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Qual è il futuro dei coworking?

Qual è il futuro dei coworking?

Tra aziende che vogliono liberare spazio nelle sedi e piattaforme digitali di networking e formazione, ecco come gli uffici condivisi cambiano pelle

La riorganizzazione degli spazi di lavoro imposta dall’emergenza sanitaria del coronavirus tocca tutti. Fabbriche, uffici, negozi, ristoranti: ci si attrezza per rispettare il distanziamento sociale e garantire sicurezza per il personale e i clienti. Anche i coworking si organizzano. Il modello che conosciamo e che si è diffuso con successo negli ultimi anni conta su open space di una certa metratura dove convivono fianco a fianco molte persone in un incastro di scrivanie e spazi comuni che sono sempre stati il punto forte di questo business. L’antitesi dei vecchi uffici, spesso piccoli cubicoli asfittici.

Credo che i coworking abbiamo dimostrato di essere un modello valido e positivo, e continueranno a esserlo”, spiega Gianfranco Marinelli, presidente di Assoufficio, associazione che rappresenta 75 aziende che coprono l’85% fatturato nazionale del settore. “È difficile capire come andranno le cose, viviamo una situazione sconosciuta, ma i grandi spazi devono essere ripensati se questi problemi permangono, creando situazioni in cui non ci sono più 20 persone ma 5, con barriere divisorie. Molte aziende si sono già messe all’opera per farlo, con pannelli in plexiglass, trasparenti”, prosegue: “Ma c’è preoccupazione anche tra le aziende piuttosto grandi su come poter affrontare i regolamenti e i protocolli”.

Molte realtà dispongono di uffici interni piccoli e angusti e stanno quindi iniziando a pensare di delegare all’esterno. Scegliendo quindi di spostare temporaneamente i dipendenti in un coworking che possa gestire tutte le operazioni, garantendo le norme di sicurezza. “Credo possa essere un’alternativa a cui si guarda con interesse. Qualcuno, sperimentandola, potrebbe trovarla soddisfacente, decidendo di proseguire su quella strada”, conclude Marinelli.

Dal canto loro, i coworking hanno messo in campo nuovi strumenti per continuare a essere attrattivi e assolvere a una delle loro principali funzioni, quella di hub dove fare networking e creare sinergie, ampliando la propria rete di contatti.

Le app

La ripartenza passa dalle app. Copernico, la rete di luoghi di lavoro che in Italia conta 13 sedi tra Milano, Varese, Cagliari, Torino, Roma, Bologna e tra poco Trieste, ha lanciato due applicazioni. Si chiamano Procurami e Nico, e hanno l’obiettivo di aiutare i professionisti e le aziende avvicinandoli ai servizi di cui hanno bisogno.

Procurami propone una serie di fornitori che sono in grado di presentare servizi in quattro aree: acquisti, tecnologia, formazione e design degli spazi. Dal noleggio auto alla consulenza sulla medicina del lavoro, fino alle attività legate alla protezione dal Covid-19. E poi: servizi per la crescita delle imprese e per accelerare la digitalizzazione, prodotti di arredo e consulenze per personalizzare degli spazi, corsi di formazione.

È la stessa Copernico a selezionarli e a presentarli all’interno dell’app. In questo modo le piccole imprese e i liberi professionisti che vi accedono, possono trovare già le risposte alle loro domande, pescando in un bacino di realtà già tutte vagliate da Copernico. “Abbiamo messo a disposizione tempo e risorse specializzate per sollevare le aziende dalle attività di gestione e permettere loro di concentrarsi sui piani di sviluppo”, commenta Pietro Martani, fondatore e amministratore delegato di Copernico: “Le aziende, soprattutto quelle più piccole e con meno risorse, possono rivolgersi a partner fidati con cui collaborare, anche in outsourcing”.

L’app Nico è invece dedicata alle aziende e ai professionisti che sono clienti di Copernico. Introducendoli a contatti, servizi e strumenti per facilitare la connessione, la condivisione e lo smart working, permettendo la comunicazione tra i membri della community.

Infine ci sono altre due iniziative. Con la società di consulenza Progetto Cmr, specializzata nella progettazione integrata – architettura e ingegneria –, Copernico ha dato il via a WorkCare, per le aziende che sono in cerca di architetture flessibili che si adeguino all’evoluzione futura dei luoghi di lavoro. All’interno degli hub invece, ha dato il via al ristorante diffuso, servizio organizzato da me.nu. Consente di ricevere nel proprio ufficio i pasti, anche presso le sedi dove non è presente un punto ristorazione.

Lavoro a distanza

Grownnectia, società di accelerazione di startup in fase preseed, ha di recente annunciato l’apertura di cinque nuovi sedi in Italia – Brescia, Verona, Firenze, Milano e Pescara – e punta sul coworking virtuale per lavorare in sicurezza. Quello che propone alle startup è la possibilità di affrontare tutto il percorso di preaccelerazione e incubazione da remoto, tramite una piattaforma online.

Sarà come un coworking reale, dove ogni startup avrà la sua stanza, potrà interagire con le stanze di altre startup in live streaming”, spiega il ceo Massimo Ciaglia: “Saranno presenti sale corsi, sale eventi e servizi di segreteria, come centralino, servizio stampa a domicilio, servizi di cancelleria”. Oggi sono 40 le startup dei percorsi di Grownnectia che possono già accedervi. Ma nei piani della società l’apertura delle sedi fisiche andrà di pari passo allo sviluppo di questo progetto, per un percorso integrato di smart working fisico-digitale.

Nuovi spazi

Sale riunioni aggiuntive con limitazione dei partecipanti. Conversione degli spazi finora dedicati agli eventi in spazi per coworking. Ripensamento dell’area caffè per garantire la distanza di sicurezza con modalità cashless per il pagamento e barriere protettive. E poi: sensori iot per il controllo della qualità dell’aria. Certificazioni digitali dello stato di salute delle persone all’interno dei campus.

Talent Garden, la piattaforma per la formazione digitale e l’innovazione nata in Italia nel 2011, sta studiano nuove soluzioni per i suoi campus in Europa, di cui 14 in Italia. Dalla sanificazione prima della riapertura degli ambienti, alla rimodulazione degli spazi per garantire le distanza di sicurezza, con la riconversione di quelli utilizzati. “Le aziende e le scale-up stanno guardando con interesse all’idea di poter avere posti flessibili dove far ruotare i propri team, in un’ottica di smartworking che anche nella fase 2 rimarrà centrale nel modo di lavorare di aziende piccole, medie o grandi che siano”, dice Lorenzo Maternini, vice presidente global sales e country manager di Talent Garden Italia: “Stiamo ricevendo richieste di importanti realtà che si stanno interessando al nostro modello”.

È previsto anche un Welcome back kit, per chi tornerà a frequentare gli spazi del coworking. Include una raccolta di link utili come il collegamento Zoom meeting per le necessità di networking, un collegamento a Hangout con la reception, un servizio di pulizia delle superfici attivabile a richiesta.

A marzo Talent Garden ha rilasciato Antea, una piattaforma digitale per aiutare professionisti e aziende alle prese con lo smart working. Sviluppata su tecnologia Cisco Webex, ha fatto parte del progetto Solidarietà digitale del ministero per l’Innovazione tecnologica. Si tratta di un laboratorio digitale dedicato ai temi dello smart working e alle nuove metodologie del lavoro. Consente di apprendere, formarsi, crescere professionalmente, confrontarsi con gli esperti di settore e fare networking in un’ottica di comunità allargata online.




Nel futuro dell’Email Marketing: in Gmail arrivano le email “navigabili”

Nel futuro dell’Email Marketing: in Gmail arrivano le email “navigabili”

Grazie all’AMP, i brand ora possono lanciare campagne interattive dove il destinatario può sfogliare cataloghi di prodotti, prenotare viaggi e molto altro, senza lasciare l’email. Un enorme passo avanti a livello di user experience, engagement e conversioni.

Fino a oggi l’email era un flyer, una preview statica di un’offerta. Ora non più, o (almeno) non solo.

Google ha infatti da pochissimo annunciato il rilascio della tecnologia AMP in Gmail, rendendo i messaggi di posta elettronica non solo dinamici (GIF animate e countdown già contribuivano a questo) ma anche interattivi, navigabili, actionable.

Si tratta di una novità che apre importanti scenari alle aziende, tanto che alcune realtà – come Booking, Doodle, Ecwid, Pinterest, solo per citarne alcune – l’hanno già introdotta nel proprio piano di Email Marketing.

Ma andiamo con ordine. In questo post vedremo:

  • In cosa consiste la tecnologia AMP
  • Come si applica al mondo email
  • Quali scenari di comunicazione e marketing apre alle aziende
  • Come farla propria utilizzando MailUp.

Che cos’è l’AMP

Aperto e promosso da Google, AMP sta per Accelerated Mobile Page. Si tratta di un linguaggio di creazione di siti web derivato dall’HTML e ottimizzato perché i siti si carichino più rapidamente sui dispositivi mobile.

Alla base dello sviluppo di AMP sta la volontà di assecondare una tendenza globale, che vede il traffico dai dispositivi mobile costantemente superiore a quello riconducibile al mondo desktop.

In molti casi la fruizione dei contenuti su mobile non è ancora ottimale, risentendo di difficoltà di adattamento delle grafiche e lentezza nel caricamento. Limiti che intaccano l’esperienza di navigazione dell’utente.

Nate con l’obiettivo di migliorare la velocità di caricamento delle pagine web per mobile, le pagine AMP si programmano infatti con un linguaggio proprio, una variazione dell’HTML chiamata AMP HTML, un nuovo formato aperto con licenza Apache il cui codice è disponibile su GitHub per tutti gli interessati allo sviluppo.

AMP, insomma, è la libreria open source che permette di creare pagine interattive, fluide e veloci da caricare.

Perché implementare AMP in Gmail

E qui arriviamo al punto: da pochissimo Google ha annunciato di aver portato a termine il progetto di implementazione di AMP sui propri servizi di posta elettronica.

AMP for Email si traduce nella possibilità per i destinatari di compiere azioni nel corpo dell’email che vadano ben oltre il semplice clic di reindirizzamento a una landing page o a un sito web.

Semplificando il funzionamento, possiamo dire che – in base al clic del destinatario – il client di posta invia al sito web dell’azienda il dato e, per effetto, produce l’aggiornamento dell’email con nuovi contenuti.

Una grande svolta, soprattutto se consideriamo che Gmail catalizza un’enorme fetta (26% dell’audience) del mercato ESP, grazie a oltre un miliardo e mezzo di utenti attivi a fine 2018. In più, Mountain View ha già annunciato che AMP verrà implementato anche su Yahoo Mail, Outlook e Mail.ru.

“Negli ultimi dieci anni sul web in generale, siamo passati dalle pagine statiche alle app interattive. Eppure l’email è rimasta sostanzialmente invariata, con messaggi statici o che sono semplicemente un trampolino di lancio per contenuti più complessi”.
Aakash Sahney, Product manager di Gmail

Con la nuova tecnologia sulle email è possibile eseguire azioni direttamente nel corpo del messaggio. Azioni quali:

  • La conferma della partecipazione a un evento
  • La compilazione di un questionario
  • La consultazione di offerte e cataloghi di prodotti
  • La risposta a un commento e molto altro.

Tutto questo senza dover uscire dall’email.

Come anticipato, già diverse aziende hanno iniziato a utilizzare le email interattive. Tra queste Booking.com, Despegar, Doodle, Ecwid, Freshworks, Nexxt, OYO Rooms, Pinterest e redBus. Vediamo allora alcuni esempi di utilizzo di AMP per Gmail.

Alcuni scenari d’uso per l’Email Marketing

Pinterest è stata una delle prime realtà a sperimentare la tecnologia. Di fatto, le email di Pinterest si presentano apparentemente come prima, ma – una volta dentro – si nota subito un’enorme novità: ora sono letteralmente navigabili, consentendo al destinatario di andare in cerca di idee e ispirazioni da appuntare alla propria bacheca.

Quello che l’utente Pinterest avrebbe fatto entrando nel proprio account, ora può farlo direttamente all’interno dell’email. Di fatto si annullano le distanze, si semplifica la user experience dell’utente, a intero vantaggio di entrambi gli attori: l’azienda e l’utente.

OYO Rooms invece permette al destinatario di navigare tra le diverse proposte di pernottamento e hotel, consultando i dettagli semplicemente scorrendo e cliccando nel corpo dell’email:

Per non parlare di quanto la nuova tecnologia possa facilitare tutte quelle attività legate alle prenotazioni: museiistituti o qualsiasi azienda promuova eventi o corsi, ma anche compagnie aeree e di treni. Ogni realtà troverà la via creativa migliore e più funzionale per dare la possibilità a clienti e prospect di consultare, scegliere e prenotare viaggi, visite e corsi, direttamente nella propria inbox, da desktop o mobile.

Qualcosa di simile a quanto, già ora, fa Doodle, che invia email interattive da cui il destinatario può rispondere agli inviti selezionando la data a lui ideale, senza dover accedere a un altro sito.

Pensiamo poi al potenziale che l’AMP può avere per le strategie di Email Marketing di e-commerce e retail, due settori che potrebbero rendere le proprie campagne dei veri e propri store online navigabili, vetrine consultabili in profondità pochi istanti dopo l’apertura di una semplice email.

Alcuni step in preparazione

Una premessa: al momento, la tecnologia AMP non è supportata da editor drag & drop (come BEE di MailUp), e il suo utilizzo all’interno di messaggi creati in HTML è ai primissimi stadi.

Un buon punto di partenza è iniziare a implementare alcuni passi necessari lato tecnico, per prepararsi a eventuali sviluppi futuri. Nello specifico:

  • L’allineamento del dominio usato nella firma DKIM con quello usato come mittente
  • La corretta implementazione del DMARC
  • L’aggiunta di un MIME TYPE specifico (AMP MIME)
  • Un contenuto AMP HTML già strutturato (al momento non è possibile crearlo utilizzando gli editor della piattaforma).

Gmail richiede ai mittenti una ottima e comprovata reputazione sul dominio mittente con la configurazione indicata: per questo motivo – anche se non siete ancora pronti ad inviare email dinamiche – suggeriamo di prendere in considerazione i primi due punti fin da ora.

Per maggiori informazioni su questa attività di sviluppo, per ottenere un preventivo e per ogni altra domanda sul tema, ti invitiamo a scriverci.




Al via la Global Partnership on Artificial Intelligence (GPAI): l’Italia è tra i Paesi fondatori

Al via la Global Partnership on Artificial Intelligence (GPAI): l’Italia è tra i Paesi fondatori

Con una dichiarazione congiunta dei Paesi fondatori ha preso il via la Global Partnership on Artificial Intelligence (GPAI), a cui l’Italia ha aderito lo scorso 26 maggio. Tra i partecipanti vi sono Australia, Canada, Francia, Germania, India, Giappone, Messico, Nuova Zelanda, Repubblica di Corea, Singapore, Slovenia, Regno Unito, Stati Uniti d’America, e l’Unione Europea (per quest’ultima il processo di adesione è in corso).

“Lo sviluppo dell’Intelligenza Artificiale avrà un ruolo fondamentale nel disegnare il nostro futuro: potrà rendere più efficienti molti processi della nostra società e aiutarci a compiere scelte con maggiore consapevolezza”, ha dichiarato il Ministro per l’Innovazione e la Digitalizzazione, Paola Pisano. “Tuttavia, la tecnologia non è neutra: il suo valore dipende da come viene sviluppata e applicata. Attraverso la GPAI, l’Italia si unisce alla riflessione globale che si è avviata per garantire che lo sviluppo tecnologico non esuli mai dalla sua connotazione umana”.

Nell’incipit della dichiarazione congiunta, in cui si ricorda che la collaborazione è aperta anche ad altri Paesi e partner interessati, si legge: “sosterremo lo sviluppo dell’IA, responsabile e incentrato sul potenziamento delle capacità degli individui, e un utilizzo coerente con i diritti umani, le libertà fondamentali e i nostri valori democratici condivisi, come indicato dalla Raccomandazione OCSE sull’IA”.

La GPAI è un’iniziativa internazionale e multidisciplinare che ha come obiettivo la promozione, lo sviluppo e l’utilizzo responsabile dell’Intelligenza Artificiale, “fondata sui diritti umani, l’inclusione, la diversità, l’innovazione e la crescita economica”.

Uno dei primi compiti della GPAI sarà avvicinare teoria e pratica nell’IA, sostenendo “attività applicate” relative ad essa. Vi saranno riuniti “esperti di rilievo provenienti dall’industria, dalla società civile, dal settore pubblico e dal mondo accademico”, che lavoreranno su quattro tematiche in altrettanti gruppi di lavoro:

  • Intelligenza Artificiale Responsabile
  • Governance dei dati
  • Il Futuro del Lavoro
  • Innovazione & Commercializzazione

Dato il contesto in cui nasce questa partnership, la prima attività degli esperti si focalizzerà “anche sull’analisi del contributo che l’Intelligenza Artificiale può offrire per superare l’emergenza sanitaria da Covid-19 e contribuire alla ripresa economica nella fase post-epidemica”.

A livello organizzativo, la GPAI potrà usufruire di un Segretariato presso l’Ocse a Parigi (la cui costituzione è nella fase finale) e di due Centri di Ricerca (a Montréal e Parigi). “La collaborazione con l’Ocse contribuirà a creare forti sinergie tra il lavoro scientifico e tecnico della GPAI e la leadership internazionale che l’Ocse ha sulle politiche sulla IA, rafforzando la base analitica per tutte quelle misure di policy volte alla promozione di una IA responsabile”, si legge ancora nella dichiarazione congiunta. In particolare, i progetti che saranno intrapresi o valutati dagli esperti riceveranno il supporto amministrativo e di ricerca dei Centri, che pianificheranno anche le riunioni plenarie annuali del gruppo multidisciplinare di esperti della GPAI, che si riunirà per la prima volta in Canada a dicembre 2020.




Acqua Sant’Anna mi cade sull’… eCommerce

Acqua Sant'Anna mi cade sull... Ecommerce

Prima che mi convertissi alle caraffe filtranti, Acqua Sant’Anna è sempre stata sulla mia tavola, in ogni formato possibile, in ogni stagione possibile. Non è certo la più economica, ma forse è una tra le più (letteralmente) limpide, anche nell’etichetta. E se oggi non sono più loro cliente, appartengo però professionalmente agli interessati al tema dell’innovazione industriale e della corporate communication, che Sant’Anna ha sempre abituato bene, a partire dal varo della famosa BIO Bottle, che ha riscosso diversi premi e che a detta loro sarebbe la prima bottiglia bio al mondo di acqua minerale 100% riciclabile e biodegradabile, rispettosa di ambiente e salute. Insomma, eccezionale, se consideriamo quanto alto è il consumo di acqua in bottiglia in Italia.

L’elogio a questo marchio potrebbe continuare, perché di ragioni anche non solo teoriche ce ne sarebbero, come ad esempio i loro stabilimenti sulle Alpi costruiti secondo logiche di bio-edilizia, la preferenza del trasporto su rotaia o i programmi di recupero e riduzione delle plastiche, dichiarati anche sul loro sito (qui). E pare che gli sforzi ripaghino: Alberto Bertone, presidente e amministratore delegato, poche settimane fa ha dichiarato al Corriere Economia di aver raggiunto la conquista di una leadership internazionale, con 1,5 miliardi di bottiglie di Acqua Sant’Anna prodotte in un anno.

Se sei un’eccellenza, o ambisci ad esserlo, comunicazione e coerenza devono però andare di pari passo, sempre: solo così si costruirà una solida identità. Scalfire una reputazione ben strutturata è complesso, ma non impossibile: basta scivolare su una buccia di banana per rincorrere nuove opportunità di business, che poi così nuove non sono.

Mi sono imbattuto in un’inserzione di Sant’Anna, scorrendo Facebook, che mi offriva 30 bottiglie di acqua + 6 di tè, ad un prezzo agevolato, consegnate fin sotto casa. Acqua a domicilio, bella impacchettata, senza intermediari; la cosa mi ha incuriosito, tanto da lanciarmi sul sito per saperne di più. Ad accogliermi, un altro simpaticissimo banner di vendita che faceva da coperta… allo shop on-line del brand. Intendiamoci, vendere acqua su internet, pur essendo assurdo, è qualcosa di non così nuovo, ma perchè non lasciare questo (sporco) compito ai rivenditori? Conviene rincorrere un profitto a tutti i costi rischiando di ledere la propria immagine?

La mia delusione iniziava a farsi sentire: pagine sull’impegno aziendale, sullo storytelling e l’ambiente, e si finisce, come primo impatto, con le call to action allo shop di plastica. Anche no, dai.

Da dove spedisce Sant’Anna? Ha centri di smistamento sparsi in Italia? Questo mi sono chiesto. Ammesso che ci sia qualcosa di etico nel compare acqua in bottiglia facendosela consegnare fino a casa, mi piacerebbe capire se parte un furgoncino solo per me, e da dove. Nella F.A.Q relativa alla spedizione l’unica certezza è che raggiungono tutta Italia, ma nulla si dice sulla geolocalizzazione dei magazzini, che invece aiuterebbe parecchio a farsi un’idea riguardo questa operazione. L’unico dettaglio in merito al magazzino che ho trovato vanta che lo stabilimento è condotto da carrelli automatizzati a guida laser, permette il caricamento diretto sugli autotreni che, carichi di acqua fresca, partono e si fermano alla prima grande stazione ferroviaria a valle, dove il prodotto è spostato sui treni e quindi spedito in tutta Italia. Tutto ancora troppo fumoso, per chi cerca di capire se sta comprando un comodo debito con l’ambiente o dell’acqua. Cerco quindi un call center, che non mi sa aiutare, ma posso invece chattare con H₂O, il BOT dell’azienda. Chi meglio di lui può arrivare alla fonte delle informazioni, penso: così chiedo da dove parta la spedizione. Risposta immediata: spediamo in tutta Italia; seconda risposta: grazie a te avrò qualche chance in più di imparare! Bene, ma non benissimo. Lascio H₂O nel suo mare di incertezze, ma prima di gettare la spugna mi ci asciugo le lacrime.

Il punto è che un’azienda leader nel settore, in un settore un po’ affollato, certo, credo non debba cedere alla pressione dell’e-commerce lanciandosi a capofitto nel primo servizio utile da mettere in piedi solo per fare più soldi.

Intendiamoci, comprare prodotti online non è affatto un crimine, e nei confronti dell’ambiente può addirittura fare del bene se – rispetto a centri commerciali o negozi – sono distante abbastanza. Ma spedire plastica da chissà dove, col supermercato vicino a casa, invece, non mi convince per niente. E minare la credibilità di un brand per così poco è un rischio che non correrei mai.

Perchè, ad esempio, non puntare su un modello di business su acqua in vetro e vuoto a rendere? Sarebbe stato più coerente con i valori del marchio Sant’Anna, e io, forse, un pensierino lo avrei fatto…




Coronavirus, linee guida vecchie e fondi spesi male. Così il piano pandemico dell’Italia è andato in tilt

Coronavirus, linee guida vecchie e fondi spesi male. Così il piano pandemico dell’Italia è andato in tilt

Mentre noi finanziavamo progetti sui primi mille giorni del neonato il resto del mondo si preparava all’emergenza virus. Le nostre linee guida? Sono vecchie di 14 anni.

Preparazione e pianificazione. Due parole chiave che
l’Organizzazione mondiale per la salute (Oms) mette da anni in cima ai suoi
documenti. Una pandemia non è prevedibile, ma è ricorrente e probabile. Dopo la
diffusione dei virus Sars (2002) e H1N1 (2009) la raccomandazione è sempre
stata: mettere a punto un piano d’azione e aggiornarlo costantemente seguendo
le linee guida concordate, è l’unica arma disponibile. L’Italia era pronta? No.
Piani vecchi, stoccaggio delle mascherine affidato alle Regioni con linee di
azione ormai superate, fondi spesi per interventi come “la promozione dei primi
1000 giorni di vita del neonato”.

Il quadro a livello mondiale – con molte aree
sprovviste di piani aggiornati – era ben noto alla vigilia dell’arrivo del
Sars-Covid-2. Per ogni Paese l’Oms indica su una specifica piattaforma le
performance dei piani pandemici adottati che devono rispondere ad alcuni
parametri: qual è la linea di comando? Chi deve pensare a stoccare mascherine e
respiratori? Come va effettuato il monitoraggio per segnalare subito anomalie e
far scattare l’allarme? In inglese viene definito come “Preparedness”. Ovvero
prevenzione e pianificazione. E l’allarme era stato lanciato da tempo. Il 29
gennaio dello scorso anno Daniel Coats, direttore della National Intelligence,
ascoltato dal comitato del Senato statunitense per il controllo delle attività
dei servizi segreti, aveva inserito la pandemia influenzale tra i pericoli
concreti per il mondo. 

Piani vecchi, pericoli nuovi

Il piano pandemico italiano è vecchio di dieci anni, anzi, di quattordici. Sul sito dell’Oms viene datato al 2010, ma aprendo il file, anche nella versione in inglese, i metadati riportano il 2006 come anno di elaborazione del documento. C’è di più. Il nostro sistema sanitario nazionale è sostanzialmente regionalizzato; dunque il piano nazionale rimanda l’attuazione delle norme di prevenzione a documenti regionali. E anche in questo caso il pericolo pandemico non veniva percepito come reale ed imminente. Molte regioni italiane non hanno mai attualizzato la loro capacità di risposta, con buona parte dei documenti elaborati più di dieci anni fa. Il piano nazionale affidava ai governi regionali alcuni compiti chiave: «Stimare il fabbisogno di Dpi (dispositivi di protezione individuale, ovvero mascherine di protezione ad altri sistemi per evitare il contagio, ndr) e di kit diagnostici e mettere a punto piani di approvvigionamento e distribuzione». Quello che oggi drammaticamente manca. E ancora, «censire la disponibilità ordinaria e straordinaria di strutture di ricovero e cura, incluso il censimento delle strutture con apparecchi per la respirazione assistita», l’altra Caporetto, almeno in Lombardia, della pandemia del nuovo coronavirus.

Il Ministero della Salute, interpellato su questo
punto da La Stampa, ha risposto specificando che, oltre al piano pandemico,
esiste anche il “Piano nazionale di difesa – settore sanitario”. Si tratta di
un documento in buona parte classificato, destinato a indicare la
strategia della Difesa civile, organismo in capo al Viminale, attivato per
affrontare le emergenze di diverso tipo. Tra queste, spiega il ministero,
«quelle di tipo biologico (anche di origine terroristica), che minacciano non
solo le persone ma anche il normale assetto sociale, mettendo in crisi il
servizio sanitario nazionale ma anche altre attività del Paese». Per quanto
riguarda invece il primo piano, il ministero assicura che è in via di revisione
e che le esercitazioni sono state realizzate. Purtroppo non siamo i soli. La
situazione in Europa è a macchia di leopardo. I Paesi con piani più recenti e
aggiornati sono la Germania, i Paesi scandinavi, i Paesi baltici e la Gran
Bretagna. Hanno, invece un piano non aggiornato in epoca recente la Spagna, la
Polonia, l’Austria, la Slovenia, la Croazia e il Belgio.

La cabina di regia

Il piano pandemico nazionale affida un importante ruolo al Centro Nazionale per la Prevenzione e il Controllo delle Malattie (Ccm), istituito al Ministero della salute. Ha il compito di svolgere l’analisi dei rischi epidemiologici e opera in coordinamento con le Regioni, i centri di ricerca, le università e la sanità militare. In altre parole può essere considerato come il cuore del sistema di risposta alle epidemie e pandemie. I piani annuali di azione – pubblicati in sintesi sul sito istituzionale – hanno budget relativamente limitati. Nel 2019, ad esempio, il Ccm ha speso 8,4 milioni di euro. Nel documento di programmazione, però, non vi sono riferimenti specifici alle azioni di preparazione per l’epidemie. Nel campo specifico delle emergenze i progetti hanno riguardato, per fare qualche esempio, la prevenzione per le ondate di calore estivo, lo studio del siero per il West Nilus virus, la prevenzione della tubercolosi, lo screening per il tumore ai polmoni, la promozione dei primi 1000 giorni di vita del neonato. L’unica voce in qualche maniera correlata con i rischi virali riguarda l’implementazione degli antidoti per le guerre batteriologiche. Per trovare qualche progetto relativo al rischio pandemie bisogna risalire al 2014, budget speso 400 mila euro. La regione capofila è il Veneto, che, fin dall’inizio dell’emergenza Covid-19, svolge anche la funzione di coordinamento interregionale. Risultati? Nulla è riportato sul sito del Ccm e sul portale della Regione Veneto si legge: «Attualmente il progetto è nella fase di consolidamento dell’attività del gruppo di lavoro centrale che avrà il compito di coordinare ed organizzare la “task force” a livello regionale e interregionale». Anche in questo caso, lavori in corso. 

Lo studio della John Hopkins

L’impreparazione italiana per affrontare una pandemia emerge anche da uno studio dello scorso ottobre realizzato dal Center for Health Security della John Hopkins University, in collaborazione con The Economist. L’Italia è collocata solo al 31° posto, con un punteggio globale di 56.2 su una scala di 100. La posizione scende ulteriormente nelle prestazioni per la risposta rapida e le politiche di mitigazione di un’epidemia. Particolarmente critica è stata giudicata la “Comunicazione con gli operatori sanitari durante un’emergenza”. Nonostante sia stato creata creata la Cross (Centrale Remota Operazioni Soccorso Sanitario), non sembra previsto un sistema specifico di comunicazione tra il personale sanitario. Il nostro Paese ha ricevuto uno zero per l’indicatore “Risposta operativa alle emergenze”: «Il centro operativo primario per le emergenze in Italia – si legge nel report – non è indirizzato alle pandemie». Secondo lo studio il Dipartimento della Protezione civile non avrebbe una preparazione specifica. Ben diversa la posizione di altre nazioni. In cima alla classifica, oltre agli Stati Uniti, si sono posizionati la Germania e la Gran Bretagna, i cui piani pandemici sono più recenti rispetto a quello italiano.

Quando alla fine il coronavirus è arrivato in Italia
tutti i nodi sono arrivati al pettine. Le mascherine introvabili, il
sistema sanitario al collasso, i medici e gli infermieri contaminati – 39 i
morti fino ad ora – e problemi di approvvigionamento di reagenti per i
laboratori: un quadro annunciato.