1

Io, niente

Io, niente

La copertina del numero del 10 febbraio, piovuto in casa come allegato al Corrierone nazionale – rara copia cartacea comprata per fare rassegna stampa di un’uscita a tutta pagina di un mio assistito – parrebbe invitante: la Margherita Buy che confessa, da stressata, che girare il primo film da regista l’ha resa felice (speriamo duri, l’ho avuta a casa mia per una cena nell’ambito di una manifestazione cinematografica a Torino, e – a proposito di stress, proprio e indotto anche agli altri – non è stato un bellissimo spettacolo); poi sempre più donne nel mondo STEM, bella notizia; un focus sul turismo sulle Dolomiti bellunesi; e, infine, la promessa di “Riscoprire l’incanto: poeti, filosofi ed artisti che insegnano a ritrovare la magia del mondo”. Ambizioso, quest’ultimo servizio, ma intrigante: che il giornalismo italiano seppure a tentoni sia ritrovando la strada della qualità?

Allora sfoglio, da maschio incuriosito, il settimanale femminile diretto da Danda Santini, fino all’articolo sulla “magia del mondo”: sottotitolo, “Leggere poesie, abbracciare gli alberi, ammirare un quadro. In un momento in cui pare vincere il cinismo, un libro di filosofia ci invita a cambiare il modo di vedere il mondo, lasciando spazio alla magia”. Wow! vien da dire.

L’articolo di fatto recensisce “un libro di Marco Mattei, che è un piccolo prodigio di filosofia applicato alla vita di tutti i giorni”. Già dal debutto mi vien da dire che se anche non l’hai studiata, filosofia, non importa: basta disporre di qualche frase fatta da citare alle cene cool nell’appartamento chic dell’amica in San Babila e il prezzo del giornale e più che giustificato.

In ordine sparso, ma citando verbatim: prima di tutto Wax Weber, che ha coniato il termine “disincantesimo”; poi, perché no, Heidegger, che fa sempre fine (“un altro filosofo tedesco”, dice la giornalista, sic!); dopo, andiamo indietro più o meno di 2.400 anni, e vai con Platone, che l’aveva previsto che “l’invenzione della scrittura, soppiantando l’oralità” (qualunque cosa questa parola voglia dire) “ci avrebbe reso più stupidi”. Capito? La Jacaranda, la figlia vegana della Titti – tanto bella che è, peccato per quei maglioni così oversize di cashmere – non è scema, è solo che usa troppo il cellulare: l’aveva detto anche Platone che andava a finire così!

Poi citazioni a pioggia dal libro recensito: “Per sfuggire all’esperienza psichedelica collettiva a cui ci stanno sottoponendo i giganti dello streaming, bisogna spegnere tutto”. Meno male che ce lo dice l’autore, che sennò 30 anni di lavori di filosofi, psicologi e semiotici, nel cestino finivano. Ma, soprattutto, subito dopo: “È solo così che è possibile riascoltare il canto delle sirene e ritrovare il mistero, il senso del fantastico e la spiritualità”. Ma certo, la spiritualità, che vogliamo dimenticarcela? Eccotela.

Poi, per cenni, che sennò vi annoiate: il cinismo dell’eterno presente; gli algoritmi che governano tutto e ci tengono incatenati agli smartphone; poi, una citazione di Emanuele Coccia, che non è coautore di quel libro, ma ci sta perché è un filosofo-star (vi prego, no!) e ha scritto un altro libro a quattro mani con Alessandro Michele, ex direttore creativo di Gucci (ma è un film o cosa?); quindi breve recensione di un libro di Coccia (ma l’articolo non era una recensione del libro di Mattei?), che è un “libro di filosofia applicato al vestirsi”; dopo, una breve divagazione sul fatto che Michele ha fatto triplicare le vendite di Gucci (quindi? Che c’entra con la filosofia?); “pensieri in purezza, insomma”, declama la giornalista. Sarà, diamo per buoni i pensieri in purezza.

Poi leggiamo ancora: “letture in grado di cambiare la relazione che intrecciamo con il mondo, ridefinendo idee come identità, design, ambiguità, per ragionare anche sulla mutevolezza e la stabilità (nota: ti pare che non mutino restando però anche stabili…) della nostra identità e sulla fragilità (siamo tutti così fragili, ndr) degli stereotipi di genere”, che comunque ci stanno sempre, fanno tanto “sensibilità sociale”; segue una raccomandazione a “guardare alla propria quotidianità riscoprendone l’incanto”, rallentare per riscoprire la bellezza, camminare, “provare a sentire la terra sotto i piedi, lasciarsi avvolgere e toccare la luce di un bosco, di un mare, del vento”, che queste cose alla Jacaranda piacciono un sacco. Piccoli rituali – ci ricorda la giornalista – che “piacciono alla generazione Z” (citarla fa sempre molto moderno!) la quale (avviso ai miei studenti: non ridete) “accende incensi durante una passeggiata e beve tazze di the al tramonto”.

L’importante – neanche a dirlo, conclude così l’ultima mezza cartella dell’articolo – “è metterci un po’ di poesia”. Vero, che senza poesia dove vai. Quindi perché negarci un accenno di recensione di un ennesimo libro, in questo caso di Franco Arminio, il poeta “più seguito in rete” (ri-wow) che si professa “reincantatore” (hai capito tutto, poeta, chissà quanti soldi farai nei salotti buoni di Milano, con la Titti e le sue amiche): scrive poesie semplici, “facili”, ma vende un sacco, e soprattutto – redarguisce la giornalista – non fatelo passare per buonista!

Raccomandazione conclusiva del giornale: “Il segreto sta nel trovare punti di ingresso per rompere i filtri che organizzano la nostra esperienza e accedere a un mondo di significati tutti nuovi, come quelli che Weber (come non citarlo, ndr) e i suoi giovani colleghi (giovani colleghi? Lavorano assieme in ufficio?) hanno riscoperto: abbracciare l’ignoto e i suoi misteri vivendo momenti di stupore, riconoscendo che non tutto ha bisogno di essere spiegato, perché questo è l’invito al reincanto: è pura magia, senza la tecnica però”. Che se poi ci metti la tecnica, con la filosofia viene fuori un aborto, neh!

E io che mi eccitavo per Seneca, Sant’Agostino, Sartre, e mi emozionavo magari per Noam Chomsky, Emanuele Severino o Alberto Pirni: che imbecille.

Dimenticavo: qualche pagina dopo le dotte recensioni sopra richiamate, parte la pubblicità. Decide e decine di pagine con innumerevoli oggetti di ogni tipo (ne ho contati più di duecento, tra vestiti, cosmetici, accessori, elettronica, etc.), tutti – ovviamente – scrupolosamente prezzati, in una clamorosa cacofonia consumistica, ben sostenuta dall’esca dell’articolo “colto” (non me ne vogliano i filosofi quelli veri). Ecco, e vado a concludere, l’essenza di Milano: qualche frase utile per far bella figura in occasione degli incontri mondani, e poi tanto, tantissimo, marketing. 

Un giornale per milanesi che si prendono sul serio, frequentatori abituali di musei quando ci sono i “DJ Set con ape” (per i non milanesi: trattasi di eventi musicali molto cool, spesso dentro musei o altri luoghi sempre molto cool, accompagnati da catering di dubbia qualità, ma molto cool anch’essi; spesso rappresentano l’unico strattagemma per poter trascinare un milanese in un museo…). Una città che ha nel proprio Sindaco la risposta alle buche nelle strade con le piste di atterraggio per gli elicotteri (memorabile l’imperdibile imitazione che Crozza fa di Sala, cercatela online).

Certo, ce la meneranno ancora con il tema dell’invidia: noi provinciali che non capiamo quanto sia internazionale Milano (a par loro, l’unica vera metropoli d’Italia: in realtà una New York che non ce l’ha fatta). Milano è l’unica che. Che cosa? Ma tutto, ovvio, cosa chiedi! Ma la verità è un’altra: sappiamo bene, e ne abbiamo scritto molto su questa rivista online, quanto sia prezioso, imprescindibile, per costruire valore, l’elemento dell’autenticità, e quanto per contro distrugga potenzialmente valore, come dimostra la debacle dell’impero Ferragni, tanto osannata negli anni da questo genere di milanesi, l’inautenticità, il maquillage, l’effimero, la superficialità. Ma – evidentemente – ancora non l’hanno capito.

Non me ne vogliano gli amici milanesi quelli veri (ne restano pochi, purtroppo), sicuramente avranno compreso lo sfogo, che non è contro la loro bella e intrigante città, ma contro quel “tipo umano” (invero, purtroppo, frequente) di milanese intrinsecamente fatuo ma molto convinto di sé, totalmente impermeabile alla critica, e nella migliore delle ipotesi molto “fraintendimento” (sono sempre gli altri che non ci arrivano, che non comprendono!).

Ecco, questo giornale, il genere di articolo che vi ho illustrato, è davvero confezionato con cura per loro.

E niente, alla fine, il lettore perfetto è lui/lei: io. Io, io, io.

Il milanese incompreso. L’unico, credetemi, che ha capito davvero tutto.




La prima risorsa è il paesaggio: idee per il futuro

La prima risorsa è il paesaggio: idee per il futuro

Dal Poetto, scenario incantevole, lo sguardo si erde in un orizzonte inondato di sole. Un anticipo d’estate. Dallo storico stabilimento balneare “Il Lido”; a Cagliari, in cui si svolge la nuova sessione della scuola di formazione politica dei Riformatori, il profilo familiare della Sella del Diavolo sembra vicinissimo. Idee e progetti per la Sardegna del futuro. Un futuro che incombe e che richiede scelte coraggiose. “La Scuola”, spiega il responsabile Umberto Ticca, appena eletto in Consiglio Regionale, “è il luogo in cui creare dialogo e confronto. Un contributo per avere cittadini più consapevoli e amministratori pubblici più preparati per affrontare le nuove sfide”. Tre “docenti” hanno offerto numerosi spunti di dibattito sul ruolo della classe politica e sullo sviluppo dell’Isola.

Gli interventi

Il primo a salire in “cattedra” è stato Luca Poma, giornalista e consigliere politico, docente all’Università LUMSA di Roma, consigliere del senatore Giulio Terzi di Sant’Agata, che ha seguito nel periodo in cui è stato Ministro degli Esteri (dal 2011 al 2013). “Per costruire una buona reputazione politica” ha evidenziato “è necessario partire dalla qualità del servizio e della proposta. Non dobbiamo cedere alle sirene del marketing e della comunicazione facile che non comunica nulla se viene meno la qualità della proposta. I cittadini chiedono autenticità , trasparenza, coerenza”. Sarebbe necessario anche un atto di umiltà. “Possibile” aggiunge Poma “che i politici siano cronicamente incapaci di chiedere scusa? Saper chiedere scusa è un pregio. È un segno di solidità, non certo una forma di debolezza. In Italia i politici non chiedono mai scusa, pur cambiando posizione su singoli dossier con un trasformismo incredibile. E poi la capacità di ascolto: possibile che si facciano vivi solo in campagna elettorale? Una buona reputazione è legata all’identità, a quello che siamo e che facciamo e va costruita sul lungo periodo per non vanificare la proposta politica”.

Modello Barcellona

L’architetto Fabrizio Leoni, che tra studio professionale e università fa la spola tra Barcellona e Milano, ha presentato proprio il modello Barcellona, che “in 30-40 anni, un tempo brevissimo per l’urbanistica, si è inventata un modelli di sviluppo basato su una nuova immagine e su una solida organizzazione. Oggi propone ai residenti e ai turisti un nuvo stile di vita e un approccio radicalmente diverso rispetto alla fase precedente”. Modello replicabile in una città come Cagliari? “Perchè no, pur con gli opportuni adattamenti”.

Buongiorno SarDegna

Nell’ambito della scuola di formazione politica dei Riformatori anche l’incontro con Sergio Zancheddu, editore del gruppo L’Unione Sarda, che ha presentato, in dialogo con Michele Cossa, Il suo “Buongiorno SarDegna”. L’Imprenditore, osservando l’orizzonte del Golfo degli Angeli, ha ribadito che “i sardi non possono consentire che scenari come questo vengano rovinati irrimediabilmente. Il paesaggio è la nostra principale ricchezza e non possiamo perderla per la presenza di impianti eolici che rappresentano un danno gravissimo per il nostro ambiente”:

C’è una strada da seguire e porta a Borutta. Un caso esemplare: “Nei tetti degli edifici pubblici e delle case dei privati sono installati pannelli fotovoltaici per raggiungere l’autosufficienza energetica. Va benissimo generare energia da fonti rinnovabili ma nell’interesse esclusivo dei sardi senza lasciare spazio a speculatori”. E la tutela dell’ambiente è l’aspetto imprescindibile per sostenere lo sviluppo dell’Isola grazie al turismo. “Bisogna puntare” ha evidenziato Zancheddu, “su un target alto del turismo nazionale e mondiale. La scelta strategica deve essere quella di intercettare i flussi turistici in grado di spendere in cambio di servizi di qualità”. Un monito giunge anche dal contesto. Le potenzialità, ancora inespresse, si stagliano nell’orizzonte nitido del Golfo degli Angeli.




“Caporalato Armani? Impossibile non sapere. Reputazione ko. Investitori…”

"Caporalato Armani? Impossibile non sapere. Reputazione ko. Investitori..."

Costi abbattuti e sfruttamento degli operai, è bufera su Armani. Parla l’esperto Luca Poma: “Ci saranno impatti finanziari e reputazionali”

“Cose del genere impattano l’intero ecosistema del gruppo. Dire: ‘non ne ero al corrente’ è una via d’uscita di comodo e troppo debole. Non possiamo permetterci di chiudere un occhio su ciò che fanno i nostri fornitori.” Così Luca Poma, professore di Reputation management all’Università LUMSA di Roma e all’Università della Repubblica di San Marino, oltre che specialista in digital strategy e crisis communication, commenta con Affaritaliani la bufera giudiziaria che si è abbattuta nelle ultime ore sulla Giorgio Armani Operations spa.

Mentre gli abiti e gli accessori del marchio Armani incantano le passerelle di tutto il mondo, dietro le quinte si nasconde uno scenario di sfruttamento e abusi. Il Tribunale di Milano ha recentemente ordinato l’amministrazione giudiziaria per la Giorgio Armani Operations spa, società incaricata della progettazione e produzione per il colosso della moda. La ragione di tale provvedimento? Gli sfruttamenti e le condizioni disumane in cui sono costretti a lavorare i dipendenti cinesi, impiegati in fabbriche dormitorio senza che Armani abbia preso le misure necessarie per prevenirlo. Secondo quanto dichiarato dalla Sezione Misure di Prevenzione del Tribunale di Milano, la Giorgio Armani Operations spa non avrebbe adottato contromisure adeguate per verificare le reali condizioni di lavoro degli operai né le capacità tecniche delle aziende appaltatrici. Di conseguenza, si sarebbe resa complice, anche se in modo colposo, di imprenditori che praticano lo sfruttamento attraverso il caporalato.

Secondo il professor Poma, quello che genera più sconcerto è che “un colosso come Giorgio Armani non abbia fatto previsione di rischio: quello che sta accadendo evidenzia il fatto che non è stato fatto un assessment sui rischi reputazionali che vanno previsti e mitigati.” Uno scivolone che la maison del lusso italiana non si sarebbe dovuta o potuta permettere vista la sua reputazione. L’accusa mossa dal Tribunale, seppur solo preventiva e non penale, andrà comunque a minare la sua credibilità.

Gli impatti ci saranno soprattutto dal punto di vista reputazionale“, dichiara Poma. “Reputazione è uguale a denaro- aggiunge- la migliore o peggiore reputazione di un marchio orienta i comportamenti d’acquisto. È ovvio che indirettamente ci saranno anche degli impatti finanziari.” È davvero sorprendente, persino per i più esperti del settore, che un’azienda di tale prestigio non abbia preso precauzioni, come una mappatura dei rischi, o agito preventivamente per correggere le non conformità. Poma suggerisce che Armani avrebbe potuto optare per un cambiamento di fornitore o avviare il proprio fornitore verso standard più in linea con le politiche del gruppo. Questo avrebbe non solo preservato la reputazione del marchio, ma avrebbe anche promosso un’azione virtuosa per migliorare l’ecosistema in cui opera il gruppo Armani.

Insomma la pratica incriminata è quanto mai cinica: Armani, attraverso la sua società Giorgio Armani Operations spa, esternalizza la produzione di parte della sua collezione a fornitori terzi, che a loro volta affidano il lavoro a opifici cinesi. Il risultato? Costi abbattuti, ma a carico di lavoratori sottopagati e costretti a vivere in condizioni disumane. Tutto ciò avviene sotto gli occhi di un colosso della moda che sembra aver voltato le spalle alla responsabilità sociale. Ma quali sono state esattamente le falle nell’ecosistema Armani? Poma evidenzia tre problemi chiave: “rating ESG (acronimo per “Environmental”, “Social” and “Governance”) rilasciato senza adeguata verifica, assenza totale o parziale di mappatura dei rischi e di interventi di mitigazione preventivi, e l’impatto sulla reputazione e a cascata sui comportamenti d’acquisto dei clienti e sul valore stesso del gruppo Armani”. 

In altre parole il regno di re Giorgio non si è ben guardato dai rischi che un comportamento del genere avrebbe comportato, prevenendo fenomeni di sfruttamento lavorativo nell’ambito del ciclo produttivo. D’altronde tutte le accuse sono state sviate dalla casa di moda con un’alzata di spallucce, a mò di “non ne sapevo nulla”.

Questo, secondo il professor Poma alimenta anche interrogativi sulla sostenibilità dell’azienda stessa. Oramai la sostenibilità della moda interessa molto in teoria e poco nella pratica. In pochi si chiedono se i capi che comprano sono prodotti nel rispetto delle persone e dell’ambiente stesso. “È diventato così di moda il termine sostenibilità ma c’è da chiedersi: ‘Interessano di più i certificati appesi com diploma sulla nostra scrivania virtuale o ci interessa incidere sui processi e sull’ecosistema in cui lavoriamo? Se ci interessa prenderci cura di quello che ci circonda allora il comportamento deve essere diverso da quello tenuto dalla Giorgio Armani Spa’”. 

D’altro canto la vicenda si intreccia inevitabilmente con riflessioni sul futuro dell’azienda e sul suo fondatore, Giorgio Armani. Nonostante i suoi 89 anni, Armani si dimostra ancora un visionario, ma resta il dubbio su chi potrà davvero mantenere vivo il suo spirito imprenditoriale e la sua etica aziendale. Il designer, che non ha eredi diretti, ha già pianificato il “dopo Giorgio” con la creazione della Fondazione Giorgio Armani, istituita con l’obiettivo di realizzare progetti di utilità pubblica e sociale, garantendo nel tempo la coerenza e il rispetto dei principi fondamentali che hanno guidato la sua lunga carriera nel mondo della moda.

Ora la Giorgio Armani Operations spa, sebbene non sia oggetto di un’indagine penale, è stata messa sul banco degli imputati. Ma cosa significa tutto ciò per il futuro di Armani? È qui che le cose si fanno davvero interessanti. Mentre l’azienda guardava al futuro con una possibile quotazione in Borsa da quasi 5 miliardi di euro, ora si trova ad affrontare una crisi di fiducia senza precedenti. Il rischio di perdere credibilità è come una spada di Damocle che pende sulla sua testa. In particolare, dopo la rivelazione dello scorso anno di un documento top secret che delineava il futuro di Armani dopo Giorgio, si era discusso animatamente della sua possibile quotazione in Borsa, con una valutazione stimata tra i 5 e i 7 miliardi di euro.

È impossibile non considerare le potenziali conseguenze di questo commissariamento sull’economia e sulla reputazione del marchio. “Non c’è dubbio che un’eccellenza italiana come la Giorgio Armani disponga, nonostante ciò che è accaduto, degli strumenti per intervenire rapidamente e risolvere il problema. La quotazione in Borsa è salva“, riflette il professore Poma, evidenziando, però un altro scenario. “Il tema è un altro: quante altre non conformità ci sono? Se vale la regola del ‘non sapevo’ quante altre irregolarità ci saranno ancora?”

Tuttavia, ora, in un’atmosfera carica di incertezza, l’accusa mossa dal Tribunale potrebbe generare due possibili scenari: da un lato, l’accelerazione della vendita del Gruppo come misura di precauzione estrema, dall’altro, potrebbe agire come un deterrente, allontanando potenziali investitori e mettendo a repentaglio la stabilità futura dell’azienda. Poma consiglia “a chiunque andasse ad acquistare azioni della Giorgio Armani Spa di non accontentarsi di dichiarazioni di principio o di rating ESG positive, ma di verificare effettivamente cosa si sta comprando.”

Insomma, l’esperto riconosce che sebbene il futuro economico di Armani sembri al sicuro, episodi come questi mettono in luce delle vulnerabilità che non possono essere ignorate, specialmente “perchè chi compra che deve farsi onere di correggere eventuali non conformità qualora ci sia un passaggio di mano oppure un acquisto da parte di investitori istituzionali.” E conclude consigliando: “se ci fosse una quotazione che prevedesse il passaggio di controllo a un fondo d’investimento, io, se fossi il fondo, condurrei un’attenta analisi dei rischi reputazionali prima di procedere all’acquisto di Armani“. 

In altre parole, Armani non sta per andare in bancarotta, ma la sua reputazione inizia a vacillare. Se un tempo veniva valutato in Borsa a cifre da capogiro, ora potrebbe esserci un’inversione di marcia. Gli investitori faranno di certo un bel passo indietro prima di tuffarsi in un terreno che ha già iniziato a franare. E chissà quanti altri scheletri si nascondono nell’armadio di re Giorgio.




Pinkwashing: eh no, Economy, fateli quei nomi!

Pinkwashing: eh no, Economy, fateli quei nomi!

Con colpevole ritardo, ho sfogliato un numero del bel mensile Economy, diretto da Sergio Luciano. Copertina assai attraente per chi come me si occupa di reputation management: “Pink washing. Dietro il fervore della parità, l’insidia del bluff: come scoprirla e evitarla”.

La cover story è tanto ben documentata quanto inquietante. Ecco qualche dato in ordine sparso: in Italia (fonti ISTAT, JobPricing e Deloitte) solo il 15,5% dei CEO è donna; solo il 22,2% è Presidente di CdA; la percentuale di donne nei Board per il 50% circa delle aziende oscilla tra “nessuna” a un quinto, per non parlare delle drammatiche percentuali (basse) di donne dirigenti, spessissimo con ruoli ad effetto (come ad esempio “responsabile per la sostenibilità” o “responsabile per la parità di genere”, incarichi che fanno tanto fine, salvo poi non dotarle di budget nel 46% dei casi).

Perché – ci chiediamo – a esatta parità di incarico con un uomo le donne in Italia sono pagate dal 10 al 15% in meno? Come si giustifica questo dato da parte di aziende “così attente alla sostenibilità”?

È surreale notare come l’8 marzo, Giornata internazionale per i diritti delle donne, tutte le bacheche digitali del mondo si tingano di rosa o di giallo (il colore della mimosa), salvo poi contraddirsi per i restanti 364 giorni dell’anno: prova ne sia che la grande maggioranza delle certificazioni di sostenibilità GRI sono solo “with reference”, e non “in accordance”, ovvero basati su “cherry-picking” di indicatori graditi alle imprese e non già interamente aderenti alle stringenti indicazioni del Global Reporting Initiative, che è il riferimento più diffuso presso le organizzazioni di tutto il mondo per misurare e comunicare, con il massimo livello di trasparenza, le performance in termini di sostenibilità. E anche sull’autenticità dei famosi rating ESG è bene stendere un velo pietoso, come dimostrano numerose ricerche, una delle quali condotta proprio dal mio team nel 2023, grazie a un finanziamento del Parlamento Europeo, e presentata al Senato della Repubblica l’ottobre scorso.

Inutile ripetere per l’ennesima volta nozioni date totalmente per acquisite nel reputation management, secondo i cui fondamentali sia impossibile costruire valore per gli azionisti sul medio-lungo termine se non mettendosi in pace la coscienza circa la necessità di privilegiare un approccio autentico al business, evitando maquillage, marketing autoreferenziale e lifting pubblicitari (ne abbiamo parlato proprio recentemente in un ricco ed appassionante evento alla IULM).

Un ultimo quesito rimane però irrisolto, a proposito di green, pink e social washing. L’articolo di Economy inizia così (riporto verbatim): “Qual è quella casa di moda, la prima ad aver ottenuto la certificazione per la parità di genere, che dopo aver stabilito nel 2015 come obiettivo l’eliminazione del gender gap, nel proprio report d’impatto scrive che negli ultimi 8 anni ha ‘iniziato ad analizzare la situazione in più di 45 Paesi’? E chi è quel gestore di concessioni autostradali premiato per le sue politiche nella parità di genere con l’inserimento nel Gender Equality Index di Bloomberg, che dopo il delisting dalla borsa ha nominato un CdA di soli uomini? E qual è quella banca che dopo aver sottoscritto il Ceo Champion Commitment Zero Gender Gap, poco prima di deliberare un aumento del compenso del 30% al proprio AD, uomo, ha accolto le dimissioni immediate dal CdA del presidente del comitato remunerazioni, donna, sostituendola peraltro con un uomo?”

“Si dice il peccato ma non il peccatore”, sostiene Economy. E no, cara rivista! Se vuoi parlare di “sciacquate di rosa” con competenza, devi dire sia peccato che peccatore, diversamente stai trattando il tema per vendere copie ma senza assumerti quelle responsabilità che dovrebbero essere ben proprie di un sano giornalismo. E stai, forse, facendo un po’ washing anche tu.

Autocitarsi è sempre antipatico, ma ti diamo una mano senza bisogno di andare troppo lontano: qui trovi un’analisi sulla discriminazione di genere nel mondo delle agenzie pubblicitarie; qui sulla scarsa autenticità nel mondo degli Influencer; qui su non conformità (gravi, per come denunciate) sul semi-monopolista della ristorazione autostradale; qui sullo scandalo Dieselgate; qui sui falsi fondi ESG della più nota banca tedesca; qui su una primaria multinazionale del pharma che ha alterato i dati scientifici pur di immettere sul mercato uno psicofarmaco in grado di indurre al suicidio bambini e adolescenti; e potremmo continuare a lungo. Tutti articoli firmati, e con brand in evidenza e – laddove disponibili – nomi e cognomi dei manager coinvolti.

Perché si fa presto a denunciare la scarsa autenticità: salvo rischiare di esserne vittime noi stessi.




BIG-TECH E LA REPUTAZIONE “SHORT TERM”: È COSI CHE SI COSTRUISCE VALORE?

BIG-TECH E LA REPUTAZIONE “SHORT TERM”: È COSI CHE SI COSTRUISCE VALORE?

Certo, noi siamo i rompiscatole. Quelli che parlano a vuoto, i predittori di sventure. Coloro che hanno come saldo riferimento il medio-lungo termine e criticano il marketing fine a sé stesso, e l’effimero approccio della comunicazione e della pubblicità centrate solo sull’immagine fatua, e non sull’identità. Quelli che restano convinti che per preservare valore le crisi vadano previste, che ci si debba attrezzare prima. Insomma, coloro che – pur guardando più che mai al futuro, ma tenendosi ben ancorati al primo pilastro della costruzione di buona reputazione, che è la qualità del prodotto – paiono un po’ demodè, d’antan, pedanti e poco trendy e non in sintonia con i ritmi frenetici dell’high-tech.

Si, lo ammetto, siamo così. Restiamo convinti che per costruire aziende che durino nel tempo serva un’idea intelligente, un prodotto o servizio di eccezionale qualità, un post vendita memorabile, un approccio tassativamente multi-stakeholder (sveglia, amici del marketing: gli acquirenti non sono l’unico pubblico di riferimento per costruire valore), e una spiccata capacità di previsione di scenario, per anticipare eventuali crisi reputazionali.

Ma noi siamo fuori moda: la tendenza è dettata dall’alta entropia delle big-tech. Ok, bene.

Allora leggiamo qualche dato:

  • Amazon ha annunciato quest’anno un taglio di personale per 27.000 unità, Meta per 11.000 unità, Google per 12.000, Paypal per 2.000, Zoom per 1.300;
  • Il New York Times ha fatto causa a Google per aver utilizzato illecitamente milioni di contenuti giornalistici per addestrare la propria intelligenza artificiale, la richiesta di risarcimento danni fa tremare i polsi;
  • l’Antitrust europea ha ingiunto alla Apple di consentire ai propri utenti di installare anche App di terze parti, rompendo così lo storico monopolio della “mela”;
  • l’OCSE ha approvato la Global Minimum Tax, che impone ai colossi del web con ricavi superiori a 750 milioni di euro (quindi tutti i “big”) di pagare il 15% di imposte, mettendo fine quindi all’elusione fiscale che ha permesso a queste aziende di non pagare tasse macinando più utili;
  • AirBnb si è vista sequestrare 779 milioni di euro dalle autorità per non aver versato la cedolare secca sugli affitti degli appartamenti messi in affitto sulla piattaforma;
  • la Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha comminato una multa di 2,4 miliardi di euro a Google perché su Google Shopping avrebbe reso i suoi concorrenti praticamente invisibili agli utenti;
  • sempre l’Unione Europea ha comminato 8 miliardi di dollari di multa ad Android per pratiche anticoncorrenziali;
  • la Federal Trade Commission ha fatto causa ad Amazon, insieme ai procuratori di ben 17 Stati USA, con l’accusa di monopolismo, finalizzato a far pagare ad acquirenti e venditori somme più alte per avere un servizio peggiore;
  • l’AgCom ha sanzionato sempre Amazon per 1 miliardo di euro perché favorirebbe il proprio servizio di logistica a scapito di operatori concorrenti;
  • il nuovo Social Threads lanciato da Mark Zurkerberg già zoppica, con poco più di 150 milioni di download in tutto il mondo (e un numero di utenti attivi in calo);
  • X, ex Twitter, la cui maggioranza è stata acquisita da quel genio (sic!) di Elon Musk, ha perso il 70% di valore da quando il pirotecnico ed eccentrico miliardario l’ha acquistato (a riprova della correlazione esistente tra reputazione del brand e valore assoluto dello stesso);
  • il pandoro-gate che ha malamente coinvolto Chiara Ferragni, le cui aziende sono state squassate proprio dalla sua obiettiva carenza di autenticità percepita, con danni per decine di milioni di euro in termini di perdite di valore, è solo l’ultimo dei preoccupanti indicatori del tramonto di un modello di influencer marketing centrato sull’apparenza;
  • secondo il colosso della consulenza strategica Gartner, società di Stamford (USA) che si occupa di analisi nel campo della tecnologia dell’informazione, entro 2, massimo 3 anni, il 50% degli utenti avrà abbandonato i Social, tenendo magari attivi i profili ma non interagendo più online.

E via discorrendo, potremmo continuare a lungo. Però siamo noi che non capiamo, e che ci ostiniamo a ritenere che il rispetto dei fondamentali del reputation management sia indispensabile per mitigare davvero i rischi e garantire costruzione di valore per i decenni a venire.

Ed eccoci qui, seduti al bordo del fiume, ad aspettare il passaggio dei cadaveri di quelli là, cool e intelligenti: quelli che “la borsa e la Silicon Valley sono mondi di squali, bisogna innanzitutto prendere, altrochè”.

Che poi Wall Street di Oliver Stone è del 1987: son passati 35 anni, e certa gente, di danni, non ne ha forse già fatti abbastanza?