Rinviato il voto chiave sul Supply chain act europeo, che avrebbe messo a rischio la competitività dell’industria europea in uno scenario congiunturale e geopolitico complesso. Decisivo il dietrofront di Germania, Austria, Finlandia e Italia, dopo l’appello lanciato dalle associazioni confindustriali nazionali e da quella continentale BusinessEurope. La richiesta dei rappresentanti industriali era chiara e concorde, in particolare in Germania e Italia: bloccare il testo della proposta di direttiva europea sulla Corporate responsibility due diligence (Csddd) perché una normativa così concepita – e giudicata macchinosa, di difficile applicazione e invasiva – avrebbe fatto aumentare il costo degli approvvigionamenti industriali con conseguenti difficoltà per le imprese e nuove tensioni inflazionistiche. I negoziati ora si riaprono, su nuove basi, a un passo dal voto decisivo che era stato fissato al 9 febbraio.
Le imprese europee avevano lanciato l’allarme perché la Csddd avrebbe imposto obblighi di verifica lungo tutta la catena di fornitura comportando un aumento dei costi di approvvigionamento e monitoraggio. L’appello dell’associazione delle confindustrie europee BusinessEurope non è passato inascoltato.
Il dietrofront della Germania
In Germania si è consumata negli ultimi giorni una battaglia politica, con schieramenti contrapposti di partiti, per bloccare in extremis un testo giudicato troppo punitivo per le aziende, nella congiuntura attuale. Anche in Italia, Confindustria aveva chiesto ufficialmente al Governo di astenersi (quindi di esprimere una posizione negativa) sulla proposta di direttiva al voto finale.
Per una volta, forse la prima di una serie (visto il rallentamento economico in atto), la Germania ha abbandonato la linea ecologica che ha contraddistinto il suo supporto alla Commissione von der Leyen a trazione green, confluendo di fatto sulle posizioni italiane. Posizioni, quelle del Governo Meloni, critiche da diversi mesi sulla pioggia di regolamenti e direttive green (come quelle sulle auto e sul packaging) varate tutte insieme, con scarse misure di supporto per agevolare una transizione giusta e senza la necessaria neutralità tecnologica per consentire ai singoli Stati di raggiungere i risultati concordati nel modo più adatto al loro sistema economico e tecnologico. Finora l’Italia era sola in Europa in questa battaglia, giudicata “di retrovia” e inadeguata di fronte all’emergenza dei cambiamenti climatici in atto. Ora la Germania e altri Paesi nordici, con la svolta di oggi al Consiglio europeo e al meeting Coreper in Belgio, hanno rotto il fronte europeo, ponendo fine all’isolamento italiano.
È bastato infatti che la Germania annunciasse – al pari dell’Austria, della Finlandia e dell’Italia – che si sarebbe astenuta al momento della votazione per avviare frenetiche negoziazioni in extremis per salvare la votazione del 9 febbraio sulla direttiva Csdd. Ma i rilievi tedeschi sono stati giudicati «extensive», secondo i rumors dal Belgio, e il voto è stato rinviato, per dare più tempo ai negoziati di svolgersi. Secondo un’anticipazione di Radiocor Il Sole-24 Ore, che ha battuto sul tempo tutte le agenzie europee, Germania, Austria e Finlandia avevano già preannunciato l’astensione, che ai fini della votazione sarebbe stata conteggiata come un voto negativo. A questi tre Paesi si sarebbe aggiunta l’Italia, sempre con l’astensione. Se gli ambasciatori avessero votato, sarebbe emersa platealmente la minoranza di blocco impedendo, appunto, che si raggiungesse la maggioranza necessaria. La posizione dei quattro Paesi riflette quella assunta dalla maggior parte del mondo industriale che ritiene l’impatto di quelle regole sull’attività delle aziende troppo onerosa.
L’appello delle imprese
Positiva la reazione di Confindustria alla notizia lanciata da Radiocor Il Sole-24 Ore. «Per le regole della maggioranza qualificata serviva l’astensione anche dell’Italia per fermare il testo attuale, macchinoso e ingestibile, di una direttiva critica per le imprese e per la competitività europea – spiega Stefano Pan, delegato del presidente di Confindustria per l’Europa e vicepresidente di BusinessEurope -. Per questo abbiamo chiesto al Governo italiano di astenersi in fase di votazione, in modo da consentire il riavvio dei negoziati».
Del resto, lo stesso allarme delle imprese tedesche è stato recepito dalla Germania, che ha optato per il dietrofront dalla battaglia ecologista a seguito di un vivace dibattito interno, che ha diviso i partiti e ottenuto vasta eco, in un Paese alle prese con scioperi e preoccupazione montante per la tenuta industriale.
«Il dibattito sulla direttiva europea è stato in evidenza per giorni nei telegiornali in Germania e ha avuto vasta eco per la sua portata simbolica – racconta Pan -. Le imprese tedesche, al pari di quelle italiane e di altri Paesi, sono molto preoccupate dal varo di una normativa estremamente complessa e invasiva per la sua portata globale. Speriamo quindi che si riaprano i negoziati per scongiurare un aumento dei costi incontrollato degli approvvigionamenti, in una fase economica delicata e in uno scenario geopolitico critico».
Perché la direttiva Csdd preoccupa
Al centro delle polemiche c’è una delle direttive chiave per completare la strategia anti-climate change europea realizzata con il pacchetto di normative Fit for 55 e con il Green new deal. La direttiva Csddd – detta anche Csdd, Cs3D o più simbolicamente Eu Supply chain act – prevederà infatti dovere di diligenza (due diligence) delle imprese ai fini della sostenibilità sociale, mirando a promuovere un comportamento sostenibile e responsabile lungo tutta la filiera del valore. Le imprese, in sostanza, dovranno evitare che le loro operazioni abbiano effetti negativi sui diritti umani, come il lavoro minorile e lo sfruttamento dei lavoratori, e sull’ambiente, ad esempio l’inquinamento e la perdita di biodiversità.
Tutto condivisibile, in linea di principio.
«Ma in uno studio appena realizzato, BusinessEurope calcola che il controllo di tutti i fornitori (e dei loro fornitori) comporterà un aumento dei costi considerevole, per monitorare tutta la filiera, controllare continuamente la supply chain e fornire garanzie di compliance – spiega Pan -. Nel caso di una media impresa, lo studio calcola che i costi possono arrivare fino a quattro milioni di euro; per non parlare dei costi di una possibile disruption della catena di fornitura, che potrebbe avvenire se tante imprese cambiassero fornitori in un momento geopolitico ed economico così complesso. Pensiamo ad esempio ai nostri settori della concia delle pelli e dell’edilizia: il rischio di nuovi shock lungo la supply chain ci preoccupa».
Che cosa prevede il Supply chain act
La proposta di direttiva, la cui approvazione fin qui è stata data per certa dopo un dibattito e un iter normativo durato due anni, prevede un dovere di diligenza molto forte per le imprese, sotto il profilo sociale e ambientale. Le aziende sopra i 40 milioni di fatturato saranno tenute, nelle loro operazioni, nelle controllate e nelle catene del valore, a individuare, far cessare, evitare, attenuare e dar conto degli effetti negativi sui diritti umani e sull’ambiente. Inoltre, determinate grandi imprese devono disporre di un piano per garantire che la loro strategia commerciale sia compatibile con la limitazione del riscaldamento globale a 1,5 °C, in linea con l’accordo di Parigi.
Gli amministratori sarebbero incentivati (con benefici non meglio specificati) a contribuire agli obiettivi di sostenibilità e mitigazione dei cambiamenti climatici. Ma avranno anche forti responsabilità. In particolare saranno tenuti a integrare il dovere di diligenza nella strategia aziendale, istituire i relativi processi e vigilare sulla loro attuazione. Inoltre, nell’adempimento del loro obbligo di agire nel migliore interesse dell’impresa, gli amministratori dovranno tenere conto delle conseguenze delle loro decisioni sui diritti umani, sui cambiamenti climatici e sull’ambiente. Lungo tutta la filiera e anche per contratti di fornitura già firmati e vincolanti su base pluriennale.
A chi si applica la Csdd
L’applicazione della direttiva sarebbe comunque graduale, in base alla dimensione dell’impresa. Le imprese con più di mille dipendenti dovranno adeguarsi entro il 2027; quelle con più di 500 dipendenti e fatturato annuo netto di 150 milioni entro il 2028; entro il 2029 quelle con oltre 250 dipendenti, fatturato netto annuo sopra i 40 milioni e che operano in settori ad alto rischio. Le società extra-UE dovranno conformarsi se la loro soglia di fatturato annuo è raggiunta dalle entrate nella Ue.
Nell’ultima bozza, rilasciata a fine gennaio, si erano attenuate le misure a carico degli amministratori e alcuni gruppi di pressione avevano parlato di “direttiva annacquata”. Alle Pmi impattate dalle norme proposte verrebbero garantite misure di sostegno, in linea generale. Ma le modifiche apportate non sono bastate a BusinessEurope e ad altre associazioni europee.
Altro nodo critico sono i controlli e le sanzioni. Gli Stati membri dovrebbero designare un’autorità incaricata di vigilare e imporre sanzioni, comprese ammende e ingiunzioni di conformità. A livello europeo la Commissione dovrebbe istituire una rete europea di autorità di vigilanza per riunire i rappresentanti degli organismi nazionali al fine di garantire un approccio coordinato. Le autorità amministrative istituite ad hoc da ogni Stato potrebbero infliggere sanzioni pari almeno al 5% del fatturato mondiale: una soglia giudicata «vessatoria» dalle confindustrie europee. Va detto, comunque, che l’applicazione della direttiva e le sanzioni per gli inadempienti sarebbero comunque fissate dagli Stati membri in sede di recepimento. E questo potrebbe ammorbidire l’efficacia della norma, almeno nei Paesi con un giudizio critico.
L’impatto su subfornitori e multinazionali
Di certo, l’effetto annuncio della normativa e la corsa a fornitori certificati farebbe comunque lievitare i costi degli approvvigionamenti, con effetti anche su Pmi e microimprese. Non solo: le multinazionali rischiano cause legali su vasta scala in caso di inadempienza, perché la bozza di direttiva prevede la possibilità per i cittadini di fare class action con richieste di ingenti risarcimenti danni. Una misura, questa, contenuta nella bozza finale e contestata in particolare dalla Svezia, dove le class action non sono ancora a pieno regime nell’ordinamento giuridico nazionale.
Guardando il bicchiere non solo mezzo vuoto, ma anche mezzo pieno, c’è in verità qualche vantaggio che, nel medio-lungo periodo, potrebbe arrivare alle Pmi italiane . «È presumibile che i fornitori nei Paesi in via di sviluppo che non offrono garanzie di rispetto della direttiva europea saranno gradualmente sostituiti da fornitori che offrono maggiori garanzie; in questo scenario le imprese italiane potrebbero sostituirli e guadagnare contratti di fornitura importanti con le multinazionali soggette a compliance della Csddd, in quanto di solito percepite come più affidabili e soggette a norme stringenti», fa notare Pier Mario Barzaghi, partner Kpmg con anni di incarichi di rappresentanza negli organismi di regolamentazione internazionali. «Ma persino le Pmi italiane che guadagnassero questi contratti sarebbero comunque soggette al rialzo dei costi delle materie prime e delle forniture lungo la loro supply chain e quindi il loro vantaggio si azzererebbe», ribatte Stefan Pan.
La battaglia su questa proposta normativa controversa si sposta ora al Parlamento europeo. Dove, per una volta, la Germania e i Paesi nordici condividono gli stessi interessi e le stesse preoccupazioni del sistema economico italiano. Una novità simbolo di una svolta in atto: forse la forsennata corsa europea al rispetto degli accordi internazionali sul clima e dei 17 Obiettivi di sostenibilità Onu sta rallentando, a causa della congiuntura e della geopolitica sfavorevoli. Del resto, anche il Regno Unito, ora fuori dall’Unione europea, ha appena annunciato il taglio dei fondi per la transizione ecologica da 28 a 4,7 miliardi di sterline all’anno.