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Coronavirus, dai Ferragnez a Eataly, passando per D&G, Armani e Bvlgari: le donazioni milionarie di vip e aziende

Coronavirus, dai Ferragnez a Eataly, passando per D&G, Armani e Bvlgari: le donazioni milionarie di vip e aziende

In tanti hanno adottato forme di sostegno in questa fase di emergenza. Dalle donazioni dei big alla consegna gratuita della spesa a domicilio, all’estensione delle polizze sanitarie: ecco chi sta dando una mano economica per arginare l’emergenza

Il mondo dello spettacolo e della moda si mobilita per dare una mano al Paese in questi giorni difficili. E lo fa rivolgendosi al settore più provato dall’emergenza Coronavirus: la sanità. C’è chi finanzia l’acquisto di strumentazioni per potenziare i reparti di terapia intensiva e chi elargisce milioni di euro per sostenere la ricerca sul Covid-19. La solidarietà a grandi cifre, però, è accompagnata anche da microdonazioni di pochi euro.

I Ferragnez – la coppia Chiara Ferragni e Fedez -, per esempio, hanno lanciato un crowdfunding sulla piattaforma Gofundme. A otto ore dall’inizio della campagna, il cantante e la social entrepreneur sono riusciti a raccogliere oltre 1 milione e 500 mila euro. L’iniziativa, chiamata Coronavirus, rafforziamo la terapia intensiva, è partita con la donazione di 100 mila euro da parte della coppia.

Chiara Ferragni e Fedez per il San Raffaele

«In questa fase davvero delicata, dal punto di vista sociale e sanitario, possiamo anche noi fare qualcosa. Medici e scienziati stanno facendo un lavoro importantissimo e vorremmo supportarli concretamente – annunciano i Ferragnez -. Per questo motivo abbiamo pensato di aiutare l’attivazione di una nuova terapia intensiva presso l’ospedale San Raffaele di Milano. In questo momento le attrezzature necessarie per triplicare i posti letto di terapia intensiva e subintensiva sono: ventilatori, dispositivi di ventilazione non invasiva, monitoraggio emodinamico e monitor».

L’obiettivo economico del crowdunfing pensato insieme al professor Alberto Zangrillo, primario di terapia intensiva cardiovascolare del San Raffaele, si aggiorna di ora in ora. Ci sono alcuni dubbi sulla scelta di destinare la donazione a un ospedale privato: benché anche le strutture non pubbliche stiano collaborando nella gestione dell’emergenza, quando la crisi epidemiologica terminerà questi strumenti resteranno di proprietà degli enti privati. Ma in questo momento così complicato, forse, non è nemmeno il caso di porsi certi problemi.

Il mondo della moda: Bvlgari per lo Spallanzani

Curare, contenere il contagio, ma anche studiare un vaccino e una terapia specifica per il coronavirus. «Onorando la sua lunga e forte relazione con la Corporate Social Responsibility e le cause umanitarie, Bvlgari ha deciso di sostenere le mani intelligenti e le menti visionarie del Centro Italiano di Eccellenze in Ricerca e Medicina. Maria Rosaria Capobianchi, Francesca Colavita e Concetta Castilletti sono le tre straordinarie donne, tra le prime in Europa, che sono riuscite a isolare la struttura del virus».

Con queste parole il ceo della maison, Jean-Christophe Babin, aveva comunicato la «cospicua» donazione che sarebbe arrivata al reparto di ricerca dell’ospedale Lazzaro Spallanzani di Roma. L’importo non è stato comunicato, ma è servito ad acquistare un microscopio di ultima generazione di tipo Leica Thunder Imager 3D Cell Culture & Live Cell. Annunciato nei primi giorni di febbraio, lo strumento per studiare il coronavirus è arrivato nel padiglione Del Vecchio lo scorso 6 marzo.

Armani, Dolce e Gabbana e gli altri

Sono gli ospedali lombardi San Raffaele, Luigi Sacco, l’Istituto dei tumori di Milano, l’ospedale Spallanzani di Roma e la protezione civile i beneficiari del milione e 250 mila euro devoluti dal gruppo Armani. «Per noi è un dovere morale supportare la ricerca scientifica», hanno dichiarato Domenico Dolce e Stefano Gabbana mentre firmavano l’atto per destinare fondi all’Humanitas University: la donazione servirà a sostenere uno studio sulle risposte del sistema immunitario al coronavirus coordinato dall’immunologo Alberto Mantovani.

Manila Grace ha deciso di devolvere 5 euro per ogni scontrino emesso nel mese di marzo per sostenere la ricerca del dipartimento di Malattie infettive dell’ospedale Sacco. Stesso metodo di donazione, ovvero una percentuale sulla quota degli incassi, adottato da Carpisa e Yamamay. Il settore moda è proprio tra i più colpiti dalla crisi epidemiologica: sfilate trasmesse in streaming, fashion week annullate e il crollo della domanda.

Le iniziative dei supermercati

Mentre Eataly ha deciso di donare una percentuale degli scontrini emessi alla ricerca, la maggior parte dei supermercati ha deciso di offrire gratuitamente il servizio della spesa a domicilio. Coop Lombardia, Esselunga e Conad hanno già implementato l’iniziativa – alcuni solo per gli over 65, altri per tutti i clienti -. «Pensiamo che in questo momento sia molto più utile investire denaro per garantire un migliore servizio soprattutto agli anziani, piuttosto che fare donazioni che saranno efficaci nel corso del tempo», ha spiegato Francesco Pugliese, amministratore delegato di Conad.

Ci sono catene della grande distribuzione che hanno scelto di donare anche somme di denaro. La milanese Esselunga la più generosa: due milioni e mezzo di euro divisi tra sei ospedali. Eurospin 100 mila euro, divisi tra Spallanzani e Sacco, i due centri più all’avanguardia in Italia per questo genere di malattie.

Banche e gruppi finanziari

Una donazione immensa da parte del gruppo Intesa Sanpaolo: «Siamo pronti a donare 100 milioni di euro per affrontare l’emergenza sanitaria Covid-19», dicono dall’istituto di credito. Ma non solo: «Finanziamenti fino a 5 miliardi alle famiglie e imprese che devono affrontare problemi di liquidità per effetto del virus», ha annunciato il ceo Carlo Messina.

Banca Mediolanum ha staccato un assegno di 100 mila euro per l’ospedale Sacco. Donazione identica per il gruppo di Steven Zhang, presidente dell’Inter. Unicredit, altro colosso bancario italiano, ha elargito 2 milioni di euro alla Protezione civile per l’acquisto di materiale sanitario, mascherine e altri dispositivi medici. La compagnia assicurativa Unipol, invece, ha provveduto all’estensione gratuita delle polizze sanitarie in essere.

Multinazionali e pmi

Molte imprese stanno partecipando alla gara di solidarietà: tra chi lo comunica al pubblico e chi agisce in silenzio, sono diversi i modi per aiutare il Paese in questo momento complicato. Acquaflex, un’azienda lombarda, sta già producendo 20mila flaconi detergenti da regalare alla Croce rossa e ad alcuni Comuni. La casa farmaceutica produttrice dell’Amuchina, l’AngeliniPharma, ha donato alle regioni Lombardia e Veneto 40 mila flaconi di gel. Una cospicua donazione, sempre alla Croce rossa, è arrivata da Coca Cola: un milione e 300 mila euro. La multinazionale di beverage ha deciso anche di regalare i suoi prodotti a oltre 10.000 operatori sanitari impegnati in questi giorni negli ospedali italiani.

Le italiane Eni e Farmac Zabban hanno donato mascherine a Comuni in difficoltà e alla Protezione civile. Un carico di dispositivi per la protezione individuale è arrivato anche dalla cinese Xiaomi: «È la dimostrazione tangibile che ci sentiamo parte integrante di questo Paese», ha detto la portavoce dell’azienda di prodotti tecnologici che ha spedito in Italia u grosso quantitativo di mascherine.




Come puntare (e bene) sugli influencer per la crisis communication

Come puntare (e bene) sugli influencer per la crisis communication

Sfruttare gli influencer per la crisis communication può essere efficace e giovare alla reputazione aziendale: proviamo a capire perché.

La regola d’oro è che crisis communication crisis management non si improvvisano: è per questo che le aziende più grandi hanno nel proprio team esperti in gestione della crisi che lavorano nel prevenire, meglio, o nell’affrontare, al bisogno, quelle situazioni potenzialmente dannose per brand image e brand safety. Si possono però coinvolgere anche gli influencer per la crisis communication? È una domanda che sembra essersi riempita di senso soprattutto negli ultimi anni, con investimenti in influencer marketing sempre più consistenti in quasi tutti i settori e i mercati.

QUANDO E PERCHÉ SFRUTTARE GLI INFLUENCER PER LA CRISIS COMMUNICATION

Non c’è però una risposta univoca e, a ben guardare, coinvolgere influencer – ma anche brand ambassadortestimonial , ecc. – nella gestione della crisi si rivela opportuno per alcune aziende tanto quanto deleterio per altre. In altre parole? Inutile cercare di chiudere partnership con influencer e altri personaggi influenti in Rete a crisi in atto se, fino a quel momento, non si è badato alla propria presenza digitale o non si è investito in social media marketing . Diverso è invece il discorso se si ha una ben definita strategia digitale e, magari, si sono già attivate in passato campagne di influencer marketing . Sfruttare gli influencer per la crisis communication, in altre parole, dovrebbe essere una naturale conseguenza del tono di voce della propria comunicazione in tempi “non sospetti”.

Chi si aspetterebbe del resto una comunicazione d’emergenza ingessata ed estremamente formale, per esempio, da un’azienda che ha sempre fatto real time marketing o prova costantemente a cavalcare hot topic, tendenze e challenge del momento? Uno dei principali vantaggi che gli esperti individuano nell’inserire contenuti prodotti dagli influencer nel piano di crisis communication aziendale ha a che vedere proprio con spontaneità e genuinità percepite dei messaggi. L’apporto di influencer e altri content creator nella gestione della crisi equivale, insomma, a un punto di vista esterno all’azienda e naturalmente più vicino a quello di consumatori e pubblici a cui ci si rivolge: se in generale, cioè, l’influencer marketing funziona soprattutto grazie alla facilità con cui ci si immedesima nell’influencer e nei suoi messaggi, quando si sfruttano gli influencer per la crisis communication si spera prima di ogni cosa di rassicurare e riuscire a mantenere fedeli le proprie community, più e meglio di come si farebbe affidandosi a un rappresentante aziendale o a un esperto di gestione della crisi o pr .

Non si può non tenere conto del resto che, spesso, quando si sta affrontando una crisi aziendale, il dovere di trasparenza nei confronti dei consumatori si traduce nella necessità di veicolare loro messaggi dal contenuto piuttosto tecnico, di ostica comprensione e non di rado indesiderabili. Se è l’influencer – e non ancora un vertice amministrativo, un responsabile dalla comunicazione o delle PR, ecc. – a farsi volto dell’azienda nel momento di crisi è più facile, così, rendere comprensibile, alla portata di tutti e quindi rassicurante anche il contenuto più tecnico o specialistico. Un buon content creator, del resto, dovrebbe conoscere la propria community e logiche e grammatiche delle piattaforme in cui si muove: insieme a una buona dose di creatività, è quello che serve per dar vita a comunicazioni mirate, su misura, coinvolgenti, efficaci.

SCEGLIERE L’INFLUENCER GIUSTO: COME FARLO SE LA CAMPAGNA È UNA CAMPAGNA DI COMUNICAZIONE D’EMERGENZA

Va da sé però che se scegliere l’influencer giusto è vitale per ogni investimento in influencer marketing, lo è ancor di più quando si intende coinvolgere l’influencer – o gli influencer – nella gestione della crisi. Anche in questo senso una buona idea è non improvvisare e, al contrario, farsi trovare preparati: reparto comunicazione e addetti al crisis management, cioè, dovrebbero avere già a disposizione una short list di influencer dal profilo in linea con l’azienda da poter contattare e coinvolgere al bisogno. In alternativa ci si potrebbe rivolgere a influencer a cui ci si è già affidati in precedenza e per campagne e iniziative di influencer marketing di diversa natura: considerati i tempi concitati della comunicazione d’emergenza, del resto, l’ideale è collaborare con professionisti che conoscano già storia, missione e valori aziendali e possano rappresentarli al meglio. L’obiettivo è evitare che, da alleati nella gestione e nella comunicazione della crisi, siano gli influencer stessi a mettere in crisi e far vacillare la reputazione dell’azienda, per di più in un momento già di per sé delicato, come pure è storia di alcuni dei più (tristemente) noti epic fail dell’influencer marketing.

Quanto a A-list influencer, micro influencer , nano influencer , considerare la dimensione della community è certo importante quando li si vuole coinvolgere nella comunicazione dell’emergenza, ma non sempre e non solo nella direzione che si può immaginare. In altre parole, un influencer vip e dalle fan base milionaria non è necessariamente il meglio a cui si possa aspirare quando si ha bisogno di gestire una crisi social (e non solo). Se qualche volta, infatti, un volto noto e ben amato è di per sé convincente e rassicurante, in altre occasioni si possono ottenere risultati migliori rivolgendosi a esperti del campo, che godono di grande credibilità nella loro nicchia e che possano fungere da opinion leader .

INFLUENCER E GESTIONE DELLA CRISI AZIENDALE: CHE AZIONI IMPARARE A DELEGARE

Scegliere bene gli influencer a cui affidarsi è, insomma, un primo passo indispensabile, ma non meno importante è imparare a gestire bene le campagne con gli influencer per la crisis communication. La parola d’ordine è delegare. Se si è deciso di esternalizzare la gestione della crisi – o almeno quella sua parte che ha più a che vedere con aspetti comunicativi – è, del resto, perché task e azioni da compiere in momenti come questi sono numerosi e tutti allo stesso modo prioritario: se ci si fida di influencer e content creator “assoldati” dopo un briefing iniziale, meglio lasciar loro campo più ampio possibile quanto a scelta di tipologia, numero e contenuti dei messaggi e riservarsi, solo a valle, un monitoraggio delle performance. Anche in questo senso servirebbe trasparenza: non si può nascondere agli influencer coinvolti nella propria campagna di comunicazione d’emergenza il vero stato delle cose se si vuole che i messaggi confezionati siano convincenti e gli investimenti efficaci; qualche esperto suggerisce che con gli influencer sia condiviso l’intero piano di gestione e comunicazione dell’emergenza, perché ne risultino messaggi armoniosi e coerenti.

Se perfettamente integrati nel proprio piano di gestione della crisi, del resto, gli influencer possono aiutare anche a ottimizzare task che non erano inizialmente previste. Si pensi,  solo per fare un esempio, al customer care che nei momenti emergenziali richiede di duplicare risorse, sforzi e budget allocati: perché non lasciare che gli influencer a rispondano a richieste e domande delle più comuni e sfruttare risorse e processi ad hoc per gestire, invece, situazioni che richiedono interventi più puntuali e personalizzati? C’è almeno un altro vantaggio “operativo” e ha a che vedere con il fatto che gli influencer, naturalmente abituati come sono ad ascoltare la Rete e a fare community management , possono aiutare l’azienda nel social media listening e nel social media monitoring.

COSA LE AZIENDE HANNO DA IMPARARE DAL COINVOLGIMENTO DEGLI INFLUENCER NELLA GESTIONE DELLE GRANDI CRISI GLOBALI

Le aziende possono imparare, in questo senso, dall’apporto ripetutamente dato dagli influencer per la crisis communication nel caso di grandi crisi sociali, ambientali, politiche e via di questo passo. Si pensi per esempio a come gli science influencer hanno contribuito a coprire correttamente l’emergenza coronavirus in Italia e nel mondo, mentre tra l’altro i media tradizionali davano adito a una vera e propria infodemia . O, meglio ancora, a come destinazioni turistiche come il Brasile e l’America Latina si siano affidati agli influencer per evitare che una già grande emergenza sanitaria come l’epidemia di Zika si trasformasse anche in un’ingestibile débâcle economica legata al mancato indotto turistico: in quell’occasione furono atleti, personaggi pubblici e volti noti della TV a provare a convincere turisti e viaggiatori di tutto il mondo che non ci fosse alcun pericolo nel prenotare un viaggio, a meno di non essere delle categorie a rischio e a patto di prendere le più comuni precauzioni igieniche contro il contagio.

influencer per crisis communication zika

In occasione dell’epidemia di Zika del 2016, molti volti noti fecero “da influencer” per la circolazione di informazioni corrette e accurate e perché una certa disiformazione non trasformasse l’emergenza sanitaria in un’emergenza anche economica.

Se non è più tempo insomma per le aziende di essere “sistemi chiusi”, aprirsi all’esterno e affidare strategicamente (parte de) la propria immagine e il suo racconto a soggetti estranei all’organico aziendale anche in un momento di crisi, oltre che essere rassicurante – ed è quello che le persone vogliono in momenti di emergenza – è un gioco di soft power e può avere persino effetti vantaggiosi a valanga su immagine e reputazione aziendale.




Il mondo dopo il Coronavirus

Yuval Noah Harari: the world after coronavirus 

L’umanità
sta affrontando una crisi globale. Forse la più grande crisi della nostra
generazione.  Le decisioni prese da
persone e governi nelle prossime settimane probabilmente daranno forma al mondo
per gli anni a venire.  Danno forma non
solo ai nostri sistemi sanitari ma anche alla nostra economia, politica e
cultura.  Dobbiamo agire in modo rapido e
decisivo.

Dovremmo
anche tenere conto delle conseguenze a lungo termine delle nostre azioni.  Quando si sceglie tra le alternative,
dovremmo chiederci non solo come superare la minaccia immediata, ma anche in
che tipo di mondo abiteremo una volta superata la tempesta.  Sì, la tempesta passerà, l’umanità
sopravvivrà, la maggior parte di noi sarà ancora viva, ma abiteremo in un mondo
diverso.  Molte misure di emergenza a
breve termine diventeranno un appuntamento fisso della vita.

Questa
è la natura delle emergenze.  Accelerano
rapidamente i processi storici.  Le
decisioni che in tempi normali potrebbero richiedere anni di deliberazione
vengono prese nel giro di poche ore.  Le
tecnologie immature e persino pericolose vengono messe in servizio, perché i
rischi di non fare nulla sono maggiori. 
Interi paesi hanno la funzione di cavie in esperimenti sociali su larga
scala.

Cosa
succede quando tutti lavorano da casa e comunicano solo a distanza?  Cosa succede quando intere scuole e
università vanno online?  In tempi
normali, governi, aziende e consigli scolastici non accetterebbero mai di condurre
tali esperimenti.  Ma questi non sono
tempi normali.

In
questo momento di crisi, affrontiamo due scelte particolarmente importanti. La
prima è tra sorveglianza totalitaria e responsabilizzazione dei cittadini.  La seconda è tra l’isolamento nazionalista e
la solidarietà globale.

Sorveglianza “under the skin”

Per
fermare l’epidemia, intere popolazioni devono rispettare determinate linee
guida.  Ci sono due modi principali per
raggiungere questo obiettivo.  Un metodo
è per il governo di monitorare le persone e punire coloro che infrangono le
regole.  Oggi, per la prima volta nella
storia dell’umanità, la tecnologia consente di monitorare tutti
continuamente.  Cinquanta anni fa, il KGB
non poteva seguire 240 milioni di cittadini sovietici 24 ore al giorno, né
poteva sperare di elaborare efficacemente tutte le informazioni raccolte.  Il KGB si basava su agenti umani e analisti e
non poteva semplicemente collocare un agente umano per seguire ogni cittadino.

Ma
ora i governi possono fare affidamento su sensori onnipresenti e potenti
algoritmi invece che su spettri in carne e ossa.  Nella loro battaglia contro l’epidemia di
coronavirus diversi governi hanno già implementato i nuovi strumenti di
sorveglianza.  Il caso più notevole è la
Cina.  Monitorando attentamente gli
smartphone delle persone, facendo uso di centinaia di milioni di telecamere con
riconoscimento facciale e obbligando le persone a controllare e riferire la
temperatura corporea e le condizioni mediche, le autorità cinesi non solo
possono identificare rapidamente i sospetti coronavirus, ma anche rintracciare
i loro movimenti e identificare chiunque con cui sono entrati in contatto.

Una
serie di app mobili avvisa i cittadini della loro vicinanza ai pazienti
infetti.  Questo tipo di tecnologia non
si limita all’Asia orientale.  Il primo
ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha recentemente autorizzato la Israel
Security Agency a impiegare la tecnologia di sorveglianza normalmente riservata
alla lotta contro i terroristi per rintracciare i pazienti affetti da
coronavirus.  Quando il sottocomitato
parlamentare competente si è rifiutato di autorizzare la misura, Netanyahu l’ha
approvata con un “decreto di emergenza”.

Potresti
sostenere che non c’è nulla di nuovo in tutto questo.  Negli ultimi anni sia i governi che le
società hanno utilizzato tecnologie sempre più sofisticate per tracciare,
monitorare e manipolare le persone. 
Tuttavia, se non stiamo attenti, l’epidemia potrebbe tuttavia segnare un
importante spartiacque nella storia della sorveglianza.  Non solo perché potrebbe normalizzare il
dispiegamento di strumenti di sorveglianza di massa nei paesi che finora li
hanno respinti, ma ancora di più perché indica una drammatica transizione dalla
sorveglianza “over the skin” a “under the skin”.  Fino a quel momento, quando il dito toccava
lo schermo dello smartphone e faceva clic su un collegamento, il governo voleva
sapere esattamente su cosa stava facendo clic. 
Ma con il coronavirus, il focus dell’interesse si sposta.  Ora il governo vuole conoscere la temperatura
del dito e la pressione sanguigna sotto la sua pelle.

Il pudding dell’emergenza

Uno
dei problemi che dobbiamo affrontare per capire dove ci troviamo rispetto alla
questione della sorveglianza è che nessuno di noi sa esattamente in che modo
veniamo sorvegliati e che cosa potrebbero portare i prossimi anni.  La tecnologia di sorveglianza si sta
sviluppando rapidissimamente, e ciò che sembrava fantascienza 10 anni fa è oggi
una vecchia notizia.

Come
esperimento mentale, considera un governo ipotetico che richiede che ogni
cittadino porti un braccialetto biometrico che controlli la temperatura
corporea e la frequenza cardiaca 24 ore al giorno.  I dati risultanti vengono raccolti e
analizzati da algoritmi governativi.  Gli
algoritmi sapranno che sei malato anche prima che tu lo sappia, e sapranno
anche dove sei stato e chi hai incontrato. 
Le catene di infezione potrebbero essere drasticamente accorciate e
persino rotte del tutto.  Un tale sistema
potrebbe probabilmente fermare l’epidemia in pochi giorni.  Sembra meraviglioso, vero?  L’aspetto negativo è, ovviamente, che ciò
darebbe legittimità a un nuovo terrificante sistema di sorveglianza.  Se, ad esempio, sai che ho fatto clic su un
collegamento Fox News anziché su un collegamento CNN, che può insegnarti
qualcosa sulle mie opinioni politiche e forse anche sulla mia personalità.

Ma
se riesci a monitorare cosa succede alla mia temperatura corporea, pressione
sanguigna e battito cardiaco mentre guardo il video clip, puoi imparare cosa mi
fa ridere, cosa mi fa piangere e cosa mi fa arrabbiare davvero.  È fondamentale ricordare che rabbia, gioia,
noia e amore sono fenomeni biologici proprio come la febbre e la tosse.  La stessa tecnologia che identifica la tosse
potrebbe anche identificare le risate.

Se
le aziende e i governi iniziano a raccogliere i nostri dati biometrici in massa,
possono conoscerci molto meglio di quanto conosciamo noi stessi e quindi non
solo possono predire i nostri sentimenti, ma anche manipolarli e venderci tutto
ciò che vogliono – sia esso un prodotto o un politico.  Il monitoraggio biometrico renderebbe le
tattiche di hacking dei dati di Cambridge Analytica simili a quelle dell’età
della pietra.  Immagina la Corea del Nord
nel 2030, in cui ogni cittadino deve indossare un braccialetto biometrico 24
ore al giorno.  Se ascolti un discorso
del Grande Capo e il braccialetto rileva i segni rivelatori della rabbia, sei
finito.

Ovviamente,
si potrebbe sostenere la sorveglianza biometrica come misura temporanea presa
durante uno stato di emergenza. 
Sparirebbe una volta terminata l’emergenza.  Ma le misure temporanee, hanno la brutta
abitudine di resistere alle emergenze soprattutto perché all’orizzonte si
profila sempre una nuova emergenza.  Il
mio paese d’origine, Israele, ad esempio, ha dichiarato lo stato di emergenza
durante la sua Guerra d’indipendenza del 1948, che ha giustificato una serie di
misure temporanee dalla censura alla stampa e la confisca delle terre a
regolamenti speciali per preparare il budino (non ti prendo in giro).  La guerra d’indipendenza è stata vinta da
molto tempo, ma lo stato di Israele non ha mai dichiarato la fine
dell’emergenza e non è riuscito ad abolire molte delle misure
“temporanee” del 1948 (il decreto sul budino di emergenza è stato
misericordiosamente abolito nel 2011). 
Anche quando le infezioni da coronavirus si ridurranno a zero, alcuni
governi affamati di dati potrebbero sostenere di aver bisogno di mantenere in
atto i sistemi di sorveglianza biometrica perché temono una seconda ondata di
coronavirus o perché c’è un nuovo ceppo di Ebola in evoluzione in Africa
centrale, o perché … hai compreso l’idea. 
Negli ultimi anni è scoppiata una grande battaglia per la nostra
privacy.  La crisi del coronavirus
potrebbe essere il punto di svolta della battaglia.  Perché quando le persone possono scegliere
tra privacy e salute, di solito scelgono la salute.

La polizia del sapone

Chiedere
alle persone di scegliere tra la privacy e la salute è, in effetti, la vera
radice del problema.  Perché questa è una
scelta falsa.  Possiamo e dobbiamo godere
sia della privacy che della salute.  Possiamo
scegliere di proteggere la nostra salute e fermare l’epidemia di coronavirus
non istituendo regimi di sorveglianza totalitaria, ma piuttosto dando potere ai
cittadini.  Nelle ultime settimane,
alcuni degli sforzi più riusciti per contenere l’epidemia di coronavirus sono
stati orchestrati da Corea del Sud, Taiwan e Singapore.  Mentre questi paesi hanno fatto un certo uso
delle applicazioni di tracciamento, hanno fatto molto più affidamento su test
approfonditi, sulla rendicontazione onesta e sulla cooperazione volontaria di
un pubblico ben informato.

Il
monitoraggio centralizzato e le dure punizioni non sono l’unico modo per far sì
che le persone rispettino le linee guida benefiche.  Quando le persone vengono informate dei fatti
scientifici e quando le persone si fidano delle autorità pubbliche, i cittadini
possono fare la cosa giusta anche senza un Grande Fratello che veglia sulle
loro spalle.  Una popolazione
auto-motivata e ben informata è di solito molto più potente ed efficace di una
popolazione ignorante e controllata. 
Considera, ad esempio, lavarti le mani con sapone.  Questo è stato uno dei più grandi progressi
di sempre nell’igiene umana.  Questa
semplice azione salva milioni di vite ogni anno.  Mentre lo diamo per scontato, è stato solo
nel diciannovesimo secolo che gli scienziati hanno scoperto l’importanza di
lavarsi le mani con il sapone.  In
precedenza, anche i medici e le infermiere procedevano da un intervento
chirurgico all’altro senza lavarsi le mani. 
Oggi miliardi di persone ogni giorno si lavano le mani, non perché hanno
paura della polizia del sapone, ma piuttosto perché comprendono i fatti.  Mi lavo le mani con il sapone perché ho
sentito parlare di virus e batteri, capisco che questi piccoli organismi
causano malattie e so che il sapone può rimuoverli.

Ma
per raggiungere un tale livello di compliance e cooperazione, è necessario
avere fiducia.  Le persone devono fidarsi
della scienza, fidarsi delle autorità pubbliche e fidarsi dei media.  Negli ultimi anni, politici irresponsabili hanno
deliberatamente minato la fiducia nella scienza, nelle autorità pubbliche e nei
media.  Ora questi stessi irresponsabili
politici potrebbero essere tentati di prendere la strada maestra per
l’autoritarismo, sostenendo che proprio non ci si può fidare del pubblico per
fare la cosa giusta.  Normalmente, la
fiducia che è stata erosa per anni non può essere ricostruita dall’oggi al
domani.  Ma questi non sono tempi
normali.  In un momento di crisi, anche
le menti possono cambiare rapidamente. 
Puoi avere aspre discussioni con i tuoi fratelli per anni, ma quando si
verifica un’emergenza, scopri improvvisamente un serbatoio nascosto di fiducia
e amicizia e ti affretti ad aiutarci a vicenda. 
Invece di costruire un regime di sorveglianza, non è troppo tardi per
ricostruire la fiducia delle persone nella scienza, nelle autorità pubbliche e
nei media.

Dovremmo
sicuramente utilizzare anche le nuove tecnologie, ma queste tecnologie
dovrebbero dare potere ai cittadini. 
Sono assolutamente favorevole al monitoraggio della temperatura corporea
e della pressione sanguigna, ma quei dati non dovrebbero essere usati per
creare un governo onnipotente. 
Piuttosto, quei dati dovrebbero permettermi di fare scelte personali più
informate e anche di rendere il governo responsabile delle sue decisioni.  Se potessi monitorare le mie condizioni
mediche 24 ore al giorno, imparerei non solo se sono diventato un pericolo per
la salute di altre persone, ma anche quali abitudini contribuiscono alla mia
salute.  E se potessi accedere e analizzare
statistiche affidabili sulla diffusione del coronavirus, sarei in grado di
giudicare se il governo mi sta dicendo la verità e se sta adottando le giuste
politiche per combattere l’epidemia. 
Ogni volta che le persone parlano di sorveglianza, ricorda che la stessa
tecnologia di sorveglianza può di solito essere utilizzata non solo dai governi
per monitorare gli individui, ma anche dagli individui per monitorare i
governi.  L’epidemia di coronavirus è
quindi un importante test di cittadinanza. 
Nei giorni a venire, ognuno di noi dovrebbe scegliere di fidarsi dei
dati scientifici e degli esperti sanitari e non su teorie di cospirazione
infondate e politici egoisti. Se non riusciamo a fare la scelta giusta,
potremmo ritrovarci a rinunciare alle nostre più preziose libertà, pensando che
questo sia l’unico modo per salvaguardare la nostra salute.

Abbiamo bisogno di un piano
globale

La
seconda importante scelta che affrontiamo è tra l’isolamento nazionalista e la
solidarietà globale.  Sia l’epidemia
stessa che la conseguente crisi economica sono problemi globali.  Possono essere risolti efficacemente solo
attraverso la cooperazione globale. 
Innanzitutto, per sconfiggere il virus dobbiamo condividere le
informazioni a livello globale.  Questo è
il grande vantaggio degli umani rispetto ai virus.  Un coronavirus in Cina e un coronavirus negli
Stati Uniti non possono scambiarsi consigli su come infettare l’uomo.  Ma la Cina può insegnare agli Stati Uniti
molte preziose lezioni sul coronavirus e su come affrontarlo.  Ciò che un medico italiano scopre a Milano la
mattina presto potrebbe salvare una vita a Teheran di sera.  Quando il governo del Regno Unito esita tra
diverse politiche, può ottenere consigli dai coreani che hanno già affrontato
un dilemma simile un mese fa.  Ma
affinché ciò accada, abbiamo bisogno di uno spirito di cooperazione e fiducia
globale.

I
paesi dovrebbero essere disposti a condividere informazioni apertamente e
chiedere umilmente consigli e dovrebbero essere in grado di fidarsi dei dati e
delle intuizioni che ricevono.  Abbiamo
anche bisogno di uno sforzo globale per produrre e distribuire apparecchiature
mediche, in particolare di kit per effettuare i test respiratori.  Ogni paese invece di cercare di farlo
localmente e di accumulare qualsiasi attrezzatura possa ottenere, con uno
sforzo globale coordinato potrebbe accelerare notevolmente la produzione e
garantire che le attrezzature salvavita siano distribuite in modo più
equo.  Proprio come i paesi nazionalizzano
le industrie chiave durante una guerra, la guerra umana contro il coronavirus
potrebbe richiedere di “umanizzare” le linee di produzione cruciali.
Un paese ricco con pochi casi di coronavirus dovrebbe essere disposto a inviare
apparecchiature preziose in un paese più povero con molti casi , confidando che
se e quando successivamente avrà bisogno di aiuto, altri paesi verranno in suo
aiuto.

Potremmo
prendere in considerazione un simile sforzo globale per riunire il personale
medico.  I paesi attualmente meno colpiti
potrebbero inviare personale medico nelle regioni più colpite del mondo, sia
per aiutarli nell’ora del bisogno, sia per acquisire preziose esperienze.  Se più tardi cambierà il centro
dell’epidemia, l’aiuto potrebbe iniziare a fluire nella direzione opposta.  La cooperazione globale è di vitale
importanza anche sul fronte economico. 
Data la natura globale dell’economia e delle catene di
approvvigionamento, se ogni governo fa le proprie cose in totale disprezzo
degli altri, il risultato sarà il caos e una crisi sempre più profonda.  Abbiamo bisogno di un piano d’azione globale
e ne abbiamo bisogno in fretta.  Un altro
requisito è raggiungere un accordo globale sui viaggi.  La sospensione di tutti i viaggi
internazionali per mesi causerà enormi difficoltà e ostacolerà la guerra contro
il coronavirus.  I paesi devono cooperare
al fine di consentire ad almeno un rivolo di viaggiatori essenziali di
continuare ad attraversare i confini: scienziati, medici, giornalisti,
politici, imprenditori.  Questo può
essere fatto raggiungendo un accordo globale sulla preselezione dei viaggiatori
da parte del loro paese d’origine.  Se
sai che solo i viaggiatori attentamente schermati erano ammessi su un aereo,
saresti più disposto ad accettarli nel tuo paese.

Sfortunatamente,
attualmente i paesi non fanno quasi nessuna di queste cose.  Una paralisi collettiva ha attanagliato la
comunità internazionale.  Sembra che non
ci siano adulti nella stanza.  Ci si
sarebbe aspettati di vedere già settimane fa un incontro d’emergenza di leader
globali per elaborare un piano d’azione comune. 
I leader del G7 sono riusciti a organizzare una videoconferenza solo
questa settimana e non ha prodotto alcun piano di questo tipo.  Nelle precedenti crisi globali – come la
crisi finanziaria del 2008 e l’epidemia di Ebola del 2014 – gli Stati Uniti
hanno assunto il ruolo di leader globale. 
Ma l’attuale amministrazione americana ha rinunciato al lavoro di
leader.  Ha chiarito molto che si
preoccupa della grandezza dell’America molto più che del futuro
dell’umanità.  Questa amministrazione ha
abbandonato anche i suoi più stretti alleati. 
Quando ha vietato tutti i viaggi dall’UE, non si è preso la briga di
dare all’UE un preavviso, figuriamoci di consultare l’UE in merito a tale
drastica misura.  Ha scansionato la
Germania offrendo presumibilmente $ billions a una società farmaceutica tedesca
per acquistare i diritti di monopolio su un nuovo vaccino Covid-19.  Anche se l’attuale amministrazione alla fine
cambierà il punto di vista e presenterà un piano d’azione globale, pochi seguiranno
un leader che non si assume mai la responsabilità, che non ammette mai errori e
che si prende regolarmente il merito da solo lasciando tutti i biasimi agli
altri.

Se
il vuoto lasciato dagli Stati Uniti non sarà riempito da altri paesi, non solo
sarà molto più difficile fermare l’attuale epidemia, ma il suo retaggio
continuerà ad avvelenare le relazioni internazionali per gli anni a
venire.  Eppure ogni crisi è anche
un’opportunità.  Dobbiamo sperare che
l’attuale epidemia aiuterà l’umanità a realizzare il grave pericolo
rappresentato dalla disunità globale. 
L’umanità ha bisogno di fare una scelta. 
Percorreremo la via della malattia o adotteremo la strada della solidarietà
globale?  Se scegliamo la disunione, ciò
non solo prolungherà la crisi, ma probabilmente porterà a catastrofi ancora
peggiori in futuro.  Se scegliamo la
solidarietà globale, sarà una vittoria non solo contro il coronavirus, ma
contro tutte le future epidemie e crisi che potrebbero assalire l’umanità nel
21 ° secolo.




Coronavirus, a rischio il valore del marchio Italia. “Serve una grande campagna nazionale”

Coronavirus, a rischio il valore del marchio Italia. "Serve una grande campagna nazionale"

Era il decimo al mondo, oltre 2 mila miliardi di dollari

Quando il Coronavirus e le sue ricadute socio-economiche saranno alle spalle, di quanto si sarà svalutato il marchio “Italia”, che secondo Brand Finance nel 2019 era il decimo più pregiato al mondo con un valore di 2.110 miliardi di dollari, di poco superiore al Pil tricolore? Se lo domanda, con preoccupazione, la società britannica che è tra i leader internazionali nel prezzare i marchi di aziende e, in questo caso, Stati. L’ultimo aggiornamento, dell’ottobre scorso, ha visto l’Italia scendere dall’ottavo al decimo posto come valore del marchio nazionale, scavalcato dalla Corea del Sud e dai principali Paesi del G7

Tuttavia lo choc con cui il Paese tra i più belli e visitati al mondo ha iniziato il 2020 rischia di ripercuotersi fortemente sul “brand Italia”, che a dire della società nata a Londra nel 1996 è “uno dei principali asset di questa nazione”. Sono numerose, in queste due settimane, le evidenze che dimostrano come gli effetti economici legati all’attuale crisi dipendano molto dalla crisi d’immagine. I dati che attestano l’Italia come il terzo Paese più contagiato nel mondo, e peggio ancora la percezione che il mondo ha nei confronti degli italiani e dei prodotti locali, rischiano di fare molto più male che non il Coronavirus stesso.

“Disdire una vacanza in Sicilia, dove il numero dei contagiati è ridicolo, oppure bloccare il Grana Padano, che non può trasmettere il virus, dipende sicuramente dalla pessima immagine che abbiamo trasmesso oltre confine – afferma Massimo Pizzo, dirigente italiano di Brand Finance – Questa crisi d’immagine, che impatta sia sul business sia sul soft power della nazione, è particolarmente rilevante perché danneggia i punti di forza della nostra immagine: il Made in Italy, il turismo e lo stile di vita; non ha invece reale impatto sui nostri punti di debolezza nel percepito internazionale come la gestione della cosa pubblica o la leadership nella ricerca scientifica”.

Il dirigente di Brand Finance suggerisce, per correre ai ripari, “un piano che non si limiti a gestire la crisi, ma una vera e propria strategia per gestire il brand nazione, analoga a The Great Campaign quella lanciata qualche anno dal Regno Unito”. Allora fu una strategia che sembrò funzionare: l’isola ha aumentato le entrate economiche originate da immagine e reputazione nazione nonostante la Brexit, raggiungendo nel 2019 un valore del brand Regno Unito di 3.851 miliardi di dollari, molto più della sua previsione di Pil 2019 (pari a 2.720 miliardi).

“Il team che dovrà gestire la crisi d’immagine dell’Italia – aggiunge Pizzo – non dovrebbe limitarsi a coinvolgere guru della comunicazione, ma dovrebbe innanzitutto condurre analisi di marketing e finanziarie per stabilire lo stato attuale del marchio, Italia identificando i fattori su cui focalizzare la strategia con relativo impatto economico tenendo conto dei costi e di ritorni sugli investimenti”.




La sorveglianza elettronica non è la risposta al Coronavirus

La sorveglianza elettronica non è la risposta al Coronavirus

Hacker’s Dictionary. Si moltiplicano le richieste di geolocalizzare i cittadini per limitare l’infezione. Ma si può fare solo nel rispetto della privacy e in un quadro di garanzie costituzionali

La gestione delle misure per arginare il Coronavirus ha rivelato la totale, marchiana e colpevole incapacità dei leader europei ed occidentali di preservare la salute pubblica. Macron lo sapeva dai primi di Gennaio, Johnson ha temporeggiato, Trump ha sottovalutato e la Merkel tentennato.

L’Italia ha fatto meglio. Tuttavia ritardi, errori nella comunicazione, notizie trapelate a giornalisti amici, impreparazione e indecisioni, hanno favorito la pandemia. Come annunciare la zona rossa in Lombardia senza chiudere le stazioni.

Adesso si pensa di correre ai ripari utilizzando strumenti tecnologici di sorveglianza per tracciare gli spostamenti della popolazione.

L’unico leader “occidentale” capace di dirlo a chiare lettere è stato il capo ad interim del governo israeliano, Benjamin Netanyahu. Nel suo discorso alla nazione ha citato l’uso efficace dei dati telefonici a Taiwan per garantire la quarantena. Come pure è successo nell’autoritaria Singapore e nella Cina che prima aveva negato e poi censurato la notizia dell’epidemia.

Nethanyahu è stato molto criticato perché alludeva all’uso di sistemi di sorveglianza di tipo militare usati dall’antiterrorismo del suo paese e, pare, ai tool di una start up di nome Rayzone che usa Big Data, intercettazioni telefoniche, geolocalizzazione e fonti aperte – social network, social media e blog – per effettuare la sorveglianza elettronica del target.

Ora un approccio populista al problema chiede di decidere tra la salute e la privacy anche da noi. È una falsa dicotomia. I paesi democratici devono trovare un giusto equilibrio fra i due diritti fondamentali e preservarli entrambi.

Si potrà fare in Italia? Sappiamo che in caso di eventi eccezionali è possibile derogare dalla Gdpr, il regolamento europeo per la protezione dei dati personali. Ma a patto di capirne l’utilità.

Secondo il professore Michael Birnhack dell’università di Tel Aviv è possibile applicare un criterio proporzionale di sorveglianza per garantire privacy e salute pubblica. A cominciare dai target del Big Brother elettronico.

Per primi, i pazienti. Hanno bisogno delle migliori cure, la loro privacy è ridotta dall’ospedalizzazione ma protetta. La loro anamnesi dice tutto.

Secondo, le persone isolate in casa. Chi esce viola la legge. Dovrebbe essere un deterrente sufficiente per chi non ha motivi impellenti. Geolocalizzare quelli che consapevolmente violano le restrizioni potrebbe non servire perché lascerebbero il telefono a casa.

Terzo, i malati di cui si vuole ricostruire il percorso dell’infezione. Non tutti ricordano dove sono stati prima di essere infettati. I dati del cellulare possono aiutare. Secondo il professor Birnhack la maggior parte delle persone è pronta a cedere quei dati e consentirne l’utilizzo. Rimarrebbero quelli che devono nascondere la frequentazione con pusher, amanti e prostitute.

Infine la localizzazione di chi è stato esposto a un paziente conclamato. Qui ogni informazione serve. Per avvisare quelli potenzialmente contagiati la sorveglianza telefonica può aiutare.

Si può fare con i dati delle compagnie telefoniche ma è una misura probabilmente sproporzionata. Secondo Birnhack si può fare il contrario: chiedere alle compagnie di contattare chi era nel posto sbagliato al momento sbagliato, offrendo una serie di garanzie legali.

Le possiamo immaginare: l’adeguata protezione cibernetica di quei dati; l’uso temporaneo e la distruzione degli stessi una volta utilizzati; il divieto di usarli per altri fini; un comitato di vigilanza sull’intero processo e il coinvolgimento del Garante della Privacy.