico, potrà essere utile alla qualificazione dei contatti, alla generazione di nuovi pubblici e in ultima analisi alla fidelizzazione del brand shopping centre.
Il centro commerciale come prodotto e soprattutto come luogo è alle prese con la più grande crisi che abbia mai vissuto sin dalla sua nascita, ma si riapproprierà delle sue funzioni originarie, questa volta a fianco dei cittadini, come spazio ormai pubblico in cui rispondere a nuove istanze ed esigenze di aggregazione in sicurezza, di evasione, di shopping e divertimento, perché in fondo le nuove distanze ci riavvicineranno…
Lavori da casa? Sarà meglio spegnere Alexa
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Davvero vorresti che informazioni confidenziali finissero nelle mani di sconosciuti?
«Forse siamo un po’ paranoici» – ammette l’avvocato Joe Hancock, dello studio legale britannico Mishcon de Reya – «ma ci viene richiesto di riporre molta fiducia in queste organizzazioni e in questi dispositivi. Preferiremmo non assumerci questi rischi».
La paranoia e la fiducia di cui parla l’avvocato Hancock riguardano un’unica classe di oggetti (e le aziende che li producono): gli assistenti personali virtuali – come Alexa, ma anche Google Assistant e Siri – cui pressoché tutti possono accedere dallo smartphone e molti dallo smartspeaker.
Li abbiamo sempre vicino, sono in grado di captare ciò che diciamo (sia perché glielo ordiniamo, sia per errore) e di ciò che hanno registrato fanno un uso che nel recente passato s’è dimostrato non esattamente trasparente.
Così è capitato che spezzoni di conversazioni private (e a volte imbarazzanti) finissero nelle orecchie di sconosciuti, senza che chi quelle a conversazioni aveva partecipato ne sapesse niente.
Il che è un problema già consistente quando si parla di argomenti normali e banali come capita spesso tra persone che vivono sotto lo stesso tetto, ma può diventare veramente grosso quando sotto quel tetto si lavora.
In epoca di telelavoro forzato, dove quanti hanno un impiego “da scrivania” hanno attrezzato una sorta di ufficio domestico, bisogna tenere conto di tutti i fattori che differenziano la stanza di casa adibita a ufficio dal luogo di lavoro reale.
Uno di questi fattori è la possibile presenza degli smart speaker – i vari Amazon Echo, Google Home o Nest e via di seguito – dotati di assistenti vocali, che a questo punto possono assorbire informazioni confidenziali e segreti inerenti l’attività lavorativa.
Ecco quindi che lo studio Mishcon de Reya ha chiesto ai suoi dipendenti che lavorano da casa di zittire o, meglio ancora, disabilitare completamente gli assistenti domestici durante le chiamate di lavoro.
Hancock ammette che, dopo le modifiche apportate al modo in cui vengono gestite le conversazioni registrate, è meno probabile essere spiati da Amazon o Google che da un prodotti di una marca sconosciuta o poco nota. D’altra parte, la prudenza non è mai troppa.
Più volte abbiamo ripetuto che usare uno smart speaker significa mettersi in casa un microfono aperto, e nutrire una fiducia sostanzialmente assoluta verso le aziende che li producono: un po’ troppo, per chi tratta informazioni confidenziali.
Via le code per evitare il rischio contagio: la app ufirst diventa gratuita per aiutare ospedali, supermercati e farmacie
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L’amministratore delegato Barletta: «Uno strumento importante nell’emergenza per evitare grandi assembramenti, offriamo aiuto a chi gestisce servizi essenziali». Utenti e clienti potranno prenotarsi da casa con un clic
Nella sanità, sia nel Lazio e che in Lombardia, si lavora per capire come mettere in rete alcuni grandi ospedali Covid che hanno richiesto il servizio: l’obiettivo è organizzare e regolare gli accessi dei pazienti che hanno bisogno di una visita di controllo o di un trattamento che non può essere rinviato, ma anche capire se è possibile gestire il flusso delle emergenze. Le richieste arrivano da piccoli studi medici, catene della grande distribuzione, farmacie: perché se ridurre i tempi di attesa era utile nella vita quotidiana prima del coronavirus, è diventato fondamentale nell’era del distanziamento sociale, quando evitare assembramenti e file si è rivelato la strategia principale contro la circolazione del contagio da Covid-19. Lo strumento si chiama ufirst, una app che consente ai gestori di servizi pubblici, punti vendita e studi professionali di scandire gli ingressi e agli utenti di prenotarsi con un clic e di essere informati in tempo reale su quando arriva il proprio turno. Con lo slogan “Mettiti in fila da remoto”, ufirst – piattaforma nata per semplificare l’accesso ai servizi – ha deciso di offrire gratuitamente fino al 30 giugno a tutte le strutture aperte al pubblico con un punto di accesso fisico il proprio software ufirst business, partecipando all’iniziativa di “Solidarietà Digitale” promossa dal Ministro per l’Innovazione tecnologica e la Digitalizzazione, in modo da offrire un aiuto fondamentale a uffici ed esercizi commerciali che restano aperti per fornire i servizi essenziali ai cittadini.
“Da un anno e mezzo serviamo grandi clienti, ma da quando è scoppiata l’emergenza il nostro servizio è diventato ancora più importante e necessario per evitare grandi assembramenti e per evitare di fare aspettare la gente in fila, soprattutto adesso che le previsioni meteo annunciano il ritorno della pioggia e del freddo” spiega l’amministratore delegato Paolo Barletta. “Abbiamo parlato con il Ministero dell’Innovazione, con cui stavamo seguendo una serie di tematiche per cercare di integrare sempre di più la pubblica amministrazione – erano nostri clienti Ferrovie, comuni come quello di Milano, aziende sanitarie e ospedali come il Gemelli e il San Raffaele – e abbiamo pensato che per fare in modo che sempre più persone, più supermercati e più farmacie potessero utilizzare questo strumento fosse necessario renderlo gratuito. Un modo per essere utili nell’emergenza”.
Da quando nei giorni scorsi è stata lanciata l’iniziativa, racconta, sono oltre 250 i nuovi punti in corso di attivazione: “Il nostro team sta lavorando su tutto il territorio nazionale, dando ovviamente la precedenza al Nord Italia soprattutto nelle aree più colpite. La Regione Lazio lanciato una call alle farmacie per convenzionarsi al fine di gestire i flussi. Ora, con l’indicazione che tutti i servizi bancari devono essere su appuntamento, stiamo cercando di integrare quanti più sportelli possibili per garantire la continuità dei servizi”.
Ufirst, sottolinea, è uno strumento diverso dalle app che fioriscono in questi giorni. “Sono nati numerosi strumenti last minute per fare sapere alle persone dove c’è più o meno fila, che si basano essenzialmente sulle segnalazioni degli utenti e che offrono una stima dei tempi d’attesa. Noi invece siamo integrati con la struttura e questo consente tra l’altro, come invece accadeva con le vecchie applicazioni, di non creare due diverse file: una virtuale e una reale. Se io vado al supermercato e prendo dal totem il numero 20, la persona che subito dopo di me usa la app prenderà il numero 21 e così via. Il cliente che va sul posto, come una persona anziana magari, non è svantaggiato. Inoltre la nostra tecnologia è compatibile è compatibile con il 99 per cento dei sistemi salta coda esistenti al mondo”. Il servizio, sottolinea infine Barletta, sarà gratuito anche per i clienti che abbiano già sottoscritto un contratto e che abbiamo subito un forte impatto: “Chi ne farà richiesta avrà una estensione per i mesi dell’emergenza”.
Gli operatori interessati possono richiedere l’accesso inviando una richiesta all’indirizzo di posta solidarieta@ufirst.com. Dopo aver ricevuto l’autorizzazione, sarà sufficiente installare il software e attivarlo. Tempo stimato, non più di 30 minuti. Una volta in funzione, il personale della struttura potrà fare avanzare la fila a distanza dal proprio dispositivo smartphone, tablet o pc semplicemente selezionando i numeri successivi quando l’utente precedente sarà uscito. A loro volta, i clienti dell’esercizio potranno prendere il loro posto in fila direttamente dall’applicazione ufirst (scaricabile su App e Google Play store) senza la necessità di muoversi da casa.
Addio cari giornali di carta, vittime del virus
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La pandemia ha trovato i quotidiani indeboliti, senza difese immunitarie, stremati da 10 anni di crisi. Non c’è vaccino, è ora di costruire un modello nuovo per le news
Dieci anni fa in questi giorni giravo l’Italia con il collega Massimo Gaggi per presentare L’Ultima Notizia (Rizzoli), un libro-inchiesta con il quale cercavamo di capire il futuro dei giornali e del giornalismo. Eravamo all’inizio della grande crisi della carta stampata, si cominciavano a vedere i segni di un cambiamento epocale del modello di business, ma nessuno sapeva quando sarebbe stata stampata “l’ultima copia del New York Times” (titolo brillante di un altro libro, scritto da Vittorio Sabadin).
Il decennio successivo è stato caratterizzato da una continua emorragia di copie, un dissanguamento che ha messo in crisi i giornali, li ha resi deboli, ha abbassato le loro difese immunitarie. Purtroppo sappiamo bene, dall’esperienza di questi giorni, che queste sono le condizioni della popolazione più a rischio. Per anni si è guardato ai giornali di carta come a splendidi dinosauri in attesa dell’asteroide. O magari dell’arrivo di un “cigno nero” altrettanto inatteso. Temo che ci siamo: il coronavirus, secondo me, segna la fine del giornalismo cartaceo.
È una constatazione che faccio con dolore. Chi mi conosce sa che ho una storia d’amore con i giornali. Basta andare su Twitter o Instagram e digitare #emerotecabardazzi, per scoprire che da tempo pubblico foto di pagine di quotidiani ingialliti con la stessa passione con cui gli altri condividono tramonti e aperitivi. Ho una vasta collezione di giornali che continua ad arricchirsi anche in questi giorni e che ha fatto 10 traslochi in giro per il mondo (per la disperazione di mia moglie).
Aggiungo, per prevenire una seconda obiezione, che può sembrare insensibile parlare di fine dei giornali mentre migliaia di giornalisti in tutto il mondo sono impegnati, in modo eroico, nel cercare di far arrivare ogni giorno in edicola un’informazione all’altezza della crisi che stiamo vivendo. Ho fatto il giornalista per 30 anni, lo sono ancora che faccio un mestiere diverso e ho il massimo rispetto per la categoria e per le 10 mila edicole (erano 36 mila prima della crisi) sparse in tutta Italia. Ma se c’è una cosa che la pandemia ci sta insegnando, è che è meglio dire subito tutta la nuda verità, con trasparenza, e chiudere quel che c’è da chiudere per evitare i contagi. Se si vorrà preservare un’informazione di qualità e un nuovo ecosistema giornalistico sostenibile, purtroppo tra brevissimo tempo sarà necessario riconoscere che la carta è oggi la “zona rossa” del giornalismo.
Un decennio in buona parte sprecato
Il modello di business dei giornali ha prosperato fino al 2009-2010, quando hanno cominciato a farsi sentire gli effetti della recessione globale provocata dalla crisi finanziaria americana. Ne è seguito un decennio di incertezza e logoramento, cercando di trovare compromessi tra lo status quo e timide aperture al digitale. Adesso è giunto il momento della verità: la crisi del 2020 e la nuova recessione planetaria che l’accompagnerà. Chi ha avuto più coraggio e si è spinto con decisione sulla strada dell’innovazione, avrà un vantaggio competitivo nei prossimi mesi. Il New York Times, tanto per fare un esempio, può permettersi in questi giorni di non preoccuparsi troppo se l’edizione cartacea non riesce a essere distribuita, perché ormai è un sottoprodotto del digitale.
È utile ricordare alcuni dati di fatto su come il settore dei quotidiani arriva all’appuntamento con il “coronavirus dei giornali”. Serve per capire perché le difese immunitarie siano così basse.
Il giornalismo è ancora concepito per l’era industriale, dalla quale nel frattempo il mondo è uscito per entrare in una nuova information age basata su presupposti diversi. Il prodotto di base del giornalismo, la notizia, è diventata una commodity che non ha più il valore sufficiente per sostenere l’organizzazione del lavoro di aziende editoriali ancora strutturate come all’inizio del XX secolo. Il sistema ha tenuto fino a quando, a metà degli anni Zero del XXI secolo, non ha cominciato ad essere dissanguato dei propri ricavi pubblicitari, che si sono in gran parte spostati verso colossi del web come Google e Facebook.
Questo grafico rende bene l’idea del fenomeno negli Usa.
Il macro fenomeno globale più rilevante nell’editoria degli ultimi anni è stato il progressivo aumento dei ricavi legati ai lettori (abbonamenti cartacei e digitali, vendite in edicola, membership), a fronte della costante decrescita dei ricavi pubblicitari. Il sorpasso dei ricavi da audience rispetto a quelli da advertising è avvenuto nel 2013 e il trend continua a livello globale, come indica questo grafico di Wan-Ifra aggiornato al 2017:
Il valore globale dell’industria dei newspapers nel 2017 era di circa US$ 150 MLD, di cui 87 miliardi provenienti dalla diffusione cartacea e digitale e solo 67 dalla pubblicità.
Il digitale è stato la fonte principale di crescita dei ricavi, ma nonostante questo incremento la carta continua a produrre a livello globale il 90% dei ricavi degli editori giornalistici. E questa adesso si rivela una grande vulnerabilità.
Dall’inizio della crisi, i modelli di business e la stessa identità di molte news organization sono cambiati moltissimo, scegliendo una miriade di strade diverse.
C’è chi ha scelto di rafforzarsi affiancando attività non giornalistiche che portano nuove fonti di ricavo. È il caso di NewsCorp in Australia che ha puntato molto su RealEstate.com, un sito di annunci immobiliari, per far fronte al crollo dei ricavi nel settore classified spazzati via dal digitale. O di Axel Springer in Germania con Stepstone, il più importante sito tedesco per la ricerca di offerte di lavoro.
Il Washington Post, dopo l’arrivo di Jeff Bezos come editore, sta vivendo una delle trasformazioni più significative, diventando in pratica una tech company dedicata al giornalismo. Le piattaforme di content management create dal WP, l’ecosistema di data analysis e data science e il brand studio interno dedicato al racconto delle aziende, pongono il quotidiano all’avanguardia e ne fanno un modello importante di giornalismo post-cartaceo. L’edizione di carta del WP è diventata, anche in questo caso, secondaria.
Altri hanno puntato su mix simili, ma sempre caratterizzati dalla qualità del giornalismo. È il caso delle testate finanziarie come Wall Street Journal o FT, ma soprattutto del già citato New York Times, protagonista di un sorprendente cambio di paradigma. Alla fine del XX secolo, gli abbonamenti portavano al NYT meno del 5% dei ricavi. Nel 2011 è avvenuta l’inversione di tendenza.
Nel 2019, il NYT ha raccolto $800 milioni di ricavi solo con il digitale, superando i 5 milioni di abbonati a una delle varie forme di subscription per accedere ai contenuti del giornale. Nell’ultimo trimestre dell’anno, mentre gli abbonamenti crescevano del 4,5%, la raccolta pubblicitaria è calata del 10,7%, rendendo sempre più urgente per il giornale rafforzare il modello di business basato sulla membership. Nel frattempo, nel corso dell’ultimo anno, il NYT ha assunto altri 120 giornalisti, portando la redazione a 1.600 unità, il numero più alto della propria storia più che centenaria.
Dietro le cifre ci sono fenomeni sociali, trasformazioni demografiche e molte considerazioni legate alla rivoluzione digitale. C’è un digital divide crescente e c’è un cambio generazionale enorme relativo alle fonti a cui i diversi gruppi demografici attingono per cercare “notizie”. Il quadro globale lo riassume bene questo grafico del Reuters Institute for the Study of Journalism:
Siamo in una fase di ibridizzazione dei mezzi che conduce alla transmedialità, con la televisione ancora forte protagonista ma con modalità di fruizione e attori nuovi (pensiamo al boom di Netflix o Amazon Prime).
In uno scenario così, la carta stampata risulta debolissima e l’arrivo della Grande Recessione del 2020 la trova senza anticorpi.
Il caso italiano
Proviamo a vedere la situazione in Italia. Bastano pochi dati per capire che si è vicini a un punto di rottura del sistema. Nel 2007 in Italia la diffusione dei quotidiani si assestava intorno ai 5,5 milioni di copie giornaliere. Oggi si vendono poco più di 2 milioni di copie. Non va meglio neppure alle copie digitali, che nell’ultimo anno sono calate del 3,4% e complessivamente non raggiungono quota 200 mila. Significa che è proprio il “prodotto giornale” a essere in crisi, che sia di carta o replicato tale e quale su un tablet.
Se si guarda alla pubblicità, la situazione pre-crisi del coronavirus era già gravissima. In un decennio il fatturato si è ridotto del 71,3%: poche filiere (forse nessuna) possono resistere a un crollo del genere senza un radicale cambio di modello di business. Ogni anno da quotidiani e periodici sparisce circa il 10% della raccolta pubblicitaria. E le prospettive per il breve-medio termine si presentano funeste. Una prima indagine condotta nei giorni scorsi da BVA Doxa tra le imprese italiane, segnala che il 76% di esse ha già avuto impatti negativi immediati per il Covid-19: tra le prime azioni da prendere in risposta a questo disastro, il 49% indica che ridurrà gli investimenti in pubblicità e media planning.
Un altro elemento di debolezza è rappresentato dal crollo del numero degli addetti ai lavori. Non tanto sul fronte giornalistico, quanto su quello poligrafico: la carta, assai più del digitale, ha bisogno di un esercito silenzioso di mille professionalità (tipografi, grafici, stampatori, impiegati ecc.) per raggiungere capillarmente ogni giorno le edicole. Ma la situazione del settore è quella raccontata da questo grafico dell’ultimo rapporto ASIG (l’associazione degli stampatori di giornali):
In questi giorni le redazioni dei giornali e il loro sistema di distribuzione stanno facendo un lavoro – lo ripeto – eroico per cercare di portare ogni giorno un prodotto di 30-60 pagine di carta nelle case dove gli italiani vivono blindati. Temo però che, passata la fase dell’emergenza, tutte le debolezze del settore verranno a galla e si uniranno alla realtà di un prosciugamento massiccio, impensabile, degli investimenti pubblicitari che proseguirà almeno per tutto il 2020. Una tempesta perfetta che a mio avviso segnerà la fine della carta. E anche di molte tradizionali modalità di lavoro, come le periodiche riunioni di redazione. Lo smart working di queste settimane, del resto, ha offerto spunti importanti per immaginare il futuro.
Da dove ripartire?
Purtroppo, come per la sanità pubblica, è difficile reagire quando la crisi è già in corso. Servivano negli anni scorsi scelte radicali in termini di innovazione: ogni storia di successo dell’editoria in questi anni è basata su un solido approccio R&D.
Ricette se ne possono immaginare tante, modelli di riferimento a cui ispirarsi adesso ne esistono in ogni parte del mondo. Io mi limito a elencare sei lezioni che mi sembra ci abbiano insegnato gli Anni Dieci, per provare a immaginare il giornalismo degli Anni Venti:
I media in questi anni hanno confuso il traffico con l’engagement. Anche nell’era digitale occorre scommettere sul giornalismo di qualità;
La grande scarsità della nostra epoca è l’attenzione delle persone, la si cattura conoscendo bene il proprio pubblico e offrendogli contenuti di qualità. La tecnologia aiuta, senza mitizzarla;
Paid è un buon antidoto a fake: l’informazione tutta gratis non ha un futuro. Ma si è disposti a pagare un’esperienza, non una notizia.
È in corso una ibridizzazione dei mezzi che conduce alla transmedialità, occorre sapere giocare a questo gioco;
Conosci chi ti segue e chi ti paga: data analysis e data science sono fondamentali. Non servono big data, ma relevant data;
Membership sarà una parola chiave per i prossimi anni.
Adesso occorre fare presto, prima che gli effetti dell’imminente Grande Recessione divengano devastanti. Occorre comprendere velocemente che questa è una crisi di settore industriale, inserita dentro una gigantesca crisi economica globale: si può reagire solo con un drastico cambio di sistema. L’ultima copia di carta del New York Times – e di tante altre testate storiche, anche italiane – non è mai stata una realtà così vicina.