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DISINFORMAZIONE E FAKE NEWS NEI GIORNI DEL CORONAVIRUS

DISINFORMAZIONE E FAKE NEWS NEI GIORNI DEL CORONAVIRUS

Mercoledì 11 marzo Tedros Adhanom Ghebreyesus, Direttore Generale dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, durante un briefing a Ginevra, ha annunciato che la malattia virale COVID-19, nota come coronavirus, che si è diffusa in almeno 114 paesi uccidendo oltre 4.000 persone, è ufficialmente una pandemia, ossia “un’epidemia con tendenza a diffondersi ovunque, cioè a invadere rapidamente vastissimi territorî e continenti”.

La nota ufficiale dell’OMS e, qualche ora più tardi, quella del governo italiano, che annunciava l’entrata in vigore di norme ancora più restrittive per prevenire il contagio – norme che prevedono la chiusura di negozi e locali garantendo solo servizi essenziali, alimentari e farmacie fino al 25 marzo –, non sono state le uniche notizie che hanno monopolizzato l’attenzione degli italiani.

Su Facebook, Twitter e Instagram una delle notizie più condivise di quel giorno riguardava infatti la presunta donazione all’Italia, da parte del governo cinese, “di 1000 ventilatori polmonari, 50mila tamponi, 20mila tute protettive, 100mila mascherine di massima tecnologia, 2 milioni di mascherine ordinarie”.

L’infografica diffusa dal Movimento Cinque Stelle, condivisa su molti account social, sovente accompagnata da lodi al regime cinese, da attacchi all’Unione Europea e/o da frasi che sottolineano la superiorità dei regimi autoritari, Cina e Russia, rispetto alle democrazie, è diventata nell’arco di poche ore più virale del virus stesso. Peccato che le informazioni contenute nell’infografica dei grillini fossero false.

L’operazione conclusasi venerdì 13 marzo con l’arrivo in Italia del materiale, dopo il contatto telefonico tra il ministro degli Esteri italiani, Luigi Di Maio e la sua controparte cinese, Wang Yi, è infatti una normale transazione commerciale, non una donazione come vorrebbe farci credere la propaganda del Movimento Cinque Stelle. Come sottolinea il portale Money.it non si tratta affatto di un regalo, ma di una vera e propria strategia economica del governo cinese, che avrebbe chiesto alle aziende di avviare un’esportazione massiccia di questi dispositivi nei Paesi più colpiti dal coronavirus. 

Qualche giorno prima dell’accaduto, l’ex Ministro degli Esteri Giulio Terzi di Sant’Agata, in un articolo pubblicato sul sito Formiche.net, stigmatizzava proprio l’atteggiamento acritico  del governo italiano e di gran parte dell’opinione pubblica nazionale rispetto alle responsabilità della Cina nella gestione della crisi legata al coronavirus.

A detta di Terzi non solo “dalla Sars in poi la Cina ha nascosto, censurato e truccato i dati sulla sanità pubblica, impedendo di reagire in tempo grazie al suo dominio delle agenzie Onu”, ma la scomparsa di Li Zehua, ex giornalista cinese della CCTV che ha documentato l’assenza di trasparenza e la propaganda del Partito comunista cinese nella gestione dell’emergenza del Covid-19, di cui non si hanno più notizie da giorni, “riaccende i riflettori sulla manipolazione e falsificazione dell’informazione da parte del governo cinese”.

Torniamo ora alla fake news sulle donazioni cinesi all’Italia.

Quella diffusa mercoledì 11 marzo è infatti solo l’ultima di una lunga serie di narrazioni disinformative legate al coronavirus che imperversano su media e social media da più di due mesi, ossia da quando sono emersi i primi casi di contagio legati al COVID-19.Il fenomeno delle fake news, di cui in Italia si parla troppo poco e quando lo si fa, lo si fa ancora con approssimazione, merita invece di essere analizzato in profondità. 

Il case study del coronavirus è per certi versi emblematico di come funzioni una campagna di disinformazione e degli obiettivi politici e geopolitici che si propongono gli attori che promuovono questo tipo di operazioni.

Prima di esaminare in dettaglio le fake news e le narrative legate al COVID-19, ritengo opportuno aprire una parentesi di carattere metodologico e storico, utile per comprendere l’attuale scenario e le sue implicazioni in chiave geopolitica.  Le fake news sono un virus, non biologico ma politico e la possibilità che molti di noi ne siano già stati infettati è piuttosto elevata. Se non sappiamo più a chi credere, se siamo stufi della mole di notizie da cui siamo bombardati e se pensiamo che la cosa migliore sia fregarsene, beh allora la probabilità di essere stati già contagiati è davvero alta.

Lo scopo delle fake news, parola recente ma concetto molto vecchio, in epoca sovietica si chiamavano Aktivnie Meropriyatiya (Misure Attive) come conferma l’ex agente del KGB Ladislav Bittman, è quello di distruggere le democrazie occidentali dal loro interno. Ladislav Bittman, scomparso nel 2018 all’età di 87 anni, era considerato uno dei massimi esperti di questa pratica. Nel corso di un’intervista realizzata con il New York Times qualche mese prima della sua scomparsa,  Bittman fornisce una sua definizione di fake news.

Le fake news sono informazioni deliberatamente distorte e inserite segretamente nel processo di comunicazione al fine di ingannare e manipolare

L’ex agente ricorda come all’epoca della Guerra Fredda ad ogni ufficiale del KGB fosse richiesto di dedicare almeno il 25% del proprio tempo alla fabbricazione di fake news.

Passando all’analisi tecnica delle operazioni Bittman rivela che il KGB, una volta prodotta una fake news, cercava di piazzarla in qualche giornale in lingua inglese di un Paese del Terzo Mondo come India o Thailandia dove era più facile l’opera di inganno o di corruzione dei giornalisti. Lo step successivo era riproporre dopo un paio di anni la stessa notizia in un giornale russo citando come fonte quella indiana o thailandese. Era questo il modo per distanziarsi da una bugia da loro stessi creata. Nel 1986 – spiega sempre Bittman – il KGB voleva diffondere la notizia del virus dell’HIV prodotto in laboratorio dagli americani in Occidente e così si avvalse di due scienziati della DDR. Nell’arco di qualche mese la notizia divenne virale e, diffondendosi in tutto il mondo, arrivò anche in America.

Oggi, sottolinea l’ex spia sovietica, grazie ai media digitali è molto più facile rendere virale una fake news. Il lasso di tempo tra la produzione di una fake news e la sua diffusione virale può essere ridotto a mesi o addirittura a settimane, a seconda dello scopo che ci si prefigge.

Torniamo ora al coronavirus e, avvalendoci del sito Eu vs Disinformation, proviamo a vedere quali sono stati i messaggi relativi all’epidemia veicolati dai media legati al Cremlino in Europa e nel nostro Paese.  È importante sottolineare che nel mondo globalizzato, grazie alle tecnologie digitali, anche narrative promosse al di fuori dell’Italia possono facilmente diffondersi da noi alla stregua di un vero e proprio virus contaminando le nostre percezioni.

Domenica 15 marzo, facendo una ricerca mirata con la keyword coronavirus nel database dei casi di disinformazione, troviamo ben 78 “entries”.   Vediamo quali sono le principali narrative di disinformazione. La narrativa più ricorrente è quella secondo la quale il virus è un’arma biologica creata dall’Occidente –  dalla CIA, dalla NATO, dagli Stati Uniti, dall’Inghilterra – per isolare la Cina, per provocare una Sinofobia, per muovere una guerra ibrida contro la Cina, per indebolire economicamente la Cina, per fare fuori la Russia, la Cina o più in generale gli avversari degli Stati Uniti.  Tecnicamente tutti questi fake sono classificabili come teorie cospirazioniste (o del complotto) ossia teorie alternative più complesse rispetto alle versioni ufficiali e critiche nei confronti del senso comune o della verità circa gli avvenimenti comunemente accettata dall’opinione pubblica. Per definizione tali ipotesi non sono provate perché se lo fossero cesserebbero di essere “teorie”. Le teorie cospirazioniste vengono sovente elaborate in occasioni di eventi, in questo caso la pandemia da coronavirus, che catturano l’interesse dell’opinione pubblica.

La strumentalizzazione politica dei complotti non è peraltro cosa recente, basti solo pensare all’utilizzo fatto dal regime nazista dei Protocolli dei Savi di Sion, un falso documentale creato dalla polizia segreta zarista, con l’intento di diffondere l’odio verso gli ebrei nell’Impero russo.

È importante notare come questo falso storico creato più di 100 anni fa nella Russia imperiale, in forma di documento segreto, attribuito a una fantomatica cospirazione ebraica e massonica il cui obiettivo sarebbe stato impadronirsi del mondo, sia ancora attuale.

La narrativa delle élite contro il popolo utilizzata nell’ultimo lustro dalla disinformazione russa per screditare la UE e più in generale le istituzioni liberali dando in pasto alla “maggioranza silenziosa” capri espiatori quali banchieri, grandi corporazioni, ebrei, oligarchi, musulmani, burocrati di Bruxelles la ritroviamo puntualmente in questi giorni in molti dei fake sul coronavirus. Prendiamo per esempio questo fake diffuso da Zvezda rete televisiva  dello stato russo gestita dal Ministero della Difesa, puntualmente smascherato dal team di esperti di EU vs Disinformation

“C’è un biolaboratorio a Wuhan – di cui fino a poco tempo fa non si sapeva nulla. Il suo indirizzo è Gaoxin 666 – il numero menzionato nella Bibbia, sotto il quale è nascosto il nome della bestia dell’Apocalisse. Ma è ancora più simbolico che esista grazie ai soldi del famoso banchiere George Soros, che condivide le idee globaliste di Bill Gates. Questo potrebbe far parte di un piano astuto. Il coronavirus colpisce solo i rappresentanti della razza mongoloide, il che è molto sospetto e solleva domande”.

Se analizziamo questo fake, che ad alcuni può apparire abbastanza rozzo, ma che è stato attentamente pianificato per un’audience russa sostanzialmente americanofoba e sensibile ad argomentazioni “religiose” (lo storico Timothy Snyder nel suo libro La Paura e la Ragione parla per il regime putiniano di Fascismo Cristiano), notiamo che la narrativa cospirazionista antioccidentale utilizza i classici cliché complottisti dell’ebreo ricco (Soros), del capitalista americano (Gates), delle élite segrete e dell’occidente satanico e perduto.

Quella dell’Occidente corrotto e dissoluto è un altro dei ciposaldi della dezinformatsiya russa per demonizzare Unione Europea, Stati Uniti e più in generale il mondo liberale.  Secondo questa narrativa, utilizzata principalmente per sfidare gli atteggiamenti progressisti occidentali nei confronti dei diritti delle donne, delle minoranze etniche, religiose e dei gruppi LGBT, l’Occidente effemminato sta marcendo a causa della decadenza, del femminismo e della correttezza politica, mentre la Russia incarna i valori tradizionali.

La disinformazione basata sui valori è di solito incentrata su concetti minacciati come “tradizione”, “decenza” e “senso comune” – termini che hanno tutti connotazioni positive ma che raramente sono chiaramente definiti e definibili.

È interessante osservare come il fake del coronavirus quale arma biologica inventata dagli americani, non solo si stia diffondendo a macchia d’olio – il sito Geopolitica.ru di Aleksandr Dugin in data 15 marzo pubblica un articolo intitolato  “L’ex aiutante di Putin: il coronavirus è un’arma biologica americana” – ma presenti inquietanti similarità con l’operazione Infektion condotta negli anni Ottanta dal KGB. Nel luglio 1983 un giornale di Nuova Delhi, il Patriot Magazine, pubblica una notizia secondo cui il virus dell’HIV sarebbe stato creato dagli scienziati americani che lavorano per il Pentagono al fine di sterminare afro-americani e gay. Per rendere credibile quella che poi si sarebbe rivelata una clamorosa fake news, la testata menziona uno stabilimento realmente esistente in Maryland, quello di Fort Detrick, dove sarebbero avvenuti gli esperimenti.

Due anni più tardi, nel settembre 1985, la notizia appare sui quotidiani di diversi stati africani. Un anno dopo due biologi della DDR, Lilli e Jakob Segel, affermano sulle pagine di un giornale tedesco che loro sono in grado di provare che il virus è stato creato dagli americani. Alla fine del 1986 la notizia viene rilanciata da quotidiani in Camerun, Finlandia, Pakistan, Bulgaria, Kenya, Bangladesh e anche dal britannico Daily Express. Il 30 marzo 1987 anche un’emittente televisiva americana dà la notizia. La fake news creata dal KGB, dopo quattro anni, è arrivata negli Stati Uniti creando un effetto destabilizzante sulla società americana.

L’Active Measures Working Group, voluto da Reagan al momento dell’insediamento alla Casa Bianca nel 1981 per combattere la dezinformatsiya russa, riuscirà a dimostrare, grazie alla collaborazione di ex agenti del KGB come la fake news sia stata prodotta dal Cremlino. Un dossier dettagliato sull’operazione Infektion verrà presentato anche a Mikhail Gorbaciov, che durante un incontro con Ronald Reagan si scuserà personalmente con il Presidente americano, non potendo negare il contenuto di quel dossier.

Grazie a uno staff di poche unità con un piccolo budget, specie se paragonato alle ingenti risorse impiegate dai sovietici, gli Stati Uniti furono in grado di smascherare l’operazione Infektion ma non di eliminare tutti gli effetti ‘tossici’ legati ad essa. Ancora oggi nei testi delle canzoni di alcuni rapper, in certe pellicole televisive, addirittura nei sermoni di alcuni predicatori religiosi, si accredita la tesi dell’HIV come virus creato dal Pentagono per liberarsi di neri e omosessuali. Lo stesso dicasi per analoghe fake news diffuse dal Cremlino in quegli anni, quali la tesi secondo cui JFK sia stato ucciso dalla CIA (Oliver Stone ha girato un film su questo falso storico), l’attentato a Giovanni Paolo II ordito dalla CIA e i rapimenti dei bambini in America Latina ordinati sempre dagli americani per alimentare il traffico d’organi.

Con il collasso dell’URSS nessuno, neppure gli americani, credeva che la Russia avrebbe continuato a usare questi metodi. La Guerra Fredda era finita e si apriva, a detta di molti, una nuova stagione di collaborazione tra Est e Ovest.Dopo gli anni di relativa distensione della presidenza Eltsin, periodo in cui la Russia valuta addirittura l’ipotesi di entrare a fare parte della NATO, la situazione muta completamente con l’avvento sulla scena politica russa di Vladimir Putin, prima (1998 – 1999) come direttore dell’FSB, i servizi segreti federali eredi del KGB, poi come Primo Ministro (1999) e infine come Presidente (2000 – 2008; 2012 – oggi).

Ex ufficiale del KGB dal 1975 al 1991, in servizio a Dresda (DDR) dal 1985 al 1990 presso la STASI, Putin, salito al potere, inizia un’opera di ripristino del vecchio apparato di intelligence. Nella prima fase, che possiamo chiamare di consolidamento, si ricreano i media – nel 2005, per esempio, avviene il lancio di Russia Today (RT) emittente russa globale in lingua inglese –, nella seconda avviene il loro utilizzo in senso offensivo come strumento di information warfare. Uno dei primi esempi di utilizzo della dezinformatsiya si ha in concomitanza con l’invasione russa in Georgia nell’agosto del 2008 e durante il cyber attack del 2007 agli enti governativi dell’Estonia. Nel 2013 il Cremlino crea l’Internet Research Agency.

Le nuove tecnologie digitali schiudono infatti enormi possibilità alla propaganda. 

L’obiettivo della Russia di Putin, ben consapevole di non poter competere a livello politico ed economico con un’Europa coesa, è dividere l’Ovest e favorire lo scontro tra i Paesi dell’Europa. Il mezzo utilizzato è la disinformazione veicolata attraverso fake news. Lo scopo è destabilizzare le democrazie, sovvertirle instillando nella popolazione un senso di confusione e di demoralizzazione usando argomenti divisivi, mettendo per esempio bianchi contro neri, giovani contro vecchi, ricchi contro poveri.In queste settimane la diffusione deliberata da parte dei media russi di teorie cospirazioniste e di false informazioni sul coronavirus per seminare caos e paura è chiaramente finalizzata alla distruzione dell’Europa e a staccare l’Italia dal blocco occidentale.

I più di 400 articoli pubblicati da Sputnik Italia sul coronavirus in soli 2 mesi, fotografano la centralità di questo tema all’interno della strategia comunicativa del principale outlet russo in Italia.In questa fase Sputnik Italia, che da qualche tempo ha scelto di usare toni apparentemente moderati nel tentativo di catturare un’audience più mainstream rispetto a quella di altri media filorussi italiani come Geopolitica.ru e l’Antidiplomatico, ha preferito un approccio basato sul diffondere narrative contraddittorie e divisive evitando fake grossolani. Alcune delle narrative sul coronavirus apparse su Sputnik Italia, utili per comprendere come questa scelta sia solo apparentemente meno destabilizzante e meno pericolosa dei fake più apocalittici, sono le seguenti:

  • Il coronavirus rappresenta una “minaccia biologica” per la popolazione russa 
  • La Russia sta adottando misure preventive efficaci 
  • Un regime autoritario come la Cina sta dimostrando una maggiore efficacia nel gestire la crisi rispetto alle democrazie occidentali 
  • L’UE è completamente inefficace nella gestione della crisi del coronavirus, non è in grado di prendere misure per contenere la diffusione del virus e non è venuta in aiuto dell’Italia
  • L’epidemia di coronavirus potrebbe provocare un crollo del trattato di Schengen e del concetto stesso di UE 
  • I concorrenti italiani nell’UE mirano a sfruttare la crisi del coronavirus in Italia al fine di ottenere vantaggi politici ed economici, compresa l’acquisizione di società italiane strategicamente importanti 
  • Il coronavirus potrebbe creare una situazione socialmente esplosiva in molti paesi europei e innescare proteste popolari più bellicose contro l’élite 
  • La crisi del coronavirus è solo l’inizio del crollo del sistema globale post-Seconda Guerra Mondiale 
  • L’esercito americano potrebbe aver portato COVID-19 a Wuhan 

Ma le mire egemoniche nei confronti del nostro paese non solo appannaggio di Mosca. Anche in Cina guardano con grande interesse all’Italia e non certo per ragioni umanitarie come qualche politico italiano sembra volerci far credere. Il fatto che qualche giorno fa il portavoce del Ministero degli Esteri della Cina, Hua Chunying abbia postato sul proprio profilo Twitter un video relativo a un flash mob avvenuto sui balconi di Roma per esorcizzare il coronavirus con il commento in inglese  “gli italiani stanno cantando Grazie Cina” dovrebbe farci riflettere.Il rischio è che una volta sconfitto l’incubo coronavirus, l’Italia debba affrontare un’altra emergenza: quella democratica. L’autoritarismo, che all’epoca del crollo del Muro di Berlino si credeva debellato per sempre, ritorna come forza geopolitica a livello mondiale con Russia e Cina, alfieri di un modello illiberale che, grazie a operazioni di sharp powerhybrid analytica e disinformazione, trova estimatori anche in Italia.Sarebbe opportuno che tutti gli italiani, dal primo cittadino che siede al Colle al cittadino comune iniziassero a riflettere sulle drammatiche conseguenze di queste minacce, sperando che non sia già troppo tardi.




Trump, quanto pesano effettivamente i suoi tweet?

Trump, quanto pesano effettivamente i suoi tweet?

Osservando il continuo twittare del presidente degli Stati Uniti la maggior parte di noi si sarà chiesta quale peso abbiano le sue dichiarazioni diffuse via social. Se da una parte l’impatto mediatico è sicuramente molto forte, infatti Donald Trump ha 79 milioni di follower su Twitter (il profilo più seguito al mondo è quello di Katy Perry che conta ben 108 milioni di follower),  uno studio pubblicato sull’American Journal of Political Science, redatto ricercatori Allyson L. Benton e Andrew Q. Philips della City University of London ha dimostrato come l’impatto dei tweet del presidente USA non sia solo mediatico ma anche economico-finanziario.

Lo studio in questione si è incentrato nel periodo che va dal primo gennaio 2015, quando Donald Trump non era ancora presidente, al 2 febbraio 2018 che coincide con la fine del primo anno di mandato e, nel dettaglio, analizza le oscillazioni sul tasso di cambio dollaro\peso messicano a seguito dei tweet del presidente. Gli studiosi hanno scelto questo orizzonte temporale per vedere se i tweet dell’attuale presidente degli Stati Uniti influenzassero i mercati prima che il suo programma politico fosse noto oppure anche quando il suo programma politico era chiaro. La scelta dell’argomento di analisi invece è dipesa dal fatto che, sin da subito, Trump aveva manifestato l’intenzione di fare un passo indietro rispetto le politiche sull’immigrazione attuate da Obama, suo predecessore e, se da una parte alzare un muro al confine pareva un’operazione difficile da compiere, anche per gli ingenti finanziamenti di cui necessitava, dall’altra l’aumento delle pattuglie e delle espulsioni necessitano solo di ordini federali e quindi, di fatto, Trump avrebbe potuto chiudere la frontiera. L’analisi, nel dettaglio, si è incentrata sulla valuta la cui volatilità è influenzata non solo da notizie macroeconomiche e dati di mercato ma anche dall’operato dei governi.

Gli studiosi inizialmente si aspettavano che i tweet di Trump avrebbero influenzato il mercato valutario fino a quando il presidente non avrebbe lanciato la sua offerta per la nomination GOP il 16 giugno 2015. Secondo gli studiosi infatti l’impatto dei tweet politici di Trump relativi al Messico sarebbe scomparso nel momento in cui ha lanciato la sua offerta GOP il 16 giugno 2015 e il 28 giugno 2015 quando, durante un discorso ha delineato i suoi obiettivi relativi al Messico.  Eppure così non è stato. Basta guardare al tweet del 25 gennaio 2017 che, tradotto, diceva: “Grande giornata prevista per la SICUREZZA NAZIONALE domani. Tra le altre cose costruiremo un muro”. Secondo gli studiosi questo tweet non avrebbe in alcun modo dovuto influenzare il mercato valutario in quanto le idee sull’immigrazione di Trump erano già note eppure, quel giorno il peso messicano ha perso i guadagni del giorno precedente dopo il tweet. Non solo, come riporta Reuters in un articolo del 26 aprile 2017, ‘’il capo della banca centrale del Messico ha detto che la banca ha modificato la rotta su come proteggere il peso dopo un paio di tweet del presidente americano Donald Trump che, all’inizio di gennaio, ha spinto la valuta locale quasi ai minimi storici e spazzato via l’effetto di un intervento valutario di $ 2 miliardi.’’

A seguito dei risultati dell’analisi, gli studiosi hanno concluso che: ‘’Sosteniamo che i post della politica sui social media dei politici sono utili per gli investitori. I post sui social media non solo consentono agli investitori di determinare la probabile direzione politica futura del governo, ma consentono anche agli investitori di raccogliere informazioni sul benchmark rispetto al quale i politici cercano di essere valutati e quindi sul livello di determinazione dei politici per attuare i loro obiettivi politici.’’




Dalla crisi del coronavirus si esce in tre modi: digitale, digitale, digitale

Dalla crisi del coronavirus si esce in tre modi: digitale, digitale, digitale

Siamo giustamente concentrati sull’immediato, perché sconfiggere il virus oggi è fondamentale. Ma potrebbe tornare, e quindi bisogna attrezzarsi fin da ora. Con una serie di modelli da copiare, che hanno puntato tutto sulla tecnologia: Corea, Singapore e Taiwan

Per quanto durerà il tempo del contenimento contro il Coronavirus? Inutile girarci intorno: durerà a lungo. Secondo le previsioni, la curva dei contagiati non potrà decrescere seriamente prima della fine di aprile. Ovviamente, ciò non esclude che molti positivi al virus saranno ancora presenti sul territorio nazionale, con il rischio di riattivare focolai di contagio. Senza contare il passaggio possibile, salvo chiusura delle frontiere, di nuovi infetti provenienti da altri paesi europei, dove il virus comincia a circolare con qualche settimana di ritardo rispetto all’Italia. Non sappiamo se il caldo della bella stagione sarà in grado di sospendere la circolazione del virus. Che, in ogni caso, tornerà con l’arrivo del freddo, riprendendo vigore in autunno e in inverno. Anche i tempi per l’individuazione e uso del vaccino – studio, sperimentazione, produzione, distribuzione – saranno lunghi (si parla di almeno un anno, più probabilmente 18 mesi). Se è vero tutto ciò che abbiamo qui elencato, significa che le misure di contenimento e di isolamento, non si sa con quale grado di intensità, non potranno essere completamente superate per diversi mesi.

Ci vuole tempo. Ma servono soluzioni

Che cosa succederà nel frattempo? Difficile immaginare di tenere impegnati gli italiani a cantare da finestre e balconi l’inno d’Italia o Azzurro o Poo-poroppo-popo-poo, a un’ora indicata, ogni giorno per molte settimane. Così come sembra improbabile tenere chiuse tanto a lungo le attività economiche senza impedire la distruzione di lavoro e l’impoverimento generalizzato fino al tracollo totale del paese. Senza dimenticare l’impatto psicosociale della restrizione in casa con la possibile esplosione di conflitti, depressione, attacchi di panico, abuso di sostanze, omicidi e suicidi.

C’è da chiedersi se non sia questo il momento di cercare altre soluzioni, ispirandosi non tanto o non soltanto alle misure costrittive cinesi – impedire la libertà di movimento e la libertà d’impresa, certamente più ‘facili’ in un regime autoritario – quanto, piuttosto, alle misure ‘tecnologiche’ – basate sull’intelligenza artificiale e sui big data – applicate in Corea del Sud, Singapore, Taiwan. La risposta a questa domanda è certamente: «sì».

Come ha risposto l’Italia

Ma prima di capire quali sono queste misure tecnologiche, ricordiamo quali sono i capisaldi della nostra reazione all’arrivo dell’epidemia. Com’è normale che sia, l’Italia ha messo in campo le attitudini che meglio la caratterizzano. La risposta medico-sanitaria, fondata sul Servizio sanitario nazionale, considerato uno dei migliori nel mondo (è così almeno al Nord, dove si trova l’epicentro della crisi). L’attenzione ai più vulnerabili, anziani, portatori di patologie e malati cronici, che, purtroppo, in molti casi, non riescono a sopravvivere al contagio. La vocazione all’emergenza nata e gestita dalla Protezione civile nella gestione dei terremoti e fondata sull’apporto dei volontari. La capacità di sacrificio morale e di partecipazione civica dei cittadini che, dopo una breve fase di sorpresa, sembrano rispondere bene alle misure contribuendo attivamente alla realizzazione di una politica pubblica nazionale. Infine, la promessa di intervento statale, forzando definitivamente i vincoli europei, per fornire aiuto a quei lavoratori e a quelle imprese che subiranno tutto il peso della chiusura forzata delle attività.

Tuttavia, ognuna di queste positive attitudini nazionali ha dei risvolti preoccupanti. Il Servizio sanitario nazionale non è così forte come si pensa: il numero di posti di terapia intensiva al Nord non è adeguato alla quantità di contagiati che necessitano di cure e molte regioni del Sud rischiano il collasso se i numeri degli infetti fossero gli stessi della Lombardia. La stessa Protezione civile non sembra più la stessa di qualche anno fa e non è ancora stata utilizzata per realizzare quelle zone di assistenza intermedia tra l’isolamento in casa e l’acuzie in ospedale che la Cina ha messo in piedi nelle palestre e nei capannoni. In più, essere bravi ad agire in stato di emergenza potrebbe significare che non lo siamo nel governo ordinario dei processi. Dei cittadini abbiamo già detto che potranno sopportare restrizioni pesanti soltanto per un tempo definito oltre il quale le cose, soprattutto sul piano economico, potrebbero diventare disastrose. Non parliamo poi dello stato del debito pubblico italiano, la cui situazione è nota, e che non potrà che peggiorare quando bisognerà ulteriormente indebitarsi – al quel punto sarà giusto farlo, ovvio – per affrontare la recessione da virus.

Che significa “governare” nel corso di un’epidemia?

Tutto questo può bastare? Al netto della enorme riconoscenza per tutti coloro i quali, ogni giorno, fanno il massimo per salvare le vite dei cittadini, la risposta probabilmente è: «no».

L’Italia non può limitarsi all’approccio clinico-sanitario suggerito da medici e scienziati benemeriti. Né consegnarsi alle strategie repressive di un regime totalitario come la Cina. Il governo del paese non può ridursi alla resistenza al virus. La tutela della salute e della vita ha la precedenza, ma non può ammalare l’Italia di povertà. Stiamo salvando i più vulnerabili ma rischiamo alla fine di ritrovarci in un paese di zombi. La prudenza – splendida virtù cardinale – che ci ha fatto chiudere l’Italia a marzo dovrebbe dirci che l’harakiri non può essere lo strumento ideale per fronteggiare Covid-19. Insomma, il problema del governo è un po’ più complesso dell’impedire il sovraccarico degli ospedali. La scelta fatta dal nostro governo, dopo tanti tentennamenti, è radicalmente diversa rispetto a quella – a dir poco temeraria – che farà il Regno Unito, ma potrebbe rivelarsi comunque un azzardo. Sempre che l’azione emergenziale contro l’epidemia non si trasformi presto in una strategia di governo capace di convivere con un’epidemia ancora presente (con il rischio che i contagi possano comunque riprendere), di prevenirne le possibili conseguenze future e garantire l’esercizio di una normale vita lavorativa ed economica.

Quali sono gli altri strumenti di governo? Certamente gli investimenti specializzati in sanità per aumentare il personale medico-sanitario e creare strutture sanitarie ad hoc. La realizzazione di strutture di assistenza intermedia o di quarantena utilizzando quartieri fieristici, palestre e fabbricati. La trasformazione (o l’ampliamento) delle catene produttive (per esempio, al fine di fabbricare la quantità necessaria di mascherine o di tamponi). Potrebbe essere necessario perfino un controllo ferreo delle frontiere per impedire il contagio “di ritorno”. Ma soprattutto bisogna fare una cosa: usare la tecnologia. Come è successo in Corea del Sud, a Singapore, a Hong Kong e a Taiwan (dove il numero di decessi e di contagi è proporzionalmente inferiore rispetto a quello del nostro paese).

Buone pratiche dai paesi asiatici (no, non parliamo della Cina)

«Ciascuno a suo modo, Singapore, Taiwan e Hong Kong – tre posti con caratteristiche socioeconomiche e politiche notevolmente diverse – sono stati in grado di interrompere la catena della trasmissione della malattia. E lo hanno fatto senza abbracciare le misure drastiche e altamente dirompenti adottate dalla Cina. Il loro successo suggerisce che anche altri governi possono fare progressi». Così scrive sul New York Times Benjamin J. Cowling, professore di epidemiologia delle malattie infettive all’Università di Hong Kong.

A Hong Kong, per esempio, città che condivide un confine con la Cina continentale ed è formalmente parte della Cina, spiega Cowling, «subito dopo il primo caso dichiarato a Wuhan, sono state ampliate le stazioni di screening della temperatura esistenti nei luoghi di ingresso e ai medici locali è stato chiesto di segnalare alle autorità sanitarie della città qualsiasi paziente con febbre o sintomi respiratori acuti risalendo alla “storia” del recente viaggio a Wuhan». Dopo i primi cinque giorni di controlli, prosegue Cowling, «chiunque attraversava il confine – specie se proveniente dalla Cina continentale – doveva sottoporsi a un periodo obbligatorio di auto-quarantena di 14 giorni. Allo stesso modo sono stati rintracciati e messi in quarantena quanti hanno avuto stretti contatti con i positivi registrati. E siccome la trasmissione poteva verificarsi prima che una persona infetta mostrasse i sintomi, la tracciatura ha incluso tutte le persone che erano entrate in contatto con il paziente a partire da due giorni prima dell’inizio della sua malattia».

Tra le buone pratiche segnalate dalla Technology Review del MIT di Boston c’è il monitoraggio che la Corea del Sud sta realizzando sui cittadini in quarantena tramite una app per smartphone – sia Android che iPhone – sviluppata dal Ministero degli Interni e della Sicurezza. In sostanza, come ricorda Max S. Kim nell’articolo, «migliaia di persone nel lockdown del coronavirus saranno monitorate per rilevare i sintomi, per assicurarsi che restino a casa e che non diventino dei “super-diffusori” del virus; per tenere traccia della loro posizione e per assicurarsi che non stiano rompendo la quarantena sarà utilizzato anche il GPS». L’adozione di queste misure di monitoraggio tecnologico ha considerevolmente limitato l’esplosione dei contagi e, di conseguenza, dei decessi.

«C’è un limite alle risorse umane disponibili per i governi locali per monitorare le persone in quarantena», afferma Jung Chang-hyun, funzionario del ministero che ha supervisionato lo sviluppo dell’app. «L’app è un servizio di supporto volto a rendere più efficiente l’attività di osservazione».

Aggiunge Jung: «Le persone possono uscire dalle aree di quarantena sia intenzionalmente che per errore: ma poiché esiste il rischio di infezione secondaria in entrambi i casi, speriamo che l’app, con una maggiore organizzazione, possa aiutare a bloccare questi incidenti». L’app si unisce a un elenco di altre misure lanciate per combattere l’ondata di nuovi casi in Corea del Sud, tra cui: le stazioni di test «drive-through» per verificare la positività al coronavirus (circa 15 mila al giorno in più), una serie di servizi cartografici sviluppati da privati che monitorano gli spostamenti dei positivi, gli avvisi di emergenza che i governi municipali e distrettuali inviano regolarmente ai telefoni delle persone per informarli di nuovi casi di coronavirus. Ricordiamo che in Corea del Sud, dopo l’esplosione iniziale la curva dei contagi ha già iniziato a flettere: mentre scriviamo, sono morti circa 70 pazienti su circa 8 mila contagi (numeri assai modesti rispetto al caso dell’Italia). Importante la disponibilità del governo sudcoreano a condividere la sua tecnologia con altre nazioni: «Non abbiamo ancora avuto richieste da altri paesi, ma se arrivassero, saremmo pronti a condividere assolutamente queste esperienze», assicura Jung.

Qualcosa del genere è accaduto a Singapore. «Colpita in anticipo, per il fatto di essere uno dei principali partner commerciali della Cina, ma forte dell’esperienza con il virus SARS del 2002-3, Singapore ha iniziato a monitorare attentamente i casi per trovare i punti in comune che li collegavano. Nel giro di un giorno o due, successivi alla scoperta di un nuovo caso, le autorità sono state in grado di mettere insieme la complessa catena di trasmissione da una persona all’altra, come un moderno Sherlock Holmes in possesso di un database. A partire da febbraio, tutti coloro che sono entrati in un edificio governativo o aziendale a Singapore hanno dovuto fornire i dettagli di contatto per accelerare il processo». A raccontare la vicenda di Singapore, ancora una volta sulla Technology Review del Mit, è Spencer Wells, genetista, antropologo, già collaboratore della National Geographic Society. Secondo Walls, «non è semplicemente la capacità di rilevare i casi e spiegare perché sono successi che rendono Singapore un modello di riferimento in questa epidemia: kit di test per acido nucleico sono stati rapidamente sviluppati e distribuiti nei luoghi di entrata al paese. Entro tre ore, mentre gli individui vengono messi in quarantena sul posto, i funzionari possono confermare se sono stati infettati o meno dal virus prima di consentire loro di entrare».

Il caso di Taiwan – a un passo dall’epicentro dell’epidemia, quasi 24 milioni di abitanti, più del doppio della Lombardia, concentrati in poco più di 36 mila km quadrati – lo racconta bene sul suo profilo Twitter Fabio Sabatini, docente di politica economica dell’Università La Sapienza. «Data la frequenza dei voli dalla Cina, si prevedeva che Covid-19 avrebbe travolto l’isola, invece ha registrato soltanto 50 contagi e 1 decesso: come hanno fatto?», si chiede l’economista.

Ecco la sua ricostruzione: «Grazie all’esperienza della SARS, Taiwan ha riconosciuto subito l’emergenza. Il 31 dicembre 2019, tutti i passeggeri provenienti da Wuhan sono stati sottoposti a screening a bordo, prima di scendere dall’aereo. I passeggeri sbarcati da Wuhan nei 14 giorni precedenti sono stati rintracciati e visitati. Quelli con sintomi sospetti sono stati messi in quarantena e accuratamente monitorati. Pochi giorni dopo, le autorità hanno integrato il database delle informazioni sanitarie di tutti i cittadini con i dati dell’agenzia dell’immigrazione. Sono state rintracciate tutte le persone a rischio, che avevano recentemente manifestato sintomi e avevano storie di viaggio sospette. Inoltre, il sistema integrato genera un allarme ogni volta che un paziente a rischio chiede assistenza medica, consentendo ai sanitari di identificare immediatamente i potenziali casi di Coronavirus».

Ovviamente non è mancata la fase del contenimento anche a Taiwan. Ma anche questo è stato realizzato con strumenti digitali. «I pazienti a rischio – perché con sintomi, per aver transitato in aree a rischio nei 14 giorni precedenti o per eventuali contatti con dei contagiati – sono messi in quarantena e testati. Inoltre – avverte Sabatini – devono installare sullo smartphone una app per il monitoraggio di sintomi e spostamenti. Grazie al sistema di tracciamento mediante lo smartphone, è possibile ricostruire la rete di contatti di tutti i contagiati, al fine di testarli, curarli in isolamento e interrompere la catena di contagio».

Come si legge nell’editoriale di Jason Wang, della Stanford University, pubblicato sul Journal of The American Medical Association, il governo ha informato i cittadini con conferenze stampa e comunicati estremamente dettagliati: «un po’ diversi dai bollettini della nostra Protezione Civile, purtroppo», chiosa Sabatini. È stato spiegato pubblicamente che, a causa dell’emergenza, gli ospedali e le farmacie avrebbero temporaneamente avuto accesso alle informazioni sui viaggi dei pazienti. Secondo i sondaggi il pubblico ha reagito molto bene. Nel frattempo scuole, università, palestre e ristoranti sono rimasti aperti. Se e quando il virus si diffonderà, le autorità potranno così contare su un sistema di contrasto già ben rodato.

Tracce digitali per impedire il contagio (e salvare l’economia)

Ovviamente, ricorda Sabatini, «per noi è tardi e il lockdown è necessario. Tuttavia, c’è il rischio che, se non si tracciano i contagiati e la loro rete di contatti al fine di isolarli e curarli, al primo allentamento del lockdown l’epidemia riprenderà a galoppare».

Una deduzione confermata dal paper appena pubblicato su Lancet per il quale bastano pochi casi isolati in circolazione per rilanciare il contagio. In conclusione, avverte Sabatini: «in Italia abbiamo bisogno di un sistema di tracciamento simile a quelli dei paesi orientali che stanno riuscendo, per ora, a contenere l’epidemia. Che cosa aspettiamo?».

Nelle scorse settimane due studiosi come Alfonso Fuggetta, professore di Informatica del Politecnico di Milano, e Carlo Alberto Carnevale Maffè, docente di Strategia dell’Università Bocconi, hanno proposto alle istituzioni italiane un progetto per l’uso di big data per il governo strategico dell’epidemia. Ma sono rimasti inascoltati. «La Corea del Sud sta sconfiggendo l’epidemia anche grazie a semplici tecnologie di contact tracing del contagio su smartphone. In Italia, è stato proposto alle autorità l’uso delle stesse tecnologie, settimane fa, ma hanno preferito il modulo cartaceo con l’autodichiarazione», ha scritto Carnevale Maffè su Twitter. «In Corea del Sud – aggiunge Carnevale Maffè in un altro tweet – il fattore di riproduzione (R0) è già stimato sotto 1, grazie alla georeferenziazione dei casi di contagio e alla identificazione dei singoli focolai su mappe molto precise. Le tecnologie salvano la vita, nel rispetto della privacy». Questo perché la proposta si basa su un processo di raccolta dei dati in forma anonima e quindi nel pieno rispetto della privacy delle persone. Verrebbe da dire che, di fronte ai limiti della libertà di movimento e di impresa, alla distruzione del lavoro, all’impoverimento generalizzato e al suicidio dell’economia di un intero paese, una piccola rinuncia alla privacy non sarebbe poi così grave. Qualcuno potrebbe pure obiettare che non ci sono risorse sufficienti per un’operazione del genere. Ma ne servirebbero infinitamente di meno rispetto a quelle che saranno necessarie per resuscitare l’economia.




I due stili strategici di gestione dell’epidemia a confronto

I due stili strategici di gestione dell’epidemia a confronto

Propongo una ipotesi in merito ai diversi stili strategici di gestione dell’epidemia adottati in Europa e altrove. Sottolineo che si tratta di una pura ipotesi, perché per sostanziarla ci vogliono competenze e informazioni statistiche, epidemiologiche, economiche che non possiedo e non si improvvisano. Sono benvenute le critiche e le obiezioni anche radicali.

L’ipotesi è la seguente: lo stile strategico di gestione dell’epidemia rispecchia fedelmente l’etica e il modo di intendere interesse nazionale e priorità politiche degli Stati e, in misura minore, anche  delle nazioni e dei popoliLa scelta dello stile strategico di gestione è squisitamente politica.

Gli stili strategici di gestione sono essenzialmente due:

  1. Non si contrasta il contagio, si punta tutto sulla cura dei malati (modello tedesco, britannico, parzialmente francese)
  2. Si contrasta il contagio contenendolo il più possibile con provvedimenti emergenziali di isolamento della popolazione (modello cinese, italiano, sudcoreano).

Chi sceglie il modello 1 fa un calcolo costi/benefici, e sceglie consapevolmente di sacrificare una quota della propria popolazione. Questa quota è più o meno ampia a seconda delle capacità di risposta del servizio sanitario nazionale, in particolare del numero di posti disponibili in terapia intensiva. A quanto riesco a capire, infatti, il Coronavirus presenta le seguenti caratteristiche: alta contagiosità, percentuale limitata di esiti fatali (diretti o per complicanze), ma percentuale relativamente alta (intorno al 10%, mi pare) di malati che abbisognano di cure nei reparti di terapia intensiva. Se così stanno le cose, in caso di contagio massiccio della popolazione – in Germania, ad esempio, Angela Merkel prevede un 60-70% di contagiati – nessun servizio sanitario nazionale sarà in grado di prestare le cure necessarie a tutta la percentuale di malati da ricoverarsi in T.I., una quota dei quali viene così condannata a morte in anticipo. La quota di pre-condannati a morte sarà più o meno ampia a seconda delle capacità del sistema sanitario, della composizione demografica della popolazione (rischiano di più i vecchi), e di altri fattori imprevedibili quali eventuali mutazioni del virus.

La ratio di questa decisione sembra la seguente:

  1. L’adozione del modello 2 (contenimento dell’infezione) ha costi economici devastanti
  2. La quota di popolazione che viene pre-condannata a morte è in larga misura composta di persone anziane e/o già malate, e pertanto la sua scomparsa non soltanto non compromette la funzionalità del sistema economico ma semmai la favorisce, alleviando i costi del sistema pensionistico e dell’assistenza sanitaria e sociale nel medio periodo, per di più innescando un processo economicamente espansivo grazie alle eredità che, come già avvenuto nelle grandi epidemie del passato, accresceranno liquidità e patrimonio di giovani con più alta propensione al consumo e all’investimento rispetto ai loro maggiori.
  3. Soprattutto, la scelta del modello 1 accresce la potenza economico-politica relativa dei paesi che lo adottano rispetto ai loro concorrenti che adottano il modello 2, e devono scontare il danno economico devastante che comporta. Approfittando delle difficoltà dei loro concorrenti 2, le imprese dei paesi 1 potranno rapidamente sostituirsi ad essi, conquistando significative quote di mercato e imponendo loro, nel medio periodo, la propria egemonia economica e politica.

Naturalmente, per l’adozione del modello 1 sono indispensabili due requisiti: un centro direzionale politico statale coerentemente e tradizionalmente orientato su una accezione particolarmente radicale e spietata dell’interesse nazionale (tipici i casi britannico e tedesco); una forte disciplina sociale (ecco perché l’adozione del modello 1 da parte della Francia sarà problematica, e probabilmente si assisterà a una riconversione della scelta strategica verso il modello 2).

L’adozione del modello 1, insomma, corrisponde a uno stile strategico squisitamente bellico. La scelta di sacrificare consapevolmente una parte della popolazione economicamente e politicamente poco utile a vantaggio della potenza che può sviluppare il sistema economico-politico, in soldoni la scelta di liberarsi dalla zavorra per combattere più efficacemente, è infatti una tipica scelta necessitata in tempo di guerra, quando è normale perché indispensabile, ad esempio, privilegiare cure mediche e rifornimenti alimentari dei combattenti su cura e vitto di tutti gli altri, donne, vecchi e bambini compresi, nei soli limiti imposti dalla tenuta del morale della popolazione, che è altrettanto indispensabile sostenere.

Gli Stati che adottano il modello 1, dunque, non agiscono come se i loro concorrenti fossero avversari, ma come se fossero nemici, e come se la competizione economica fosse una vera e propria guerra, che si differenzia dalla guerra guerreggiata per il solo fatto che non scendono in campo gli eserciti. La condotta di questo tipo di guerra, proprio perché è una guerra coperta, sarà particolarmente dura e spietata, perché non vi ha luogo alcuno né il diritto bellico, né l’onore militare che ad esempio vieta il maltrattamento o peggio l’uccisione di prigionieri e civili, l’impiego di armi di distruzione di massa, etc. Per concludere, la scelta del modello 1 privilegia, nella valutazione strategica, la finestra di opportunità immediata (conquistare con un’azione rapida e violenta un vantaggio strategico sul nemico)  sulla finestra di opportunità strategica di medio-lungo periodo (rinsaldare la coesione nazionale, diminuire la dipendenza e vulnerabilità  della propria economia dalle altrui accrescendo investimenti statali e domanda interna).

***

Alla luce di quanto delineato a proposito degli Stati che adottano il modello 1, è più facile descrivere lo stile etico-politico degli Stati che adottano il modello 2.

Nel caso della Cina, è indubbio che il centro direttivo politico cinese sappia molto bene che la competizione economica è componente decisiva della “guerra ibrida”.  Furono anzi proprio due colonnelli dello Stato Maggiore cinese,  Liang Qiao e Xiangsui Wang, che negli anni Ottanta elaborarono il testo seminale sulla “guerra asimmetrica”[1]. Credo che il centro direzionale politico cinese abbia scelto, pare con successo, di adottare il modello 2 per tre ragioni di fondo: a) il carattere spiccatamente comunitario della tradizione culturale cinese, nella quale il concetto liberale di individuo e il concetto cristiano di persona hanno rilievo scarso o nullo b) il profondo rispetto per i vecchi e gli antenati, cardine del confucianesimo c) una valutazione strategica di lungo periodo, riassumibile in queste due massime di Sun Tzu, il pensatore che più ispira lo stile strategico cinese: “La vittoria si ottiene quando i superiori e gli inferiori sono animati dallo stesso spirito”  e  “Una guida coerente permette agli uomini di sviluppare la fiducia che il loro ambiente sia onesto e affidabile, e che valga la pena combattere per esso.” In altri termini, penso che la direzione cinese abbia valutato che il vantaggio strategico di lungo periodo di preservare e anzi rafforzare la coesione sociale e culturale della propria popolazione superasse il costo di breve-medio periodo del danno economico, e della rinuncia a profittare nell’immediato delle difficoltà degli avversari. Perché “le vie che portano a conoscere il successo” sono tre: 1. Sapere quando si può o non si può combattere 2. Sapersi avvalere sia di forze numerose che di forze esigue 3. Saper infondere uguali propositi nei superiori e negli inferiori.”

Nel caso dell’Italia, la scelta – per quanto incerta e mal eseguita – del modello 2 credo dipenda dalle seguenti ragioni. 1) Sul piano culturale, dall’influsso della civiltà italiana ed europea premoderna, infusa com’è di sensibilità precristiana, contadina e mediterranea per la famiglia e la creaturalità, poi parzialmente assorbita dal cattolicesimo controriformato e dal barocco: un influsso  di lunghissima durata che continua ad operare nonostante la protestantizzazione della Chiesa cattolica odierna, e nonostante l’egemonia culturale, almeno di superficie, di liberalismo ideologico e liberismo economico 2) Sempre sul piano culturale, dal pacifismo instaurato dopo la sconfitta nella IIGM e perpetuato prima dalle sinistre comuniste e dal mondo cattolico, poi dalle dirigenze liberal-progressiste UE; un pacifismo che genera espressioni buffe come “soldati di pace”, e la negazione metodica della dimensione tragica della storia 3) Sul piano politico, sia dal grave disordine istituzionale, ove i livelli decisionali si sovrappongono e ostacolano reciprocamente, come s’è palesato nel conflitto tra Stato e Regioni all’apertura della crisi epidemiologica; sia dalle preoccupazioni elettorali di tutti i partiti; sia dalla fragile legittimazione dello Stato, antico problema italiano 4) sul piano politico-operativo, dalla sbalorditiva incapacità delle classi dirigenti, nelle quali decenni di selezione alla rovescia e abitudine a scaricare responsabilità, scelte e relative motivazioni sulle spalle dell’Unione Europea hanno indotto una forma mentis che induce sempre a imboccare la linea di minor resistenza: che in questo caso è proprio la scelta di contenere il contagio, perché per scegliere la via del triage bellico di massa (comunque la si giudichi, e io la giudico molto negativamente) ci vuole una notevolissima capacità di decisione politica.

In altre parole, la scelta italiana del modello 2 ha ragioni superficiali e consapevoli nei nostri difetti politici e istituzionali, e ragioni profonde e semiconsapevoli nei pregi della civiltà e della cultura a cui, quasi senza più saperlo, l’Italia continua ad ispirarsi, specie nei momenti difficili: siamo stati senz’altro umani e civili,  e forse anche strategicamente lungimiranti, senza sapere bene perché. Però lo siamo stati, e di questo dobbiamo ringraziare i nostri antenati defunti, i Lari[2] il cui culto, sotto diversi nomi, si perde nei secoli e millenni; e che senza saperlo, oggi onoriamo e veneriamo facendo tutto il possibile per curare i nostri padri, madri, nonni, anche se non servono più a niente.

Farebbe sorridere Sun Tzu e forse anche Hegel constatare che i due modelli impongono metodi operativi di implementazione esattamente opposti rispetto allo stile strategico.

L’implementazione del modello 1 (non conteniamo il contagio, sacrifichiamo consapevolmente una quota di popolazione) non richiede alcuna misura di restrizione della libertà: la vita quotidiana prosegue esattamente come prima, tranne che molti si ammalano e una percentuale non esattamente prevedibile ma non trascurabile di essi, non potendo ottenere le cure necessarie per ragioni di capienza del servizio sanitario, muore.

L’implementazione del modello 2 (conteniamo il contagio per salvare tutti i salvabili) richiede invece l’applicazione di misure severissime di restrizione delle libertà personali, e anzi esigerebbe, per essere coerentemente effettuato, il dispiegamento di una vera e propria dittatura, per quanto morbida e temporanea, in modo da garantire l’unità del comando e la protezione della comunità dallo scatenamento delle passioni irrazionali, cioè da se stessa. Operativamente, la direzione esecutiva del modello 2 dovrebbe essere affidata proprio alle forze armate, che possiedono sia le competenze tecniche, sia la struttura rigidamente gerarchica adatte.

Concludo dicendo che sono contento che l’Italia abbia scelto di salvare tutti i salvabili. Lo sta facendo goffamente, e non sa bene perché lo fa: ma lo fa. Stavolta è facile dire: right or wrong, my country.

[1] Liang Qiao e Xiangsui Wang, Guerra senza limiti. L’arte della guerra asimmetrica fra terrorismo e globalizzazione, LEG Edizioni 2011

[2] v. https://www.romanoimpero.com/2018/07/culto-dei-lari.html




Tutta colpa della comunicazione! Un paese così duale anche quando cerca spiegazioni trova conflitti

Tutta colpa della comunicazione! Un paese così duale anche quando cerca spiegazioni trova conflitti

La comunicazione e il “ben altro”

Quando le cose vanno storte, qualcuno se la cava dicendo che non si è stati capaci di comunicare. A volte è così, altre volte – quando sono in campo organizzazioni complesse con loro procedure e regole – la comunicazione è a valle di ben altro. E quel “ben altro” è fatto di cose che riguardano una lunga fila di requisiti per cui – tanto nelle aziende quanto nelle istituzioni – si esercita la difficile arte del comando. Competenza, controllo pieno dei dati reali, analisi comparative, staff professionale, vissuto esperienziale per pesare pensieri e parole, senso autocritico, autorevolezza, capacità di gerarchizzare i pericoli.

Giorno per giorno, da quando è stato proclamato l’allarme sul caso Coronavirus, si addita il deficit comunicativo. Ma come è spesso nelle cose del nostro Paese, sempre e su tutto “duale”, questa critica suona nel complesso ambigua.

C’è chi dice che si comunica poco, chi troppo. C’è chi dice che si comunica per spiegare le misure, chi  dice che si comunica per litigare con chi vuole misure diverse. C’è chi dice che la comunicazione deve essere in capo a chi comanda, chi dice che deve essere in capo a chi la sa fare.

In Italia non vige il pensiero unico.  Nella prima settimana la comunità scientifica si è spaccata attraverso vari conflitti.  Il sistema politico-istituzionale ha fatto lo stesso. E – terzo soggetto sempre in campo – il sistema dei media si è rivelato contraddittorio, perché ogni volta è andato dietro agli uni e agli altri riflettendo un quadro più conflittuale di ciò che è tollerabile in piena crisi ed emergenza. Ebbene, alla fine di questo primo round  è successa una cosa immaginabile.  Prima dell’intervallo del fine settimana, ha parlato il massimo arbitro, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, con poche e severe parole: “attenzione a non sollevare paure, attenzione a non cedere a teorie antiscientifiche, attenzione a non prestarsi all’autolesionismo”. E’ lui, dunque, ad avere posto il problema di adeguare le narrazioni.

L’altro conflitto insorto, tra salute ed economia

Come si sa un quarto fronte si era formato nel frattempo, sollevato da chi ha cominciato a lanciare il tema dell’economia ferita che a poco a poco – anziché trovare forme di espressione convergenti con la priorità della salute –  è diventato un tema antagonista rispetto alle dinamiche sanitarie, nel frattempo con impennate di numeri e di territori uno dopo l’altro inclusi (alla sera di mercoledì 4 marzo parliamo di oltre 3 mila contagiati, 276 guariti e 107 decessi).

A questo punto – entrati nella seconda settimana – il senso della comunicazione scomposta, della litigiosità oltre l’asticella, della conflittualità rispetto a tutti i soggetti in campo, ha superato la percezione di un volto diverso della realtà che aveva pure la sua verità e la sua legittimità: gente normale e volonterosa che si prestava (e si presta) ad attuare le misure;  grande dedizione di medici e infermieri; impegno di amministratori e funzionari; governo all’opera per cercare di tenere salute pubblica e economia in equilibrio di prospettiva;  media in pressione per assicurare una soglia elevata e razionale di adeguate conoscenze.

Insomma, la conseguenza della settimana scomposta ha fatto prevalere l’avvio del secondo round con una percezione più influenzata dalla confusione (che c’è stata) rispetto al coraggio operoso (che c’è stato).

coronavirus

La comunità scientifica a questo punto si è ricompattata. Ottenendo tra l’altro – probabilmente a spese della Protezione Civile (di cui è pure parte) – la sostanziale regia comunicativa pubblica. E si è ricompattata spostando chiaramente l’interpretazione generale dell’evento da un iniziale “tutto sotto controllo” a un definitivo “la situazione è grave”. Nessun altro dispone di dati salienti per mitigare questo giudizio. E quindi il sistema politico-istituzionale a questo punto ha accusato il netto passaggio, ha regolato le misure prese (secondo decreto) di conseguenza e ha cercato di attutire i conflitti inter-istituzionali, con un momento di cautela comunicativa.

Qualcuno parli al Paese

E qui è sbucato di nuovo il terzo soggetto a sparigliare. I media.  Due giorni di tuoni (ore di maratone tv) contro la comunicazione “confusa” e poi il titolo cubitale in prima pagina di Repubblica, a firma del direttore Carlo Verdelli, “Qualcuno parli al paese”. Magari dietro l’idea di spostare dai media stessi (accusati sempre di allarmismo) alla politica l’accusa vagante di far confusione. Anche nel caso di Repubblica una cosa va detta: titolo giusto come tema cornice di ogni crisi di queste dimensioni; ma anche titolo forzato rispetto al momento in cui una certa ricomposizione si andava producendo.

E questa nuova onda ha determinato, con video circolante in tutte le tv e in rete, il ritorno comunicativo del capo del Governo, Giuseppe Conte, per spiegare il decreto e le nuove misure severe.

Chi scrive osservava già da giorni l’anomalia italiana, rispetto ad altri paesi europei, della politica – non quella dei partiti che sono pressoché eclissati rispetto alla crisi,  ma quella che guida per mandato della maggioranza parlamentare le istituzioni – a volere usare tutti gli spazi possibili per spiegare ai cittadini passo passo gli eventi della crisi (in particolare nel sistema regionale, ma il via a questo walzer lo avevano dato all’inizio sia Salvini spingendo per l’estremizzazione sia lo stesso Conte per parare Salvini con la sua ubiquità rassicurante in tutto il sistema tv).

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E’ evidente che in momenti cruciali il leader – nazionale o regionale – deve dare un segnale, possibilmente sobrio e non retorico, di responsabilità in ordine alle misure assunte. In questo c’è anche una responsabile assunzione di possibili impopolarità. Ma poi è compito della comunicazione istituzionale – intesa come sistema delle responsabilità tecniche – di spiegare, contare, argomentare, indirizzare, proibire, sollecitare, eccetera. Mai con l’idea che si sta facendo battaglia politica, mai con l’idea che dietro a quella comunicazione c’è lucro di consenso.

Qui gli errori commessi sono di sistema. Sono di crisi diffusa di classe dirigente. E di evaporazione di una cultura di comunicazione istituzionale resistente e radicata. Anche se chi scrive deve dire che questa volta la comunicazione del premier Conte non va iscritta negli errori, nel senso che almeno questa volta a lui toccava assumersi la responsabilità delle misure.

Cosa serve ora?

Adesso, di nuovo, servirebbe un momento di bocce ferme per una regolata metodologica generale. Comunità scientifica, politica, imprese, amministrazioni e sistema mediatico, senza dover fare vistosi summit propagandistici, sanno come parlarsi per tentare di uscire dalla contorsione del giorno per giorno, del caso per caso, del marketing che insegue le paure.

Le comunità locali, stanno dando un buon esempio, cercando di trovare parole comprensibili e tollerabili per vivere il duro passaggio (per alcune di loro durissimo) e conservando tolleranza e solidarietà. Abbiamo in casa molte testimonianze di buonsenso collettivo che possono diventare paradigma di una cultura nazionale di governo della crisi.

coronavirus

E in alcune di queste comunità territoriali le università – qui e là ci sono casi interessanti – diventano un luogo abbastanza neutrale e con public engagement per dare parole e pensieri al proprio territorio.

La dimensione nazionale dispone però di risorse, luoghi di eccellenza, competenze, relazioni internazionali per entrare nella fase tre, quella in cui anche la comunicazione può finire per diventare virtuosa. Non perché da essa dipenda tutto. Ma perché quando funziona la regia generale, funziona anche l’immagine e la reputazione. Che non è cipria, ma leva credibile per contrastare lo sciacallaggio che si segnala giorno per giorno in mezzo mondo (ieri l’indecente spot su Canal+ in Francia sulla Pizza Corona) e per il quale rischia di essere davvero cipria la pura irritazione della nostra Farnesina.