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I “Signori della truffa” a cui Mark Zuckerberg non vuole rinunciare

I “Signori della truffa” a cui Mark Zuckerberg non vuole rinunciare

«Il vostro cammino verso l’indipendenza finanziaria. Con un piccolo investimento di 240 € avrete l’opportunità di raggiungere un reddito stabile. Immaginate che il vostro reddito aumenti ogni mese e che guadagnate fino a 45mila euro. Senza investire somme enormi e senza il rischio di perdere tutto». A parlare è la presidente del Consiglio Giorgia Meloni, o meglio, un video generato dall’intelligenza artificiale che, tramite la tecnica del deepfake, imita la voce e le sembianze della premier per indurre lo spettatore a investire poche centinaia di euro in cambio della promessa di una futura e imperitura rendita finanziaria.

Si tratta – inutile dirlo – di una truffa, che sfruttando voce e sembianze della premier tenta di indurre in errore chi vi si imbatte. La stessa sorte della premier era toccata, tra gli altri, anche a Salvini, Schlein, Calenda e al giornalista Fabio Fazio.

Un’inchiesta pubblicata dalla Reuters getta luce sul fenomeno e rivela come Meta «guadagna una fortuna» da annunci fraudolenti o che pubblicizzano beni o prodotti illegali.

I documenti di Meta su cui la Reuters è riuscita a mettere le mani – relativi al periodo 2021- 2024 – mostrano come l’azienda di Palo Alto guadagni attivamente dall’enorme mole di annunci truffaldini. Le proiezioni interne relative al 2024 hanno stimato che circa il 10% del fatturato annuo complessivo – pari a 16 miliardi di dollari – sarebbe stato generato dalla pubblicazione di annunci di truffe o prodotti illegali.

Un documento datato dicembre 2024 mostra come ogni giorno sulle piattaforme di proprietà di Meta – Facebook, Instagram e Whatsapp – vengano mostrati agli utenti 15 miliardi di annunci “ad alto rischio”; mentre un altro documento della fine del 2024 indica come Meta guadagni 7 miliardi di dollari di entrate ogni anno solo da questa categoria di annunci truffaldini.

Molti di questi annunci provengono da attori che agiscono in modo abbastanza sospetto da essere segnalato dai sistemi di sicurezza interna di Meta. Il problema è che l’azienda rimuove questi inserzionisti solo nel caso in cui i suoi sistemi predittivi automatizzati indicano una probabilità percentuale almeno del 95% che questi commettano una frode, nel caso in cui sia inferiore Meta, nonostante consideri che l’inserzionista possa facilmente essere un truffatore, gli addebita tariffe più elevate come penale, aumentando i suoi ricavi. Inoltre a causa dei sistemi di profilazione chi, per sbaglio o scientemente, clicca su un annuncio fraudolento vedrà sempre più annunci dello stesso tipo.

I documenti visionati dalla Reuters «presentano una visione selettiva che distorce l’approccio di Meta alle truffe» ha scritto il portavoce di Meta, Andy Stone, in una dichiarazione. Secondo Stone le stime che il 10% dei ricavi di Meta derivino da annunci di truffe e simili sono «parziali ed eccessivamente inclusive» e ha aggiunto che «noi combattiamo aggressivamente frodi e truffe perché gli utenti delle nostre piattaforme non vogliono questo tipo di contenuti, gli inserzionisti non le vogliono e nemmeno noi le vogliamo».

Allo stesso tempo però i documenti rivelano una ricerca interna di Meta i cui risultati mostrano che i suoi prodotti sono diventati un pilastro dell’economia globale delle frodi e come sia più facile per gli attori maligni fare pubblicità sulle piattaforme Meta che su quelli dei suoi concorrenti.

Le agenzie di controllo di vari Paesi hanno iniziato a chiedere a Meta maggiori sforzi nel combattere le frodi proprio in un momento in cui l’azienda di Palo Alto sta versando enormi quantità di denaro – circa 72 miliardi di dollari quest’anno – nell’intelligenza artificiale. E pur riconoscendo che si tratta di «un’enorme quantità di denaro» l’amministratore delegato di Meta, Mark Zuckerberg, ha rassicurato gli investitori che l’attività pubblicitaria di Meta è in grado di finanziare l’investimento.

I documenti infatti mostrano come Meta abbia valutato i costi legati all’aumento delle pubblicità fraudolente rispetto ai costi derivanti dalle eventuali sanzioni pecuniarie. I carteggi indicano chiaramente che Meta punta a diminuire le sue entrate da questo tipo di attività, ma allo stesso tempo l’azienda teme che le brusche riduzioni dei ricavi pubblicitari che ne deriverebbero possano influenzare negativamente le sue proiezioni di guadagno.

Contestualmente l’azienda prevede sanzioni legate all’attività pubblicitaria fraudolenta fino a 1 miliardo di dollari, cifra ben al di sotto dei ricavi che Meta genera dalle pubblicità truffaldine. Meta infatti guadagna 3.5 miliardi di dollari solo dalle pubblicità che «presentano un rischio legale più elevato» come quelle citate in apertura e, piuttosto che intensificare il controllo sugli inserzionisti per tutelare i propri utenti l’azienda ha deciso d’intervenire solo in risposta ad un’imminente azione normativa.

Inoltre Meta avrebbe posto dei limiti rispetto a quante entrate è disposta a perdere nel contrasto alle inserzioni fraudolente. Un documento risalente allo scorso febbraio indica come nella prima metà del 2025 non sia stato consentito all’ufficio responsabile della verifica degli inserzionisti non è stato consentito di adottare misure che sarebbero potute costare all’azienda una quota pari allo 0,15% del fatturato totale, equivalente a 135 milioni di dollari sui 90 miliardi guadagnati da Meta nei primi sei mesi del 2025.

A ottobre del 2024, in un contesto di crescenti pressioni nel contrasto alle truffe online, i dirigenti di Meta hanno presentato a Zuckerberg un piano di «approccio moderato» nei confronti delle truffe. Ad ogni modo Meta sembrerebbe essersi impegnata nel diminuire le percentuali delle entrate derivanti dalle pubblicità fraudolente o illegali al 7,3% entro la fine di quest’anno, al 6% entro il 206 e al 5,8% entro il 2027. Non viene specificato quando dovrebbe essere portata allo 0%.

«Il sentimento che si prova è lo stupore – commenta Luca Poma, professore in Reputation management e Scienza della comunicazione presso l’Università Lumsa – è l’ennesima volta in cui Meta finisce in una tempesta reputazionale per la sua attenzione al profitto prima di qualunque altra cosa. È un’attitudine nota da anni, è l’ennesima fuga di documenti che mostra come Meta sia perfettamente conscia dell’utilizzo delle proprie piattaforme da parte di pedopornografi, trafficanti di droga e altri criminali e come le reazioni per ripulire piattaforma siano state blande. Ci sono stati numerosi casi di ex dipendenti di Facebook che dopo essersi licenziati hanno fatto emergere come, sia negli Usa che in Europa che in Italia, Meta sottostima rischio reputazionale e non risponde alle domande che gli vengono poste. L’unico motivo per cui l’azienda non è già fallita è che è in una posizione dominante».




Un Sapientino speciale valorizza le diversità e l’inclusione

Un Sapientino speciale valorizza le diversità e l'inclusione

Trentadue attività di difficoltà progressiva su schede che valorizzano le unicità di ciascuno, e un mazzo di 20 carte con codice Braille e superfici tattili, per favorire nei piccoli giocatori la consapevolezza che la conoscenza della realtà può avvenire attraverso canali sensoriali alternativi, talvolta indispensabili.

Una versione speciale dell’iconico gioco Sapientino è stata creata e donata dall’azienda Clementoni di Recanati (Macerata) alla Fondazione Lega del Filo d’Oro. Realizzato per entrare nel catalogo dei regali di Natale della Fondazione e sostenere progetti dell’ente a favore di persone con sordocecità e pluridisabilità psicosensoriale, il gioco invita i bimbi a scoprire la ricchezza della diversità tramite attività pensate per stimolare curiosità, cooperazione e consapevolezza.

La Fondazione del Filo d’Oro Ets, punto di riferimento in Italia per la sordocecità e la pluridisabilità psicosensoriale, e Clementoni, hanno promosso l’evento “Il valore sociale del gioco” presso il Centro Nazionale dell’Ente a Osimo. L’incontro nasce nell’ambito del progetto di ricerca-azione di Clementoni, che coinvolge enti sanitari, università e associazioni con l’obiettivo di promuovere e tutelare il benessere dei bambini, e non solo, attraverso il gioco. In questa occasione, le due realtà hanno presentato il progetto in anteprima.

“Il Sapientino ha accompagnato generazioni di bambini nell’apprendimento e nella scoperta del mondo: oggi, grazie alla collaborazione con la Lega del Filo d’Oro, diventa ancora di più uno strumento di inclusione e di valorizzazione della diversità”, commenta Pierpaolo Clementoni, direttore Ricerca avanzata e Area Test Clementoni spa. “Alla Lega del Filo d’Oro, – ricorda Rossano Bartoli, presidente della Fondazione Lega del Filo d’oro – il gioco ha un valore fondamentale: è parte integrante del percorso educativo e riabilitativo delle persone con sordocecità e pluridisabilità psicosensoriale, perché favorisce la relazione, stimola le abilità e apre nuove possibilità di comunicazione”.




La riscoperta del cliente fedele, i nuovi costano cinque volte di più

La riscoperta del cliente fedele, i nuovi costano cinque volte di più

Lo hanno definito l’e-commerce dal tocco personale. Ma forse a pensarci bene è più una zampata. Così si presenta Chewy, rivenditore americano di cibo per animali domestici e altri prodotti dedicati alla galassia pet. Il colosso è nato dall’intuizione del noto investitore canadese Ryan Cohen con una missione assai ambiziosa: offrire ai propri clienti proprietari di animali domestici la migliore esperienza di acquisto possibile. A distanza di quindici anni la sfida è vinta sul campo digitale: quotato nel 2019 al Nasdaq, oggi registra un fatturato miliardario e conta undicimila dipendenti con più di 3.500 fornitori per 110.000 prodotti e servizi. La personalizzazione è la parola d’ordine. Nascono così video ad hoc generati dall’intelligenza artificiale per il post-acquisto, suggerimenti per la cura degli animali domestici, consigli sui prodotti e messaggi di ringraziamento. Intanto si guarda alla salute alimentare: la nuova campagna è incentrata sul cibo fresco per cani.

Persone e tecnologie

Esserci in tutto: è qui la chiave vincente nel tempo segnato della loyalty economy, almeno per i brand d’eccellenza. Perché trattenere un cliente soddisfatto significa garantirsi continuità di ricavi e riduzione dei costi di acquisizione. Lo ha scritto sull’Harvard Business Review nel lontano 2001 Frederick Reichheld, docente all’Harvard Business School. «Ogni azienda dovrebbe misurare non solo quanti nuovi clienti conquista, ma quanti riesce a trasformare in promotori attivi del brand».

Chatbot,intelligenza artificiale, ticket digitali. Ma anche voce autentica, risposte puntuali. La sfida è combinare le due dimensioni. Per l’Economist nel futuro il servizio al cliente diventerà il campo di battaglia più competitivo: non vincerà chi promette di più, ma chi saprà ascoltare e risolvere meglio. È il ritorno della relazione multicanale: Zappos, e-commerce americano di calzature, ha le linee aperte 24 ore su 24 con gli operatori autorizzati a restare ore al telefono pur di risolvere il problema. Apple Genius Bar è un palcoscenico esperienziale. Sephora ha sviluppato chatbot per i consigli beauty e li integra con consulenti reali. Airbnb, soprattutto nei momenti di crisi, ha dimostrato che l’assistenza umanizzata può preservare la fiducia di host e viaggiatori. Il futuro appartiene ai brand problem solver. Realtà capaci di ascoltare, interpretare, risolvere. E soprattutto raccontarsi con la voce del cliente soddisfatto.

La forza della fidelizzazione

Per molti è la riscoperta della fidelizzazione rispetto alla smania del prospect, quella strategia volta a conquistare nuovi clienti e quindi allargare fette di mercato. Perché di fatto opera su ciò che si può fare nell’immediato rispetto al potenziale da programmare nel futuro. Lo ha scritto anche Forbes in America: acquisire un nuovo cliente può costare 5 volte di più che mantenerne uno esistente.

Anche l’80% dei profitti futuri di un’azienda deriverà solo dal 20% dei clienti esistenti. Secondo la società tech americana Zendesk l’88% dei clienti ricorda più l’assistenza post-vendita che la pubblicità iniziale. Ma inspiegabilmente le aziende sono più attratte dai prospect e meno propense a lavorare sulla fidelizzazione dei clienti consolidati. Bisogna invertire questa tendenza. «Le aziende sono dominate dalla cultura della vendita, orientata al target di breve e alla spinta dei prodotti in catalogo. Per il venditore medio è più sexy conquistare un nuovo cliente che vedersi confermato un ordine da un cliente che viene dal passato. Al contrario, la cultura di marketing fondata sul cliente e sulla sua valorizzazione win-win di medio-lungo termine è rara per ragioni culturali e contingenti. Cambiare è possibile laddove si consideri che la cultura di vendita si cambia partendo dal portafoglio: cambiare i Kpi e il sistema di incentivi, considerando il valore del ciclo di vita del cliente, indurrebbe molti venditori a cambiare passo», afferma Alberto Mattiacci, professore ordinario in marketing & business management all’Università La Sapienza di Roma e senior fellow in Luiss Business School.

Relazione continua

Il post-vendita come occasione di incremento del fatturato e volano di crescita, passando dal reclamo al racconto con gli addetti delcustomer care che diventano storyteller interpreti del linguaggio di marca con strategie mirate, linguaggi efficaci, risposte coerenti. «Le strade per valorizzare un cliente acquisito nel momento in cui riacquisterà sono numerose e passano per diversi step tra cui upsellingoverselling e cross-selling. Tutto ciò spinge in alto i fatturati. Soprattutto oggi che la sovrabbondanza di offerta innalza la banalizzazione e la diffidenza, le aziende devono apprezzare anche il potere relazionale: dal classico word-of-mouthall’advocacy. Queste leve sono accelerazioni di fatturato e diretti attributi di brand equity», precisa Mattiacci.

La domanda da farsi è quali siano le strategie vincenti da mettere in campo per rafforzare la relazione. «La tecnologia è una chiave di volta e assieme al riorientamento culturale del management e della forza vendita può guidare. Allo stato attuale della martech – campo sempre più in espansione – la segmentazione evoluta basata su dati comportamentali, programmi di loyalty che premino l’engagementcomunicazioni personalizzate sono leve vincenti. Occorre passare da campagne push a dialoghi continui usando storytelling, contenuti valoriali e micro-esperienze», dice Mattiacci.

In un mondo digitalizzato e proiettato su dinamiche di intelligenza artificiale e chatbot va serializzata la relazione oltre il mero canale online. «L’espressione magica è customer care ibrido. L’Ia garantisce velocità, disponibilità 24/7 e riduzione dei costi. L’intervento umano preserva empatia, creatività e gestione dei casi complessi. La saggezza convenzionale non è sostituire, ma orchestrare. In aziende povere di cultura del cliente il rischio è di pensare che un software possa risolvere il problema. La progettazione dell’esperienza passa dal capitale umano e non da una procedura informatica», conclude Mattiacci. Ancora una volta la partita si vince prima sulla strategia e poi sulle infrastrutture.




Sostenibiltà come fattore di risk management: analisi del caporalato nella Moda

Sostenibiltà come fattore di risk management: analisi del caporalato nella Moda

Negli ultimi tempi si sono accesi i riflettori su importanti e famose Maisons, ma non per i loro abiti o sfilate, ma per le accuse di caporalato e sfruttamento del lavoro nel ciclo produttivo, a seguito di indagini svolte dal Tribunale di Milano. 

L’Autorità Giudiziaria ha sostanzialmente rilevato una “incapacità” a prevenire ed arginare fenomeni di caporalato e/o sfruttamento lavorativo lungo la loro catena di fornitura, nonchè ad assumere idonee misure atte a verificare le reali condizioni lavorative adottate dalle aziende fornitrici.

Le vicende di questi Marchi della moda, famosi nel mondo, nonchè i provvedimenti dell’Autorità Giudiziaria, mettono sotto la “lente di ingrandimento”:

  1. la centralità della supply chain per ogni azienda di qualsiasi settore merceologico e la necessità di “tracciare” la catena produttiva e di “monitorarla”, e non solo per le condizioni di lavoro e quindi
  2.  l’importanza della reputation nonchè
  3. la indiscutibile necessità di una due diligence effettiva e trasparente sulla gestione delle filiere, in linea con i principi ESG (n.d.r. ed il relativo set normativo) e le normative internazionali ed euro-unitarie in materia di Diritti Umani e Responsabilità d’Impresa.

Ecco perché:

(a) le aziende, gli investitori, ed anche i cittadini, continuano a sostenere con forza la Sostenibilità ed il suo set regolamentare e perchè

(b) la Sostenibilità, laddove effettivamente e sostanzialmente[1] integrata nelle aziende, è l’unica Risposta possibile, pure per tutelare la reputation aziendale, così riconoscendo la giusta valenza al c.d. rischio reputazionale.

1) Prospettiva degli interessati al set normativo, segnatamente le aziende

Alla luce di quanto sopra, appare opportuno rilevare, nonostante la Sostenibilità sia al centro di una importante discussione politica a livello europeo, la prospettiva di coloro che sono interessati al set normativo di riferimento, principalmente ci si riferisce alla CSRD ed alla CSDDD.

Un recente sondaggio commissionato dal Think Tank E3G a YouGov[2]mostra come la maggior parte delle aziende europee sostenga norme rigorose in materia di Sostenibilità, considerandole essenziali per la competitività e gli investimenti.

Le aziende “interpellate” palesano un forte sostegno a norme rigorose in materia di Sostenibilità aziendale e Due Diligence, anche attraverso le opinioni dei Leader aziendali, in netto contrasto con le molte proposte attualmente in fase di negoziazione nell’ambito del pacchetto Omnibus sulla scorta di un concetto ben preciso:

  • un’impresa “effettivamente”[3] Sostenibile è un’impresa competitiva, resiliente ed affidabile, nonchè fortemente orientata al risk managementper l’effetto è un’azienda in grado di mettere debitamente al centro la sua catena del valore, tracciandola e monitorandola, nella consapevolezza del “delicato” e strategico ruolo via via assunto dalle relazioni di approvvigionamento.

2) Sostenibilità (CSRD e CSDDD) contromisura per impedire caporalato e sfruttamento nelle filiere

Come ha affermato Porter già nel 1985 la c.d. value chain di ciascuna impresa è così estesa da andare oltre i confini stessi di essa azienda: «(..) Il valore viene creato non solo dalla singola impresa della filiera, ma da tutte le altre organizzazioni economiche collegate a monte e a valle con essa e tra loro (..)»[4]

Pertanto:

(a) la supply chain è centrale per un’azienda, ma quest’ultima deve essere consapevole che le catene di fornitura (in ogni settore) il più delle volte sono frammentate e coinvolgono nel processo di produzione molteplici entità operanti in maniera indipendente, sulle quali vengono scaricate le esternalità negative;

(b) la gestione Sostenibile della filiera, allora, diventa un must have, poiché significa, per l’azienda, porre in essere una gestione caratterizzata:

  • dalla integrazione degli attori di essa filiera, per consentire relazioni coordinate e di valore superiore, secondo la c.d. prospettiva end-to-end nonchè secondo la logica del Supply Chain Management, di cui meglio di seguito si dirà brevemente;
  •  dalla presa di coscienza che la gestione efficiente della filiera non può essere orientata solo all’aumento dei margini di profitto, ma deve considerare prioritaria l’applicazione sostanziale (e non formale) dei principi della Sostenibilità (fra questi anche la trasparenza) “in combinato disposto” con quelli del Supply Chain Management e del Risk Managment, così da prevenire e/o comunque “limitare” qualsiasi tipologia di rischio, ivi comprendendosi anche quello di avere all’interno della propria supply chain entità che attuano caporalato e/o sfruttamento del lavoro variamente declinato.

E’ questa l’unica Risposta possibile ai casi di caporalato e sfruttamento che in questi giorni sono al centro dell’attenzione mediatica perché riguardano Maison della moda rinomate, ma che si verificano anche in altri settori merceologici (per es. il Food ecc) coinvolgendo filiere di aziende meno note

Non vi è alternativa: è oramai un imperativo categorico per un’azienda orientarsi verso una Gestione Sostenibile della filiera

E milita per la tempestività di una tale scelta, per esempio, il terzo Rapporto[5] dell’Osservatorio Italiano Imprese e Diritti Umani (OIIDU) presentato a Milano il 10 giugno 2025, che analizza il comportamento delle grandi imprese di produzione nella filiera agro-alimentare e di quelle della distribuzione organizzata (GDO). Secondo le imprese intervistate ed il Rapporto citato:

(a) la CSRD e la CSDDD porteranno man mano una sempre più stringente richiesta di informazioni da parte delle imprese della GDO;

(b) la GDO dovrebbe “giocare” un “ruolo educativo”, privilegiando i prodotti più Sostenibili sugli scaffali;

(c) le aziende del settore dovrebbero prendere in considerazione le Linee Guida OCSE-FAO (sviluppate tra il 2013 ed il 2015 ed approvate nel 2016) per la “creazione”/”trasformazione” di catene di fornitura agricole Responsabili e Sostenibili, nelle quali è previsto uno schema di due diligence sul rischio composto da cinque (5) Fasi ovvero: 

  • (i) integrazione nelle politiche della RBC (n.d.r. Condotta di Business Responsabile), 
  • (ii) identificazione e valutazione dei rischi, 
  • (iii) mitigazione, 
  • (iv) monitoraggio 
  • e (v) comunicazione; le aree chiave sono i diritti umani, i diritti dei lavoratori, la salute e la sicurezza, la sicurezza alimentare, i diritti fondiari, il benessere animale, l’ambiente, la Governance e l’innovazione; gli studi e le statistiche sull’applicazione del menzionato schema di due diligence mostrano miglioramenti significativi in termini di riduzione delle emissioni (-15%), riduzione dello sfruttamento lavorativo (- 30%), miglioramento delle condizioni di lavoro (+ 20%), resilienza e trasparenza (+25%), collaborazione con le comunità (+ 40%) e crescita del fatturato (+10%);

(d) le aziende del settore dovrebbero sviluppare una mappatura completa delle filiere;

(e) la comunicazione ai consumatori deve essere credibile e focalizzata su aspetti materiali e verificabili;

(f) la GDO dovrebbe rafforzare il presidio interno sui temi della Sostenibilità, investendo nella formazione degli uffici acquisti, coinvolgendo le imprese agroalimentari in iniziative valorizzate verso i consumatori e promuovendo il c.d. co-branding di prodotti Sostenibili;

(g) la GDO dovrebbe adottare il principio del giusto prezzo per fornitori in filiere a rischio.

3) Supply Chain Management e Supply Chain Finance: brevi cenni – Il c.d. rischio reputazionale

Si è accennato al Supply Chain Management per favorire l’integrazione della Sostenibilità nelle filiere produttive e di seguito appare opportuno svolgere brevi argomentazioni al riguardo. 

Alla base del Supply Chain Management vi è la prospettiva di considerare decisioni, flussi ed impatti non solo a livello di singolo attore economico, ma anche di relazioni inter-organizzative con fornitori, clienti e partner di filiera.

Detta prospettiva è da considerarsi, anche alla luce di quanto si è detto fin qui, imprescindibile per ogni azienda per ben tre ordini di motivi:

  1. tenere in debita considerazione il c.d. rischio reputazionale;
  2. “combattere” il fenomeno dello scaricamento delle esternalità negative su altri e diversi attori lungo tutta la filiera produttiva;
  3. essere competitiva, tenuto conto che la competizione non riguarda più le singole organizzazioni, ma le filiere di appartenenza.

D’altra parte, i flussi, le decisioni e gli impatti non possono essere più considerati con riferimento ad una singola entità e/o soggetto economico, ma vanno “valutati” nell’ottica appunto della filiera, atteso che ogni singola azienda intrattiene molteplici relazioni inter-organizzative con fornitori, clienti, partner, clienti di clienti, partner di partner ecc. 

Ergo occorre andare al di là dei singoli “confini giuridico-organizzativi” ed avere la consapevolezza che ciascun attore della filiera altro non è che una tessera di un domino, per cui la “caduta” anche di una sola “tessera” può far cadere e/o spostare altre tessere o tutte le tessere.

Siamo di fronte ad un cambio “copernicano” di prospettiva che, senza ombra di dubbio, è applicabile/aiuta/è chiave di lettura strategica nel contesto della Sostenibilità, sia sul piano fattuale che sostanziale. 

Di più il Supply Chain Management, in abbinamento con la Sostenibilità, fa sì che ogni azienda possa comprendere, governare e gestire tutte le relazioni tra gli attori della filiera, dall’approvvigionamento delle materie prime fino alla distribuzione dei prodotti/servizi e viceversa, ovvero comprendendo anche i processi inversi cioè le attività di recupero dei prodotti ecc in una logica di “ciclicità”.

Va precisato che «(..) l’interesse più stringente per una sostenibilità in ottica di supply chain management non è sulle singole attività o sui singoli soggetti che garantiscono requisiti di sostenibilità in punti specifici della filiera, quanto piuttosto su una più completa sostenibilità che si declina in modo multidimensionale e integrato nell’ambito dell’intera supply chain (..)»[6]

Ergo, lungo la filiera occorre necessariamente “creare” (e “mantenere”) un “clima” di collaborazione sinergica e fattiva a tutti i livelli, ovvero a livello progettuale, come pure a quello gestionale ed operativo, coinvolgendo anche gli “elementi” della rete logistica, segnatamente i nodi o punti, gli archi o segmenti e soprattutto le interfacce o congiunzioni, poiché è in quei “punti di contatto” che avviene, normalmente, un passaggio di responsabilità.

Ma non basta, perché la prospettiva del Supply Chain Management ha compiuto “un passo in avanti” in quanto ha «(..) incorporato l’approfondimento specifico sulla gestione della liquidità lungo la filiera, attraverso lo sviluppo di soluzioni inter-organizzative per la gestione del capitale circolante, generato dall’attività operativa o dagli investimenti correnti, facendo leva sul ruolo che ciascun attore economico ricopre all’interno della supply chain in cui opera e sulle relazioni con gli attori della filiera (..) Tale approfondimento si riferisce agli studi di “Supply Chain Finance” – SCF (..) soprattutto nella prospettiva che prende in considerazione anche gli aspetti fisici del capitale circolante, ovvero le scorte (..)»[7].

E questo è accaduto perché si è sostanzialmente “materializzata” una forte sinergia fra la disciplina di Supply Chain Management e quella della Finanza, il cui output, se così volgiamo dire, è appunto la Supply Chain Finance, i cui studi propongono soluzioni inter-organizzative per la gestione del capitale circolante di filiera finalizzate ad una migliore gestione del rischio ed a una maggiore resilienza delle filiere e degli attori delle filiere, dapprima in termini economico-finanziari, ma successivamente financo considerando gli aspetti di Sostenibilità sociale ed ambientale

Ne sono prova gli studi[8] più recenti al riguardo che “parlano” di Sustainable Supply Chain Finance (n.d.r. acronimo SSCF) nel cui perimetro si ricerca l’equilibrio tra gli aspetti della c.d. Triple Botton Line, nota anche con l’acronimo TBL[9], poiché le tre dimensioni della Sostenibilità devono muoversi insieme.

In questo quadro, si rinviene la nuova “funzione approvvigionamento” (n.d.r. viene superata la “vecchia” “funzione acquisti”) propria di ogni tipologia di azienda, dalla grande alla piccola, che impatta in maniera rilevante nel processo direzionale, intriso dei Fattori ESG e consapevole della complessità e variabilità del contesto in cui opera ogni impresa nel tempo che stiamo vivendo.

Detta funzione approvvigionamento porta con sé, “mettendo in soffitta” il tradizionale “scambio transazionale”, il più evoluto “scambio relazionale”, formalizzato dagli studiosi dell’Industrial Marketing and Purchasing Group[10]che diviene fondamentale per il raggiungimento della Sostenibilità delle filiere.

Questa evoluzione comporta la definitiva archiviazione della figura del “gestore di forniture” e l’introduzione del “gestore di fornitori”, il quale dovrà altresì procedere alla selezione di detti soggetti non basandosi esclusivamente sul criterio del “risparmio dei costi”, poiché l’attenzione eccessiva al costo e/o al prezzo può innescare effetti negativi.

Il citato criterio resta sì importante, ma dovrebbe essere affiancato da altri aspetti, ovvero da un ventaglio di parametri di valutazione, altrettanto rilevanti, con impatti positivi apprezzabili nel medio-lungo periodo[11], anche in termini ESG con la finalità di “abbattere” financo i rischi di incorrere e/o rinvenire lungo la filiera fenomeni di caporalato e sfruttamento.

In questa maniera, a ben vedere, l’azienda può pure “lavorare” sulla “gestione” del c.d. rischio reputazionale, spesso poco considerato e/o meglio sottovalutato, dalla Governance, tenuto conto che fatti come quelli ricordati in Premessa, comportano un danno reputazionale, definito dal Prof. Luca Poma, nella sua intervista[12] , «incalcolabile», poiché tali vicende distruggono valore.

4) Conclusioni

In conclusione, per quanto si è fin illustrato, appare evidente che la Sostenibilità, con i suoi “strumenti”, è l’unica contromisura possibile ai fenomeni di caporalato e sfruttamento lungo la filiera produttiva, conseguentemente è auspicabile che sempre più aziende si orientino per favorire filiere Sostenibili al di là degli obblighi normativi, nella consapevolezza che la Sostenibilità della supply chain è una scelta strategica irreversibile, la quale, oltre tutto, favorisce una più attenta tutela della reputation aziendale.

5) Note

[1] n.d.r. Gli avverbi “effettivamente” e “sostanzialmente” vengono utilizzati per indicare che la Sostenibilità va integrata in maniera sostanziale, poiché i suoi “obbiettivi” e/o “principi” non possono essere “raggiunti” e/o “applicati” a mezzo di format e/o excel e/o qualsivoglia altra tipologia di documentazione compilata “formalmente” e “svogliatamente” con il solo fine di “rispondere a quesiti” e/o per “allegare qualcosa” al bilancio o ancora per fare marketing. La Sostenibilità è “qualcosa” di molto più “intimo” e “serio”, orientato a perseguire goals ad alto valore aggiunto per un “mondo migliore per tutti”, quali per esempio evitare che si verifichino casi di caporalato e/o di sfruttamento lavorativo.

[2] v. https://www.e3g.org/wp-content/uploads/E3G_-YouGov-Survey-Results.pdf

[3] n.d.r. L’avverbio “effettivamente” viene utilizzato per indicare che la Sostenibilità va integrata in maniera sostanziale, poiché non può essere “raggiunta” a mezzo di format e/o excel e/o qualsivoglia altra tipologia di documentazione compilata “formalmente” e “svogliatamente” con il sono obiettivo di “rispondere a quesiti” e/o per “allegare qualcosa” al bilancio o ancora per fare marketing. La Sostenibilità è “qualcosa” di molto più “intimo”, altresì orientato a perseguire “obiettivi” ad alto valore aggiunto, quali per esempio evitare che si verifichino casi di caporalato e/o di sfruttamento lavorativo.

[4] così Cozzolino A, Supply Chain Finance per una sostenibilità di filiera. Idee ed esperienze in ottica di supply chain management, San Giuliano Milanese (MI), 2024, p. 11

[5] v. https://avanzi.org/wp-content/uploads/2025/06/terzo-report-OIIDU.pdf

[6] così Cozzolino A., op cit., p. 13

[7] così Cozzolino A, op. cit., p. 14

[8] In tal senso ex plurimis  Jia F, Zhang T & Chen L, Sustainable Supply Chain Finance: Towards a research agenda. Journal of cleaner production, 2020, 243, 118680

[9] n.d.r. la c.d. Triple Botton Line è un framework, ideato e divulgato da John Elkington (pioniere del movimento per la Sostenibilità globale) nel 1994, che ruota attorno alle c.d. tre “P” ovvero Persone, Pianeta e Profitto: massimizzando tutte e tre le Botton Lines le organizzazioni hanno maggiori probabilità di avere un impatto positivo sul mondo, migliorando al contempo le prestazioni finanziarie.

[10] c.f.r. Hakansson H IMP Project Group, International Marketing and Purchasing of Industrial Goods: An Interaction Approach, John Wiley & Sons, 1982

[11] In tal senso Massaroni E, Cozzolino A, Modelli della produzione industriale, Padova, 2012

[12] v. Nasti R, Sfruttamento, dopo Armani tocca a Tod’s: “Il danno rischia di essere incalcolabile. E il prezzo lo pagheranno i piccoli investitori”, intervista al Prof. Luca Poma, www.affaritaliani.it, 8 ottobre 2025




L’Intelligenza artificiale sta cambiando anche il rapporto con la religione

L’Intelligenza artificiale sta cambiando anche il rapporto con la religione

Consigli spirituali 24 ore su 24, sermoni scritti da assistenti digitali, confessioni affidate a robot. È la nuova frontiera dell’intelligenza artificiale applicata alla fede, che sta cambiando le pratiche religiose tradizionali. Un fenomeno che riguarda non solo il cristianesimo, ma anche musulmani, ebrei, buddisti.

Dalla voce di Gesù alla messa protestante

Tra le app più popolari in ambito cristiano si annoverano Bible Chat, che vanta oltre 25 milioni di utenti ed è in grado di fornire versetti e suggerimenti tratti dalle Sacre Scritture, e Hallow, che ha introdotto un agente virtuale per guidare preghiere e meditazioni. A queste si aggiungono altre applicazioni come Jesus AI, AskJesus, Abide, Text with Jesus.

Oltre a fornire servizi personali, i sistemi evoluti sono entrati anche a fare parte delle liturgie. Nel giugno 2023, a Norimberga, in Germania, un rito protestante è stato concepito da ChatGPT e celebrato da avatar animati su uno schermo sopra l’altare. Per 40 minuti il dispositivo ha guidato oltre 300 fedeli in canti, omelie, benedizioni.

Di fronte a ciò, molti credenti restano cauti. Un sondaggio realizzato nel 2023 da Barna, un istituto di ricerca statunitense, evidenzia che, negli Stati Uniti, solo un cristiano praticante su cinque ritiene “positivo l’uso dell’intelligenza artificiale per la Chiesa”, mentre la maggioranza esprime disagio all’idea che la propria parrocchia adotti tecnologie di questo tipo.

L’imam robot che entra nelle moschee

Anche l’Islam sperimenta sempre più spesso algoritmi che forniscono supporto a singoli utenti: piattaforme come Shaykh AI WisQu promettono risposte a dubbi sulla dottrina e consigli su digiuno e vita quotidiana.

Parallelamente, in Arabia Saudita sono stati introdotti robot imam a sostegno delle pratiche religiose. Dal 2022 la Grande Moschea della Mecca li ospita per recitare versetti del Corano e intonare l’“adhan”, cioè il richiamo alla preghiera. Queste macchine sono munite di schermi e di codici Qr, che i fruitori possono scansionare per scaricare sullo smartphone il sermone. Dispongono, inoltre, di appositi pulsanti per ottenere informazioni sui muezzin e sul calendario delle funzioni.

Ciò solleva, da parte di alcuni leader musulmani, questioni di affidabilità dottrinale: si teme che, senza un’attenta supervisione, i modelli generativi possano commettere errori teologici o fornire interpretazioni fuorvianti. Altre autorità evidenziano, però, che potrebbero aiutare a diffondere la conoscenza religiosa, anche in lingue diverse, raggiungendo la diaspora globale.

Lezioni e insegnamenti per gli ebrei di tutto il mondo

Nell’ebraismo un importante passo lo ha compiuto il team di Aish, organizzazione educativa ortodossa, che nel 2025 ha creato Rabbi AI, piattaforma di intelligenza artificiale che offre orientamento personalizzato agli ebrei di tutto il mondo. Per realizzarla, gli esperti hanno anzitutto addestrato un modello linguistico attraverso articoli, lezioni, libri. Lo hanno poi sottoposto per mesi a test interni con rabbini e studenti, in modo da verificare che le risposte fornite fossero pedagogicamente corrette. Infine, lo hanno rilasciato. Tale tecnologia, in grado di comprendere domande in quasi tutte le lingue e di rispondere in inglese o in spagnolo, può fornire spiegazioni sul significato di una festività, suggerimenti etici, indicazioni su un’orazione, attingendo a migliaia di fonti e citando brani pertinenti della Torah o del Talmud. Inoltre, quando rileva quesiti personali o complessi, coinvolge, con il permesso dell’utente, un rabbino in carne e ossa che possa prendere in carico la conversazione.

A fianco a Rabbi AI, ci sono altre alternative, come per esempio Rebbe.io, un chatbot che promette risposte istantanee basate sulla tradizione. “Questi strumenti possono rappresentare un punto di ingresso fondamentale per chi cerca la fede, ma non ha mai messo piede in una sinagoga”, ha commentato il rabbino Jonathan Romain.

Nel buddismo un robot celebra i funerali

In Asia orientale si assiste a esperimenti di robotica applicata al culto buddista. Il caso più celebre è Mindar, un sacerdote robot installato nel tempio Zen Kodaiji di Kyoto, in Giappone. Alto circa due metri e costruito in metallo e silicone, è stato ideato dai ricercatori dell’Università di Osaka, con un investimento di quasi un milione di dollari. Il dispositivo, che raffigura Kannon, la dea della misericordia, predica – muovendo busto, braccia, mani – sermoni in linguaggio semplice, che vengono tradotti in simultanea in inglese e cinese su uno schermo a parete a beneficio dei visitatori stranieri. Al momento, il robot non è dotato di capacità di conversazione né di apprendimento automatico: recita perciò testi programmati, senza interagire. Tuttavia, i suoi creatori immaginano che a breve potrà avere maggiore autonomia.

“L’idea è suscitare curiosità nei laici e nelle giovani generazioni”, ha spiegato Tensho Goto, il monaco responsabile del Kodaiji.

Del resto, già da alcuni anni è presente nel Paese del Sol Levante un robot di nome Pepper, realizzato dall’azienda nipponica Nissei Eco e impiegato in cerimonie funebri buddiste: opportunamente programmato, recita i sutra e batte il tamburo rituale al posto di un monaco, offrendo un servizio a costi contenuti rispetto a quelli delle esequie tradizionali.

Un elefante robotico in un tempio indù

Anche in India l’innovazione tecnologica si sta introducendo nel sacro, specialmente nei riti induisti. Nel 2017 una società hi-tech indiana ha presentato un braccio meccanico in grado di effettuare l’“aarti”, rituale in cui si offre una lampada a olio alla divinità come simbolo di devozione. Da allora, questo prototipo ha ispirato varie repliche.

In un tempio è stato persino introdotto un elefante robotico per le processioni, in sostituzione o in affiancamento dei pachidermi reali.

Opportunità, limiti e scenari futuri

L’irruzione dell’intelligenza artificiale nei contesti religiosi crea opportunità, ma anche sfide. Sul fronte dei vantaggiquasi tutte le fedi menzionano l’accessibilità: chatbot e robot possono assicurare una presenza spirituale costante senza vincoli di orario o luogo. Poi l’atteggiamento non giudicante e la possibilità di raggiungere migliaia di persone in luoghi remoti o piccole comunità. Infine, l’aiuto che offrono ai ministri del culto, permettendo loro di ottimizzare il proprio tempo.

Ovviamente non mancano i limiti. Il più evidente è che le macchine non possiedono coscienza, né empatia né tantomeno fede. Uno studio pubblicato nel 2023 sul Journal of Experimental Psychology: General ha messo in luce, tramite tre esperimenti, che i partecipanti hanno valutato meno credibili le omelie pronunciate dai predicatori artificiali rispetto a quelle umane, il che faceva diminuire l’intenzione di impegnarsi nella comunità. Un’altra preoccupazione è il rischio di deriva dottrinale o etica, dato che le tecnologie generative tendono a compiacere l’utente fornendo le risposte più gradite secondo i dati statistici. Un’ulteriore criticità è l’assenza di relazione personale.

Guardando al futuro, tutto lascia intendere che, anche in questo ambito, l’intelligenza artificiale si consoliderà e si evolverà. L’importante è esercitare una vigilanza, magari delineando linee guida condivise per l’uso pastorale. Molti esperti sono fiduciosi: se i modelli verranno usati come strumenti al servizio della fede, potranno aprire nuovi orizzonti, senza snaturare millenni di tradizione religiosa.