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Un piano nazionale per la formazione all’AI: USA, Cina, UK e Germania hanno avviato programmi per la formazione all’AI. E l’Italia?

Un piano nazionale per la formazione all’AI: USA, Cina, UK e Germania hanno avviato programmi per la formazione all’AI. E l’Italia?

L’Intelligenza Artificiale sta provocando nei Paesi avanzati lo sviluppo di piani nazionali per la formazione in ambito scolastico e per la riqualificazione professionale. Una esigenza che nasce dalla consapevolezza dei governi dell’impatto potenziale dell’AI sull’occupazione, sulle competenze e sulla produttività. Parliamo quindi di progetti strategici per il sistema Paese. Proviamo allora ad analizzare alcuni casi internazionali per trarre delle valutazioni utili soprattutto nell’ottica di avviare una riflessione sullo sviluppo di un piano nazionale in Italia.

UK: il piano Starmer

Il premier Keir Starmer ha annunciato la partnership con undici Big Tech globali per formare 7,5 milioni di lavoratori all’Intelligenza Artificiale entro il 2030. Il focus viene posto sugli strumenti tecnologici, forniti dalle stesse aziende produttrici. Verrà sviluppata una piattaforma per la formazione permanente dei lavoratori all’AI. Nella scuola viene annunciato il programma TechFirst da 187 milioni di sterline, focalizzato su nuovi laboratori tecnologici, competenze digitali richieste dalle aziende, formazione dei docenti.

Cina: l’AI nelle scuole

Pechino ha lanciato il suo primo piano nazionale per trasformarsi in una “potenza educativa” entro il 2035.  Il programma del Ministero dell’Istruzione Cinese, rivolto sia agli studenti che al corpo docente, prevede l’inclusione dell’IA nei materiali didattici, nei programmi di studio e nelle attività di insegnamento.  L’introduzione sistematica dell’AI nella scuola punta a generare capitale umano ad alta specializzazione, elemento fondamentale per lo sviluppo di settori strategici quali robotica, biotecnologie, semiconduttori, difesa e cybersicurezza. Questa visione posiziona l’educazione come uno degli assi centrali della nuova sovranità tecnologica cinese.  Il Ministero ha inoltre sottolineato che le tecnologie AI renderanno le lezioni più dinamiche e coinvolgenti, incentivando un approccio più creativo all’apprendimento.  Nelle università cinesi sono stati aperti numerosi corsi sulla Intelligenza Artificiale. L’integrazione dell’intelligenza artificiale nei programmi scolastici cinesi rappresenta molto più di una riforma educativa: è una scelta di politica industriale, tecnologica e geopolitica.

USA: investimenti, task force, concorsi

Il presidente Trump ha avviato una Task Force per l’Educazione all’Intelligenza Artificiale, e firmato un ordine esecutivo ad aprile, invitando le scuole a integrare l’AI nelle classi di tutti i livelli scolastici “per garantire che gli Stati Uniti rimangano leader globali in questa rivoluzione tecnologica”.

Viene lanciato anche il Presidential Artificial Intelligence Challenge, un concorso che metterà in risalto i risultati ottenuti da studenti e insegnanti in tutto il Paese.

Vengono potenziati anche i programmi di apprendistato e formazione permanente.

Negli USA anche i privati si muovono: è stato siglato un accordo tra Microsoft, OpenAI e Anthropic, per finanziare la formazione dei docenti all’uso dell’Intelligenza artificiale, con un investimento di 23 milioni di dollari a favore dell’American Federation of Teachers.

Germania: focus sui settori economici e sulla tecnologia nazionale

Il piano da 20 miliardi annunciato dal Cancelliere Mertz ha come obiettivo una Germania leader dell’AI, in particolare nei settori chiave dell’economia. L’aumento della concorrenza da parte di nazioni come Cina e Stati Uniti richiede una strategia chiara che non solo investa in ricerca e sviluppo, ma che favorisca anche l’educazione e la formazione di talenti nel campo dell’AI.  

La Germania si sta rendendo conto che la competitività futura non dipenderà solo dal suo patrimonio industriale, ma anche dalle nuove tecnologie e metodologie emergenti, sulle quali il paese ha accumulato un ritardo.

Il piano si basa anche sulla collaborazione tra start-up, fondamentali per creare un tessuto industriale innovativo, e istituti di ricerca, e intende implementare programmi di formazione per riqualificare la forza lavoro.  

Alcune osservazioni sui piani internazionali

Occorre ora analizzare queste strategie internazionali per poter sviluppare una progettualità alternativa, adatta al contesto italiano e possibilmente migliorativa. Nel caso inglese il coinvolgimento delle Big Tech USA configura un potenziale conflitto di interesse, oltre che una minaccia per la sovranità tecnologica di quel Paese. Farsi raccontare dall’oste (le Big Tech) quanto è buono il vino (l’AI) è una scelta discutibile, specie per un governo europeo. Si prospetta, sempre per lo stesso motivo, una potenziale sottovalutazione dei rischi connessi all’AI (atrofia mentale, dipendenza, Bias, allucinazioni e molto altro). Si prospettano addirittura alcune situazioni paradossali, come nel caso delle “politiche di supporto psicologico per chi vive il cambiamento come una minaccia”, che potrebbero trasformarsi in campagne di persuasione occulta di massa a favore di prodotti di aziende private. Peraltro, anche voler porre gli strumenti AI al centro del contenuto della formazione è per certo riduttivo: questi, infatti, evolveranno rapidamente rendendo obsolete le competenze acquisite, diventeranno inoltre sempre più facili e semplici da utilizzare, in certi casi vanificando l’utilità della formazione stessa. Il modello cinese risulta più solido essendo finalizzato alla costruzione di asset e competenze nazionali, anche se rischia di avere un approccio fortemente tecno-centrico. Analogamente, la Germania punta a recuperare il ritardo sulle tecnologie digitali, inserendo la formazione all’AI nel quadro di un colossale investimento per l’innovazione della economia tedesca, in tutti i settori. Negli USA, infine, il piano istituzionale presenta alcune idee innovative (concorso, task force) e risulta separato da quello dei privati, che peraltro investono direttamente anche nell’ottica di aprirsi futuri mercati pensando alle nuove generazioni.

Per un piano nazionale italiano

Il contesto italiano presenta alcuni aspetti problematici: la debolezza dei player tecnologici nazionali, l’elevata età dei docenti e il ritardo annoso nella alfabetizzazione digitale: fattori che rendono la nostra strategia più complessa. Tuttavia, i recenti investimenti del PNRR hanno introdotto – almeno nella scuola – molti dispositivi tecnologici, che possono essere valorizzati in un piano di formazione all’AI purché si agisca tempestivamente. Da qui una serie di spunti di riflessione indirizzati al disegno di un possibile piano nazionale italiano di formazione all’AI.

AI Act e tavolo europeo

Un piano nazionale italiano non può prescindere dal contesto europeo. In particolare, occorre tenere conto, così come già avviene in Germania, delle linee guida dell’AI Act di Bruxelles, che pone alcuni vincoli – in termini di rispetto della privacy, conservazione dei dati presso data center in Europa, rispetto del copyright – piuttosto difficili da accettare per le Big Tech americane o cinesi. Ci sono anche indicazioni di natura etica che pongono il settore educativo tra quelli ad alto rischio, e ciò va considerato. Alcune strategie, soprattutto anche di politica industriale e occupazionale, dovrebbero quindi essere condivise a livello europeo. In conclusione, l’idea di un tavolo europeo potrebbe consentire all’Europa di promuovere sia una risposta competitiva, capace di ridurne l’artificial divide, sia una cornice di norme e valori a presidio di una cultura dei diritti che appare sempre più minacciata.

Monopoli e facoltà discrezionale 

Un ulteriore aspetto, sempre in coerenza con le indicazioni europee, riguarda i monopoli digitali. Deve essere combattuta quella dipendenza da singoli player, specie se extraeuropei, che si è conosciuta in passato con i motori di ricerca (Google), il software e i sistemi operativi (Microsoft), i social (Meta), l’e-commerce (Amazon). Pur non escludendo il ricorso a strumenti offerti dalle Big Tech, va abilitata e presidiata la facoltà discrezionale tra tools diversi, anche attraverso sistemi tecnologici che permettano ad esempio di passare agevolmente da un modello AI all’altro, anche semplicemente per cogliere le opportunità che si affacciano con una continua evoluzione tecnologica e la specializzazione funzionale (es: traduzione automatica, sintesi vocale, AI multimodale, operativa, creativa, organizzativa…).

Le intelligenze artificiali – al plurale

Come indicato dal Rapporto Draghi per la competitività europea, nel vecchio continente è fondamentale collegare l’AI ai diversi settori economici e della ricerca. Anche in tema di formazione occorre quindi superare la metafora dell’unica Intelligenza Artificiale, magari antropomorfica, per analizzare e trattare, invece, le diverse tecnologie AI applicate nei settori del sapere e dell’industria. La visione artificiale per la diagnostica medica non va, ad esempio, confusa con l’AI conversazionale dei servizi, e neppure con quella predittiva applicata alla meccatronica. Una corretta alfabetizzazione all’AI quindi non si basa banalmente sull’uso popolare di ChatGPT; al contrario, passa attraverso una analisi funzionale delle diverse tecnologie e dei relativi obiettivi e contesti.

Open Source e AI come commodity

Ogni 18 ore, nel mondo, viene rilasciato un nuovo modello AI Open Source, utilizzabile gratuitamente da sviluppatori – per creare nuove applicazioni di alto livello -, e da utenti. Questa risorsa si unisce alle tecnologie di distillazione, che già hanno permesso, ad esempio, al modello cinese Deepseek di riprodurre, in tempi e costi limitati, le prestazioni dei grandi modelli USA. Si può cominciare a intravedere uno scenario in cui l’AI potrebbe diventare una commodity, una merce disponibile a basso costo da diversi fornitori, capace quindi anche di un’ampia gamma di soluzioni per la formazione e lo sviluppo di nuovi strumenti.

Il ruolo dei docenti

Come indicato dal Ministro Valditara, il ruolo dei docenti dovrà comunque essere cruciale. Nel saggio “Conoscenza o barbarie, storia e futuro dell’Educazione”, Jacques Attali disegna un quadro e una prospettiva difficili per il mondo dei docenti, che stanno vivendo una contrastata fase identitaria, motivazionale e anche di autorevolezza, rispetto alle informazioni e funzioni offerte dalle piattaforme digitali. Il docente va pertanto riposizionato nel contesto di un nuovo ecosistema dove l’AI entra in classe e nei dispositivi dei docenti, i quali, ora, interpretano nuovi ruoli: quelli, ad esempio, del controllo critico o della mediazione culturale digitale.

Una nuova mediazione culturale digitale

La comunità educativa ha quindi di fronte a sé un nuovo ruolo strategico: trasformare il web e l’AI da rischio in risorsa.

Attualmente gli smartphone e i social sono considerati vere e proprie armi di “distrazione di massa” che hanno ridotto il Quoziente Intellettivo delle nuove generazioni. L’AI può fare ancora peggio, soprattutto se abbandonata all’attuale fai-da-te degli studenti che genera forme di atrofia mentale. Ecco che allora ai docenti spetta il compito di una nuova rilevante sfida: quella di farsi mediatori tra la sfera digitale e gli studenti. In quest’ottica sarà importante adottare piattaforme di aggregazione e content curation, in grado di valorizzare e potenziare i contenuti positivi presenti in rete, e occorrerà rispettare nell’AI il principio di trasparenza delle fonti, per distinguere quelle autorevoli dall’universo fake.

Controllo critico e autorale

Gli strumenti di formazione con AI devono alimentare e mantenere attivo il controllo critico di docenti e studenti. Occorre andare quindi oltre le “scatole nere” che contraddistinguono l’AI odierna, per rendere disponibili sistemi in grado di trattare documentazioni specifiche, compresi video o altri contenuti multimediali, ma anche di impostare facilmente il ruolo e il comportamento degli agenti AI, e di progettare interfacce creative per raggiungere determinati obiettivi. In sostanza, strumenti che sviluppano il senso critico e la creatività autorale nell’AI. 

Personalizzazione

La personalizzazione dell’apprendimento, auspicata anche dal Ministro Valditara, è sicuramente una opportunità offerta dall’AI che ci aiuta a superare l’approccio omologante dei sistemi educativi tradizionali, specie se si realizza sotto il controllo della funzione docente e della comunità educativa che allontanano il rischio di un rapporto uno-a-uno tra studente e piattaforma.

Ciò comporta strumenti didattici diversi dalle piattaforme di massa come Google, Meta o ChatGPT, basate sulla disintermediazione verso gli utenti finali: bisogna invece sviluppare soluzioni che introducano il docente nel processo di personalizzazione dell’apprendimento.

Tecno-metodologie

La pedagogia tradizionale non è più sufficiente nel contesto dell’apprendimento con l’AI: occorre pensare a nuove tecno-metodologie. Quali ad esempio:

  • l’Innovation Design, che consiste in una metodologia di ricerca applicata che adotta le tecnologie emergenti per realizzare sperimentazioni e prototipi di nuovi servizi e prodotti nella scuola, anticipandone la successiva diffusione nella società e nelle aziende;
  • la workplace simulation, che è invece la riproduzione di ambienti e processi lavorativi, realizzata con realtà virtuale e Intelligenza Artificiale;
  • la didattica incrementale, infine, che prevede fasi crescenti di interazione: dalla fruizione di contenuti esistenti alla rielaborazione e creazione di nuovi contenuti.

Scuola e lavoro: laboratori con AI

La didattica della formazione all’AI può prendere la forma di attività laboratoriali realizzate anche con l’AI. Vanno progettati laboratori per le discipline umanistiche e per gli indirizzi tecnici e professionali. Ad esempio, è importante abilitare la competenza nelle microlingue specializzate dei diversi settori, simulare attività professionali, arrivare a progettare il futuro di aziende e comparti, sviluppare competenze manageriali già pensate per essere “estese” dall’Intelligenza Artificiale.

Umanesimo e Homo Extensus

L’umanesimo nasce in Italia e contraddistingue la nostra cultura e sensibilità. Un tratto italiano dell’Intelligenza Artificiale può e deve nascere da questa nuova visione umanistica, nella quale la persona è posta al centro, ma in una forma evoluta: la visione dell’Homo Extensus. Una prospettiva che parte dal presupposto che già in passato l’intelligenza umana ha compiuto dei salti evolutivi interagendo con tecnologie cognitive. Ciò è avvenuto infatti con la scrittura alfabetica, con gli strumenti di osservazione scientifica, con la stampa, con nuovi media, e oggi con l’Intelligenza Artificiale. La sfida progettuale che dobbiamo affrontare è quindi quella di immaginare le future forme di quella che chiamiamo “intelligenza estesa”. Homo Extensus allude, pertanto. ad un modello antropologico emergente, necessario per orientare anche la formazione. Se rinunciamo a immaginare che tipo di persona dobbiamo formare per il futuro, se non ne abbiamo idea, la triste conseguenza è che non disponiamo della base pedagogica per impostare un piano di formazione su vasta scala.

Per una formazione alla “intelligenza umana estesa”

Per tutto quanto si è fin qui detto la formazione dovrebbe essere più centrata sul lato umano e professionale: sul ruolo delle persone e dei professionisti nel contesto dell’AI, e su come questa può potenziare la loro competenza ed efficienza. 

Oltre a focalizzare gli strumenti AI, che – si badi – invecchiano dopo soli 6 mesi, dobbiamo evidenziare le competenze umane “estese”. In ogni campo va quindi immaginata la forma futura dell’intelligenza umana estesa dall’interazione con l’AI: dal docente al giornalista, dal manager all’artista.

Non è scontato né facile saper progettare le nuove forme dell’intelligenza estesa, ma è questa la prossima sfida entusiasmante che attende la comunità educativa. E noi siamo pronti ad affiancarla.

Per approfondimenti: AI-Book “Homo Extensus” di Gualtiero e Roberto Carraro – https://homo-extensus.ai-book.it/category/leducazione-estesa/




INTERVISTA A ALESSANDRA FAZIO, HEAD OF QUALITY DI NESTLÉ ITALIA

INTERVISTA A ALESSANDRA FAZIO, HEAD OF QUALITY DI NESTLÉ ITALIA

Alessandra Fazio è un’esperta di sicurezza alimentare, qualità, compliance e materiali per imballaggio, ha oltre vent’anni di esperienza di lavoro in grandi aziende multinazionali, ed è attualmente Head of Quality di Nestlé Italiana. A questo ruolo, affianca la presidenza dell’Istituto Italiano Imballaggio e della Fondazione Carta Etica del Packaging, realtà impegnate nella promozione della cultura del packaging responsabile e sostenibile. Leader pragmatica e appassionata, ha un’attenzione particolare alla valorizzazione delle nuove generazioni, alla diversità e alla parità di genere. Vive a Milano ed è mamma di due bambini: l’abbiamo intervistata sul suo appassionante lavoro, sullo stato dell’arte del riciclo in Italia, e sul futuro degli imballaggi…

Il suo ingresso in Nestlé: quando, come e perché…

Nel 2010, nello stabilimento di Moretta, vicino a Cuneo, con l’incarico di occuparmi dei processi di qualità nello stabilimento. Accettare il passaggio da un ruolo su più siti – quello che ricoprivo nella mia precedente azienda, una multinazionale B2B – a una posizione legata a uno stabilimento specifico è stata una scelta ragionata. Mi ha motivata la possibilità di confrontarmi con la produzione di prodotti alimentari destinati ai clienti finale, misurarmi nella gestione della qualità di alimenti freschi, con tutte le complessità che comportano, e anche approfondire nuovi prodotti, processi e tecnologie. Non ultimo, la possibilità di entrare nella prima multinazionale alimentare al mondo. La scelta non è stata facile, comportava anche un trasferimento che ha avuto un impatto sulla mia vita privata, ma ho deciso di scommettere su questa esperienza convinta del suo altissimo potenziale per la mia crescita. Col senno di poi, posso dire che è stata una scommessa vinta.

Tra i tanti, il più riuscito progetto della Fondazione Carta Etica del Packaging?

Uno dei progetti più riusciti e rappresentativi è senza dubbio Packaging: che fantastica avventura!, un’iniziativa educativa rivolta alle scuole primarie italiane. Il progetto nasce con l’obiettivo di far scoprire ai bambini, e attraverso di loro a insegnanti e famiglie, il valore culturale, ambientale e sociale del packaging. Si articola in lezioni in classe, laboratori creativi e un contest finale, che premia la capacità delle classi di reinterpretare l’imballaggio come oggetto di cultura e responsabilità. In pochi anni ha coinvolto centinaia di scuole in tutta Italia, raccogliendo entusiasmo, idee originali e un’inaspettata partecipazione emotiva. Crediamo che il cambiamento culturale inizi proprio dai più piccoli, e questo progetto dimostra come l’educazione possa diventare motore di trasformazione collettiva.

L’Italia come si posiziona rispetto agli altri Paesi UE sul fronte dell’attenzione all’impatto ambientale degli imballaggi?

Tra i Paesi europei più virtuosi nella gestione degli imballaggi e nel riciclo. I dati più recenti parlano chiaro: nel 2024 il nostro Paese ha riciclato oltre il 76% degli imballaggi immessi al consumo, pari a circa 10,7 milioni di tonnellate. Un risultato che non solo supera la media europea, ma anticipa gli obiettivi fissati dall’UE per il 2030, che prevedono un riciclo del 70%. Questi traguardi sono stati raggiunti grazie all’efficacia del sistema consortile italiano, che coinvolge la quasi totalità dei comuni e coordina l’intera filiera – dalla raccolta differenziata al trattamento, fino al riciclo vero e proprio. Anche le singole filiere registrano risultati significativi: oltre il 77% per il vetro, più del 68% per l’alluminio, oltre il 50% per la plastica e oltre il 70% per il legno. Tutti questi numeri raccontano un’Italia che ha saputo fare sistema, mettendo in rete istituzioni, imprese e cittadini. Un modello di economia circolare che funziona, e che può essere d’esempio a livello europeo.

La plastica ha cambiato la vita di tutti noi, in meglio, ma nel contempo costituisce uno dei più evidenti pericoli per l’ambiente, in particolare per gli oceani. Come conciliare queste due verità?

La plastica è stata – ed è tuttora – una grande innovazione. È grazie a questo materiale se possiamo garantire sicurezza alimentare, sterilità in ambito medico, leggerezza nei trasporti, riduzione degli sprechi e accessibilità a moltissimi beni. La plastica ha trasformato in meglio molti aspetti della nostra vita quotidiana. Il vero problema non è il materiale in sé, ma come lo usiamo e lo gestiamo. Quando progettata responsabilmente e raccolta correttamente, la plastica può essere riciclata e mantenuta all’interno di un’economia circolare, riducendo al minimo gli impatti sull’ambiente. Al contrario, quando viene abbandonata o dispersa, diventa una minaccia per ecosistemi preziosi, in particolare per gli ambienti marini. Conciliare i vantaggi della plastica con la necessità di proteggere l’ambiente è possibile, e passa da un approccio integrato: progettazione intelligente, sistemi efficienti di raccolta e riciclo, ricerca su nuovi materiali, educazione dei cittadini e responsabilità condivisa lungo tutta la filiera. La plastica, se inserita in un sistema virtuoso di progettazione, raccolta e riciclo, rappresenta una risorsa preziosa e sostenibile.

Il PHA ed altre bioplastiche, seppure più costose della plastica sintetica, promettono molto bene sotto il profilo delle performance e ovviamente della compatibilità ambientale, essendo a impatto zero e biodegradabili senza necessità di compostaggio. A suo avviso, c’è resistenza all’adozione di queste soluzioni, e se sì, perché?

Le bioplastiche come il PHA rappresentano un importante fronte di innovazione e possono offrire soluzioni interessanti in determinati contesti applicativi. Tuttavia, non sono la risposta unica e definitiva. Le resistenze alla loro adozione derivano da diversi fattori: costi ancora elevati rispetto ai materiali convenzionali, prestazioni non sempre equivalenti, incertezze normative e difficoltà legate alla gestione a fine vita. A tutto questo si aggiunge un ulteriore elemento da considerare: la complessità dei termini tecnici legati a questi materiali, come “biodegradabile”, “compostabile” o “biobased”, che spesso richiedono una spiegazione più accurata per essere compresi correttamente. È quindi fondamentale fare chiarezza per orientare scelte davvero responsabili. Biodegradabile, per essere chiari, significa che un materiale può essere decomposto da microrganismi presenti in natura, ma questo processo può richiedere tempi lunghi e condizioni specifiche. Compostabile, invece, implica che il materiale si degradi entro tempi definiti e in ambienti controllati – come quelli degli impianti di compostaggio industriale – senza lasciare residui tossici. Non tutti i materiali biodegradabili sono compostabili, e non tutti i compostabili si degradano efficacemente nell’ambiente naturale. Per questo motivo, ogni materiale va valutato lungo l’intero ciclo di vita: dalla produzione al fine vita, considerando l’impatto ambientale complessivo, le infrastrutture disponibili e le reali modalità d’uso. L’innovazione è fondamentale, ma deve essere accompagnata da conoscenza, responsabilità e trasparenza. La Fondazione promuove questo tipo di approccio, basato su dati scientifici, etica progettuale e una comunicazione chiara e rigorosa: solo così possiamo fare scelte davvero sostenibili.

La vita ideale di un imballaggio spiegata “for dummies”

Inizia ben prima della sua realizzazione, ovvero nella fase di progettazione. È qui che si definisce il materiale più adatto alla funzione, si progetta la forma per garantire protezione e praticità, si valuta il modo in cui faciliterà il trasporto, l’utilizzo e la comunicazione verso il consumatore. In questa fase si tiene conto anche della normativa vigente, per assicurare la conformità in termini di sicurezza, sostenibilità e informazione.
Un buon progetto è anche attento all’efficienza: riduce il consumo di risorse, limita i materiali non necessari e prevede fin da subito un fine vita sostenibile. Durante il suo utilizzo, l’imballaggio deve essere funzionale, sicuro, resistente, leggero e facilmente gestibile: deve proteggere il contenuto da contaminazioni, urti o deterioramenti, garantire un’esperienza d’uso affidabile per chi lo maneggia e comunicare in modo chiaro tutte le informazioni necessarie al consumatore. Alla fine del suo ciclo, deve poter essere riutilizzato, riciclato o correttamente avviato alla raccolta differenziata, a seconda delle sue caratteristiche e del sistema di gestione dei rifiuti disponibile. Un imballaggio ben progettato non è solo un contenitore tecnico: è una risorsa che accompagna e valorizza il prodotto lungo tutta la sua vita, contribuendo alla sostenibilità economica, ambientale e sociale. In sintesi: un imballaggio efficace genera valore prima, durante e dopo il suo utilizzo.

Le direttive europee in diversi casi tentano di stimolare non solo il riciclo, ma anche il riutilizzo, in un’ottica di economia circolare. Cosa ne pensa?

Le politiche europee stanno tracciando una rotta sempre più ambiziosa verso l’economia circolare, spingendo il riutilizzo accanto – e in certi casi sopra – il tradizionale riciclo. Il Regolamento (UE) 2025/40 sugli imballaggi e i rifiuti di imballaggio introduce obiettivi vincolanti per la prevenzione, la riduzione, il riutilizzo e il riciclo, con l’obiettivo di armonizzare le regole in tutta l’Unione Europea e stimolare un’evoluzione concreta della filiera. È una direzione a nostro avviso estremamente positiva, che richiede rigore e realismo. Il riutilizzo deve essere parte di sistemi progettati sin dal principio, che considerino logistica, sicurezza dei materiali, efficacia ambientale e i comportamenti degli utenti. Non tutto ciò che è tecnicamente “riutilizzabile” è automaticamente sostenibile: serve un’analisi approfondita del ciclo di vita, caso per caso. Per sostenere le imprese e i professionisti in questo passaggio normativo e culturale, la Fondazione Carta Etica del Packaging ha avviato, in collaborazione con l’Università Ca’ Foscari di Venezia, il corso di alta formazione Packaging Waste Expert, un percorso che mira a preparare figure competenti e multidisciplinari, in grado di interpretare le sfide poste dal regolamento, coniugando innovazione, etica progettuale e sostenibilità.

Tentando di predire il futuro: cosa succederà, lato imballaggi tra 10 anni? E tra 100?

Tra 10 anni vedremo imballaggi sempre più intelligenti: più leggeri, performanti, facilmente separabili nei materiali, tracciabili, e con una forte integrazione di componenti digitali per garantire trasparenza e sicurezza. La progettazione sarà guidata non solo da esigenze di marketing e protezione, ma da criteri ambientali, normativi e sociali. Tra 100 anni – se avremo lavorato seriamente sul piano culturale e tecnologico – l’imballaggio sarà diventato un ingranaggio perfetto dell’economia circolare: disegnato per essere riutilizzato, rigenerato o riciclato a zero sprechi, sarà percepito non più come uno scarto, bensì come “valore in transito”: un elemento vivo parte di un ecosistema sostenibile. Il lavoro della Fondazione, oggi, è proprio quello di gettare le basi per questo futuro: promuovere responsabilità, conoscenza e visione per costruire un domani in cui l’imballaggio sia parte della soluzione, non parte del problema.

Il suo personale più grande successo professionale… e il suo più grande fallimento

Il mio più grande successo è essere riuscita ad affermarmi come professionista, conquistando stima e autorevolezza nei ruoli che ricopro, senza rinunciare a essere una moglie e una mamma felice. Il mio più grande fallimento è non aver avuto, in alcune occasioni, la prontezza di denunciare con la giusta forza situazioni di discriminazione che purtroppo ho vissuto anch’io personalmente. Con il tempo, ho capito che il silenzio, a volte, è una forma di complicità.

Se potesse esprimere un desiderio, e vederlo realizzato, sul lavoro ma anche nella vita, cosa chiederebbe?

Mi piacerebbe un mondo senza pregiudizi, senza bias, senza più discriminazioni di alcun tipo: questo desiderio vale tanto per il lavoro quanto per la vita personale, perché non può esistere vera innovazione senza giustizia, inclusione e rispetto della dignità di ogni persona.




Recupero e responsabilità ambientale nel mondo produttivo: il ruolo strategico del riciclo della carta

Recupero e responsabilità ambientale nel mondo produttivo: il ruolo strategico del riciclo della carta

La gestione sostenibile delle risorse è oggi una priorità inderogabile per ogni settore produttivo. Tra le pratiche più significative e consolidate vi è senza dubbio il riciclo della carta, che rappresenta uno degli ingranaggi fondamentali dell’economia circolare. Questo processo consente di ridurre l’impatto ambientale complessivo della filiera industriale, limitando lo spreco di risorse naturali e contenendo le emissioni climalteranti. Non si tratta più di un semplice gesto individuale. Oggi il riciclo si configura come un vero e proprio processo industriale, capace di coniugare efficienza, responsabilità e innovazione. Dalle imprese editoriali ai grandi poli logistici, sempre più realtà hanno adottato procedure strutturate per la gestione virtuosa degli scarti di carta e cartone, restituendo valore a materiali che, in un modello lineare, sarebbero destinati a diventare rifiuto.

Economia circolare: verso un modello rigenerativo

Per decenni l’economia lineare — basata su produzione, consumo e smaltimento — ha alimentato un sistema insostenibile, con forti ricadute sull’ambiente. La scarsità di materie prime e l’aumento dei rifiuti hanno reso evidente la necessità di una transizione verso un paradigma più equilibrato: l’economia circolare. L’obiettivo di questo approccio è rigenerare i materiali, prolungandone il ciclo di vita e riducendo al minimo gli sprechi. In questo contesto, il riciclo della carta assume un ruolo di primaria importanza. Ogni tonnellata di carta riciclata consente di risparmiare fino a 26.000 litri d’acqua, oltre 4.000 kWh di energia elettrica e riduce di circa 1.000 kg le emissioni di CO2 rispetto alla produzione di carta vergine. Questi dati dimostrano con chiarezza quanto il riciclo contribuisca non solo alla tutela dell’ambiente, ma anche a un utilizzo più razionale delle risorse, garantendo benefici ambientali, economici e sociali di lungo termine. Il mondo produttivo, negli ultimi anni, ha assunto un ruolo sempre più centrale nella promozione di una gestione sostenibile dei rifiuti. In particolare, comparti come l’editoria, la logistica, la grande distribuzione e la manifattura generano quotidianamente notevoli quantità di carta da imballaggio, moduli amministrativi e documentazione cartacea. Se non opportunamente recuperati, questi materiali possono pesare enormemente sulla quantità complessiva di rifiuti solidi urbani, aumentando i costi di smaltimento e aggravando l’impatto sull’ambiente. Al contrario, avviare processi strutturati di recupero significa valorizzare il rifiuto come risorsa, riducendo la pressione su discariche e inceneritori. Sempre più aziende scelgono di affidarsi a operatori specializzati nel riciclo, come piattaforme di selezione e impianti di trattamento, in grado di garantire una gestione controllata ed efficiente del macero. Questo approccio non solo permette di ridurre gli sprechi, ma contribuisce a creare nuove opportunità di lavoro nella green economy e a promuovere comportamenti virtuosi lungo tutta la catena del valore.

La filiera del riciclo: come funziona

Il processo di riciclo della carta non si esaurisce con la raccolta differenziata. Per garantire un ciclo produttivo realmente sostenibile, servono tecnologie avanzate e procedure rigorose. Tutto comincia con la raccolta differenziata dei rifiuti cartacei presso le aziende, i centri logistici e gli uffici, dove la carta viene separata da plastica, vetro e altri materiali potenzialmente inquinanti. Successivamente, il materiale selezionato viene trasportato agli impianti di trattamento specializzati, dove avviene una fase di cernita accurata per rimuovere impurità come graffette metalliche, plastiche o inchiostri non compatibili con il processo di recupero. Dopo la selezione, la carta viene pressata per essere più agevolmente stoccata e trasportata verso le cartiere. In queste ultime, la carta recuperata viene miscelata con acqua e sottoposta a ulteriori processi di pulizia e raffinazione, per poi essere trasformata in nuova carta riciclata pronta a tornare sul mercato. Si tratta di un percorso industriale complesso, che richiede investimenti e competenze specialistiche, ma che garantisce risultati concreti in termini di riduzione dell’impatto ambientale e di risparmio di risorse preziose. Adottare pratiche virtuose di recupero offre alle imprese vantaggi non solo ambientali, ma anche competitivi. In primo luogo, la corretta gestione dei rifiuti consente di contenere i costi di smaltimento e di rispettare le normative sempre più stringenti in materia ambientale. In secondo luogo, la scelta di avviare circuiti interni di recupero e riciclo migliora l’immagine aziendale, rispondendo alle aspettative di consumatori e stakeholder che premiano comportamenti trasparenti e responsabili. Non va sottovalutato, inoltre, l’aspetto etico: integrare la sostenibilità nelle strategie aziendali significa contribuire concretamente alla transizione ecologica e al contrasto del cambiamento climatico. Un’impresa che investe in processi circolari dimostra di saper innovare e di cogliere le opportunità offerte dal mercato della green economy, sempre più rilevante anche per la competitività internazionale.

Innovazione e tecnologia per il riciclo

Negli ultimi anni, la filiera del riciclo ha conosciuto importanti innovazioni tecnologiche. Sistemi di automazione e sensoristica avanzata hanno reso possibile ottimizzare la selezione della carta, riducendo gli scarti e migliorando la qualità del materiale destinato alle cartiere. Anche il monitoraggio digitale dei flussi consente un tracciamento puntuale e trasparente, aumentando la sicurezza lungo tutta la catena del riciclo. Tecnologie come l’intelligenza artificiale possono supportare la gestione dei dati, semplificando le fasi di controllo e rendendo più efficace l’intero processo. Parallelamente cresce l’attenzione verso l’eco-design, ovvero la progettazione di prodotti cartacei e imballaggi che siano facilmente riciclabili, minimizzando l’uso di sostanze chimiche dannose o componenti eterogenei. Anche questo rappresenta una responsabilità del mondo produttivo, che deve saper ripensare ogni articolo già dalla fase di progettazione, considerando il fine vita come parte integrante del ciclo.

La normativa e le prospettive future

A sostenere questo percorso virtuoso intervengono normative sempre più puntuali, sia a livello nazionale che europeo. Direttive come il Pacchetto Economia Circolare hanno fissato obiettivi ambiziosi per il recupero e il riciclo dei rifiuti, spingendo le imprese a raggiungere standard di sostenibilità elevati. In Italia, la responsabilità estesa del produttore obbliga molti settori industriali a farsi carico anche della gestione del fine vita dei prodotti immessi sul mercato, promuovendo la raccolta differenziata e la tracciabilità dei rifiuti. Questo approccio favorisce comportamenti più virtuosi e incentiva lo sviluppo di soluzioni innovative. Guardando al futuro, la sfida sarà quella di integrare ancora meglio il riciclo nei modelli di business, rendendolo un elemento centrale delle strategie aziendali e non solo un adempimento normativo. La collaborazione tra imprese, istituzioni, operatori ambientali e cittadini rappresenta la chiave per rendere sempre più efficace la filiera e generare valore condiviso. Il riciclaggio della carta è oggi molto più di un gesto di buona volontà: è una componente essenziale di un sistema economico che vuole essere competitivo, innovativo e rispettoso dell’ambiente. La responsabilità ambientale non può più essere delegata solo al consumatore finale. Il mondo produttivo, con la sua capacità organizzativa e la sua forza di investimento, ha il dovere — e l’opportunità — di guidare questa trasformazione, trasformando la sostenibilità in un vero motore di crescita. Promuovere pratiche di recupero significa ridurre la pressione sulle risorse naturali, migliorare la qualità della vita, creare occupazione in settori green e contribuire concretamente alla lotta contro il cambiamento climatico. Lavorare per un modello produttivo sempre più circolare è, in definitiva, una scelta di responsabilità collettiva che premia l’efficienza e genera valore, un investimento per le imprese, per la società e per le generazioni future.




Don Chisciotte vs. Dolos: come i brand distruggono compulsivamente valore

Aziende che continuano a ignorare i fondamentali del reputation management

Il brano “Il duello con i mulini a vento” è uno dei racconti più significativi del Don Chisciotte, capolavoro di Miguel Cervantes, componimento in prosa che probabilmente segna la nascita del romanzo moderno europeo, peraltro in qualche modo ispirato dalla nostra penisola, se è vero che verso la fine del XVI secolo proprio Cervantes visitò l’Italia, e approfondì la sua conoscenza della letteratura italiana, venendo a contatto con i poemi epico-cavallereschi rinascimentali.

Ed è proprio da quella narrativa che si lascia ispirare e rapire il protagonista del libro, Alonso Quijano, un nobiluomo della regione della Mancia, in Spagna centrale, con la passione per i romanzi cavallereschi: pagine di duelli e amori che lo stravolgono nell’animo, fino a far divenire lui stesso un cavaliere errante, spinto dalla necessità di una crociata contro il male che dilaga nel mondo e contro le cose sbagliate che ne condizionando la sopravvivenza.

Lui parte e viaggia, finché – è uno degli episodi più noti del romanzo – non incrocia alcuni mulini, che scambia per dei giganti enormi con lunghe braccia e intenzioni assai cattive; e nonostante il fedele scudiero lo avvisi ripetutamente che sono in realtà mulini a vento, non c’è nulla da fare, il nobiluomo dà retta al suo cuore e si fa travolgere dalla sua immaginazione, e parte lancia in resta per abbatterli, finendo però poi rovinosamente a terra.

La consulenza direzionale nel settore del reputation management: parole al vento?

Ecco come mi sento, come ci sentiamo, da tempo ormai, coloro i quali tra noi – eterni Don Chisciotte – continuano a ripetere come un mantra quei “fondamentali” del reputation management ai quali non solo crediamo profondamente, ma che sono confortati da intere biblioteche di letteratura scientifica e da migliaia di case-study pratici, e che altrettanto ritualmente sono violati dai brand e da chi, come top manager, quelle aziende le dirige.

Sulla necessità di promuovere un business dal volto umano si pronunciò molto tempo fa l’economista italiano Antonio Genovesi, che in pieno Illuminismo predicava inascoltato sulla costruzione necessaria di una “economia civile”, ovvero finalizzata alla responsabile generazione di felicità per le persone, sostenibile in quanto capace di coniugare crescita economica ed equità sociale, all’insegna di parole chiave come reciprocità, fiducia e mutuo vantaggio. Oggi, tre secoli dopo, le sue parole paiono risuonare come una eco nel vuoto.

Capisco che quello di Genovesi potrebbe suonare alle orecchie dei più un approccio troppo distante ed astratto, ma per attualizzare questi concetti ai tempi moderni ci è venuto in soccorso già da tempo Robert Eccless, ad Harvard, dimostrando che introdurre preoccupazioni etiche nel business fa guadagnare più soldi: la sua bella ricerca – durata 18 lunghissimi anni e terminata nell’ormai lontano 2012 – ha generato risultati inequivoci, spostando il focus sulla sostenibilità e sul modo corretto di fare le cose da una dimensione “morale” a una dimensione legata al maggior profitto, conseguenza diretta dell’etica. Un profitto dal volto umano che dovrebbe mettere d’accordo una volta per tutte gli interessi degli azionisti con il futuro del Pianeta, perché se facendo le cose per bene si aumentano i dividendi, il perché si continui a farle in “malo modo” resta un mistero insondabile, un comportamento disfunzionale e inefficace, che restringe la licenza di operare delle aziende, riduce i guadagni, distrugge valore, e quindi grida vendetta.

E dopo di lui, sono seguite altre numerosissime evidenze, riflessioni, prove, e discorsi continui, ad esempio, sulla necessità di mitigazione del rischio e di gestione dell’impatto delle crisi, a difesa di quel bene preziosissimo che è la reputazione, universalmente riconosciuto come il primo e più prezioso degli asset intangibili di qualunque organizzazione economica. Ultimo in ordine di tempo il bellissimo lavoro[1] pubblicato dall’Ordine dei Dottori Commercialisti e dei Revisori Contabili di Torino, e per essere più precisi dalla Commissione di Studio Governance e Finanza, coordinata dal dott. Paolo Vernero, documento accurato e ponderoso, modernissimo per contenuto e anche per stile, presentato, nella sua seconda edizione ampliata, pochi giorni fa a Torino presso l’aulica sede dell’Ordine, con prolusione del Presidente Dott. Luca Asvisio, che una volta di più ha intelligentemente ricordato – con il conforto di un’imponente mole di dati e riferimenti legislativi e bibliografici – che porre attenzione alla sostenibilità non significa far contenta Greta Thunberg, bensì, casomai, porre le condizioni per rendere il business più redditizio e resiliente nel tempo, se è vero che – come ricorda spesso Vernero – “un’azienda non sostenibile al tempo t, avrà maggiori probabilità di perdere la continuità aziendale al tempo t+1”[2].

Sempre il mondo della rendicontazione contabile si è interrogato a più riprese sulle modalità di computazione e riporto in bilancio dei cosiddetti intangible, tra i quali la reputazione e in generale i fattori ESG sono certamente, insieme ai brevetti, la voce più rilevante sotto il profilo finanziario. Ormai la letteratura, e gli standard internazionali, sono totalmente concordi sul punto, come conferma un recente lavoro sempre di Vernero e altri: “le risorse immateriali essenziali – ovvero quelle che, ancorché prive di consistenza fisica, condizionano il modello dell’impresa e costituiscono una fonte di valore per essa – (…) integrano i presupposti per l’iscrizione in bilancio”[3]. D’altra parte, il valore di un brand – ad esempio il prezzo che si manifesta nel caso di operazioni di fusione e acquisizione – si allontana sempre più spesso, aggiungono gli esperti commercialisti, dal suo valore contabile, ed è opinione consolidata tra gli addetti ai lavori che la differenza sia in larga parte imputabile, appunto, agli intangibili, il cui peso è concretamente condizionato dalle strategie di sostenibilità dell’azienda, non certo solamente sotto il profilo ambientale, ma anche sotto quello sociale e di governance.

Ma a nulla – o a pochissimo – sono servite tutte queste riflessioni e avanzamenti nella dottrina: così tanti sono gli esempi di ottusità diffusa da gettarci sconsolati nella disperazione più nera. Vediamone qualcuno, come al solito senza fare nomi…

Mundys – Atlantia: alti dirigenti in carcere, diciamolo

Per evitare che il rebranding ottenga il suo scopo, è bene ricordare che una volta si chiamava Autostrade S.p.a., e che fa riferimento alla famiglia Benetton, la stessa che esattamente 24 ore dopo il crollo del Ponte Morandi (43 morti e centinaia di feriti) era a festeggiare ferragosto a Cortina con gli amici. Non un post di condoglianze alle famiglie distrutte nel primo giorno del disastro, perché – dicono i ben informati – il loro avvocato gli consigliò di non fare nessuna dichiarazione pubblica in quanto avrebbe potuto nuocere alla linea di difesa in Tribunale (!). Neanche il bottegaio sotto casa mia avrebbe violato così tante regole di crisis management (e meno male che erano seguiti da un agenzia di consulenti di Milano), ma tant’è, io non sono nessuno, e loro sono una delle famiglie più ricche d’Italia, e quindi certamente non carenti, potenzialmente, di strumenti professionali atti a gestire al meglio una devastante crisi di reputazione. Potenzialmente, appunto.

Per la cronaca, il ponte crollò per gli stessi motivi per i quali qualche anno prima venne sfondato un altro viadotto, sempre sotto la loro responsabilità, quello di Acqualonga, vicino ad Avellino, dove la sera del 28 luglio 2013 sull’autostrada A16 un pullman con l’impianto frenante guasto si schiantò, poi precipitando, sul guardrail autostradale, mal tenuto proprio da Società Autostrade (altri 40 morti, se ben ricordo): manutenzione del tutto inadeguata da parte di un’azienda non certo “in ristrettezze”, ma anzi con ampia disponibilità di budget per fare – avesse voluto! – le cose a regola d’arte.

Per questi motivi, il loro Amministratore Delegato di allora, Giovanni Castellucci, è in prigione a Bollate: carcerazione che ha goduto di poca copertura stampa (mai disturbare troppo il manovratore); e con lui l’ex numero due di ASPI, Paolo Berti, condannato a 5 anni di reclusione, l’ex direttore generale Riccardo Mollo, che dovrà scontare 6 anni, e Michele Renzi, direttore di tronco, condannato a 5 anni. Ma che bella reputazione, madama Dorè: avanti verso nuove fusioni, acquisizioni e nuovi rebranding, e voltiamo pagina.

Sarebbe interessante sapere cosa pensa di tutto ciò Alessandro Benetton – Presidente della holding di famiglia Edizioni e Vice Presidente di Mundys ex Atlantia – molto attivo sui Social anche sui temi dell’etica nel mondo del business: chissà se considera “sostenibile” un’azienda che barattava cadaveri per dividendi e denaro.

Poste Italiane: il tormentone dell’estate 2025

Giovani precari costretti a lavorare 10-12 ore al giorno per circa metà della paga che avrebbero meritato, con potenziale compromissione del loro stato di salute in nome del profitto aziendale: e fin qui sarebbe (purtroppo) la norma per molte aziende.

Ma dal punto di vista reputazionale si infrange il muro del ridicolo quando qualche “genio” del management aziendale pensa bene di far circolare un foglio da far firmare ai postini, nel quale essi dovrebbero “spontaneamente” dichiarare – no, non è una barzelletta! – che l’eventuale straordinario dell’ultimo periodo è stata “una loro idea, per amor di precisione e per rispetto del cliente, per non lasciare del lavoro inevaso e terminare le consegne nelle buche delle lettere”.

Iniziativa “creativa” del tutto ininfluente dal punto di vista giuridico, dal momento che i patti contro la legge quando si parla di diritto del lavoro sono nulli, ma assai rilevante sotto il profilo reputazionale, come giustamente denunciato da una graffiante inchiesta di Report (qui un video).

La più grande azienda pubblica del Paese dichiara quindi nei propri Codici etici di promuovere uno “sviluppo sostenibile orientato al benessere dei dipendenti” (!), però poi ogni anno assume migliaia di giovani precari “usa e getta” da destinare alle attività di smistamento e consegna della posta, che tratta in modo quantomeno discutibile.

E questo è niente, rispetto alle direttive che piovono, sempre in Poste Italiane, in testa ai “consulenti delle Filiali” (promotori finanziari), i quali sono impegnati “a cottimo” con quote di vendita per ogni specifico prodotto da raggiungere ogni settimana. E se i correntisti delle poste non hanno bisogno di quei prodotti/servizi…? “Cosa c’entra il bisogno?”, è la dichiarazione di una persona intervistata da Report, con voce camuffata per evitare l’altrimenti sicuro e vendicativo licenziamento: “L’importante è fare telefonate una via l’altra e raggiungere quelle quote di vendite di polizze d’investimento, quelle quote di piazzamento di titoli di Stato, etc, anche se il correntista avrebbe bisogno di altri prodotti”, è il senso della risposta del collaboratore dell’azienda.

Il Cliente al centro, dicono tutti i corsi di customer care, e mi raccomando, sempre quarto tipo di scambio[4] con gli stakeholder. Voi di Poste Italiane sì che sapete costruire fiducia e manutenere al meglio il vostro Lovemark[5].

Kering: il gigante del lusso (e delle frodi fiscali)

Nel cuore della moda internazionale, un settore spesso accusato di opacità, impatti ambientali devastanti e pratiche scorrette lungo le filiere, Kering si è distinta come l’eccezione che riscrive la regola. Non più solo alta gamma, esclusività e margini stellari: Kering avrebbe dimostrato che sarebbe possibile “coniugare l’eccellenza estetica con l’eccellenza etica”. Ed è per questo che — tra le grandi multinazionali del lusso — pare essere diventata un modello.

Sotto la guida visionaria di François-Henri Pinault, il gruppo ha costruito un’identità in cui etica e business si rinforzano a vicenda. Il risultato? Un’equazione (apparentemente) perfetta: più sostenibilità, più reputazione, più valore, per dimostrare che un altro modo di fare impresa — più giusto, più trasparente, più umano — non solo è possibile, ma è già realtà (prendete appunti, mi raccomando!).

Verrebbe da pensare che funzioni tutto: è il lusso che fa bene al mondo. Kering, aggiungo, si distingue per aver costruito un’intera architettura organizzativa attorno a tre pilastri fondamentali: integrità, responsabilità, trasparenza. Nel Codice Etico del Gruppo, disponibile in quattordici lingue, il messaggio d’altra parte è chiaro sin dalle prime righe: “Dobbiamo agire con integrità, lealtà e senso di responsabilità”.

Salvo poi rendersi direttamente responsabili della più imponente elusione fiscale mai registrata nella storia in Italia, come denunciato dall’ex top manager del gruppo Avv. Carmine Rotondaro, professionista che ha contribuito a portare alla luce l’esterovestizione di Gucci e Bottega Veneta in Svizzera, sede solo fittizia, istituita ai fini di risparmio fiscale, con un danno erariale enorme per le casse del fisco in Italia, quindi di tutti noi.

Una storia davvero brutta, della quale – sulla base della documentazione prodotta in giudizio dall’Avv. Rotondaro e dal suo legale di fiducia Avv. Salvatore Pino – il patron Pinault era ben al corrente, e dove l’avidità ha avuto la meglio, per oltre 15 anni, sia sull’etica aziendale che sugli interessi di non pochi dipendenti di Kering, impropriamente coinvolti e travolti in uno scandalo fiscale che ha poi generato sanzioni complessive all’azienda per oltre 1,5 miliardi di euro, ma che – oltre che danneggiare gli azionisti – ha danneggiato anche i collaboratori stessi, coinvolti dall’accertamento dell’Agenzia delle Entrate e sanzionati per il solo fatto di aver obbedito agli ordini dei vertici dell’azienda. Se ne parlerà in un libro di imminente pubblicazione, contenente documentazione assai intrigante, e molto probabilmente anche in una mini-serie TV. Una bella gatta da pelare per il neo-nominato AD Luca De Meo

Un evergreen: Autogrill S.p.A.

Di Autogrill avevo già scritto a più riprese in passato, sia per la forte attenzione ai temi ESG a fronte di una qualità quanto meno discutibile (il primo pilastro per la costruzione di buona reputazione è, ricordiamolo, proprio la qualità del prodotto/servizio), sia per una serie di non conformità sulla sicurezza alimentare, denunciate da un whistleblower, con prodotti scongelati e non più idonei al consumo venduti come  freschi e a caro prezzo, e altre delizie del genere.

Vari influencer e creator hanno dedicato attenzione alla politica di prezzi e di customer care di Autogrill (qui un breve e simpatico video Instagram che prende spunto dal prezzo di oltre 8 euro di un panino al prosciutto crudo…). La cosa più intrigante sono però sempre i commenti degli utenti, mai gestiti dall’azienda (il che equivale a dimostrare: “non ci interessa nulla di ciò che dite”). Si va dal “La cosa buffa è che in autostrada la logistica dei trasporti raggiunge l’apice della convenienza e della facilità, in nessun posto al di fuori dell’autostrada è così facile consegnare la merce, dovrebbe costare tutto molto meno!” (dagli torto) a “Anche Mcdonald’s c’è in autostrada, e i prezzi sono gli stessi dei negozi in città”, ad altri meno carini e assai indicativi della (non eccellente) reputazione del semi-monopolista della ristorazione autostradale.

Idem a Fiumicino, anche quest’anno premiato come migliore aeroporto d’Europa, ma forse non per la ristorazione. Stupiscono infatti le recensioni estremamente negative del ristorante a marchio Eataly, sia per qualità che per rapidità (si fa per dire) del servizio, ma tutto acquista una logica quando si legge l’intestazione dello scontrino: la gestione della ristorazione infatti è di Autogrill, e a poco serve cambiare punto di ristoro in Fiumicino, così è per la quasi totalità dei ristoranti dell’aeroporto.

Anche qui, buona reputazione questa sconosciuta, in barba a tutto quello che ripetiamo fino all’ossessione circa il fatto che costruire una solida reputazione genera maggior valore nel medio-lungo periodo, concetti che le aziende – Autogrill non fa eccezione – fanno (apparentemente) propri nelle loro value proposition[6], ma solo a parole.

Curiosità a margine, sarà un caso, ma il principale azionista di Autogrill è sempre la famiglia Benetton, quelli del disastro del Ponte Morandi ed episodi correlati: quando hai capito tutto di sostenibilità del business e di buona reputazione, e non perdi occasione di dimostrarlo…

Max Mara: dove trattar male i dipendenti è un must

Gwyneth Paltrow che balla al ristorante “Bersagliera”, Sharon Stone che regala sorrisi ai flash dei fotografi, brindisi in riva al mare, tarantelle sulle note di Volare o Bella Ciao, crociere a Positano e una visita privata al Museo Archeologico di Napoli: un articolo di stampa denuncia che mentre Max Mara, colosso da 1,8 miliardi di fatturato con quasi 2.500 negozi in 90 nazioni, celebrava i suoi 75 anni con i propri testimonial e con una sfilata monumentale alla Reggia di Caserta, tra discorsi sull’“eccellenza della sartoria italiana” e sulle “donne forti e iconiche a cui si ispira il brand”, le sarte della Manifattura San Maurizio di Reggio Emilia – che producono proprio quei capi – denunciavano di venir chiamate “obese” e “mucche da mungere” sul posto di lavoro, e di essere costrette a lavorare praticamente a cottimo per 1.300 euro al mese; anche il Viceministro del Lavoro, Maria Teresa Bellucci, ha confermato che l’Ispettorato nazionale del lavoro ha ricevuto negli ultimi mesi “alcune segnalazioni che hanno posto l’attenzione su situazioni problematiche all’interno del contesto aziendale, in particolare riguardo al trattamento delle lavoratrici”. Senza parole.

Già molti anni fa, un’indagine promossa dalla CGIL sulle dipendenti di Max Mara fece emergere che il 30% aveva un esaurimento nervoso e il 70% soffriva di disturbi psicosomatici, ma la risposta del fondatore, Achille Maramotti, fu: “Donne, il padrone sono io” (!); da allora, evidentemente, non è cambiato molto.

E niente, dopo aver letto le convinte dichiarazioni del gruppo sull’importanza della sostenibilità e contro lo sfruttamento del lavoro, io davvero vorrei prendere un caffè con i vertici dell’azienda: qualcuno della famiglia Maramotti, l’AD dott. Eugenio Sidoli, e il suo capo della comunicazione…fate voi, scrivetemi su Linkedin.

Sparare sulla Croce Rossa: da Chiara Ferragni a Glaxo, da Armani a Dior, un elenco di non conformità senza fine

Oltre ai cinque “gioielli” di good reputation dei quali abbiamo discusso sopra, potremmo citare, più in sintesi, molti altri brand alle cui dichiarazioni ESG[7] non corrisponde minimamente la realtà.

Ad esempio, Chiara Ferragni, che per carenze del proprio management (che lei però ha inizialmente protetto) è stata coinvolta in una crisi reputazionale che sarebbe stata risolvibile applicando i corretti principi di crisis communication, ma che lei – mal consigliata – ha deciso di non affrontare di petto, distruggendo in pochi mesi un “impero” da decine di milioni di euro.

Poi Armani & Dior, finiti sorprendentemente commissariati dal Tribunale di Milano per sfruttamento di lavoratori e mancato rispetto dei diritti sindacali lungo la propria filiera di fornitura. Loro, che tanto decantano attenzione al rispetto dei diritti e alla sostenibilità nel proprio ecosistema…

Come non citare anche Glaxo, azienda farmaceutica con una spettacolare DNF[8] e una narrazione centrata sulla costruzione di salute per intere popolazioni, che poi però mette in commercio uno psicofarmaco antidepressivo per bambini e adolescenti che ha come effetto collaterale niente meno che l’induzione al suicidio, non pubblicando due studi scientifici che dimostravano che il loro settore di ricerca scientifica era perfettamente al corrente del problema. La stessa azienda ha anche intralciato la giustizia nella fase di indagine, finendo multata con una cifra astronomica (nuovamente gli azionisti ringraziano!), e ovviamente – dal momento che la trasparenza e l’autenticità solo di casa a parole, come strumento di marketing e comunicazione – senza raccontare nulla di tutto ciò nella propria rendicontazione sociale e integrata.

E che dire di Volkwagen – qui siamo all’assurdo! – che da un lato ritirava un premio dietro l’altro sul tema della sostenibilità e del basso impatto ambientale, e dall’altro lato truccava scientemente le emissioni dei propri motori diesel per farli apparire meno ecologicamente impattanti (e – aggiungo – che è arrivata completamente impreparata alla deflagrazione di una crisi annunciata con oltre un anno di anticipo grazie all’avvio dell’ispezione da parte delle autorità UE).

Storie – alcune recenti e altre meno – tratte da un lunghissimo elenco che si arricchisce letteralmente ogni settimana di nuovi spunti riguardo queste tematiche, tanto che a questo genere di disastri reputazionali ho dedicato il mio ultimo volume, “Crash Reputation”.

Tutti sono brand noti, medie e grandi aziende, alcune anche molto strutturate, accomunate da almeno due gravi non conformità: in primo luogo, un approccio inautentico alla gestione della reputazione, con un’immagine pubblica in tutto o in parte disallineata dalla propria vera identità (ad esempio roboanti dichiarazioni sull’importanza dell’etica illustrate nei propri codici etici e nel proprio impianto ESG, poi in larga parte disattese nella pratica); e in secondo luogo, una pressoché totale incapacità di prevedere il rischio e mitigare l’impatto delle crisi reputazionali, nonostante gli strumenti per farlo esistano da tempo, e a costi accessibilissimi.

Perché a volte i manager e gli imprenditori si impegnano a distruggere valore?

Nella favola “Prometeo e l’Inganno”, Dolus, allievo di Prometeo, maestro nell’arte dell’ipocrisia e del mascherare le intenzioni separando le parole dai fatti, modella una statua della menzogna (Mendacium) accanto a quella della Verità (Aletheia). Poiché gli manca l’argilla per i piedi, la prima statua rimane immobile, simboleggiando che la menzogna non dura nel tempo: è proprio da questa favola che deriva l’antitesi tra “verità che cammina” e “bugia senza piedi”, o – per dirla con l’adagio popolare – l’affermazione che “le bugie hanno le gambe corte”, il che riflette esattamente la situazione delle aziende specializzate in narrazioni basate sul greenwashing o comunque inautentiche, smentite dai fatti, le cui performance vengono a causa di ciò compromesse, a volte irrimediabilmente.

Per Dolos, la parola è vuota, ed è strumento di frode, piuttosto che di espressione genuina, e ci è utile ricordare in questo contesto quanto sia pericolosa la perdita di coerenza tra ciò che si dice e ciò che si fa, perché – come dimostra la narrativa classica, ma anche la letteratura scientifica relativa al reputation & crisis management – l’inganno si ritorce quasi sempre contro chi lo ha generato.

Ebbene, la capacità degli esseri umani di costruire narrazioni artefatte per migliorare il grado di accettazione da parte della propria rete sociale è semplicemente incredibile: e in quest’ottica va intesa e analizzata anche la ricerca ESG – finanziata dal Parlamento Europeo e presentata a Bruxelles e al Senato della Repubblica a Roma – dalla quale è emerso che il 70% circa dei rating ESG assegnati in Italia vengono rilasciati solo sulla base delle dichiarazioni fornite dalle stesse aziende sotto esame, senza alcuna verifica o audit da parte di “certificatori” terzi indipendenti; e il problema non è solo delle aziende a caccia di certificazioni facili (e a poco prezzo) ma anche dei consulenti stessi, alcuni notissimi a livello internazionale, che spacciano per “certificazioni” rating che – in base ai relativi regolamenti UE – certificazioni non sono.

L’irritazione è enorme, da parte di chi si impegna, urlando nel deserto, per cercar di dimostrare l’importanza di rispettare le regole, incluse le aziende – e ce ne sono – che si impegnano per fare bene.

Contro chi indirizzare la rabbia? Un grande professore di economia, Stefano Zamagni, dell’Alma Mater, rispose a modo suo, fustigando i marketer, e affermando provocatoriamente in una bella intervista per l’Harvard Business Review:

“Il manager – an­che se dico una cosa che a qualcuno darà fastidio – è una specie molto raffinata di ‘mercenario’. Nel Me­dioevo i mercenari combattevano per chi pagava me­glio. Ebbene, se qualcuno fa a un manager un’offerta vantaggiosa, questo abbandona quell’azienda e passa a un’altra. Perché quindi a un manager interessa poco l’inserimento di preoccupazioni etiche nell’impresa? Perché il vantaggio competitivo che ciò conferisce è un vantaggio di medio-lungo termine. È chiaro che lo short-termism porta a una sottovalutazione: chi pratica Corporate Social Responsibility guadagna in repu­tazione, e ha quel 20% in più di utili, ma a me manager questo non interessa, io intanto ho il mio contratto, è già definito ex ante, ho già il golden parachute, e quindi cambio azienda e vado avanti”.

Sarà questo il motivo di tanta superficialità da parte dei brand sul fronte del reputation management?

Matteo 12,33: “L’albero si riconosce dal frutto.”

Mi è difficile comprendere – sarà un limite mio – come sia possibile commettere errori così marchiani in presenza di un sistema di regole da tempo completamente e chiaramente codificate.

Forse ha ragione Zamagni, siamo dinnanzi a un’ossessiva attenzione al denaro, con disponibilità a “truccare le carte” pur di raggiungere – quanto meno sulla carta – certe performance; o forse è disinteresse; o ancora ignoranza; oppure è colpa dell’esistenza di false credenze dure a morire sul fatto che l’unica cosa importante è “il risultato, a qualunque costo”. Fatto sta che – evangelicamente parlando – l’albero si riconosce dal frutto: ciò significa (anche) che gli effetti che generi ti qualificano, e i comportamenti dovrebbero essere valutati innanzitutto per la loro efficacia, dai risultati che sono in grado di produrre, ovviamente non solo nel breve periodo. Per questo, l’etica è parte dell’equazione nella vita d’impresa; non è più complicato di così.

Val la pena allora impegnarsi professionalmente, e faticare, per cercare di affermare un modello differente?

Per dar senso alla domanda, devo tornare al nobile hidalgo: combattere contro i mulini a vento è un atto che si rivela sempre del tutto inutile, generando quindi frustrazione…? Oppure è un’attitudine la cui pratica va inquadrata e valutata in un’analisi di opportunità, un bilanciamento sempre in bilico tra la naturale pulsione di un essere umano a cambiare le cose, possibilmente migliorandole, e la ragionevole possibilità di ottenere un effetto concreto, anche se minimo…? O ancora, come ho letto da qualche parte, è un “atto di resistenza” che ha un valore di per sé, a prescindere dal risultato, perché chiama in causa la nostra dignità, la forza con la quale ci contrapponiamo, senza mai stancarci, a qualcosa che sentiamo intimamente come sbagliato?

La verità è che non ho precise risposte a questi interrogativi, ma la speranza – e sono certo che accade comunque tutti i giorni, anche se le cattive prassi fanno sempre più rumore delle buone – è che qualche persona di responsabilità ai piani alti in qualche brand, per una volta, come scriveva Mark Twain, “possa stupirmi, facendo, semplicemente, la cosa giusta”.


[1] Rapporto su Sostenibilità, Governance e Finanza dell’impresa: l’impatto degli ESG – Evoluzione degli scenari. Business continuity, nuove opportunità e creazione di valore: oltre la compliance – CNDCEC, 2^ edizione, aprile 2025.

[2] Vernero, P; Chiappero, G; Intangible e fattori ESG: riflessi sul bilancio, report di sostenibilità e generazione del valore d’impresa, Modulo24Bilancio, febb 2025

[3] Vernero, P; Chiappero, G; op. cit.

[4] È un tipo di relazione (detta “scambio abbondante”) tra l’organizzazione è i suoi pubblici che prevede che l’azienda dia al cliente sempre qualcosa in più di ciò che riceve e che il cliente stesso si aspetta, generando un effetto passaparola positivo. Gli altri tipo di scambio sono nullo (l’azienda prende e non da niente in cambio, frodando il cliente), insufficiente (l’azienda prende a dà meno di ciò che ci si sarebbe aspettato) ed equo (cliente e azienda sono in perfetto equilibrio di scambio). Il 4° tipo di scambio è quello di maggiore interesse per un Reputation manager

[5] Il termine, coniato da Kevin Roberts, CEO Worldwide di Saatchi & Saatchi, definisce un marchio che ha costruito un legame emotivo così forte con i suoi clienti da superare la semplice lealtà di marca, diventando amato, difeso con passione e consigliato senza esitazione. I lovemark non si limitano a vendere prodotti o servizi, ma creano un rapporto profondo basato sull’affetto e sull’identificazione con i valori del brand.

[6] È la dichiarazione ufficiale dell’azienda che comunica chiaramente i vantaggi che essa offre ai propri clienti, spiegando perché dovrebbero scegliere il proprio prodotto o servizio rispetto a quelli dei concorrenti.

[7] ESG è l’acronimo di Environmental, Social, and Governance (Ambientale, Sociale, e di Governance), ed è un insieme di criteri utilizzati per valutare la sostenibilità e l’impatto etico di un’azienda o di un investimento. 

[8] La Dichiarazione Non Finanziaria (DNF), in inglese Non-Financial Disclosure, è un documento che le aziende redigono per comunicare le loro performance e il loro impatto su questioni non finanziarie, e che permette di rendere trasparenti le attività aziendali che vanno oltre gli aspetti puramente economici, contribuendo alla sostenibilità e fornendo così maggiori informazioni utili agli investitori.




L’Arte come Strategia: Come i Brand Seducono i Consumatori nel Terreno della Cultura

L’Arte come Strategia: Come i Brand Seducono i Consumatori nel Terreno della Cultura

Da semplice mecenatismo a sofisticata leva di marketing, l’arte contemporanea è diventata un asset fondamentale nella cassetta degli attrezzi dei brand più influenti. Ma cosa si nasconde dietro questa tendenza? Un’analisi delle motivazioni strategiche e dei meccanismi cognitivi che trasformano un’opera d’arte in un potente strumento di comunicazione.
Le recenti, e ormai iconiche, collaborazioni tra Louis Vuitton e artisti come Yayoi Kusama o Jeff Koons, le “Art Car” di BMW che da decenni vedono la luce grazie a geni creativi come Alexander Calder e Jenny Holzer, o le tazzine d’autore di Illycaffè. Questi non sono episodi isolati, ma la punta di un iceberg che rivela una delle strategie di branding più affascinanti e complesse del nostro tempo: la fusione tra mondo aziendale e arte contemporanea.
Se in passato il rapporto si limitava a un mecenatismo più o meno disinteressato, oggi si è evoluto in una simbiosi strategica che agisce su leve psicologiche profonde, costruendo valore, identità e una connessione emotiva con il consumatore.

Un Legame Storico: Le Radici del Fenomeno

Sebbene il fenomeno appaia prettamente attuale, le sue radici affondano nel XX secolo. Un precursore illuminato fu Adriano Olivetti, che negli anni Cinquanta concepì l’azienda come una comunità in cui la cultura, l’architettura e il design erano parte integrante del processo industriale e del benessere dei lavoratori.
Tuttavia, è con la Pop Art che il confine tra arte e commercio si assottiglia in modo irreversibile. Andy Warhol, con le sue serigrafie della zuppa Campbell’s o le bottiglie di Coca-Cola, non solo elevò l’oggetto di consumo a soggetto artistico, ma dimostrò che i due mondi potevano parlare lo stesso linguaggio. Negli anni Ottanta, fu Absolut Vodka a istituzionalizzare la collaborazione artistica con la sua celebre campagna “Absolut Warhol”, dando il via a una serie di partnership che hanno fatto la storia della pubblicità.

L’Art Infusion Effect: La Scienza Dietro la Strategia

Il vero cuore della strategia non risiede nella semplice apposizione di un nome famoso su un prodotto. Il successo di queste operazioni si basa su un fenomeno scientifico preciso chiamato “Art Infusion Effect“: la mera presenza di arte in un contesto commerciale migliora automaticamente la valutazione del prodotto da parte del consumatore, indipendentemente dal contenuto specifico dell’opera o dalla sua qualità artistica.
Questo effetto, documentato dalla ricerca accademica, è automatico e non conscio. Il consumatore non deve necessariamente apprezzare l’arte o essere un intenditore: il semplice contatto visivo tra prodotto e opera d’arte crea un “contagio simbolico” che trasferisce attributi positivi in modo duraturo.

Perché Proprio l’Arte Visiva?

Non è casuale che i brand prediligano l’arte visiva rispetto ad altre forme artistiche come teatro, cinema o musica. La ragione risiede in una caratteristica unica dell’arte visiva: la capacità di creare avanguardie senza capitali.
Come evidenziato dalla ricerca di Tyler Cowen e Alexander Tabarrok in An Economic Theory of Avant-Garde and Popular Art (2000), esiste una correlazione diretta tra il capitale necessario per produrre un’opera e la libertà espressiva dell’artista. Un’opera d’arte visiva richiede risorse finanziarie quasi nulle – si pensi all’”Orinatoio” di Marcel Duchamp del 1917 o alla recente Comedian di Maurizio Cattelan (la banana attaccata al muro con il nastro adesivo venduta per 120.000 dollari). Al contrario, una rappresentazione teatrale necessita di maggiori investimenti, mentre un film richiede capitali ingenti.
Questa inversione della catena del valore – dove il prodotto nasce prima del mercato e non viceversa – permette agli artisti visivi di esprimere libertà creativa assoluta, sperimentazione e contemporaneità senza vincoli commerciali immediati. È proprio questa indipendenza ideologica che i brand desiderano acquisire per associazione: l’artista visivo incarna perfettamente i concetti di libertà di espressione, avanguardia e autenticità creativa che le aziende faticano a costruire autonomamente.
Il “ridicolo costo manifatturiero dell’arte visiva”, come lo definisce la ricerca di Victoria L. Rodner e Elaine Thomson in The art machine: dynamics of a value generating mechanism for contemporary art, consente agli artisti di essere percepiti come puri innovatori, liberi da compromessi commerciali. Questa purezza creativa diventa un asset preziosissimo per i brand che vogliono comunicare innovazione e autenticità.
Il successo dell’Art Infusion si manifesta attraverso meccanismi cognitivi ed emozionali precisi che modificano la percezione del brand nella mente del consumatore:

  1. L’Effetto Alone (Halo Effect): È il meccanismo psicologico centrale. L’associazione di un brand con un artista o un’istituzione culturale prestigiosa genera un “effetto alone”. Le qualità positive associate all’arte – creatività, esclusività, raffinatezza, intelletto, avanguardia – vengono trasferite per osmosi al brand e ai suoi prodotti. Una borsa non è più solo una borsa se porta la firma di un’artista concettuale; diventa un oggetto carico di nuovi significati.
  2. Luxury Perception Enhancement: L’arte non solo trasferisce attributi positivi generici, ma specificamente aumenta la percezione di lusso anche in prodotti non-luxury. Questo meccanismo giustifica automaticamente un premium pricing: i consumatori sono disposti a pagare di più per prodotti associati all’arte, percependoli come più preziosi e esclusivi.
  3. Il Transfert di Valori e lo Storytelling: Ogni artista porta con sé un universo di valori: ribellione, lusso, minimalismo, critica sociale. Il brand, collaborando, “prende in prestito” questi valori, arricchendo la propria narrazione. Questo permette di costruire uno storytelling potente e autentico. L’acquisto non è più motivato solo dalla funzione dell’oggetto, ma dalla storia che racconta e dall’identità che permette di esprimere.
  4. Creazione di Esclusività e Capitale Culturale: Possedere un prodotto nato da una collaborazione artistica non è solo una dimostrazione di potere d’acquisto, ma anche di “capitale culturale”. Segnala l’appartenenza a una nicchia di consumatori informati, colti e dotati di gusto. Questo senso di esclusività è una leva potentissima, specialmente nel settore del lusso, dove il desiderio è alimentato dalla rarità e dalla distinzione.

Le motivazioni strategiche dei brand

Se questi sono gli effetti sulla mente del consumatore, le ragioni che spingono un’azienda a investire in arte sono puramente strategiche e mirano a obiettivi di business concreti.

Differenziazione e Posizionamento Premium: In mercati saturi, dove i prodotti sono tecnicamente simili, l’arte offre un linguaggio unico per differenziarsi in modo radicale dalla concorrenza. Questa unicità giustifica e sostiene un posizionamento di prezzo premium, supportato dalla enhanced luxury perception generata dall’Art Infusion Effect.

Targeting di nicchie qualificate: Le iniziative artistiche permettono di raggiungere e dialogare con un pubblico specifico, spesso altospendente, istruito e influente, che è tipicamente difficile da intercettare con la pubblicità tradizionale.

Generazione di contenuti e risonanza mediatica (PR): Una collaborazione artistica è una notizia per definizione. Genera un’enorme quantità di contenuti organici per la stampa, i social media e il passaparola, garantendo una visibilità che sarebbe molto costosa da acquistare con mezzi classici.

Mecenatismo 2.0 e Legacy: Attraverso la creazione di fondazioni aziendali (come Fondazione Prada a Milano e Venezia, Pirelli HangarBicocca o la Fondation Louis Vuitton a Parigi), i brand trascendono la logica del profitto a breve termine. Si posizionano come attori culturali, contribuendo attivamente al patrimonio della società. Questo “mecenatismo moderno” costruisce una legacy duratura, rafforzando la reputazione e l’immagine del marchio su un piano quasi istituzionale.

Il rischio dell’”Art-Washing”

Naturalmente, esiste un rovescio della medaglia. La critica più frequente è quella di “art-washing”: l’accusa mossa ai brand di utilizzare l’arte come una patina di rispettabilità per distogliere l’attenzione da pratiche commerciali o etiche discutibili.
Il meccanismo del contagio simbolico che rende potente l’Art Infusion Effect può ritorcersi contro il brand quando l’associazione non è percepita come autentica. Quando l’operazione appare cinica, slegata dai valori reali dell’azienda e priva di un genuino supporto al mondo dell’arte, il rischio di un boomerang reputazionale è molto alto. L’autenticità e la coerenza della partnership sono, quindi, cruciali per il suo successo.

Un Futuro Sempre Più Ibrido

Il legame tra brand e arte contemporanea è destinato a diventare sempre più profondo e strutturato. In un’epoca post-pubblicitaria, dove i consumatori sono sempre più immuni ai messaggi promozionali diretti, l’arte offre una via per costruire relazioni basate sull’emozione, sul significato e sulla cultura.
L’Art Infusion Effect dimostra scientificamente che non si tratta più di vendere un prodotto, ma di offrire un’esperienza che trasforma automaticamente la percezione di valore. Non più di costruire un’immagine, ma di forgiare un’identità che si basa su meccanismi cognitivi profondi e non consci. Per i brand, l’arte non è più solo una decorazione, ma una dichiarazione strategica di chi sono e, soprattutto, di cosa vogliono rappresentare nel mondo.

Concludo con una citazione che amo particolarmente di Witold Marian Gombrowicz: La Forma è opposta al Caos, come la Superiorità è opposta all’Inferiorità. Gombrowicz scopre amaramente che lottiamo incessantemente per la Forma e la Superiorità, ma siamo attratti costantemente dal Caos e dall’Inferiorità, perché ci sembra che in essi si possa essere più liberi. In realtà l’unica possibile, seppur parziale, libertà risiede nella creatività artistica. L’artista, seppur impossibilitato a sfuggire alla Forma o a raggiungere la Forma perfetta, può almeno sentirsi libero di “giocare” con lei. Può rendere “visibili”, invece di occultarle, sia la maturità della convenzione artistica sia la propria Immaturità e così, stabilendo una salutare distanza da entrambe, liberarsi in una certa misura dalla loro oppressione. L’Arte è, per Gombrowicz, l’unico mezzo che gli uomini hanno nel caos dell’Esistenza per far valere un po’ la propria forma.

Bibliografia

  1. Hagtvedt, H., & Patrick, V. M. (2008). Art Infusion: The Influence of Visual Art on the Perception and Evaluation of Consumer Products. Journal of Marketing Research, 45(3), 379-389.
  2. Cowen, T., & Tabarrok, A. (2000). An Economic Theory of Avant-Garde and Popular Art, or High and Low Culture.
  3. Rodner, V. L., & Thomson, E. The art machine: dynamics of a value generating mechanism for contemporary art.
  4. Rodner, V. L., & Kerrigan, F. (2014). The art of branding − lessons from visual artists.
  5. Schroeder, J. (2005). The artist and the brand.
  6. Meyer, J.-A., & Even, R. Marketing and the Fine Arts – Inventory of a Controversial Relationship.
  7. Hirschman, E. (1983). Aesthetics, ideologies and the limits of the marketing concept. Journal of Marketing, vol 47.
  8. Bricco, P. (2008) Adriano Olivetti. Un italiano del Novecento, Rizzoli
  9. Gombrowicz, W. (2011). Corso di filosofia in sei ore e un quarto. SE Editore

Fonti web consultate: