Il coronavirus ha svelato l’inganno: siamo prigionieri delle narrazioni (ma l’epidemia di panico forse ci salverà)
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Il Covid-2019 ha provocato due contagi, uno fisico e uno mediatico. Il secondo ha prodotto molti più ripercussioni del primo. Tornare a un mondo gerarchico, con le informazioni maneggiate dagli specialisti e diffuse soltanto tra gli addetti ai lavori (Asl o operatori sanitari) è impensabile
Il coronavirus ha diviso l’opinione pubblica italiana secondo linee preesistenti e prevedibili. I sovranisti amplificano il pericolo e danno la caccia all’untore cinese, i populisti alimentano complottismi e sfiducia nelle autorità, i liberal dicono che l’influenza stagionale fa più vittime e vanno a pranzo al ristorante cinese. E poi ci sono le prese di posizione assunte per reagire ad altre prese di posizione, come quelli che deridono le mascherine perché se le mettono i parlamentari di destra. Finora non abbiamo quasi mai parlato della malattia, abbiamo parlato solo della sua percezione. Negli ultimi anni abbiamo usato il termine “virale” più nella sua accezione mediatica che medica, e il Covid-2019 ha di fatto provocato due epidemie, una fisica e una mediatica, con la seconda che ha prodotto molti più “contagi” e ripercussioni della prima. E come la prima verrà studiata, domata e iscritta nei protocolli sanitari, così la seconda dovrebbe venire analizzata scrupolosamente, per elaborare protocolli e vaccini per le prossime emergenze.
Il panico da COVID-2019 – da distinguersi dall’epidemia reale – ha mostrato quello che sappiamo già, ma non abbiamo ancora compreso e realizzato fino in fondo: nel mondo mediatico in cui viviamo i nostri comportamenti sono dettati dalle narrative. Chi forgia le narrative governa (o insidia il governo). La polemica sui contagi al Nord non è solo un dibattito sulle tattiche di gestione dell’emergenza, ma uno scontro sulle rispettive narrative, e nulla lo mette più in chiaro degli attacchi di Salvini e dei media vicini alla Lega, che dopo l’esplosione del contagio in Italia accusano i “buonisti” di “aver combattuto il razzismo invece del virus” (la svolta verso la minimizzazione successiva del governatore Fontana non è un cambiamento di narrativa, cioè di una visione del mondo, ma soltanto la difesa della sanità lombarda).
In altre parole, il razzismo – una narrativa – era la tattica giusta, e combatterlo – con un’altra narrativa – è stato sbagliato. Fossimo rimasti razzisti, saremmo rimasti sani. Una narrativa che in Italia ha, se non prevalso, avuto largo spazio, con conseguenze fatali. L’associazione del virus all’”untore” asiatico ha portato alla tranquillizzante logica dell’isolamento: chiudiamo i voli con la Cina e il virus non atterrerà in Italia. Il “paziente 1” di Codogno mostrava sintomi associabili al coronavirus, ma era italiano, come probabilmente anche l’ignoto per ora “paziente 0”, ed è stato rimandato a casa, dopo aver infettato mezzo pronto soccorso. Probabilmente è stato un caso sfortunato, che poteva accadere a Cosenza o a Cortona quanto a Codogno, ma il fatto che sia successo proprio nella provincia del Nord, quella operosa, benestante, organizzata e tradizionalista, colpisce pesantemente la narrativa del sovranismo italiano che la vede come il cuore e il modello del Paese, un luogo dove rifugiarsi dalla depravazione della globalizzazione. E genera un’altra narrativa, quella del Sud che vuole proibire l’ingresso ai lombardi, in una gongolante ritorsione contro decenni di narrativa antimeridionale. Il corona-razzismo internazionale e interrazziale ha lasciato il posto al razzismo interregionale.
Ma intanto, siccome l’Italia sta sostituendo nel ruolo dell’”untore globale” la Cina (i primi contagiati in Algeria e in Brasile provengono dalla Lombardia), ecco che scatta un’altra narrativa tipica di chi si sente in imbarazzo: in realtà, gli italiani sono stati semplicemente più bravi e solerti a scovare i casi di contagio, mentre in Francia o in Germania lasciano gli ammalati a piede libero. Se fosse così, tra qualche giorno Francia e Germania dovrebbero mostrare numeri epidemiologici ben più alti dell’Italia, ma tanto tra qualche giorno parleremo d’altro.
Il coronavirus è l’epidemia che ha messo il pianeta di fronte alla sua dimensione globalizzata, ma anche il panico che ha generato è stato un fenomeno globale, che si è propagato molto più rapidamente del virus stesso. È la prima epidemia ai tempi dei social e dei media globali. La prima epidemia ai tempi del populismo. E le misure per contenerla sono in buona parte dettate non tanto dalle esigenze sanitarie, quanto dall’ansia della politica rispetto alla psicosi dell’opinione pubblica, o perlomeno la seconda pesa nelle decisioni quanto la prima. Sarà curioso leggere, quando verrà scritta, una ricerca degli economisti sui danni provocati dal panico rispetto all’impatto sul Pil dell’epidemia reale, sempre che sia possibile separare nettamente le motivazioni nel caso di decisioni come la chiusura dei voli o del carnevale veneziano.Ma non può sfuggire la correlazione tra i numeri di contagi di alcuni dei Paesi più colpiti e il loro rapporto alterato con i media, censurati nel caso della Cina e dell’Iran, privi di qualunque freno nel caso dell’Italia. I ricercatori che studiano l’impatto delle malattie (non solo infettive), utilizzano vari indici che nascondono dietro sigle neutrali come SDI (social-demographic index) le voragini che separano i diversi Paesi per igiene, alimentazione, prevenzione, livello della sanità e possibilità di accesso alle sue strutture, e anche per cultura e disciplina della popolazione.
Non esiste – per ora, forse – un indice che misura il grado di virulenza dei media, social e non, né sono ancora state scritte linee guida che gettino un ponte in precario equilibrio tra il negazionismo e l’allarmismo. Ma se accettiamo la necessità, per il bene comune, di limitare la libertà di movimento e di assemblea, non possiamo difendere nello stesso tempo la libertà di dire idiozie. E’ una questione di igiene. Immaginatevi, per esempio, i notiziari sul coronavirus che mettono accanto al numero dei contagiati e dei morti quello dei guariti – in questo momento, rispettivamente 81288, 2770 e 30358 – e il panico fatica a nascere. Ma nei media vale la regola che una buona notizia non è una notizia, e se in più alcuni giornali italiani scambiano il numero dei guariti (recovered in inglese) con quello dei ricoverati, non c’è mascherina che tenga.
Tornare a un mondo gerarchico, con le informazioni maneggiate dagli specialisti e diffuse soltanto tra gli addetti ai lavori (Asl o operatori sanitari) è impensabile. Ma governare le narrative non significa usarle sempre per alimentare i peggiori istinti di panico e xenofobia. E il coronavirus lo sta mostrando, anche se il bias negativo dei media mette in risalto solo le conseguenze negative del corona-panico. Ma già adesso vediamo migliaia e forse milioni di persone indossare la mascherina, speriamo lavarsi le mani, e in generale reagire con compostezza e disciplina. La mascherina fece la sua comparsa nel nostro immaginario nel 2003, all’epoca della Sars, insieme alla misurazione della temperatura negli aeroporti. All’epoca, venne recepita come una misura esagerata e ridicola, dettata dalla paranoia. Oggi la consideriamo normale e la mettiamo di nostra volontà, senza aspettare richiami dalle autorità.
Una nuova narrativa – essere responsabili della propria salute e quindi di quella collettiva – ha preso piede con una rapidità impossibile prima dell’avvento della società mediatica. Anche quelli che avevano iniziato a lavarsi le mani prima di visitare i malati, venivano guardati come igienisti paranoici. L’arcivescovo Amvrosij, che durante la peste a Mosca cercò di impedire ai fedeli di baciare le icone taumaturgiche, venne dilaniato dalla folla inferocita; era il 1771, e l’imperatrice Caterina era in corrispondenza con Voltaire e Diderot. E quando, nel 1854, il dottor John Snow rimosse la maniglia sulla pompa d’acqua in Broadwick Street, fermando l’epidemia del colera a Londra, venne preso per pazzo (la maniglia viene tuttora rimossa e rimessa ogni anno, in una cerimonia che ricorda quanto sia difficoltoso il cammino della scienza). Era uno scontro di narrative, e sul lungo periodo vincono sempre quelle che permettono di sopravvivere.
Ovviamente, potremo tirare le somme delle due epidemie, quella del coronavirus e quella del corona-panico, soltanto quando si saranno concluse, e si potranno contare le vittime della prima e i danni e/o benefici della seconda. Ma se si scoprisse che grazie al panico globale – possibile soltanto in un mondo globalizzato – per la prima volta siamo riusciti ad arginare un’epidemia? Perché le epidemie erano globali anche prima di Facebook, e ogni anno si ammalano di influenza stagionale da 250 milioni a un miliardo di persone. Con una mortalità intorno allo 0,1-0,2%, significa 250 mila-1 milione di morti l’anno. Ogni anno. Se la mortalità del coronavirus è intorno al 2%, e la virulenza è più o meno quella di un virus stagionale “ordinario”, significa un rischio di 20 milioni di morti.
Se, come sembra, i grafici di diffusione del virus da verticali stanno diventando sempre più pianeggianti, anche grazie a misure draconiane come la segregazione di interi territori, da Wuhan al Lodigiano, il numero delle vittime (nonostante inevitabili esplosioni di contagio locali) potrebbe essere irrisorio su scala globale, poche migliaia. Questo significherebbe aver salvato circa 19 milioni 995 mila vite. Incluse quelle dei razzisti per prevenzione che picchiano quelli con gli occhi a mandorla negli autobus e nei supermercati (senza temere di prendere il contagio a toccarli), dei complottisti, degli apocalittici, dei paranoici, dei medici mediatici che si insultano sui social, dei giornalisti che pubblicano notizie non verificate e traducono male dall’inglese e perfino dei no-vax. Questo significherebbe aver fatto prevalere, perfino in sistemi politici non esattamente compassionevoli, la narrativa che la salvezza di una vita umana viene prima del profitto e della ragion di Stato.
Nel mondo animale, le epidemie eliminano gli esemplari più deboli e rafforzano con gli anticorpi quelli più resistenti. Vale anche per le epidemie di panico. E in un mondo sempre più globale e complesso, i più resistenti non sono quelli più robusti, ma quelli più capaci di adattarsi ai cambiamenti, di adottare comportamenti razionali, di mantenere la disciplina, di soppesare rischi e benefici invece di farsi prendere da emotività tribali, di cooperare con gli altri, di non soccombere al contagio. Ci sarà una selezione naturale. Stiamo già elaborando gli anticorpi: se nei primi giorni parlare di psicosi esagerata era più pericoloso che andare a Codogno, ora il mood che prevale (dopo tre giorni a casa con la famiglia) è quello di «la vita deve andare avanti». Inventeremo vaccini. Alzeremo le difese immunitarie contro il panico, ed elaboreremo protocolli per arginare le prossime epidemie rapidamente ed efficacemente, senza eccessi come quello di chiudere 3700 persone in una nave da crociera, trasformando il contagio da probabile in quasi certo.. Oppure, le tossine sedimentate da ondate di panico, una dopo l’altra (chi si ricorda dell’Isis?), finiranno per compromettere definitivamente il nostro genoma, portando a una mutazione o al risorgere di atavismi cavernicoli. In entrambi i casi, sarà merito (colpa) di un mondo globale dominato da narrative mediatiche.
Infodemia: il caso da manuale di come non si comunica
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Dai gesti eclatanti alle esternazioni contradditorie, passando per provvedimenti a macchia di leopardo: nella gestione dell’emergenza Coronavirus sono stati fatti troppi errori
Attorno alla notizia del primo contagiato italiano il 21 febbraio si è scatenato un progressivo caos comunicativo che ha generato nei cittadini una sensazione di inquietudine che in molti casi si è via via trasformata in panico.
I sociologi della comunicazione la chiamano infodemia: “la circolazione eccessiva di informazioni contraddittorie. Spesso non vagliate con precisione, non verificate, che rendono difficile orientarsi su un determinato tema, argomento, scelta per la difficoltà di individuare fonti non solo affidabili ma anche certe” ( David J. Rothkopf, «Washington Post», When the Buzz Bites Back (11 maggio 2003)
Ma in un Paese a democrazia evoluta, chi deve parlare in eventi potenzialmente catastrofici che possono generare un danno collettivo enorme? Qualcuno potrebbe risponderebbe “tutti, visto che è un diritto costituzionale” confondendo il diritto alla libera espressione con la responsabilità delle informazioni e delle decisioni. Che è anche la confusione che si è generata, complice anche le opportunità del web e dei social network, che ci hanno ormai abituato a una comunicazione “fra pari” e, in parte, “deresponsabilizzzante”.
Un’emergenza come quella del Covid19 si dovrebbe affrontare anche a livello comunicativo con gli stessi principi e le medesime procedure tipici del risk/crisis management. Vediamone alcuni e se e come sono stati rispettati.
1. Centralizzare le informazioni
Nei casi di crisi dovrebbe parlare una sola fonte. Ma, anche in virtù della devoluzione delle responsabilità in materia di tutela della salute, di fatto questo non è accaduto: ogni singola Regione ha adottato proprie strategie di contenimento del contagio (talora anche prive di ragioni scientifiche), con scarso coordinamento se non addirittura in contraddizione con quelle delle altre, e in qualche caso in aperto conflitto con quelle del Governo (tanto che l’Esecutivo ha addirittura fatto un ricorso al TAR). Tutto questo ha creato incertezza e la percezione di mancanza di una guida chiara ed univoca: un agente formidabile per scatenare paure incontrollate e reazioni irrazionali e antisociali come l’accaparramento di generi alimentari nei supermercati.
2. Evitare informazioni in eccesso.
Il ritmo di almeno due conferenze stampa al giorno (fra nazionale e regionale), insieme alla frequenza e monotematicità di aggiornamenti e commenti sulle principali emittenti radio e TV, con interviste a esperti di ogni genere, hanno creato un surplus informativo e confuso: istituzioni nazionali che smentivano istituzioni locali su dati ed interpretazioni e viceversa. Purtroppo, l’effetto domino creato da continui nuovi contagi hanno amplificato a dismisura le notizie e i toni.
3. Informazione sobria, se possibile fatta da un tecnico, evitando banalizzazioni e tecnicismi
In generale la comunicazione di una epidemia dovrebbe essere appannaggio di un tecnico, lasciando la politica e le istituzioni in secondo piano, e pertanto bene ha fatto il Governo a lasciare l’incombenza della conferenza stampa quotidiana al Commissario per l’emergenza Borrelli, capo della protezione civile. Molto meno bene hanno fatto Governatori e Assessori a improvvisarsi virologi, confondendo perfino i virus con batteri. Ma anche il mondo scientifico ci ha messo del suo: medici e scienziati di chiara fama si sono sentiti autorizzati a dare dati e previsioni polemizzando fra loro (chi non ricorda la polemica del prof. Burioni con la “signora del Sacco”? Sono episodi che hanno complicato una narrazione già di per sé complessa).
4. Trasparenza
Da subito si è deciso di dare il massimo della trasparenza a tutti i dati dei contagi, mentre prudenza avrebbe voluto che si comunicassero solo i casi “confermati” dalle controanalisi dell’ISS e non quelli delle persone sottoposte al test o risultate “positive” al primo tampone, anche se asintomatiche. Gli altri Paesi hanno da subito comunicato i soli contagiati certi e con condizioni di salute serie, scelta decisamente meno ansiogena. L’Italia in un batter d’occhio è diventata così il terzo Paese al mondo per contagiati dopo Cina e Corea del Sud. Solo dopo sei giorni, quando oramai il danno era fatto e le conseguenze economiche pesantissime e a lunga durata, l’Italia si è uniformata ai metodi di rilevazione degli altri Paesi.
5. In assenza di certezze, evitare ogni previsione
In una situazione in cui poco o nulla si conosce dell’agente infettante, sarebbe stato opportuno astenersi da previsioni, ma esperti, medici e politici, abbandonando ogni elementare prudenza, si sono lanciati in previsioni più o meno catastrofiste, per poi “cambiare idea” e ritornare su posizioni più possibiliste e meno apocalittiche solo negli ultimi giorni.
6. Evitare personalismi e gesti eclatanti
Personalismo e sensazionalismo sono forse i “mali” che più hanno generato quelli finora elencati: il personalismo ha portato politici (ma ahimè anche medici e ricercatori) di ogni ordine e grado a commentare dati e previsioni, a speculare sulla situazione per danneggiare la parte politica avversa (o screditare i colleghi), incuranti del danno sull’opinione pubblica. Anche i rappresentanti delle istituzioni non sono sfuggiti alla tentazione della ricerca della visibilità personale o sono caduti nella trappola di discorsi o gesti “ad effetto”, che in un contesto di crisi andrebbero assolutamente evitati. E’ il caso in cui è incorso il normalmente misurato presidente della Regione Lombardia, Attilio Fontana, con l’annuncio dell’autoisolamento in diretta Facebook, indossando coram populo una mascherina sterile. Una scelta inutilmente ansiogena.
Che insegnamento trarre allora da quanto accaduto? Che nell’epoca della disintermediazione e della sovrainformazione, anche le istituzioni, come già fanno tante aziende, devono dotarsi di piani di gestione del rischio che prevedano procedure chiare e condivise di comunicazione, secondo i principi che abbiamo esposto, che raccordino e impegnino Governo centrale, Regioni, Comuni e autorità verticali (es. Istituto Superiore di Sanità). Tali procedure dovranno prevedere anche una formazione mirata per le persone che rivestono certi ruoli, affinché non solo ne diventino i garanti ma siano anche messe in grado di sostenere lo stress mediatico di situazioni ad alta complessità ed emotività (molti sono convinti che parlare con i media sia una cosa che possono e sanno fare tutti, ma non è affatto così). Solo così alla capacità di intervento sulle emergenze, spesso eccellente nel nostro Paese, si potrà affiancare anche un’adeguata responsabilità nella gestione della comunicazione e del flusso informativo. Certamente ci sono già competenze ed esperienze virtuose, ma occorre metterle a sistema e farne un patrimonio condiviso. Certo la responsabilità dei singoli non è mai sostituita dalle procedure, ma la presenza di linee guida chiare e un’adeguata formazione possono contribuire in modo decisivo a far crescere una cultura diffusa della corretta comunicazione.
L’autore, Gabriele Bertipaglia, è partner di SEC Newgate Spa e responsabile della divisione Reptutation & Crisis Management. L’agenzia italiana è a capo di un gruppo internazionale specializzato in Public Relations e Advocacy fra i primi 30 al mondo. Per l’emergenza coronavirus ha messo a disposizione di aziende ed enti un team di specialisti per accompagnare la comunicazione di crisi verso clienti, dipendenti, fornitori e sui diversi canali (media, social, etc.).
Il tampone andrebbe fatto ai giornali
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Reale o presunto che sia, l’allarme coronavirus ha rivelato il vero stato di salute dell’informazione italiana: positivo al sensazionalismo
Se è vero che gli amici si vedono nel momento del bisogno, dovremmo iniziare a pensarlo anche dell’informazione.
Da quando la parola coronavirus ha fatto il suo ingresso in Italia col primo caso nel Lodigiano, nell’ultima settimana abbiamo assistito alla conferma di un mestiere che ha da troppo tempo abdicato al senso di responsabilità.
Non si venga a dire che i giornalisti non hanno potuto fare bene il loro lavoro perché le zone rosse impedivano precauzionalmente l’accesso e il transito: le famose suole da consumare si possono sbucciare in molti modi, ma certamente non stando immobili nei salotti degli studi televisivi, non ribattendo ciò che circola da giorni pur di stare sul pezzo, non dando voce agli stessi nomi, non creando panico, non creando inutili collegamenti in stile Botteri coi grattacieli di Pechino alle spalle solo per rassicurare gli italiani che il servizio pubblico ha un proprio inviato in Cina e farle ripetere il già detto solo perché tanto è già pagata da contratto. Tra l’altro, la gaffe del video in cui la Botteri spiega quali precauzioni adottare contro il coronavirus mentre entra nella sede cinese della Rai commettendo una serie di errori madornali è già virale.
Una volta gli inviati incarnavano il carisma della professione perché erano in prima linea, bruciavano gli altri sul tempo e si facevano depositari di un vero – se mai sia ancora possibile parlare di verità quando si parla di giornalismo. Le informazioni miste a disinformazioni corrono ormai alla stessa velocità dei social network.
Principio di precauzione culturale, prima che sanitario
Basti pensare alla ressa degli acquisti di Amuchina o delle mascherine e alla scarsa premura nel riportare alla calma gli italiani piuttosto che gridare loro, da ogni angolo: “Allarme mascherine: esaurite ovunque”.
Il chimico professionista Dario Bressanini lo ha detto chiaro e tondo qualche giorno fa, intervistato in diretta da Edoardo Buffoni e Michela Murgia che conducono il Tg Zero di Radio Capital: esistono alternative sicure, fatte in casa, all’Amuchina. “Da quando scoppiarono le prime epidemie di Sars e di Ebola, ovviamente anche in posti in cui non ci sono farmacie né supermercati, l’OMS mise a punto una formula molto semplice: alcol etilico – per capirci io ho usato quello avanzatomi dal limoncello, alcol a 96 gradi. Per preparare un litro di questo disinfettante servono 833 millilitri di alcol etilico a cui aggiungere 42 millilitri di acqua ossigenata al 3% che non serve per disinfettare ma ha lo scopo di proteggere da eventuali spore batteriche dato che stiamo realizzando casa una preparazione liquida senza essere un’azienda farmaceutica che ha il controllo totale dell’atmosfera. Poi aggiungere 15 millilitri di glicerina, acquistabile senza problemi, visto che mettere la pelle a contatto con queste sostanze potrebbe essere irritante. Si mette tutto in un recipiente graduato e lo si porta per la parte restante fino a un litro con acqua distillata: chi non volesse comperare nemmeno quella, può semplicemente mettere a bollire la classica acqua del rubinetto e la raffredda ben coperta per evitare che si ricontamini. Si imbottiglia in un recipiente sterile e si aspettano le 72 ore consigliate dall’OMS per rendere il composto idoneo e attivo”.
La psicosi da farmacia e da supermercato è il bastone migliore per non sentirsi in colpa della propria ignoranza.
Mai come in circostanze di emergenza – reale o presunta – come questa, chi assiste alle decisioni politiche, sanitarie e sociali ha il dovere di essere il primo responsabile di se stesso applicando il principio di precauzione non solo per la propria salute fisica ma anche per quella culturale e di pensiero.
Una delle informazioni preventive più efficaci, che da nessuna altra parte ho sentito diramare, me l’ha fornita una operatrice del 118 della Regione Toscana, raggiunta telefonicamente durante il suo turno di lavoro. “Oltre a consigliare di lavarsi le mani, nessuno sta ricordando quanto sia importante disinfettare anche il cellulare che appoggiamo continuamente ovunque, senza alcune premura. Lo stesso cellulare che portiamo poi accanto alla bocca, agli occhi e al naso. Così come tenere pulita la tastiera del computer e il volante. Prestare attenzione ai nostri gesti quotidiani è in queste ore la prima forma di prevenzione”.
Coronavirus: oltre 30 milioni di italiani ne parlano sui social
La parola va data rigorosamente a chi sa decifrare i fenomeni, a chi ha il coraggio di misurarli rispetto al sentito dire dilagante.
Per questo abbiamo raggiunto Pier Luca Santoro, Project manager di DataMediaHub e tra i massimi esperti di dati su informazione e comunicazione. Stava ovviamente già monitorando la situazione e quello che ci ha fornito è il quadro più attendibile in circolazione.
“Ho pensato di concentrare la mia analisi sulla rappresentazione mediatica online da parte dei siti di news del nostro Paese sul tema del coronavirus. Per farlo sono state analizzate le citazioni online di coronavirus negli ultimi 30 giorni filtrando esclusivamente quelle in Italia, in italiano, e prodotte, appunto, sui siti di news quindi quotidiani online, magazine e agenzie di stampa.
Le citazioni sono state oltre 202 mila ed hanno coinvolto più di 30 milioni di italiani tra like, condivisioni e commenti, generando una portata teorica di un triliardo di impression, che stimo ragionevolmente in 250 miliardi di impression effettive. Una potenza di fuoco colossale che, a partire dal giorno del primo morto nel nostro Paese il 20 febbraio scorso, è cresciuta a dismisura.
In 30 giorni, TGCom24 ha prodotto la bellezza, si fa per dire, di 821 articoli; l’ANSA ne ha pubblicati addirittura 2.400; Libero oltre 1.000, solo per citarne alcuni. Ma, come mostra l’infografica, tutte le testate hanno pubblicato una quantità di articoli spropositata. Una quantità eccessiva di articoli che naturalmente difficilmente può essere accurata, a cominciare dal fatto che il manager “untore” ritornato nel lodigiano dopo un viaggio di affari in Cina in realtà non ha mai avuto il Coronavirus: cosa che anche le testate aderenti al “Trust Project” non hanno rettificato, né tantomeno si sono scusate per aver diffuso una notizia falsa, grave”.
“Naturalmente tutto questo è stato ulteriormente amplificato dai social. Un articolo di Adnkronos conta più di 302mila like e poco meno di 51mila condivisioni solo su Facebook. Molti degli articoli più condivisi sono stati relativi alle ricercatrici che hanno isolato il virus. Notizia tutta italiana che non ha avuto alcuna eco mediatica fuori dai confini nazionali, anche perché, come sappiamo, il virus era già stato isolato in precedenza da altri ricercatori non italiani.
Una infodemia che ha generato allarmismi ingiustificati oltre che gravi ricadute sull’economia nazionale. Non era certamente questo quello che ci si attendeva da chi si occupa di informazione per professione, e dunque dovrebbe operare professionalmente senza [s]cadere nel clickbait più sfrenato come avviene, purtroppo, ormai da tempo”.
L’Ordine dei giornalisti ha detto basta. Troppo tardi.
La mossa era corretta ma forse è arrivata tardi. A sottolineare lo stato di allerta nel mondo dell’informazione, Carlo Verna – a capo dell’Ordine dei giornalisti – già alcune settimane fa aveva richiamato alla serietà del mestiere ma è evidente che tutto stava già precipitando nell’allarmismo. Ha persino deciso di ricorrere a un testimonial come Piero Angela per ribadire il concetto lo scorso 26 febbraio in conferenza stampa del Consiglio nazionale dell’Ordine dei Giornalisti a Roma sul tema ‘Informare non allarmare: coronavirus e comportamento corretto dei giornalisti’.
“Anche per la mia storia mi sento responsabilizzato, il mio Paese va preservato dal contagio del coronavirus, ma anche da un altro contagio, quello della psicosi, che si sta diffondendo soprattutto all’estero: la paura che questo sia un Paese dove non si può più andare”, le parole del noto giornalista e divulgatore scientifico. “Non sono così allarmato dal virus, spero che rientri abbastanza velocemente con la nuova stagione e che nel frattempo si trovi un vaccino o qualche farmaco efficace. Ormai nei telegiornali non parlano quasi d’altro, ovviamente la gente è interessata ma anche la massa di notizie in sé può avere l’effetto di creare preoccupazione nelle persone. Serve buon senso. Una storia come questa del Coronavirus non l’avevo mai vista in 68 anni di lavoro”.
Quindi, a chi credere? Il giornalismo non è una fede ed è sempre bene ricordarlo. Se poi il giornalismo italiano si mette a scimmiottare lo stile dei social network ispirati a velocità, sensazionalismo, superficialità del titolo, magrezza del contenuto, economia dell’attenzione e leve percettive, la deriva è vicina.
Ogni volta che posso, spendo buone parole per l’informazione a mezzo radio da sintonizzare sui canali che fanno dell’approfondimento del pensiero il loro scopo: ci rallentano nella smania dell’illuderci informati e ci fanno frenare prima di aver capito.
Frenare.
Come la buona azione di Instagram che, nel momento in cui si digita #coronavirus per seguire il thread, apre un pop-up che invita a passare prima per il sito aggiornato dell’OMS sulle informazioni ufficiali; in alternativa, si può cliccare subito su “Vedi i post”. Una bella prova di come siamo diventati davanti al bivio del sapere. La sensazione è che ci illudiamo tutti di avere in mano le notizie mentre il giornalismo, purtroppo, sta solo giocando a nascondino.
Foto di copertina: Inews24.it
Coronavirus, Alibaba: l’intelligenza artificiale esegue il test in 20 secondi
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Gli algoritmi sviluppati da Damo Academy, secondo il colosso tech cinese, riescono a identificare l’infezione con un’accuratezza del 96%
L’intelligenza artificiale in prima linea per individuare il coronavirus. Gli algoritmi di Alibaba impiegano 20 secondi per formulare una diagnosi con un’accuratezza del 96%. A sviluppare gi algoritmi che lavorano per individuare l’infezione da Sars-Cov-2 è stata la Damo Academy, stando a quanto riportato da Sina Tech News e altri media.
Il nuovo metodo, spiegano dall’istituto di ricerca cinese, sfrutta complessi sistemi di analisi basati sul machine learning e addestrati con i dati campione di oltre 5 mila casi confermati, secondo le linee guide delle ultime ricerche effettuate sull’epidemia che negli ultimi mesi si è rapidamente diffusa a livello globale.
Nella maggior parte dei casi analizzati, mettendo a confronto le tomografie, l’Ia sarebbe dunque in grado di distinguere i casi di Covid-19 da quelli di una comune polmonite, in poco tempo e con un margine di errore minimo. Il che vuol dire accorciare di pareccho i tempi, considerando che di solito un medico impiega tra i 5 e i 15 minuti per leggere una Tac ed elaborare una diagnosi, con scansioni che a volte richiedono oltre 300 immagini.
Dal 5 febbraio il sistema sanitario cinese (Chinese National Health Commission) prevede l’uso della Tac in aggiunta al metodo di test dell’acido nucleico per garantire una migliore efficacia nell’individuazione del coronavirus.
Il nuovo sistema di diagnosi è stato già testato negli ospedali cinese ed è in funzione nella struttura di Qiboshan, a Zhengzhou, nella provincia di Henan, creato sul modello dell’ospedale di Xiaotangshan di Pechino, completato nel 2003 per far fronte alla diffusione della Sars. A partire da domenica scorsa l’ospedale di Qiboshan accoglie i casi sospetti di Covid-19. Ma il sistema di Alibaba, secondo i media asiatici, dovrebbe essere adottato in più di cento ospedali della provincia focolaio dell’Hubei.
Smart working: si sta come le penne lisce sugli scaffali
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Ci è voluta l’emergenza per rendere inutili anni di discussioni e convegni
E all’improvviso si sono scoperti tutti fenomeni.
Uno dei temi più dibattuti nella teoria e con la minore efficacia nel concreto, è quello dello smart working. Solo negli ultimi quattro anni, i risultati di ricerca riguardo articoli auto prodotti, convegni e chiacchierate organizzate a vario titolo dalle Botteghe di Categoria sono circa 180.000!
È bastata una settimana di emergenza per derubricare tutta questa iper produzione antologica a un mero “chiacchiericcio condominiale” dove la retorica del centralismo della Persona – bellissima metafora in uso nelle riunioni e sulle pareti dei corridoi – è venuta totalmente a mancare in questo matrimonio felice fra sindacalisti e direttori del personale che ha raggiunto le nozze d’oro in sterili dibattiti e attività di relazioni industriali talmente efficaci da conseguire, nella punta del massimo virtuosismo, alla mediazione di 3,5 giornate di smart working al mese.
Il folle dominio del controllo
Nella lista delle sconfitte, c’è la responsabilità comune nel tentativo di presidiare il proprio giardinetto, di aver letteralmente bloccato per anni la possibilità di crescita della cultura dello smart working raccontandosi che il vero ostacolo alla crescita delle organizzazioni sono “i capi che vogliono controllare i dipendenti”. Che, seppur in parte vero, ci stiamo dimenticando totalmente che quei capi fra 5 anni saranno in pensione e al loro posto comparirà un management di generazioni a cui non interessa né stare in ufficio, né controllare chicchessia.
Ma si sa, il dinosauro parla ai dinosauri e soprattutto è convinto che i dinosauri non si estingueranno mai.
Parlando con alcuni amici sindacalisti (ma ho anche amici nelle direzioni del personale, nonostante tutto), alcuni di loro ricordano – fra gli accordi di smart working più visionari in Italia – quello proposto (a memoria) dalla allora Omnitel in tempi in cui ancora vigeva il CCNL della metalmeccanica (poi convertito in CCNL delle TLC). La direzione del personale di allora per alcuni aveva mangiato pesante ed aveva immaginato spazi senza scrivanie personali, spazi comuni e autocertificazione delle presenze. Indovinate chi furono i principali oppositori della proposta? Sindacati, colleghi HR e intellettuali. Gli stessi che oggi predicano l’open organization sui giornali di management.
Tutta l’epica creata ad hoc in questi anni è stata bruciata nel giro di 24 ore. Sui social e sui giornali, più del virus (e delle penne lisce abbandonate sugli scaffali dei supermercati letteralmente depredati) la parte del leone l’hanno fatta i lavoratori da casa.
Startupper, CEO di se stessi ed altri animali mitologici
Migliaia i post di “imprenditori” le cui “aziende” non risultavano minimamente scalfite dall’emergenza, perché “noi” lo smart working lo facciamo da sempre. Apri il profilo Linkedin del personaggio in questione e scopri essere il titolare di un’azienda di massimo 12 persone, abitante di coworking alla moda, i cui dipendenti lavorano prevalentemente da casa perché di fatto l’ufficio è poco più che un indirizzo formale a cui recapitare la posta. Bocciati.
I maestrini dalla penna rossa
La categoria degli HR si è espressa dopo 24 ore, con un comunicato stampa in cui si invitavano tutti gli appartenenti alla categoria a dimostrare senso di responsabilità ed approfittare della splendida opportunità per attivare pratiche virtuose di home office. Come sempre in ritardo sulla tabella di marcia.
Dall’associazione di categoria più coinvolta nell’argomento mi sarei aspettato contenuti decisamente diversi anziché inserirsi nel flusso comunicativo su pratiche che ormai tutti avevano già adottato più o meno gioco forza.
Nel goffo tentativo di mantenere il presidio sull’argomento, quando è arrivato il momento in cui bisognava farsi trovare preparati e col rodaggio terminato, non solo in Italia abbiamo scoperto che parlare di smart working era addirittura una “notizia”, ma ancora una volta le Risorse Umane sono state considerate come l’ufficio amministrativo per la realizzazione di un comunicato scritto in bella copia su carta lucida. Difficile pensare d’ora in poi che, se nelle aziende cambierà qualcosa nella cultura di approccio al lavoro, questo cambiamento si possa afferire alle Categoria di Riferimento.
Ormai il coronavirus ha preso la paternità del cambiamento più importante e senza nemmeno la necessità di trovare lo sponsor che paghi il buffet per l’ennesimo convegno.
Quelli che ci credevano e finalmente lo hanno potuto fare
Naturalmente la crisi è stata l’opportunità per coloro che al lavoro da casa ci credono da sempre, per dimostrarne efficacia e modernità in tempo di benessere dei dipendenti, inquinamento, sostenibilità ambientale e tutto ciò che è fin troppo banale ripetere qui e che avremo letto chissà quante volte in questi giorni.
Ho dunque lanciato una richiesta di informazioni al mio network su Linkedin, chiedendo come le aziende si stessero organizzando in queste ore. Dalle decine di risposte pervenute ho avuto modo di farmi un’idea generale del contesto, del momento storico in cui il tema sta vivendo in termini culturali, ma anche di quanti pochi abbiamo affrontato in maniera davvero visionaria, l’argomento.
Fra le risposte più immediate alla crisi, laddove alcune aziende si sono fatte trovare mediamente già preparate, ho riscontrato delle buone pratiche che andassero un pò più in là rispetto alle indicazioni generiche (fra queste: Dedagroup, Deloitte, BlogMeter, Schneider Electric).
Qualcuno, come Deloitte, ha preferito tenere la maglia del business socchiusa. Unitamente alle precauzioni e all’invito ad operare da casa senza limiti, blocco delle trasferte internazionali; laddove il cliente richiedesse la presenza, e nel rispetto delle singole policy, vale il libero arbitrio del consulente.
Hanno brillato per lungimiranza, facendo qualcosa di diverso da tutti gli altri, coloro che si sono presi a cuore la situazione di chi, con la chiusura delle scuole, si è trovato a dover gestire i figli in mancanza di altri supporti familiari. È il caso di Best Western e SI Hotels che hanno previsto una riduzione del computo delle ferie del 50%. Notevole anche l’organizzazione di Heinemann, colosso del retail aeroportuale che riesce a gestire la crisi da chiusura scolastica garantendo tuttavia le aperture dei negozi.
Abbattere i limiti mensili. Allora si può fare!
Interessante il caso di Bebit, agenzia di comunicazione torinese che, oltre ad aver abbattuto il limite settimanale dello smart working, ha fatto recapitare a casa dei propri dipendenti tutto il necessario per continuare a lavorare. Anche il Gruppo Acolad con sede a Bologna, leader nelle traduzioni in tutto il mondo e che opera in 14 paesi con una community di oltre 14.000 traduttori professionisti, ha abbattuto i limiti settimanali e inserito la gestione della crisi nella policy di qualità. Stesso vale per Credem, gruppo bancario emiliano fra i pochi ad avere già un utilizzo dello smart working quasi del doppio rispetto alla media.
Sempre in area emiliana, questa volta moda (Woolrich) e finanza (Crif) hanno adottato insieme alle misure precauzionali standard, anche la sospensione dei corsi di formazione.
Cosa per niente scontata considerando che Randstad, primaria agenzia per il lavoro, il giorno dopo il primo allarme ha mantenuto i corsi di formazione previsti su Milano nonostante il blocco comunale cautelativo. Attraverso la voce dell’ufficio del personale è stato inviato un messaggio a tutti i collaboratori interni, in cui oltre ad insegnare come lavarsi le mani si invitavano “coloro che provenivano da zona rossa di valutare arbitrariamente con il proprio responsabile l’ipotesi di stare a casa o andare in ufficio”. A fronte di molte lamentele interne dal personale (soprattutto femminile che rappresenta in azienda oltre il 70% dei dipendenti), a cui è stato negato lo smart working con la scusa che non tutti hanno i pc aziendali (seppure sembra che l’azienda abbia basato tutti i processi sulla Suite di Google), nel pomeriggio di lunedi 24 febbraio arrivava un contrordine e finalmente anche l’indicazione di bloccare le trasferte e lo stop di tutte le attività formative.
Ma il mondo dell’interinale sembra doversi battere con problemi ancor più gravi del virus se è vero che moltissime aziende Lombarde e Venete al di fuori delle zone rosse hanno iniziato a richiedere il fermo di lavoratori a tempo e addirittura di far assorbire i costi alle stesse agenzie per il lavoro. Curioso che la richiesta provenga proprio da quei territori le cui aziende si lamentano costantemente con i giornali di non trovare lavoratori.
Vi assicuro che mancano i computer
A proposito di computer, da una primaria multinazionale di assicurazioni arriva la segnalazione che, in mancanza di qualsiasi comunicazione a supporto dello smart working e in considerazione soprattutto dei fermi scolastici, i dipendenti hanno sollevato una vera e propria mozione. Solo martedì 25 febbraio è stato risposto loro che “sono finiti i computer a causa del coronavirus” invitandoli a lavorare con lo smartphone, salvo poi intorno alle 16.00 chiamare i dipendenti uno ad uno per chiedere di “procurarsi un pc poiché sono finite le scorte”. Ma siamo certi che questi sono solo pettegolezzi.
Risorse Umane non vi conosco
Il caso di Selle Royal è interessante ancora di più poiché in azienda, nonostante la struttura numericamente importante, non esiste un direttore del personale. La situazione di crisi è stata svolta in collaborazione fra le varie business unit
Naturalmente non sono mancati i casi di chi almeno nelle prime 48 ore della gestione della crisi non ha ritenuto necessario dare alcuna informazione. Fra questi, addirittura la Regione Veneto a detta di uno dei suoi dipendenti.
Cosa ci insegna il coronavirus?
Il primo insegnamento è che quando si affrontano temi concreti (l’emergenza), si stana la fuffa. La “digital transformation” e l’”innovazione” spalmata a fiumi nelle slide e nei filmini aziendali ha dimostrato di essere fragile come pancarrè alla prova del burro freddo. Non solo alcune aziende non sono pronte a sostituire brutte usanze analogiche con buone pratiche digitali, ma molte non hanno nemmeno la strumentazione minima per farlo. Per non parlare della cultura.
Ci siamo nascosti dietro alle borraccette di alluminio quando è evidente che la sostenibilità ambientale è un’altra cosa. In questi giorni a Milano si respira aria di montagna. Abbiamo davvero bisogno di tirare fuori l’auto dal garage, costruire grattacieli per contenere umani in scatola e leggere post di gente incazzata con Trenitalia tutte le mattine?
Quando si parla troppo di un tema è perché così si giustifica meglio il tempo che si impiegherebbe per realizzarlo. Ricordatevi tutte le polemiche sorte intorno al divieto di fumo nei cinema: sembrava che l’industria del tabacco, Hollywood, Cinecittà, la Kodak e Poltrona Frau sarebbero fallite miseramente. È fallita solo la Kodak e proprio perché non ha voluto cambiare.
Il peggior nemico al cambiamento è il filo spinato: voler presidiare un argomento come se fosse di proprietà e non permettere ad altri di metterci piede facendo sentire tutti ospiti tenuti a seguire regole incomprensibili, è un errore che alla lunga risulta fatale. Quando arriva il momento in cui il contesto fa saltare le regole, si potrebbe scoprire che è possibile migliorare anche senza il tuo intervento e a quel punto non solo non sei più rilevante, ma diventi addirittura superfluo. E in breve, esci dal gioco.
È scientifico: 8 persone su 10 detestano i propri colleghi (ma è anche vero che 8 su 10 flirtano con i propri colleghi e allora si comprende anche meglio tutta questa smania da scrivania!). Solo “i capi” sono convinti di lavorare con team straordinari e affiatatissimi a cui erogano annualmente un team building nel bosco o in barca a vela garantendosi democraticamente l’odio di tutta l’azienda.
Una prova concreta? Chiedete ai vostri collaboratori quanti di questi hanno cenato o hanno passato del tempo insieme con le rispettive famiglie una sola volta nell’ultimo mese.
Capovolgere i criteri di smart working passando da un giorno alla settimana a 3 giorni alla settimana non solo renderebbe le relazioni con i colleghi più qualitative, ma eviterebbe di trasformare quel giorno di libertà condizionata come il ponte per un weekend più lungo o un giorno di ferie extra.
Chi davvero pensa che lo smart working renda le Persone asociali o che si perda familiarità con i propri colleghi, è qualcuno che ha semplicemente bisogno di affetto. Suggerirei un cane da compagnia: grazie a Bobi farà tantissime amicizie al parco e magari trova l’anima gemella a cui raccontare nell’intimità quanto si stava bene quando si organizzavano convegni.
Cosa è successo dopo la prima settimana di emergenza
Era inevitabile che questo articolo attraesse altre testimonianze e qualche whistleblower.
FCA, Datalogic, Mettler_Toledo e GD fra i ripetenti
E così veniamo a sapere che ancora in data 1 marzo FCA non abbia concesso lo smart working ai propri dipendenti. Il nostro testimone ci riferisce che FCA quasi tre anni fa ha cominciato una fase di sperimentazione limitata ad un giorno alla settimana per i livelli più alti, da management a capi ufficio, di un solo settore. La fase fu stabilita di 6 mesi poi estesa ad un anno, dopo la quale, in caso di risultati positivi, lo smart working avrebbe dovuto essere esteso a tutti i dipendenti. Dopo quasi tre anni e ripetuti appelli, la fase di sperimentazione continua, nonostante tutti siano dotati di pc personale. La motivazione addotta dall’azienda per l’attuale blocco della concessione del telelavoro è l’impossibilità di dotare tutti i dipendenti di un cellulare aziendale. I dipendenti si sono detti disponibili a sostenere questa spesa individualmente se necessario, nonostante l’azienda sia dotata di un dispositivo digitale di comunicazione inserito nel pc che consente di essere collegati in tempo reale attraverso messaggi, videochiamate e videoconferenze.
In questa situazione, dipendenti e sindacati hanno colto l’occasione per richiedere di attivare l’attesa implementazione del telelavoro, per motivi di sicurezza sanitaria e per andare incontro alle esigenze dei genitori. Non è mai arrivata risposta alcuna, ancora ad oggi, 7 marzo.
Diversa la situazione in CNH, azienda del Gruppo, che invece sembra essere decisamente più avanti rispetto alla Casa Madre, sulla base di alcuni documenti che ho avuto la possibilità di consultare nel portare avanti questo reportage.
Lascia allibita anche la notizia che riguarda Datalogic. Nei giorni immediatamente successivi alle prime allerte avevamo ricevuto tante segnalazioni in merito alla negazione da parte della direzione del colosso tecnologico bolognese, di qualsiasi forma di smart working nonostante le pressanti richieste dei dipendenti. A conferma di queste, è stato pubblicato dall’Agenzia Dire nella giornata di ieri 6 marzo, un articolo in cui a distanza di 3 settimane dall’evidenza della situazione critica, ancora la direzione del personale di Datalogic gioca a braccio di ferro con i Sindacati
A denunciarlo sono i delegati assieme a Fiom-Cgil e Fim-Cisl.
Da giorni in azienda si chiede che i dipendenti possano operare con questa modalità invece di prendere le ferie, ma “a nulla sono valse le argomentazioni” di delegati e sindacati che hanno chiesto un incontro sin dalla settimana scorsa, ma Datalogic “pare immune alle esigenze dei propri dipendenti, e a quelle di prevenzione di contagio nell’interesse di tutti, sia che siano genitori di figli con le scuole chiuse, sia che siano titolari di permessi 104 per familiari disabili che potrebbero avere situazioni delicate a casa, sia che siano futuri padri con una gestante in famiglia, eccetera eccetera”.
L’attacco sindacale è duro e frontale: “L’azienda è sorda sia dal punto di vista sindacale che individuale: tante e tanti hanno richiesto individualmente la possibilità di prestazione di lavoro da remoto” per “ragioni di accudimento o di ragionevole prevenzione sanitaria contro la diffusione coronavirus, ma la direzione ha declinato tutti i casi richiesti, salvo coloro certificati come situazioni a rischio immunologico. Corretto, ma è il minimo”.
Ricordiamo che con lo smart working, in quelle aziende dove sono presenti anche le aree di produzione, si potrebbero ridurre notevolmente le file e gli assembramenti per la mensa, che non sono rispettose della minima distanza di sicurezza di un metro istituita in tale frangente dalla sanità pubblica. Eppure Datalogic, così come anche altre aziende fra cui ci risulta – salvo smentite – anche il gruppo GD sempre a Bologna, non solo hanno tenuto le mense aperte, ma in questo caso addirittura la palestra mentre le prime confezioni di disinfettante sono state assicurate ad un cavo di acciaio per evitare che vengano “sottratte” dagli stessi dipendenti. Attendiamo di vedere il posizionamento dell’azienda nella classifica del prossimo Great Place to Work!
L’ultima segnalazione arriva dalla Mettler_Toledo di Milano, la cui direzione del Personale, in seguito alle misure estremente ristrettive del Decreto del 9 marzo, in una prima mail ai dipendenti, comunicava l’adeguamento alle norme della Presidenza del Consiglio interpretandola a proprio uso e consumo:
Gentili Colleghi,
è stato pubblicato nella serata di ieri il Decreto ‘IO RESTO A CASA’, che attiva su tutto il territorio italiano le medesime limitazioni, in merito agli spostamenti, riservata alla Lombardia e a 14 province del Nord e Centro Italia fino al 9 marzo u.s. L’azienda, in conformità a quanto sopra, adegua ed amplia le misure a tutta Italia, con le seguenti modalità. CHIUSURA AZIENDALE Da venerdi 13 marzo fino a venerdi 3 aprile compreso, l’azienda sarà chiusa a partire dalle ore 13. Pertanto, a tutti i dipendenti, sarà caricata automaticamente mezza giornata di ferie;[…] SALES I venditori su tutto il territorio italiano continueranno ad operare presso e con i clienti, utilizzando i DPI (guanti, mascherina, occhiali, salviettine disinfettanti) laddove necessario, facendone richiesta direttamente a …. Laddove non fosse possibile recarsi direttamente presso il cliente, è possibile organizzare un incontro da remoto, utilizzando le istruzioni per la WEBEX ricevute nella giornata di ieri. SERVICE I tecnici ricompresi su tutto il territorio italiano continueranno ad operare presso e con i clienti, utilizzando i DPI (guanti, mascherina, occhiali, salviettine disinfettanti) laddove necessario, facendone richiesta direttamente a … Back Office continuerà ad assegnare interventi tecnici fino a saturazione della capacità tecnica, verificando preventivamente la possibilità di accesso al sito e dando priorità secondo i criteri di urgenza ed importanza. Nel caso in cui non fosse possibile utilizzare la giornata lavorativa completa o parte di essa in attività presso il cliente, i tecnici sono tenuti ad utilizzare ferie/permessi a copertura/compensazione del mancato intervento. […] Certi della vostra collaborazione, vi auguriamo buon lavoro,
Siccome non era abbastanza indecente, si è pensato di fare una decina di passi indietro:
Gentili colleghi,
una precisazione a quanto precedentemente inviato. La CHIUSURA AZIENDALE è prevista SOLTANTO al VENERDI POMERIGGIO, nel periodo compreso tra il 13 marzo al 3 aprile (4 venerdi in totale), in cui verrà applicata mezza giornata di ferie.
Mi spiace per il refuso,
Non trovano collaboratori perchè sono dei “mona”.
Anche dal Nord-Est arrivano pessime notizie. Le comunica proprio il Gazzettino, uno dei giornali veneti in prima linea con gli “imprenditori che non trovano collaboratori perchè sono tutti a casa sul divano ad aspettare il reddito di cittadinanza”, per intenderci.
Poteva mai il Gazzettino non dare voce ad uno degli imprenditori più visionari del territorio?
Vetrya, Ducati e Chiesi Farmaceutici promosse
Se parliamo di tecnologia, ben altra stoffa ha dimostrato il Gruppo Multinazionale Vetrya ad Orvieto, dove già da sabato mattina alle 9 tutti i dipendenti avevano ricevuto una mail allo scopo di fare una mappa della situazione attuale (eventuali soggiorni in Cina o in uno dei comuni interessati in Italia, o contatti con persone che avevano soggiornato in Cina da gennaio) e addirittura un Piano IT con la verifica della situazione attuale e pianificazione per permettere a tutti di lavorare da casa con portatili aziendali o pc personali. Per la sede di Milano permesso immediato a tutti i dipendenti di lavorare in smart working
Anche da Chiesi Farmaceutici di Parma registriamo la testimonianza di uno dei collaboratori:
-Istituzione di un Team multifunzionale dedicato / condivisione delle informazioni e delle soluzioni adottate sull’emergenza Coronavirus / smart working automatico per i colleghi che abitano in aree colpite da questa crisi / smart working prolungato anche per i colleghi che abitando in aree vicine alle aree colpite / il personale che dovesse presentare sintomi influenzali di rimanere a casa fino a completa guarigione / l’introduzione di sistemi di controllo della temperatura / Vengono installati dispenser di disinfettanti per le mani in tutti gli ingressi aziendali / limitare i meeting con grande partecipazione (più di 5 partecipanti) preferendo teleconferenze o videoconferenze / Viene data indicazione di limitare meeting che prevedano viaggi o permanenze in strutture alberghiere / limitare viaggi che implichino la frequentazioni di luoghi affollati / L’orario della mensa aziendale viene suddiviso in più turni per evitare il sovraffollamento delle aree / Viene prevista la possibilità di un servizio take away per i colleghi che preferiscano consumare il pranzo presso l’ufficio.
Anche Ducati a Bologna già dal 23 febbraio sono state prese misure precauzionali rigide. Un nostro contatto ci parla di smartworking obbligatorio per chi accusa sintomi influenzali e per chi è stato o è stato a contatto con persone delle zone rosse; smartworking facoltativo ma fortemente consigliato per gli altri. Si sta inoltre valutando come gestire l’ingresso di personale che non può stare in smart (es operai) dalle vicine zone arancio (la provincia di Modena comincia a 15 km da Borgo Panigale, e molti ci abitano)
In Ducati lo smart working è già stato introdotto da circa 8 mesi in molti reparti(mi viene da pensare che sia uno dei successi della nuova direzione del personale insediatasi da poco più di un anno) , ma con il limite di un giorno a settimana e la richiesta preventiva di 48 ore. E fin qui, niente di particolarmente straordinario rispetto alla media delle grandi aziende. Se non altro, l’emergenza è riuscita ad abbattere qualsiasi vincolo temporaneo.
Degna di nota l’istituzione di una task force interna che aggiorna quotidianamente i dipendenti tramite app e email. Per chi entra in azienda, misurazione obbligatoria della temperatura in ingresso. Anche la mensa ha subito un “restyling”: posti distanziati per limitare i contatti e il bar aziendale è chiuso. Inutile dire che le visite alla fabbrica e al museo, fiore all’occhiello dell’azienda di Borgo Panigale, sono sospese. “Misure che all’inizio ai più sembravano severe” – dice il nostro contatto -“ma il tempo ha dato ragione”.
I Riders lasciati a piedi
Niente di nuovo sul fronte Riders. Durante la prima settimana di emergenza sembrava che Deliveroo almeno per una volta avesse abbandonato il consueto cinismo suggerendo ai propri fattorini di restare a casa se fosse stato necessario, mentre il competitor Just Eat offriva 5 euro in più a consegna nella settimana di massima allerta. Ma il rispetto è durato poco e già questa settimana, dalla pagina del Sindacato dei Riders (quello vero, non i sindacati gialli appositamente creati dalle Compagnie di Food Delivery, come testimoniato da una recente puntata di Report) emerge ancora una volta il pessimo comportamento dell’azienda nei confronti dei propri non-dipendenti.