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Crisi economica in epoca di Coronavirus: il Gruppo Prada a lezioni di eleganza

Crisi economica in epoca di Coronavirus: il Gruppo Prada a lezioni di eleganza

L’eleganza è quella qualità del comportamento che trasforma la massima qualità dell’essere in apparire”, affermava saggiamente Jean Paul Sartre. Purtroppo, recentemente, è – paradossalmente – uno dei pilastri della moda italiana, marchio famoso nel mondo, ad aver mancato di eleganza e buon gusto.

Ma è opportuno
fare un passo indietro, per comprendere i dettagli della vicenda che vede
coinvolto il colosso della moda Prada
in una vera e propria caduta di stile.

Come ormai è
tristemente noto, l’emergenza sanitaria da COVID-19 ha innescato una crisi che
ha colpito l’intero mercato globale. La crisi sanitaria ha sferrato un duro
colpo al tessuto economico coinvolgendo simmetricamente sia la domanda che
l’offerta contribuendo all’aumento di incertezze e alla difficile prevedibilità
dei fenomeni economici del prossimo futuro.

L’Italia, stando ai dati attuali, è uno dei paesi che al momento risulta maggiormente penalizzato da questa complessa emergenza, complice anche la lacunosa gestione della crisi che ha fatto sorgere un fondato dubbio circa l’inesistenza di un piano predisposto preventivamente per la gestione della crisi, come sarebbe stato auspicabile in coerenza con i principi fondanti la disciplina del reputation management e del crisis management.

Per definire l’attuale crisi finanzia Confindustria afferma nel Rapporto del CSC in cui presenta le previsioni per l’economia italiana nel 2020 e 2021 che «Mai nella storia della Repubblica ci si è trovati ad affrontare una crisi sanitaria, sociale ed economica di queste proporzioni.»

La situazione è grave, e come spesso accade nei momenti di difficoltà, la tentazione di cercare scorciatoie, magari non pagando i propri fornitori pur non avendo particolari problemi di liquidità, è forte. A tal riguardo, sono nate campagne nazionali come #iopagoifornitori promossa dall’Associazione Industriale Bresciana e creata da Alfredo Rabaiotti, titolare di Becom S.r.l.. Anche il numero uno di Confindustria, il presidente nazionale Vincenzo Boccia, ha ritenuto necessario intervenire su questo delicato e importante tema lanciando un doveroso appello alle imprese italiane:

«La tenuta del sistema economico e delle filiere dipende anche da noi, dalla nostra etica della responsabilità e dai nostri comportamenti, per questo faccio un appello a tutte le nostre imprese, e lo faccio riportando una frase di Stefano Scaglia, il nostro presidente di Confindustria Bergamo, un territorio tra i più colpiti in questo momento: “Ogni impresa, indipendentemente dalla sua dimensione, categoria o settore merceologico, è funzionale alla sopravvivenza del nostro tessuto produttivo. Mantenere gli impegni presi nei pagamenti, salvo gravi e comprovate difficoltà, è la decisione che garantisce continuità a tutto il nostro sistema. Adesso è il momento della responsabilità sociale, possiamo e vogliamo essere il centro e i promotori della nuova rinascita”».

Con queste parole il presidente Boccia ricorda che onorare gli impegni
presi, come pagare puntualmente un fornitore per il suo lavoro è una questione non
solo di rispetto della forma bensì anche di responsabilità sociale. Il termine responsabilità
infatti, racchiude in sé l’impegno dell’impresa a rispondere di tutti i propri
comportamenti e risultati sul piano etico e sociale; significa operare in modo
genuino su temi come quello della sostenibilità e agire virtuosamente per
salvaguardare e tutelare il tessuto sociale nel quale l’impresa si inserisce.

Purtroppo questo assunto, per quanto ormai sia illustrato in un’infinità di volumi accademici e consolidati in innumerevoli case-history, non è ancora interiorizzato da tutte le imprese, che spesso praticano la sostenibilità solo a parole, a fini di marketing e per apparire più green.

Ad agire in modo contrario a questi principi – come accennato nelle prime righe dell’articolo – è  il colosso Prada, prestigioso marchio di moda di lusso italiano, che nelle ultime settimane pure ha fatto parlare di sé per la decisione di contribuire all’emergenza Coronavirus riconvertendo lo stabilimento di Montone, in provincia di Perugia, dalla produzione di pantaloni a quella di 110.000 mascherine per il personale medico della Toscana, non è dato sapere se interamente a proprio carico o avvantaggiandosi – come alcuni osservatori suggeriscono – di contributi statali.

Nonostante questo lodevole impegno, il gruppo Prada – che certo non manca di liquidità, stante i ricavi netti di oltre 3 miliardi all’anno – ha recentemente inviato a suoi fornitori una discutibile lettera in cui richiede, senza troppi giri di parole «una significativa riduzione dei compensi, nella misura del 30% relativi alle prestazioni professionali già eseguite a far tempo dal 1 febbraio 2020 e per quelle che Le richiederemo nei prossimi mesi, nonché un maggiore termine per la corresponsione dei relativi importi. Ciò fino al venir meno dello stato di emergenza sanitaria ed al ripristino della situazione di normalità nello svolgimento delle attività produttive e commerciali».

Prada con la
sua inaspettata e sorprendente comunicazione, a firma dell’Amministratore
delegato del gruppo, invita senza mezzi termini i fornitori ad auto limitarsi i
compensi, proprio in un periodo di forte difficoltà per tutti, e nonostante il
gruppo non sia certamente in crisi economica. Il rumore generato da questa
iniziativa è davvero sgradevole, se inserito nel contesto che tutti stiamo
vivendo.

L’algida (e opportunistica) corrispondenza con i fornitori appare infatti in totale contraddizione con quanto suggerito dalle buone prassi di corporate social responsibility che come esposto in un precedente articolo – include la capacità e volontà delle aziende di applicare un modello di business “dal volto umano”, in cui si rimette al centro l’importanza alle “relazioni” con gli stakeholder dell’azienda, così da creare nel tempo valore duraturo per gli azionisti e migliorare la propria reputazione sui mercati, orientando così positivamente i comportamenti di acquisto.

Una vera e propria
“caduta di stile” (sic!) per il notissimo marchio del lusso, che svilisce con
questa comunicazione i presunti «consolidati
rapporti
» con i propri fornitori, centrandoli esclusivamente sul valore del
denaro (ovvero dello sconto auto-applicatosi dall’azienda).

“Lezioni di stile” arrivano, al contrario, dal fornitore leader di bombole e sistemi per gas ad alta pressione Faber Cylinders, che con la sua comunicazione “siamo tutti ingranaggi dello stesso sistemaha annunciato ai suoi fornitori:

«Faber ha sempre avuto un forte rispetto per gli impegni presi. Anche in questo periodo di emergenza continuiamo regolarmente nella nostra politica di correttezza e rispetto verso i partner fornitori, clienti e verso i nostri collaboratori. Siamo certi di poter raggiungere il nostro scopo lavorando insieme onestamente e nel rispetto della filiera produttiva che ci vede tutti come ingranaggi dello stesso sistema che non può fermarsi.»

Il
primo motore di eleganza è senz’altro la coscienza di sé e la coerenza ai
valori che si comunicano. Ed è compito di chi si occupa di reputazione far
coincidere l’identità di un’impresa con la sua immagine, poiché è il grado di
allineamento tra di esse a costruire la reputazione. Basta poco, in questo
mondo iperconnesso e 2.0, per “grattar via” la patina luccicante di un’immagine
artificiosamente costruita da un’impresa e scoprire ciò che si cela realmente nel
DNA aziendale.

Il Gruppo Prada nel suo codice
etico scaricabile online afferma che: considera
i propri dipendenti e collaboratori come una risorsa preziosa e indispensabile
per la propria esistenza e il proprio sviluppo futuro.
” Parole certamente dense di
significato, che malgrado ciò si dissolvono nel mancato riconoscimento del
valore del lavoro offerto dai propri fornitori.

Non dobbiamo mai confondere l’eleganza con l’essere snob” affermava il noto stilista Yves Saint Laurent. Cerchiamo di tenerlo sempre a mente, non solo nelle pubblicità, ma nel concreto agire di tutti i giorni.

AGGIORNAMENTO (19/01/22 h 16:59): il gruppo PRADA ha chiuso l’anno 2021 con un fatturato da record, superando quota 3,3 miliardi di giro d’affari, e un incremento significativo anche del valore di borsa. Chissà se in questa occasione la griffe del lusso condividerà i propri brillanti risultati con i suoi fornitori…




La reputazione del pharma ai tempi del Coronavirus

La reputazione del pharma ai tempi del Coronavirus

La percezione dell’industria farmaceutica sta cambiando, grazie agli sforzi che sta mettendo in atto contro il COVID-19.

I dati di una ricerca di APCO Worldwide sulle opinioni degli americani fanno emergere alcuni aspetti positivi per il settore farmaceutico. Tra questi, la speranza e l’ottimismo per nuovi trattamenti e vaccini.

L’opinione pubblica è sostanzialmente divisa in due schieramenti. Il 48% degli intervistati
non ha ancora cambiato la propria opinione sulle aziende farmaceutiche e formula critiche sulla reazione alla pandemia. L’altra metà, invece, mostra un atteggiamento molto positivo verso il comparto.

Entrando nello specifico delle tematiche, il 58% degli intervistati si è detto fiducioso sulla capacità delle pharma statunitensi di mettere a punto terapie innovative, mentre il 68% è ottimista circa la possibilità che venga sviluppato un trattamento contro COVID-19.

“Questi risultati mostrano un atteggiamento fiducioso, quasi entusiastico, su ciò che le aziende possono fare per risolvere questo problema. Un cambiamento che coinvolge anche persone generalmente critiche verso le aziende farmaceutiche”, osserva Jack Kalavritinossenior director di APCO Worldwide.




Pandemia come guerra, ossia la banalizzazione della complessità. I dieci errori di un paradigma sbagliato

Pandemia come guerra, ossia la banalizzazione della complessità. I dieci errori di un paradigma sbagliato

Chiarire le nozioni, screditare le parole intrinsecamente vuote,
definire l’uso delle altre attraverso analisi precise,
ecco un lavoro che, per quanto strano possa sembrare
potrebbe preservare delle vite umane

Simone Weil

Non ricominciamo la guerra di Troia

Come insegnano i filosofi del linguaggio, noi abitiamo la lingua che parliamo, perché il linguaggio costruisce e definisce gli elementi concettuali e simbolici del mondo in cui viviamo. La narrazione dell’impegno contro la pandemia in corso come una guerra – come fanno abitualmente i media e i governi di ogni Paese coinvolto – non è dunque solo un’espediente metaforico ma, per le notevoli implicazioni culturali e politiche che questo racconto porta con sé, per il mondo di significati che costruisce, si configura come un vero e proprio paradigma interpretativo. Ma è il paradigma sbagliato, un errore epistemologico, per almeno dieci ragioni che provo qui ad elencare

1.semplifica ciò che è complesso

La pandemia che il pianeta stra attraversando è la dimostrazione che viviamo nel più complesso dei mondi possibili, nell’orizzonte dell’incertezza globale, in un sistema di sistemi nel quale davvero “il battito d’ali di una farfalla in Brasile provoca un tornado in Texas”, secondo la celeberrima formula del meteorologo Edward Lorenz. Il paradigma della guerra, invece, è il più banale degli schemi, la semplificazione estrema, la certezza assoluta: la riduzione del fenomeno a mera dicotomia di potenza – tra noi e il nemico – che perde di vista l’interconnessione tra le persone e tra le persone e la natura, ossia l’eco-sistema e le sue interazioni. Usare la narrazione sbagliata significa dunque costruire immaginari e narrazioni fallaci, che portano fuori strada e non aiutano a identificare e costruire soluzioni efficaci e durature.

2.impersonifica in un nemico ciò che è elemento naturale

La guerra è sempre guerra contro qualcuno, necessita di un nemico contro il quale scatenare la violenza. Induce a tagliare i nodi gordiani invece che dipanare le matasse. Il linguaggio bellico “umanizza” il virus trasformandolo – da elemento naturale indifferente al genere umano, da studiare e rendere innocuo mettendo in sicurezza le persone dal contagio reciproco – in un antagonista da combattere usando qualunque mezzo, perché in guerra il fine giustifica sempre i mezzi. Fino alla militarizzazione delle città, delle relazioni, della vita civile e politica.

3.considera il nemico un alieno, quando è il sistema ad essere malato

Il nemico, per definizione, è alieno, è altro da noi, viene da fuori e ci colpisce alle spalle. E così è stato per questo virus, non a caso bollato da Donald Trump come “il virus cinese”. Ma in una logica di globalizzazione di merci e servizi, dove ogni angolo del pianeta è inter-connesso con tutti gli altri, nessun virus è alieno. Soprattutto quando tra le cause scatenanti della pandemia c’è il tremendo vulnus all’eco-sistema generato dalle deforestazioni e dagli allevamenti intensivi diffusi su tutto il pianeta e quando tra le cause che ne agevolano la diffusione globale c’è l’inquinamento ambientale, come non si stancano di ripetere i ricercatori. Nessuno può illudersi di rimanere sano in un sistema malato, per cui è necessario prendersi cura dell’ambiente anziché incolpare gli alieni.

4.favorisce il depotenziamento della procedure democratiche: la guerra è “stato di eccezione” per definizione

Il filosofo Giorgio Agamben ed altri hanno messo in guardia contro lo “stato di eccezione” permanente nel quale rischiano di precipitare le procedure democratiche investite dalla pandemia. Ebbene, quanto più l’impegno per debellare la malattia è assimilato ad una guerra, tanto più è “legittimo” sospendere i vincoli democratici per contrastare l’emergenza: la guerra è lo stato di eccezione per definizione. Di fronte allo sforzo bellico ogni scrupolo democratico è considerato cedimento, ogni critica è considerata complicità con il nemico, ogni provvedimento liberticida è dotato di “necessità e urgenza”, come insegna l’Ungheria di Viktor Orbàn. E quanto più profonde e durature saranno queste sospensioni della democrazia, tanto più rischiano di diventare ovunque permanenti.

5.legittima la limitazione delle informazioni

Come corollario del punto precedente, la stato di guerra “legittima” la limitazione delle informazioni, perché prima vittima della guerra è sempre la verità. Seppur “a fin di bene” la tentazione dei governi di proteggere i cittadini nascondendo loro notizie scomode o allarmanti è favorita dal ricorso alla logica bellica. Il diritto all’informazione e la trasparenza diventano beni secondari rispetto al bene primario di sconfiggere il nemico. “Tacete il nemico vi ascolta”, slogan diffuso dal fascismo durante la guerra, rimane valido sempre, in ogni… guerra.

6.divide le persone tra amici e traditori

Ed in una guerra vi sono sempre i disertori o, peggio, i traditori. Contro i quali non si può avere nessuna pietà. Nella guerra al virus i traditori sono gli untori, veri o immaginari, come raccontato magistralmente da Alessandro Manzoni ne La storia della colonna infame. E poiché nell’educazione bellica scovare e consegnare disertori e traditori è un dovere civico, abbiamo migliaia di cittadini pronti a segnalare alle forze dell’ordine la mamma che porta il bambino a sgranchirsi le gambe, l’anziano che fa due passi perché ha la pressione alta, il ragazzo che tira due calci al pallone di fronte a casa… Mentre – al contrario – nessuno si scandalizza che le fabbriche di armi non abbiano mai chiuso (ma quanto ne parla l’informazione? Vedi punto precedente) e la produzione bellica – quella vera – non si sia mai fermata, indifferente ai rischi di contagio.

7.crea il mito degli eroi, invece di rispondere dei tagli alla sanità

Insieme ai traditori, in ogni narrazione bellica che si rispetti ci sono sempre gli eroi. In questa guerra senza quartiere contro il virus, eroi sono i medici, gli infermieri ed il personale ospedaliero. Si moltiplicano, giustamente, i segni di riconoscenza nei confronti di chi è impegnato senza tregua a curare e salvare le persone, ma ben pochi chiedono ragione dei tremendi tagli subiti dalla sanità – 37 miliardi in meno in 10 anni, arrivando ad 8,5 posti in terapia intensiva ogni 100mila abitanti contro i 29,2 della Germania – realizzati dai diversi governi che si sono succeduti, che hanno messo in ginocchio il Sistema sanitario nazionale. Ed in croce i suoi operatori, che avrebbero fatto volentieri a meno di diventare eroi.

8.rilancia il mito della guerra come energia e mobilitazione positiva

Il continuo far ricorso al paradigma della guerra, allo sforzo bellico di chi è in “trincea” contro il virus, rimanda – consapevolmente o meno – alla ri/costruzione di un immaginario positivo della guerra come sforzo collettivo, come mobilitazione patriottica, come esaltazione della potenza militare. In un Paese nel quale il pudore della guerra, insito nel “ripudio” costituzionale, faceva che sì che veri interventi militari in giro per il pianeta fossero ossimoricamente definiti “missioni di pace”, la guerra – associata ossessivamente all’impegno di chi salva vite umane, invece di ucciderle – è tornata ad essere rivalutata come metafora di valore. Anziché di disonore

9. rilegittima le spese militari, che invece sono causa di debolezza del sistema di difesa e protezione

Come un gatto che si morde la coda, sdoganato il linguaggio bellico, anche le spese militari – cresciute di 25 miliardi di euro in Italia nello stesso periodo in cui venivano tagliati drasticamente gli investimenti alla sanità ed alla ricerca – ricevono di riflesso, nell’immaginario collettivo, ri/legittimazione e rilancio. Quando sarebbe necessaria una riconversione civile dell’industria bellica nel Paese in cui si contano 231 aziende che producono armi ed una sola che produce ventilatori artificiali. Quando sarebbe necessaria la rivalutazione della difesa civile e sociale interrompendo, per esempio, immediatamente il programma di acquisto del 90 cacciabombardieri F35, con il costo di uno dei quali si potrebbero realizzare 1350 letti in terapia intensiva. Ossia, quanto più si spende in armamenti, tanto meno si può investire in difesa e protezione. Anche dalle pandemie

10. nasconde il tema centrale: prendersi cura l’uno dell’altro, ovvero il contrario della guerra

Lo ha scritto bene anche Guido Dotti, monaco della Comunità di Bose: “Non solo i malati, ma il nostro pianeta, tutti noi non siamo in guerra ma siamo in cura.(…) La guerra necessita di nemici, frontiere e trincee, di armi e munizioni, di spie, inganni e menzogne, di spietatezza e denaro. La cura invece si nutre d’altro: prossimità, solidarietà, compassione, umiltà, dignità, delicatezza, tatto, ascolto, autenticità, pazienza, perseveranza”. Non sono i dis/valori e le “virtù” militari da esaltare in questo impegno collettivo contro la pandemia, ma i valori e le virtù civili della solidarietà e dell’empatia. Il prendersi cura l’uno dell’altro significa, come scriveva Aldo Capitini, richiamare se stessi “ad un punto interno così profondo da sentirsi madre di quello, come fosse stato generato dal proprio intimo” appassionandosi alla sua stessa esistenza. E questo atteggiamento Capitini – attento come nessun altro alle parole – non lo chiamava “guerriero”, ma più propriamente “nonviolento”




Macron ha indicato una direzione ai francesi (e a noi che cos’è la leadership)

Macron ha indicato una direzione ai francesi (e a noi che cos’è la leadership)

Il presidente non è un politico empatico e ha commesso molti errori di sottovalutazione del virus, ma ieri sera con parole magnifiche ha ammesso le sue mancanze, si è identificato con i sacrifici dei suoi connazionali e ha mostrato a tutti una visione per il futuro

Emmanuel Macron non è un leader dotato di grande empatia. Quella poca che è sino ad oggi riuscito a trasmettere è stata spesso abilmente costruita. Eppure nel discorso rivolto ai francesi ieri sera (il terzo dall’inizio della crisi del coronavirus) è parso diverso. O la situazione ha fatto maturare qualcosa in lui, o le sue doti di attore sono davvero mirabili. Forse entrambe le cose.

Come insegna il metodo Stanislavskij, la comunicazione degli stati d’animo passa attraverso l’attivazione di esperienze emotive riposte nella propria memoria esistenziale. Quindi, anche se abile attore – con una gestualità particolarmente marcata rispetto al consueto e una espressività del volto, dello sguardo, anch’essa più capace di muovere reazioni in chi lo segue – è parso in grado di mettere in gioco un coinvolgimento di particolare profondità. Comunque sia, si è avvicinato a quella dimensione del tragico che sta attraversando le nostre società e che le classi dirigenti occidentali sembrano non essere più in grado di cogliere e quindi di rappresentare. 

Poi vi sono i contenuti. Gli studiosi della gestione della crisi ci hanno spiegato che nella comunicazione di crisi, anzi, ancor di più, nel processo di meaning-making, ovvero il tentativo di «ridurre l’incertezza pubblica e politica e ispirare fiducia nei leader che devono gestire la crisi attraverso l’elaborazione e l’imposizione di una narrativa convincente», i leader sono impegnati nello sforzo di «formulare un messaggio che offra una definizione autorevole della situazione, fornisca speranza, mostri empatia per le vittime e assicuri che le autorità stanno facendo del loro meglio per minimizzare le conseguenze della minaccia» (Boin, t’Hart, Stein, Sundelius, The Politics of Crisis Management, 2017).

Tutto questo ha informato il messaggio di Macron ai suoi concittadini. Partiamo dalla notizia. Le restrizioni proseguiranno sino a lunedì 11 maggio, ovvero ancora per un mese. La riapertura sarà però condizionata al proseguire del rallentamento della propagazione del virus. All’ulteriore sforzo chiesto ai francesi («mi rendo pienamente conto, nel momento stesso in cui ve lo chiedo, dello sforzo che vi chiedo») corrispondono però nuovo impegno per alleggerire il peso economico della crisi e ogni settore, ogni problema, è accuratamente citato.

Al tempo stesso, per la progressiva ripartenza prevista dall’11 maggio, che contempla la riapertura di diversi settori produttivi e commerciali, il governo francese si impegna con una tabella di marcia, sempre restando fondamentale il corrispettivo miglioramento della situazione sanitaria. Le scuole riapriranno, ma non l’insegnamento universitario, secondo rigide regole di sicurezza, i luoghi come bar, ristoranti e teatri in questa fase rimarranno ancora chiusi, i grandi eventi non potranno tenersi almeno sino a metà luglio. La situazione sarà monitorata ogni settimana per adattare le misure e tenere informati i francesi.

Agli anziani e a persone con problemi di salute sarà chiesto di rimanere, almeno in un primo tempo, ancora confinati nelle loro abitazioni. Accanto a tutto questo dal momento della progressiva riapertura l’impegno del governo è quello di procedere a un uso intensivo di test (coinvolgendo tutti i laboratori pubblici e privati e con l’obiettivo di essere in grado di testare dall’11 maggio tutti coloro che presentano anche un solo sintomo) e al tracciamento, così come alla distribuzione di mascherine per i cittadini, differenziate a seconda dei ruoli e il cui uso in talune situazioni, come sui trasporti pubblici, diverrà ‘sistematico’ (immaginiamo obbligatorio). Il piano, nei dettagli e basato su questi principi, sarà presentato dal governo tra quindici giorni. 

Ammettendo che non è possibile dare risposta al quesito su quando si potrà tornare alla vita di prima, Macron ha comunque finalmente indicato una direzione e le tappe sulle quali per ora è sensato ragionare, insistendo sulla necessità di monitoraggio e adattamento continui. Un leader che non traccia una direzione, d’altro canto, non è un leader e nel tempo una tale mancanza rischia di sottrargli credibilità e conseguentemente i mezzi per mobilitare il Paese. 

Ma c’è stato anche dell’altro. Un altro non scontato. Innanzitutto, accanto alle rivendicazioni per ciò che è stato fatto, l’ammissione di ritardi ed errori. Forse non all’altezza di clamorosi errori come l’aver tenuto il primo turno delle municipali (errore del quale porta una responsabilità in realtà ancora non ammessa), ma non banale: «Eravamo preparati a questa crisi? L’evidenza mostra che non lo eravamo abbastanza», «Il momento ha rivelato delle lacune, delle insufficienze… come voi ho visto delle carenze, delle lentezze, delle procedure inutili, anche delle debolezze nella nostra logistica».

Macron ha raccontato dei passi per adattarsi a una crisi alla quale si era giunti impreparati: prendere decisioni difficili a partire da informazioni parziali, spesso mutevoli, adeguandosi di continuo a una realtà che ancora presenta molti lati sconosciuti. In sintesi, ha voluto coinvolgere i francesi in un processo in fieri dalle tante incognite, senza negarle. E ha evitato di colpevolizzarli, come en passant, ma non troppo implicitamente, aveva invece fatto nel suo secondo discorso del 16 marzo, quando si era riferito a comportamenti non responsabili che lo avrebbero costretto a rafforzare le misure restrittive.

Questa volta ha parlato di «nostri sforzi» che stanno dando i primi risultati positivi, ma quel «nostri» non è riferito alla Presidenza o al Governo, bensì alla Francia e ai francesi. Quelli in prima linea, medici, infermieri, pompieri, funzionari, soccorritori, chi lavora negli ospedali; in seconda linea, agricoltori, insegnanti, giornalisti, assistenti sociali, eletti locali, ovvero tutti coloro che continuano a lavorare per permettere al Paese di andare avanti; in terza linea, ogni cittadino col proprio senso civico. Con un ringraziamento a quelle autorità locali – più volte chiamate in causa – e a quei corpi della società civile che stanno rendendo la vita meno difficile ai più deboli.

Come la capacità di indicare una direzione, anche quella di far sentire ognuno parte essenziale di una impresa complessiva, di uno sforzo collettivo per salvaguardare una comunità e i suoi membri, costituisce una premessa fondamentale per mobilitare e farsi seguire. Anche mostrando di comprendere le sofferenze che il male che incombe e le risposte necessarie a combatterlo producono: «La paura per i nostri congiunti, per noi stessi … la fatica e la stanchezza per alcuni, il lutto e il dolore per altri».

In particolare per chi vive con maggiori difficoltà: «Un periodo ancora più difficile per coloro che vivono in tanti in un piccolo appartamento, quando non si posseggono i mezzi di comunicazione necessari per imparare, distrarsi, avere degli scambi», per coloro che nel proprio contesto domestico vivono tensioni, e subiscono il rischio quotidiano di violenze; la solitudine e la tristezza dei nostri anziani. La parola speranza è più volte ripetuta, come è ripetuto il riferimento alla capacità di reagire, combattere e riuscire della Francia. Ma senza sfuggire alla gravitas del momento. 

Emmanuel Macron ha agito tardi, ha assunto tardi la piena responsabilità della situazione, preceduta da marchiani errori e comportamenti a dir poco stupidi (come la serata a teatro alla fine di febbraio). Vedremo se e come saranno mantenuti gli impegni. Ma ieri ha parlato come un leader deve parlare in una situazione di crisi. Ha cercato di infondere fiducia fornendo alcune indicazioni certe nell’incertezza inevitabile del momento, tracciando una strada e mostrandosi aperto alla costruzione di soluzioni complesse. Con un coinvolgimento che non gli è consueto, ha mostrato di crederci. Della sua presidenza certamente il discorso più bello. 




Come gestire la comunicazione social di brand e imprese in questa crisi? Undici strategie suggerite da We Are Social

Come gestire la comunicazione social di brand e imprese in questa crisi? Undici strategie suggerite da We Are Social

I social sono tornati il ‘luogo di aggregazione’,  lo strumento di connessione che hanno sempre, fin dal principio, promesso di essere. We Are Social ha pubblicato il report ‘Fa’ la cosa giusta. Il ruolo dei canali social al tempo del COVID-19‘ che offre ai brand una serie di linee guida su come muoversi in questo periodo di emergenza globale.

Il report è frutto del lavoro coordinato dei diversi uffici del network internazionale che, in queste settimane, si sono confrontati per delineare uno scenario puntuale dei differenti mercati e definire le buone pratiche da seguire per comunicare in maniera rilevante, durante tutte le fasi della pandemia.

Il report di We Are Social si è chiesto come in questo contesto i brand che raccontano loro stessi tramite i social hanno e come affrontano la responsabilità di essere rilevanti e di alimentare conversazioni attuali e non tossiche.

“Nelle ultime settimane, il ruolo dei social media nella vita delle persone è cambiato: sono infatti tornati il luogo di aggregazione e lo strumento di connessione che hanno sempre, fin dal principio, promesso di essere. Con questo report, vogliamo non solo esaminare uno scenario in continua evoluzione, ma anche suggerire dei comportamenti concreti che i brand possono attuare per gestire la crisi, interagendo con le proprie community e supportando le loro necessità”, commentano Gabriele Cucinella, Stefano Maggi e Ottavio Nava, CEO We Are Social Italia e Spagna.

Il report delinea 11 strategie di gestione della crisi partendo da tre premesse: Non possiamo ignorare quello che sta succedendo. Non è una situazione in cui gestire le cose come fosse “business as usual”. Non è il momento di fare marketing opportunistico, perché questa non è un’ opportunità di marketing.

In un momento di incertezza ci muoviamo con una coordinata certa: non vogliamo suggerire in alcuna misura che abbia senso fare leva sulla paura o sulla situazione di disagio in cui le persone stanno vivendo.

We Are Social | Do The Right Thing: The role of social in COVID-19 from We Are Social

1. ASCOLTARE LE COMMUNITY

Attiviamo degli alert per le menzioni del brand e diamo lo specifico task ai community manager di monitorare le conversazioni sui canali.

2. RIESAMINARE LE VERITÀ DI BRAND

Senza coordinate certe, i valori di marca devono essere una bussola per ridefinire cosa abbia senso fare in un contesto di cambiamento rapido e imprevedibile.

3. CREARE UNA NEWSROOM

Un piccolo passo, ogni mattina: un incontro di 10′ per capire cos’è successo il giorno precedente e se e come impatta il brand, se e come integrarlo nella comunicazione.

4. PRATICARE L’UMILTÀ

Non è il momento di vendere esplicitamente e non è il momento di illuminare la rilevanza di prodotti e servizi rispetto agli inediti e specifici problemi che stiamo affrontando. Se servono, se sono utili, le persone lo sanno.

5. CONNETTERE LE PERSONE

Le persone vogliono sentirsi vicine digitalmente ora che fisicamente non possono esserlo. Cerchiamo di attivare il network dei brand per mettere in collegamento le persone tra loro, in funzione degli interessi che hanno.

6. RINFORZARE IL CUSTOMER SERVICE

Va messo in conto di dover gestire più richieste e in tempi più brevi, quindi consideriamo di allocare più tempo o più persone al customer service.

7. RIVEDERE IL TONO DI VOCE

Dobbiamo rimanere calmi, essere chiari e concisi, ma questo non significa necessariamente essere seri o eccessivamente tragici. Bisogna tenere sempre il polso della community per capire qual è il tono di voce giusto al momento giusto.

8. ESSERE UTILI

Se il prodotto o il servizio che il brand commercializza è essenziale, ha senso valutare se e come regalarlo, ma anche fare di tutto per aiutare le persone, tecnicamente, ad adoperarlo.

9. AVERE UNA STRATEGIA DI CONTENUTO

Il contenuto organico è tornato. Bisogna prepararsi ad aggiornare sempre e costantemente il proprio palinsesto, così come la scelta dei touchpoint digitali da attivare.

10. NON AVERE PAURA DI FARE UN PASSO INDIETRO

Stanno succedendo un sacco di cose. Se il brand non ha molto da aggiungere, ha senso anche che non dica niente.

11. ADATTARSI VELOCEMENTE

Un messaggio che sembra giusto oggi, potrebbe essere inutile o controproducente domani. Programmare, ma sapersi adattare è vitale.