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Coronavirus, qualcuno parli a questo Paese

Coronavirus, qualcuno parli a questo Paese

Serve una voce che con il massimo dell’autorevolezza plachi il panico

Qualcuno dovrà parlare al Paese, prima o poi. Qualcuno dovrà farlo perché la situazione che stiamo vivendo non ha precedenti, perché qualcosa di imprevedibile e angosciante ci ha infilati in un tunnel, emotivo prima ancora che sanitario, dentro il quale bisogna trovare presto un modo per convivere, per adattarsi al buio, in attesa dell’uscita.

Non si tratta di dispensare rassicurazioni o richiami alla razionalità in occasioni pubbliche o in interventi a pioggia dentro i molti programmi televisivi colonizzati dall’argomento. L’invito è più solenne: un messaggio a reti unificate, e siti, e radio, in cui il presidente della Repubblica o il presidente del Consiglio guardino in faccia gli occhi di milioni di italiani spaventati e, con sincerità, dicano loro il po’ di verità di cui dispongono e passino il messaggio che non c’è un colpevole da odiare ma un’emergenza comune
da affrontare, possibilmente ritrovando quel senso di comunità che questo Paese, anche nei giorni dell’infuriare del morbo, sembra scordarsi di avere avuto.

Il coronavirus, visto al microscopio, ha le sembianze innocue di una pallina da golf punteggiata sulla superficie da un certo numero di segnalini rossi, a fargli appunto corona. Non è mortale come la peste che nel milleseicento provocò un milione di morti, e neanche come l’Asiatica, che ne fece quasi un milione e mezzo.

Probabilmente ne uccide di più una normale influenza stagionale, di certo la polmonite (11 mila decessi l’anno), o l’alcolismo, gli incidenti stradali. E poi ha una percentuale di guarigione molto elevata, dicono gli esperti che molti ne escono senza neppure sapere di averlo contratto.

Eppure, da quando è comparso in Cina, nella città di Wuhan, e l’11 gennaio ha causato la prima vittima, 50 giorni fa (appena 50); da quando la pallina, dopo aver rimbalzato in Corea del Sud, Giappone, Iran, è rotolata fino da noi, nella lombarda Codogno, il 21 febbraio, 10 giorni fa (appena 10), per poi schizzare impazzita nel resto d’Europa, nelle Americhe, nel Medio Oriente; da quando il tunnel si è materializzato, facendo sprofondare l’inizio del 2020 in una specie di botola dove non vale la logica dei numeri ma vince l’irrazionalità del panico, il nostro piccolo mondo si è chiuso in mondi ancora più piccoli, sperando che il male si scateni altrove, scansando il proprio cortile, e la nostra piccola Italia ha preso ad agitarsi come un formicaio disturbato da un bastone.

Sembrava e continua a sembrare impossibile che un virus a bassa letalità possa mandare in tilt il sistema glorioso della nuova era digitale, le potenzialità fantastiche dell’intelligenza artificiale, la convinzione universale che ormai agli umani niente è precluso, tranne il teletrasporto, per ora.

E invece tutto si è inceppato, le borse sprofondano, le stime di crescita si afflosciano, crollano le prenotazioni aeree e decollano le disdette di tutto, dai viaggi agli eventi internazionali. Le teleconferenze hanno sostituito le riunioni, la distanza tra le persone (almeno un metro o, meglio, due) è diventata l’unità di misura della convivenza. Si farà l’Olimpiade a Tokyo del prossimo luglio? Boh. In meno di due mesi, la pallina da golf con la corona ci ha rispediti in un altro evo, quello della precarietà e dell’incertezza. Un salto all’indietro così brusco da generare, comprensibilmente, sgomento e panico.

In questa lacerazione globale, noi italiani stiamo pagando uno dei prezzi più alti. Terzo Paese per contagiati dopo Cina e Corea del Sud, trattati dagli altri Stati come molti di noi hanno preteso e pretendono di trattare i migranti delle molte terre dei fuochi, indesiderati per contrappasso come potenziali esportatori del male, ci troviamo a fare i conti anche con una dissipazione del nostro valore di nazione, con lo spettro di una recessione rapidissima sullo sfondo di un’economia già provata e potenzialmente esposta al collasso. Il nostro sistema sanitario nazionale ci è già arrivato, al collasso.

In 10 anni sono stati cancellati 70 mila posti letto, mancano 8 mila medici e 35 mila infermieri. A furia di tagli, abbiamo debilitato le nostre difese immunitarie, fino a renderle assolutamente inadeguate a fronteggiare la gestione ordinaria, figurarsi un ciclone come quello che si sta abbattendo su un Paese che ha colpevolmente deciso di ammainare una delle bandiere della propria Costituzione, il diritto alla salute per tutti i cittadini.

Non potrà essere l’eroismo degli operatori impegnati allo sfinimento nelle zone rosse o gialle, dagli scienziati di epidemiologia agli addetti alle pulizie, a contenere il danno. Si stancheranno, quegli eroi, a un certo punto saranno costretti ad abbassare la guardia proprio nel momento in cui, invece, bisognerebbe alzarla e tenerla altissima.

C’è un dovere superiore, il bene nazionale, che imporrebbe di sostenerli specie adesso, che il tunnel è ancora lungo e la loro esperienza, maturata in un campo e in un tempo improvviso, può fare la differenza.

Salvo per l’irresponsabilità di qualche politico che conta di cavare vantaggio anche da questa infezione sociale, molto più perniciosa di quella virale, i toni di chi ha qualche responsabilità nella gestione della cosa pubblica sembrerebbero improntati a una sospensione di velleitarie ostilità da campagna elettorale. Se c’è un comune sentire italiano, questi sono i giorni per farlo emergere con fermezza contro ogni tentativo di sfruttare persino il Covid-19.

Serve una voce che con il massimo dell’autorevolezza parli al Paese, rimetta a posto gli sciacalli, plachi il panico che va diffondendosi e proietti dell’Italia, anche all’estero, a quanti ci stanno evitando come la peste, l’immagine di una nazione ferita ma fiera, capace di affrontare con dignità il baco inatteso del Terzo millennio.




L’azienda più innovativa al mondo? Google

L’azienda più innovativa al mondo? Google

Ogni anno il Boston Consulting Group stilla la lista delle 50 aziende più innovative al mondo. Il BCG basa la sua analisi principalmente sull’evoluzione del business model e sulla distruption. Nel 2019 l’azienda più innovativa, secondo il Boston consulting group è stata Alphabet-Google, seguita da Amazon ed Apple. Nonostante ben 27 aziende sono americane -oltre le prime tre abbiamo al quarto posto Microsoft, al sesto Netflix seguita di IBM, Facebook e Tesla- nel 2019 c’è stato un incremento delle aziende europee nella classifica che sono passate da 10 a 16 (tra le europee spicca Adidas che è al 10 posto, BASF al 12esimo e Siemens al 16esimo). Sebbene ci siano state 6 new entry europee nel 2019 l’Italia non è rappresentata nella lista anche se i manager delle aziende italiane considerano l’innovazione come una priorità (95%) e si aspettano maggiori investimenti in questo ambito (80%)

Cosa accomuna queste aziende?

La maggior parte di queste aziende, sicuramente tutte le
prime 10, stanno implementando l’uso dell’intelligenza artificiale nel proprio
business. Alphabet-Google ad esempio ha sviluppato la guida autonoma, Amazon
utilizza l’IA nelle vendite al dettaglio e per il riconoscimento vocale
(Alexa), così come fa Apple con Siri. I forti innovatori inoltre utilizzano le
piattaforme e gli ecosistemi dove le piattaforme permettono lo sviluppo di
offerte commerciali mentre gli ecosistemi si basano su un insieme di partner
che condividono tecnologie, software, applicazioni e piattaforme al fine di
produrre una soluzione integrata apprezzabile dai clienti. Importanti, secondo
il Boston Consulting Group, in ambito innovativo sono anche l’analisi dei big
data e la velocità nell’adottare le nuove tecnologie.  Queste società inoltre continuano sempre ad
innovare, rivedendo costantemente non solo i propri prodotti ma anche i
servizi, le offerte e i modi di coinvolgere i clienti.

Cosa fare?

Mentre fino a poco tempo fa la tecnologia era pensata e
implementata solo da aziende che operavano in quel determinato settore ora non
è più possibile per nessuno, a prescindere dal settore di appartenenza, non
utilizzarla. L’innovazione non è mai andata veloce come in questi ultimi anni e
un’azienda deve esser sempre disposta ad accettare i cambiamenti e reinventarsi
per stare al passo con i tempi.




LO STRAORDINARIO, DIROMPENTE POTERE DELLE RELAZIONI

LO STRAORDINARIO, DIROMPENTE POTERE DELLE RELAZIONI

Dare, è la miglior forma di comunicazione

Il sottotitolo di questo articolo è mutuato da uno spot pubblicitario corporate dell’azienda di connettività Thailandese TrueMove, spot che è entrato a pieno titolo nella storia della comunicazione e del reputation management; come l’ancor più noto “Thankyou Mum”, emozionante clip sul coraggio, l’impegno e la tenacia necessari ad arrivare al successo, prodotto da Procter & Gamble in occasione delle Olimpiadi del 2012.

Il messaggio del video TrueMove però non vuole solo graffiare a fondo l’audience mediante l’uso sapiente delle emozioni, che sono il più potente stimolante reputazionale esistente, ma porta con sé un messaggio specifico e precipuo: ciò che consegniamo ad altri, prima o poi ritornerà a noi positivamente, magari attraverso altre e inaspettate strade.

Uscendo per un attimo dal frame narrativo del politicamente corretto proprio delle emozioni di tono positivo, vorrei riflettere con i lettori su altri aspetti propri di un approccio ontologico a questi domini di conoscenze, tale da includere nel nostro orizzonte non solo gli enti, ma anche gli oggetti e – appunto – le relazioni che legano essi tra loro e a loro volta li correlano con l’osservante.

Una delle possibili definizioni di responsabilità è: l’area o la sfera di influenza sulla quale l’individuo può produrre razionalmente effetti attorno a sé, sulle altre persone, sull’ambiente, sulla vita in generale.

Immaginiamo allora metaforicamente un grande quadrato: è l’area che conosciamo, e quindi sulla quale possiamo esercitare controllo e della quale possiamo prenderci responsabilità. Li dentro, naviga la nostra intera vita, e si attivano e disattivano i flussi che ci pongono in relazione con entità altre, e che cambiano di portata sulla base di infinite variabili, endogene ma anche esogene e financo epigenetiche.

La vita è composta da scopi, perché in assenza di obiettivi si silenzia l’Io; da libertà, perché senza la possibilità di modificare l’esistente, non esiste ingaggio realmente intrigante; e da barriere, perché in assenza di ostacoli da superare – reali, o più spesso autoindotti – l’obiettivo è già raggiunto e quindi il “gioco” (della vita) termina istantaneamente. Nell’ambito di questa formula, tutti i giorni siamo chiamati a decidere: trattenere o lasciare?

I più antichi tra i nostri marcatori somatici suggeriscono ossessivamente un’unica cosa: trattieni. Tratteniamo oggetti, tanto che ci irrita perdere anche solo una penna a sfera; tratteniamo chili in eccesso, perché atavicamente addestrati – fin dall’epoca del pleistocene – a prepararci ai periodi di carestia; tratteniamo persone, che siano figli o amici, perché la nostra visione antropocentrica della vita pone sempre noi al centro di tutto, e gli altri meri satelliti della nostra esistenza.

I soldi sono uno degli esempi più eclatanti: tratteniamo anche quelli, accumulandoli, invece che scambiarli con emozioni, e non solo perché – comprensibilmente – angosciati da una vecchiaia in miseria, ma perché siamo più o meno tutti vittime di un inspiegabile impulso inconscio che ci autolimita: chi trattiene denaro è nella condizione di avere per se, ma non è in grado di sopportare di concedere ad altri di avere le stesse cose. Quanto è limitante, per un soggetto immerso in un oceano di correnti che vorticosamente lo correlano, appunto, agli altri, dai quali esso dipende, in virtù di una fittissima rete di sinapsi sociali che disegnano delicati equilibri all’interno di organizzazioni complesse, bloccare un flusso di sopravvivenza così centrale qual è il denaro?

Aggiungo che il meta-messaggio con il quale la società quotidianamente ci bombarda è chiarissimo: devi avere, per qualificarti come essere. Eppure essere e avere sono categorie assai differenti, e incasellate, anche gerarchicamente, in una sequenza ben chiara: siamo qualcuno (quello è il nostro DNA…) e facciamo qualcosa (ad esempio svolgiamo il nostro ruolo professionale) per avere qualcos’altro (ad esempio il denaro, o ciò che con esso possiamo scambiare).

Riscoprendo allora questa preziosa consapevolezza, di essere, e di poter essere ciò che più desideriamo del tutto a prescindere da ciò che abbiamo, dobbiamo allora, forse, reimparare a lasciar andare.

Lasciar andare, sì, perché le uniche cose alle quali permetteremo di staccarsi di noi, e che affideremo ad altri, saranno le sole che ci sopravviveranno. Ciò che tratterremo – specie se parliamo di conoscenze e consapevolezze – finirà nella tomba con noi; ciò che invece regaleremo ad altri, proseguirà la sua vita anche dopo di noi. E questo è – probabilmente – l’unico vero segreto per garantirci l’immortalità.

Inoltre, lasciar andare qualcosa che ci appartiene, affidandolo ai flussi inqueti del metaforico quadrato della nostra vita, ci permette di ampliare la nostra sfera di influenza, la nostra area di responsabilità: qualcosa di nostro, si allontana da noi e gradatamente, mentre si allontana, sposta i nostri punti di ancoraggio sempre più lontano, cambiando le nostre prospettive, contaminando nuovi territori, aumentando di conseguenza il perimetro del nostro percepito, e cambiando il nostro punto di vista sull’universo che ci circonda.

In definitiva, la licenza di
operare di chiunque, individuo o organizzazione, tenderà ad aumentare tanto più
il soggetto darà ad altri, pronto a
sua volta a ricevere e accogliere, coltivando, migliorando e nutrendo la
propria rete di relazioni.

Condividendo, ovvero dividendo con, sinonimo di possedere insieme, partecipare, offrire del proprio ad altri, e viceversa, all’estenuante ricerca del giusto equilibrio che ci permetta di essere utili, e anche di trarre sopravvivenza da chi ci circonda per proseguire nella nostra personale missione, quale che sia, nella quale coinvolgere sempre più altre persone, sempre più altre parti di noi.

Le relazioni: il potentissimo solvente universale, in grado di permetterci di risolvere più velocemente qualunque crisi, di portare a buon fine qualunque piano di comunicazione, di gestire con successo qualunque processo di change management, sul lavoro come nella vita.

In definitiva, non dobbiamo mai sottovalutare lo straordinario, dirompente, potere delle relazioni.




4 banche su 5 non rispettano i diritti umani. Il nuovo rapporto di BankTrack

Lloyds, Bank of America, Goldman Sachs e Société Générale ultime in classifica. Benino due italiane. La strada da fare è ancora lunga

«Le banche sono ancora implicate – o addirittura facilitano direttamente – le violazioni dei diritti umani, comprese le violazioni dei diritti delle popolazioni indigene, l’accaparramento di terre (ovvero il land grabbing, ndr) e persino i crimini di guerra».

L’affermazione, che non lascia spazio a grandi interpretazioni di alleggerimento, proviene da Ryan Brightwell, autore dell’edizione 2019 del rapporto The BankTrack Human Rights Benchmark 2019pubblicato, appunto, dall’Ong BankTrack. Un rapporto che segue quello del 2016, con qualche variazione nei criteri di valutazione, e i cui risultati generali non sono esaltanti. Gli istituti finanziari indagati si muovono nella direzione giusta, perlopiù, ma con estrema lentezza e partendo da livelli di attenzione sul tema della tutela dei diritti umani ancora bassissimi.

GRAFICO sintesi dati generali sulle maggiori grandi banche commerciali e diritti umani – fonte rapporto The BankTrack Human Rights Benchmark 2019 – 1

Progressi lenti e indecisi

Emergono perciò lentezza e indecisione che non potevano che essere accompagnate dalla denuncia allarmata dell’organizzazione che promuove lo studio. Perché BankTrack si prefigge di impedire alle banche di finanziare attività commerciali dannose, promuovendo al contrario il settore quando dimostra un’impronta fortemente etica. E contribuire all’affermazione di società giuste.

GRAFICO sintesi dati generali sulle maggiori grandi banche commerciali e diritti umani – fonte rapporto The BankTrack Human Rights Benchmark 2019 – 2

Un’aspirazione che contrasta col quadro emerso dall’analisi compiuta su 50 delle grandi banche commerciali private nel mondo, passate sotto la lente delle linee guida per i diritti umani indicati dalle Nazioni unite alle imprese. Un testo di riferimento condiviso dalla comunità internazionale eppure, stando al giudizio di BankTrack, tradotto nei fatti in modo del tutto insufficiente dalle imprese finanziarie nelle quattro macro-aree di applicazione sui diritti umani:

  1. l’impegno politico (policy commitment)
  2. la capacità di investigazione (human rights due diligence process)
  3. l’attività di “reportistica” (reporting on human rights)
  4. la riparazione (access to remedy).

La pagella: promossa a pieni voti solo Abn Amro

Secondo il rapporto, quindi, le banche stanno fallendo rispetto alle proprie responsabilità sui diritti umani, ma non tutte nella stessa misura. Tant’è che Ryan Brightwell e i suoi collaboratori hanno stilato una classifica che ricorda un po’ la lavagna tradizionale, divisa tra buoni e cattivi. In questo caso c’è un unico istituto che potremmo dire aver avuto l’approvazione dei ricercatori, ed è Abn Amro (banca olandese, ottava in Europa per capitalizzazione con 68,3 miliardi di euro), in cima per punteggio raggiunto (9,5 su 14) e indicata come leader solitaria. Dopo di lei altri nove istituti cercano di tenere il passo, e tra loro giganti come Rabobank, Citigroup e Barclays.    

TABELLA top 10 delle 50 maggiori grandi banche commerciali valutate sui diritti umani – fonte rapporto The BankTrack Human Rights Benchmark 2019

Dai followers ai ritardatari

Dall’11mo al 29mo posto la lista dei cosiddetti followers, cioè degli inseguitori, è aperta dalle due italiane Intesa Sanpaolo e Unicredit (6 punti ciascuna), vede la presenza di Bnp Paribas, Morgan Stanley, Ubs, Wells Fargo. Ed è chiusa da JPMorgan Chase e RBS Group. Ma a prendersi la nota di biasimo più grave sono quelle che seguono.

TABELLA le peggiori tra le 50 maggiori grandi banche commerciali valutate sui diritti umani – fonte rapporto The BankTrack Human Rights Benchmark 2019

Infatti, dopo gli istituti che studiano ma non si applicano troppo, segue un ultimo gruppo, quello dei laggardsi veri ritardatari. E qui una speciale “menzione di disonore” viene attribuita da BankTrack a chi continua a non compiere progressi adeguati alle proprie risorse e al proprio peso globale. Lloyds, Bank of America, Goldman Sachs e Société Générale vengono perciò additati come cattivo esempio. E in loro compagnia si trovano altri numerosi protagonisti del gotha finanziario planetario: da Royal Bank of Scotland a Bank of China alla francese Credite Agricole.

Qualche progresso

Qualche buona notizia si può comunque trovare. A cominciare dal fatto che 21 banche hanno migliorato il punteggio rispetto all’ultima relazione, contro 12 che l’hanno invece diminuito. In particolare BBVA, National Australia Bank (NAB), Morgan Stanley e Standard Chartered sono avanzate di 3,5 punti o più. Inoltre, 35 dei 50 gruppi indagati hanno adottato una propria policy esplicita che include un impegno di alto livello per rispettare i diritti umani; e almeno 25 banche aggiornano questi principi. Ciò si traduce in un numero più alto che mai di istituti che hanno messo in atto politiche sui diritti umani.

banche fossili
La classifica mondiale delle banche che hanno fornito più fondi al settore delle fonti fossili © “Banking on Climate Change”

Francia, Olanda e Uk stimolano le banche a migliorare sui diritti umani

L’aspetto negativo è però che nessuno è in grado di dimostrare che sta facendo la differenza per le persone sul campo, affrontando abusi identificabili. «La stragrande maggioranza delle banche – sottolinea infatti l’ong – non ha fornito alcuna prova del fatto che nella pratica siano state prevenute, mitigate o sanzionate specifiche violazioni dei diritti umani» (il suddetto access to remedy). Ed è perciò che il direttore di BankTrack, Johan Frijns, considera tanto più significative e positive le recenti mosse attuate da Regno unito, Francia e Paesi Bassi per indurre i singoli istituti ad attivarsi.

Le 10 più grandi banche etiche e sostenibili europee: Banca Etica, l'unica italiana, è al 5° posto. Fonte: "La finanza etica e sostenibile in Europa", Secondo rapporto, Febbraio 2019.
Le 10 più grandi banche etiche e sostenibili europee: Banca Etica, l’unica italiana, è al 5° posto. Fonte: “La finanza etica e sostenibile in Europa”, Secondo rapporto, Febbraio 2019.

In Olanda sono stati compiuti progressi per guidare le banche verso i loro obblighi in materia di diritti umani grazie a un accordo stabilito nel 2019 dall’intero settore bancario nazionale (il Dutch Banking Sector Agreement on Human Rights). Un’iniziativa virtuosa, poiché partecipata da tutti i soggetti coinvolti, anche se resa possibile, secondo Frijns, dalla minaccia di un intervento regolatorio superiore. Così è infatti avvenuto nel Regno unito con l’introduzione, già nel 2015, della legge sulla schiavitù moderna (Modern Slavery Act), e in Francia con una norma che obbliga le banche a essere più trasparenti riguardo ai loro impegni a rispettare i diritti umani (Duty of Vigilance).




Coronavirus: perché è importante che le aziende comunichino quello che stanno facendo

Coronavirus: perché è importante che le aziende comunichino quello che stanno facendo

Producono macchinari o beni che possono aiutare in questo momento di crisi? Che cosa sono in grado di fare anche in aree di crisi? Che provvedimenti hanno preso? Che cosa stanno facendo per salvare il proprio business? Hanno un know how da condividere? I consigli dell’agenzia giornalistica di comunicazione Eo Ipso (www.eoipso.it)

Informare è importante per le aziende che si rivolgono direttamente al consumatore finale, ma non solo. Dopo la comunicazione della sospensione di eventi pubblici, occorre fare un passo in più ed andare oltre. Un passo nella direzione della speranza, ma anche del servizio, per tutelare tutti, ma soprattutto le persone più deboli. «È comunicazione di crisi (o crisis communication) – spiegano Marino Pessina e Chiara Porta dell’agenzia giornalistica di comunicazione Eo Ipso . Lo stanno facendo le aziende sanitarie, ma i servizi sono tanti, sia per i privati che per il business. Dalla comunicazione di questo momento può nascere la speranza. Le risposte devono arrivare direttamente dalla fonte, per evitare disinformazione e fake news. Una corretta informazione accresce il livello di conoscenza, crea un clima di fiducia e permette alle aziende di dimostrare la propria credibilità, anche e soprattutto in questa situazione, sia verso i clienti che gli stakeholder».

La gestione di una crisi è “fluida” per definizione, quindi non imbrigliabile in schemi, esistono dei protocolli, ma non un vero ABC di comportamento, richiede una profonda conoscenza dei meccanismi tecnici di gestione. Per questo è importante, se non si hanno risorse interne, rivolgersi a dei professionisti del mondo del giornalismo. Non si sottraggono professionalità all’azienda e nel contempo si mette in atto una strategia verso l’esterno.

«Comunicare in questo momento è servizio per l’intera comunità. Che cosa sono in grado di fare le aziende anche in aree di crisi? – continuano gli esperti di Eo Ipso – Producono beni che possono essere utili in questo momento alla gestione dell’emergenza? Chi si occupa di servizi, a partire dal telelavoro, lo smartworking, può avere molto da insegnare. C’è un know how da condividere? Le associazioni di categoria hanno il polso della situazione dei loro associati, cosa sta succedendo? È essenziale comunicarlo, anche semplicemente con un comunicato stampa di prodotto o con una nota di commento, in modo da raggiungere, attraverso i media, il maggior numero di persone possibile. La comunicazione ha diversi livelli, dal locale al nazionale, e la trasparenza messa in atto crea fiducia in dipendenti, clienti e stakeholder. L’obiettivo è sempre quello di ridurre al minimo gli effetti negativi generati dalla crisi e preservare la reputazione aziendale. Ma in questo momento si va oltre. La rete di comunicazione può servire non solo a socializzare le proprie difficoltà, ma anche a condividere soluzioni e a dare materiale di riflessione per chi prende decisioni politiche».

Per chi si rivolge ad altre aziende, presi i primi provvedimenti, organizzati a casa i dipendenti con il telelavoro, per coloro che possono, è fondamentale comunicare quello che si fa, ma anche spiegare le difficoltà che si stanno vivendo e come le si sta affrontando. I dipendenti sono sicuramente già stati avverti sulle politiche messe in atto all’interno dell’azienda. Può essere interessante farlo sapere anche all’esterno, per condividere le politiche attuate. Ci sono iniziative in corso in azienda? Quanti sono attivi nel volontariato? Che cosa si sta facendo? Farlo sapere può essere un aiuto per tutti. Le domande sono tante.

In caso di infezioni è essenziale una rapida comunicazione interna su tutti i dipendenti, in modo da aiutare il lavoro dei medici ed evitare al più possibile i contagi, per tutelare soprattutto le persone deboli che sono le più a rischio.

COMUNICARE NELL’OTTICA DEL SERVIZIO

Facciamo degli esempi, consci del fatto che ce ne possono essere molti altri.

Come azienda produciamo dei beni utili per sterilizzare o abbiamo dei tecnici o dei laboratori che stanno studiando una soluzione per questa malattia. Fare il punto della situazione, oltre ad alzare la reputazione aziendale, cosa non secondaria, può dare speranza a tutti.

Terziario: ci occupiamo di smart-working o di comunicazione o siamo in un altro settore e abbiamo informazioni da condividere. Facciamolo! Le scuole come si stanno organizzando? Le associazioni di categoria cosa hanno da dire?

I social in questi giorni sono stati invasi da foto di supermercati vuoti, ma gli scaffali sono stati poi riempiti e non tutti i punti vendita sono stati presi d’assalto. Per il direttore del punto vendita può essere semplice sapere dove la situazione è migliore e comunicarlo, a partire dal web, per passare poi ai social e ai media. Una regola che vale per tutti, grandi e piccoli punti vendita. E anche per le farmacie, dove è sempre più difficile trovare disinfettanti in gel e mascherine.
Noi abbiamo iniziato con questo comunicato stampa.